All’inizio di maggio 2019, la newsletter del Warburg Institute ha riportato un’interessante informazione: il Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg sarebbe stato presto ricostruito per la prima volta con le fotografie utilizzate da Warburg stesso e presentato l’anno successivo alla Haus der Kulturen der Welt (HKW) di Berlino. Per il mio collega Jörg Völlnagel e per me, questa notizia è stata rivelatrice: da tempo volevamo fare qualcosa su Warburg nella nostra istituzione dei Musei Statali di Berlino, senza mai decidere cosa esattamente. Finalmente avevamo un pretesto. E una data: la primavera del 2020.
Nell’Atlante della memoria la presenza di opere provenienti dai musei berlinesi è assai ampia: poche altre istituzioni vi sono così ben rappresentate – vengono in mente i Musei Vaticani e il Louvre, ma la differenza è in termini di ampiezza sia numerica che cronologica (ci sono anche molti oggetti a Londra, ma in musei separati, mentre quelli di Berlino condividono la stessa struttura, almeno per ora). Visto il progetto della HKW, ci è sembrato naturale concentrarci sugli oggetti berlinesi dell’Atlante, cosa che si poteva fare molto semplicemente producendo una vera e propria mappa del tesoro delle opere esposte nella capitale tedesca, dall’Isola dei Musei al complesso del Kulturforum, fino al Museum Europäischer Kulturen di Dahlem, che ospita uno degli oggetti più curiosi dell’Atlante, una cassetta norvegese (detta “tine”) che rappresenta la Lotta per i pantaloni.
Quest’ultima, tuttavia, è di solito in deposito, come è il caso – per motivi di conservazione – dei numerosi disegni e incisioni del Kupferstichkabinett illustrati nell’Atlante. Rimaneva un’altra possibilità: riunire tutte queste opere in un unico luogo per la durata di una mostra. Fu la strada scelta, grazie al supporto della direzione della Gemäldegalerie, dove la mostra doveva tenersi a partire del 2 aprile 2020. La pandemia causata dal nuovo coronavirus ne ha deciso diversamente. Il 14 marzo, i musei di Berlino hanno chiuso le loro porte per una durata indeterminata. Per fortuna, la situazione sanitaria a Berlino si è presto rivelata molto meno preoccupante che in molte capitali europee; la Gemäldegalerie ha riaperto appena due mesi dopo.
Allestire la mostra Warburg non era neppure troppo difficile, dato che la scenografia era già pronta e che quasi tutte le opere esposte provenivano dalle collezioni berlinesi. L’inaugurazione dell’8 agosto precedette di poche settimane l’evento della HKW, rimandato alla fine dell’estate. Le due mostre berlinesi sull’Atlante di Warburg si sono quindi organizzate congiuntamente, almeno per due mesi – cosa che in un primo momento era sembrata impossibile. Non si tratta però di ritorno al mondo di prima: siamo sempre soggetti a misure di chiusura a seconda dell’evoluzione dell’epidemia, mentre è sicuro che i visitatori saranno molto meno numerosi (e internazionali) di quanto inizialmente previsto. Approfitto quindi dell’invito a scrivere su Engramma per offrire al lettore della rivista le mie impressioni – necessariamente soggettive – sulla mostra della HKW, anche in paragone con quella della Gemäldegalerie. Riguardo quest’ultima, il lettore interessato potrà saperne di più nel catalogo pubblicato da Deutscher Kunstverlag, nonché nella ricostruzione digitale disponibile sul sito web del Warburg Institute.
Concentriamoci quindi sul progetto principale, quello della HKW – una ricostruzione dell’Atlante della memoria per la prima volta nel suo stato originale. Quest’argomentazione attirerà sicuramente il sospetto di molti warburghiani, essendo l’Atlante già stato ‘ricostruito’ più volte, da un primo tentativo a Vienna nel 1993 fino a una recente mostra a Karlsruhe organizzata dai due curatori del presente evento, Roberto Ohrt e Axel Heil. C’è però una differenza: mentre le precedenti ricostruzioni sono state realizzate a partire da immagini in bianco e nero tratte da quelle appese da Warburg sulle sessantatre tavole del suo Atlante, la mostra della HKW fa uso, per la maggior parte, degli oggetti stessi con cui lo storico ha sviluppato uno dei più grandi rebus del pensiero figurativo contemporaneo. Non sembra un granché; eppure cambia tutto.
Naturalmente, la questione dell’originalità è davvero discutibile: come si può affermare che l’insieme ricostruito sia “The Original”, come recita il titolo della magnifica pubblicazione in folio pubblicata per l'occasione da Hatje Cantz, nientemeno che un nuovo Atlante warburghiano, aggiornato dall’ormai classica edizione pubblicata da Martin Warnke nel 2000? Quest’ultimo libro potrebbe facilmente affermare di mostrare meglio “l’originale”, ossia le fotografie delle tavole dell’Atlante scattate dopo la morte di Aby Warburg, il 26 ottobre 1929. La nuova pubblicazione è invece un insieme di oggetti fotografati orizzontalmente e sistemati con Photoshop per assomigliare al meglio alle tavole verticali di Warburg – c’è di meglio in materia di originalità... Del resto, la nozione stessa è problematica, in quanto il progetto warburghiano è rimasto incompiuto: il libro di Warnke non ha mai avuto la pretesa di mostrare l’Atlante ‘originale’, proprio perché quest’ultimo non esiste.
Cosa c’è da vedere alla HKW, allora? Entrando nella grande sala della mostra, si prova prima di tutto una vertigine di proporzioni. Il numero delle tavole e delle immagini dà un’impressione di immensità, bilanciata dalla dimensione stessa delle tavole, che (nel mio immaginario almeno) avevano nella biblioteca di Warburg ad Amburgo la monumentalità di pareti affrescate, eppure sono quasi modeste in modo sconcertante nelle loro misure di un metro e mezzo per un metro e venti. Ciò che è più grande, al contrario, sono le immagini che popolano queste tavole, con delle dimensioni quadruplicate rispetto quelle del libro pubblicato nel 2000. Questo trasforma l’Atlante della memoria in un grande assemblaggio di forme non più sottintese, ma visibili.
Visibile, anzi palese, è anche il modo nel quale le tavole non funzionano come mondi chiusi, sui quali la mente di Warburg si sarebbe esercitata in modo indipendente. Ognuna ha un significato e un titolo (più o meno autentico), ma alcune lavorano così strettamente insieme che la giustapposizione fisica conferisce loro il proprio significato pieno – qualcosa che un attento lettore dell’Atlante non manca di notare, ma che non ha mai davanti a sé allo stesso tempo (a meno di strappare la sua copia del libro). Ciò colpisce in particolare per le tavole dalla 43 alla 46, che formano un vero e proprio polittico in cui l’eroe è senza dubbio Domenico Ghirlandaio, l’artista rinascimentale più poroso alla sopravvivenza antica, che questa si manifesti sotto forma di una ninfa che cammina o della violenza a cavallo. Nella mostra, le immagini traboccano dai margini delle tavole, raggruppate in modo molto suggestivo come degli archi di cerchio (l’ellisse sarebbe forse stata più adatta).
In questo Atlante ricostruito, non siamo tanto guidati dal libretto cartaceo messo a disposizione del visitatore, in cui si trova la ‘carta d'identità’ delle singole immagini mostrate, quanto dalla loro didascalia d’epoca su cui lo sguardo inevitabilmente si sofferma: era il tempo in cui Alinari e soci stampavano i dati degli oggetti rappresentati sulla carta fotografica stessa. Sottilmente, si osservano nell’Atlante a grandezza naturale dei sottotitoli che il formato del libro non permetteva di percorrere senza lente d’ingrandimento. Da vicino, si vedono altri segni su queste foto, come un’iscrizione a matita che misura l’altezza della “tine” sulla tavola 32 – “5 esatto” – un riferimento alle sue dimensioni, non quelle originali (di 12 centimetri) ma forse quelle della pubblicazione dell’articolo di Warburg in italiano, a cura di Gertrud Bing nel 1966. Le foto ‘originali’ hanno avuto la loro vita all’Istituto Warburg, erano oggetti normali, strumenti di conoscenza, esattamente come Warburg le considerava.
Ma qui c’è di più, ossia un aspetto feticistico legato alla figura di Warburg stesso, e sapientemente ordinato nella mostra: la calligrafia dello storico si legge sul retro delle fotografie, necessariamente nascosto ma riprodotto in facsimile sul retro delle tavole 4 a 6. C’è anche la sua scrittura – spesso illeggibile per il profano – in una scatola contenente le schede dello storico dedicate alle concezioni della storia, mentre altre vetrine mostrano manoscritti, lettere, libri e persino calchi di due fegati di pecore divinatori, i cui originali provengono dagli scavi di Hattusa e che avevano molto interessato Warburg durante la preparazione della sua conferenza del 1925 intitolata Per monstra ad sphaeram. Oggetti che ci immergono nel laboratorio warburghiano, immenso intreccio di immagini e di conoscenze sottogiacenti (mancano i libri della biblioteca, tutt’attorno), in proporzioni che furono quelle con cui Warburg stesso lavorò. Mentre si pensava che fosse sepolta, la questione dell’originale riemerge per toccarci in pieno.
Il problema dell’“originale” è anche al centro della piccola mostra della Gemäldegalerie – dove sono esposte una cinquantina di opere riprodotte nell’Atlante della memoria. Accanto a oggetti che esistono in forma unica, abbiamo scelto di includere opere che hanno anche un carattere multiplo, come incisioni, medaglie, francobolli e locandine, proprio per riflettere sulla questione della riproducibilità (cfr. il catalogo della mostra: Zwischen Kosmos und Pathos/Between Cosmos and Pathos. Berliner Werke aus Aby Warburgs Bilderatlas Mnemosyne/Berlin Works from Aby Warburg’s Mnemosyne Atlas, Für die Staatlichen Museen zu Berlin, hrsg. v. Neville Rowley und Jörg Völlnagel, Deutscher Kunstverlag 2020). Il fatto di poter confrontare a pochi minuti di distanza le immagini dell’Atlante con gli oggetti stessi amplifica la vertigine che si provava arrivando nella sala della HKW: mentre molti dei dipinti sono più piccoli nell’Atlante che alla Gemäldegalerie, altre proporzioni sono invertite, come se una sorta di macrofotografia fosse stata necessaria a Warburg per far crescere certi temi fondamentali – è il caso, ad esempio, dell’incisione di Dürer con la Melencolia I, di cui Warburg fu un esegeta fondamentale. Ci sono molte altre cose da vedere alla Gemäldegalerie, dai ‘veri’ fegati di Hattusa ai quadri di Ghirlandaio, senza dimenticare la famosa “tine”, comprata da Warburg stesso e data da lui al Kupferstichkabinett, prova definitiva dell’interesse dello storico per gli oggetti nella loro materialità.
English abstract
Neville Rowley, curator for Early Italian Art at the Gemäldegalerie and the Bode Museum Staatliche Museen zu Berlin, presents and comments the exibition Aby Warburg: Bilderatlas Mnemosyne. The Original (4.9 – 30.11.2020) at the Haus der Kulturen der Welt (HKW) of Berlin and the related exhibition Between Cosmos and Pathos. Berlin Works from Aby Warburg’s Mnemosyne Atlas (8.8. – 1.11.2020) organized at the Gemäldegalerie. The latter, curated by Rowley and Jörg Völlnagel presents about fifty ‘original’ works which are reproduced in the Bilderatlas Mnemosyne, and taken from museums in Berlin where they are normally displayed.
keywords | Bilderatlas Mnemosyne; Gemäldegalerie; exhibition Berlin 2020.
Per citare questo articolo/ To cite this article: N. Rowley, Atlas redux, “La Rivista di Engramma” n. 176, ottobre 2020, pp. 225-230 | PDF of the article