La documentazione letteraria e iconografica antica relativa al mito di Danae è piuttosto cospicua, come è possibile verificare scorrendo il corpus di testi greci e latini presentato e tradotto da Maria Grazia Ciani, nonché gli studi dedicati al rapporto fra testo e immagine pertinenti a tale soggetto (oltre a Maffre 1986, che offre ampia discussione nel LIMC III.1-2, v. Lissarague 1996 e Fuchs 2016).
Il mitema racconta di come il padre della giovane, Acrisio, interrogato l’oracolo per sapere se avrebbe avuto eredi maschi, apprende che sarebbe stato ucciso da suo nipote, figlio di Danae. Per questo egli decide di nascondere la ragazza entro il palazzo, in una stanza inaccessibile, in cui tuttavia riesce a introdursi Zeus sotto forma di pioggia d’oro. Dall’unione nasce Perseo: Acrisio caccia entrambi da Argo, rinchiudendoli in un cassone, e li getta in mare, in balia delle onde.
La maggior parte delle fonti antiche attesta che Danae conclude il suo peregrinare giungendo all’isola di Serifo, a sud-est di Capo Sunio, dove si sposa con il re Polidette. Esiste però un esiguo gruppo di autori latini che viceversa la fanno arrivare in Occidente, e segnatamente ad Ardea, ai lidi laziali. Proprio su questa tradizione minore le note che seguono intendono proporre alcune riflessioni che possono forse contribuire a una rilettura di questo filone mitico sulla figura di Danae nell’interpretatio romana. Pertanto, il contributo non prenderà in esame le fonti inerenti alla città di Ardea e al suo popolo, i Rutuli e il loro re Turno, per i quali si rimanda a recenti lavori molto documentati di S. Bourdin e di F.-H. Massa-Pairault (Bourdin 2005; Massa-Pairault 2013-2014), ma si soffermerà ad analizzare le principali fonti scritte latine pertinenti alla eroina argiva nel quadro delle testimonianze archeologiche di Ardea, che possono contribuire a delinearne il valore in un più ampio orizzonte storico.
1. I testi di riferimento
Sono tre gli autori antichi che offrono testimonianza di un diverso percorso seguito da Danae con il figlioletto Perseo rispetto a quello che li vede giungere a Serifo. Vale analizzarli puntualmente.
Il primo autorevole testimone è Virgilio.
Nel VII libro dell’Eneide, dedicato all’incontro fra Enea e Latino e al patto di alleanza siglato con il matrimonio di Enea e Lavinia, figlia di Latino, gli antefatti che precedono la menzione di Danae in Italia ruotano attorno alle macchinazioni di Giunone contro l’eroe troiano. La sposa di Giove, infatti, muovendo da Argo – la città di Danae, si tenga in mente: Aen. VII 285-286 – invoca dalle tenebre infernali Aletto, una delle Furie (o Erinni), perché infonda sciagure contro i Dardani prima fra i Latini e poi fra i Rutuli, guidati da Turno. I malèfici influssi della Furia colpiscono per prima Amata, la moglie di Latino, la quale, dibattendo con il marito, gli ricorda che il miglior pretendente per Lavinia era il rutulo Turno, di stirpe greca, e non certo lo straniero, Enea:
Et Turno, si prima domus repetatur origo,
Inachus Acrisiusque patres mediaeque Mycenae.
E se risali all’origine prima della stirpe,
per avi Turno ha Inaco e Acrisio, proprio nel cuore di Micene.
(Verg. Aen. VII 371-372; trad. di M. Ramous, Venezia 20042).
Turno dunque viene presentato come un personaggio dalle prestigiose origini greche: i suoi antenati erano i re di Argo, Inaco, il primo a regnare sulla città, e Acrisio, il padre di Danae, i quali, secondo il poeta, abitavano “proprio nel cuore di Micene”, ovvero in un territorio dominato dai ‘primi’ greci, i micenei, appunto.
La grecità di Turno viene quindi sottolineata da Virgilio per contrapporre la popolazione dei Rutuli alla stirpe di Enea: non semplici indigeni, ma greci della genìa più illustre, quella stanziata in Argolide, dove, oltre a Micene, sorgeva appunto Argo (sul tema, Stok 2004, 131-132). E infatti, proseguendo la descrizione delle malèfiche azioni di Aletto, Danae viene presentata come argiva perché figlia di Acrisio, la cui ultima tappa del viaggio si conclude in Italia, ai lidi laziali, dopo molte peripezie:
Postquam visa satis primos acuisse furores
consiliumque omnemque domum vertisse Latini,
protinus hinc fuscis tristis dea tollitur alis
audacis Rutuli ad muros, quam dicitur urbem
Acrisioneis Danaë fundasse colonis
praecipiti delata Noto. Locus Ardea quondam
dictus avis, et nunc magnum manet Ardea nomen,
sed fortuna fuit. Tectis hic Turnus in altis
iam mediam nigra carpebat nocte quietem.
Dopo che a sufficienza le sembrò d’avere inasprito i motivi
del furore, d’aver sconvolto i disegni e la casa di Latino,
ecco che la sinistra dea [Aletto] di lì con le sue ali fosche
vola alle mura dell’audace Turno, a una città che, si racconta,
Danae, qui gettata da un vento impetuoso, aveva fondato
per i coloni di Acrisio. Gli antichi chiamarono Ardea
il luogo, ed Ardea rimane ancora un gran nome,
ma non la sua fortuna. Qui nella sua reggia eccelsa
Turno a notte ormai inoltrata si godeva il cuore del riposo.
(Verg. Aen. 7 406-414; trad. di M. Ramous, Venezia 20042).
È questa di Virgilio la prima e più articolata attestazione latina di una Danae che dalla terra greca si muove e arriva in Occidente, una Danae che dopo aver patito sofferenze perché sconquassata in una cassa-prigione tra i flutti, giunge alle rive laziali e qui fonda una città, Ardea, per i coloni di Acrisio.
Il passo si rivela pertanto di grande importanza, per almeno tre motivi.
Il primo, come più sopra anticipato, è la chiara affermazione della discendenza dei Rutuli, e dunque di Turno, da una femina graeca, Danae, la cui stirpe elladica, come si è visto, era già stata anticipata nei versi precedenti. Anzi, qui essa viene rimarcata da Virgilio mediante l’assunto che la città viene fondata per i (greci) coloni di Acrisio (Acrisioneis colonis) non genericamente da una greca, ma più esattamente da una donna argiva (così anche Thomas, Ziolkowski 2014, s.v. Ardea). Il dato, a mio avviso, non è affatto secondario e si avrà modo di svilupparlo nel paragrafo successivo, dal momento che si prefigura non solo un legame di sangue fra Rutuli e Argivi mediante Danae, ma si delinea altresì una reciprocità fra le due città, Ardea e Argo, che, come vedremo, sembra toccare anche la sfera del sacro (già in parte richiamata da Massa-Pairault 2013-2014, in partic. 94-95).
I Rutuli, dunque, e segnatamente Turno, sono un popolo di antica stirpe greca, discendenti da una donna, che, caso rarissimo nel mondo antico, è ricordata come fondatrice di una città (...dicitur urbem Acrisioneis Danaë fundasse colonis: vv. 409-410). È, questo, il secondo, importante elemento della testimonianza virgiliana: Danae è presentata come una oikistés, un appellativo che di norma gli antichi riservavano a personaggi che, a seguito di lunghi viaggi, sceglievano un luogo adatto per insediarsi e realizzare una ktisis, una fondazione. Sul tema, oggetto di numerosi studi e ricerche (v. almeno Musti 1988; Schiavone 1999), di recente si è soffermato Lorenzo Braccesi con Michela Nocita, cui si rimanda per l’attenta ricostruzione del fenomeno anche grazie a una accurata raccolta di fonti documentarie antiche e a un ricco apparato bibliografico (Braccesi, Nocita 2016). Nel mondo antico i fondatori erano per lo più condottieri (o eroi) a capo di spedizioni verso terre situate sovente in Occidente; a essi, dopo la morte, poteva essere dedicato un culto eroico in una posizione centrale all’interno del tessuto urbano (emblematico il caso della sepoltura principesca a Lavinio, identificata con l’heroon di Enea: v. da ultimo Sommella 2012, con ampia bibliografia precedente). E nel caso specifico di Roma e del Lazio, gli storici hanno da tempo evidenziato come già in antico vi fossero due leggende contrapposte per secoli circa le origini dei popoli laziali, quella che promuoveva la discendenza troiana e quella che esaltava invece la stirpe achea o arcadica: prevalse quella troiana grazie all’opera ermeneutica di Timeo di Tauromenio e poi di Licofrone, nel corso del III secolo a.C., nonostante in età augustea ancora per Dionigi di Alicarnasso le genti laziali fossero di discendenza greca, non etrusca (Schiavone 1999, 16 e ss., con bibliografia precedente).
La Danae ‘occidentale’ tramandata da Virgilio, quindi, non è solo capostipite greca della stirpe dei Rutuli, è pure ecista di una città: una rarità, dunque, anche nel panorama dei personaggi mitologici della tradizione latina. Unica altra fondatrice, sempre secondo Virgilio (Aen. I, 488 ss.), è infatti Didone, regina di Cartagine, sulla quale tuttavia in questa sede non ci si soffermerà.
Questa osservazione relativa a Danae presentata come oikistés ci conduce al terzo e ultimo dato rilevante ricavato dalla lettura del passo dell’Eneide, ovvero il breve inciso su Ardea. Il poeta afferma che ai suoi tempi la città manteneva sì la sua fama (nunc magnum manet Ardea nomen: v. 412), ma non appariva più così solida la sua fortuna, ovvero la sua prosperità economica. Tale elemento non sembra trovare conferma archeologica, dal momento che, come vedremo, le tracce di una ricchezza cittadina in età tardo repubblicana e proto-imperiale se non si possono per ora cogliere in tutta la loro enfasi nel centro urbano vero e proprio perché vi si è sovrapposta la città moderna, sono documentate dagli insediamenti circostanti (vedi paragrafo 2). È probabile piuttosto, come evidenziato nell’Enciclopedia Virgiliana (Firenze 1984, s.v. Ardea), che il passo vada letto in chiave ‘romantica’, come ricordo delle antiche glorie mitiche e arcaiche di Ardea.
Della città, comunque, Virgilio ricorda alcuni monumenti: le mura urbiche (protinus hinc fuscis tristis dea tollitur alis/audacis Rutuli muros: vv. 408-409) e la reggia (Tectis hic Turnus in altis/iam mediam nigra carpebat nocte quietem: vv. 413-414). A edifici sacri, su cui in seguito si avrà modo di dilungarsi, Virgilio accenna in alcuni versi successivi, dove riporta il dialogo fra Aletto, trasformatasi nella vecchia sacerdotessa Calibe del tempio di Giunone ad Ardea (fit Calybe Iunonis anus templis sacerdos: v. 419), e Turno, al quale la Furia cerca di infondere timore verso i troiani e risentimento verso Latino, che gli nega la mano di Livinia:
Hic iuvenis vatem inridens sic orsa vicissim
ore refert: “Classis invectas Thybridis undam
non, ut rere, meas effugit nuntius auris;
ne tantos mihi finge metus. Nec regia Iuno
immemor est nostri.
Sed te victa situ verique effeta senectus,
o mater, curis nequiquam exercet et arma
regum inter falsa vatem formidine ludit.
Cura tibi divom effigies et templa tueri;
bella viri pacemque gerent quis bella gerenda”.
Allora il giovane, irridendo l’indovina, a sua volta così
le risponde: “Che una flotta abbia risalito le foci del Tevere,
non è notizia, come credi, che sia sfuggita alle mie orecchie;
non crearmi falsi timori; no, la regale Giunone
non si scorda di noi.
Ma a te, vinta dal torpore e incapace di cogliere il vero, o madre,
la vecchiaia fomenta inutili pensieri e tra le armi dei re
e con falsi timori del tuo spirito profetico si burla.
Pensa a custodire le statue e i templi degli dei:
a guerra e pace lascia che provveda chi la guerra deve farla”.
(Verg. Aen. 7 435-444; trad. di M. Ramous, Venezia 20042).
I riferimenti ai principali monumenti di Ardea - le mura, la reggia, l’edificio sacro in onore di Giunone e le statue di culto - sono certo per Virgilio indicatori topografici e visivi necessari a dare concretezza descrittiva al racconto, ma costituiscono a un tempo la spia di una monumentalità cittadina di cui, come vedremo, l’archeologia ha dato piena conferma e che si crede potranno contribuire a ricostruire il tessuto urbano e sociale entro cui potrebbe aver preso forma, radicandosi, questa versione ‘minore’ del mito ‘danaico’.
1.2 Plinio il Vecchio
La città di Ardea profilata dal poeta augusteo appare dunque quale centro urbano di tutto rispetto, le cui illustri origini greche ne avevano assicurato la rilevanza politica ed economica nel dipanarsi dei secoli.
Un ruolo di alto profilo, questo, che pare delinearsi anche nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, il quale cita la città e la sua fondatrice tra quelle del Lazio:
Latium antiquum a Tiberi Cerceios servatum est m. p. L longitudine: tam tenues primordio imperi fuere radices. Colonis saepe mutatis tenuere alii aliis temporibus, Aborigenes, Pelasgi, Arcades, Siculi, Aurunci, Rutuli et ultra Cerceios Volsci, Osci, Ausones, unde nomen Latii processit ad Lirim amnem. In principio est Ostia colonia ab Romano rege deducta, oppidum Laurentum, lucus Iovis Indigetis, amnis Numicius, Ardea a Danaë Persei matre condita.
Il Lazio antico si è mantenuto nella sua lunghezza di 50 miglia, dal Tevere al Circeo; così umili furono, all’inizio, le radici dell’impero. I suoi abitanti mutarono spesso, avvicendandosi nel corso del tempo: Aborigeni, Pelasgi, Arcadi, Siculi, Aurunci, Rutuli; e, oltre il Circeo, Volsci, Osci, Ausoni: estendendosi a questi popoli, il nome del Lazio avanzò fino al fiume Liri. Il primo luogo che si incontra è la colonia di Ostia, fondata da un re romano: ci sono poi le città di Laurento, il bosco sacro di Giove Indigete, il fiume Numicio, la città di Ardea fondata da Danae madre di Perseo.
(Plin. Nat. Hist. 3 56; trad. di G.B. Conte, Torino, vol. I).
Nel descrivere, in questo terzo libro, i territori delle regioni d’Italia e in generale d’Europa, Plinio fornisce, come è sua consuetudine, prima alcune coordinate geografiche in cui orientarsi, citando i principali elementi naturali che caratterizzano i luoghi (fiumi, promontori), poi i nomi dei popoli che vi si sono insediati (Aborigenes… Ausones), infine le città e i luoghi sacri ancora esistenti. Al riguardo è interessante sottolineare come quello di Danae sia l’unico nome degno di menzione: l’enciclopedista romano, infatti, dopo aver indicato le popolazioni che tradizionalmente avevano abitato il Lazio antico, non ricorda alcun ecista delle città laziali elencate, nemmeno Tullio Ostilio come fondatore di Ostia, liquidato semplicemente come “un re romano”. Solo per Ardea dichiara che era stata “fondata da Danae madre di Perseo”.
Si potrebbe supporre che Plinio abbia riservato alla nostra eroina un ruolo di spicco nella sua narrazione proprio perché essa rappresentava un caso singolare di ecista al femminile, per di più in quanto madre di un famoso eroe del mito greco: un’eccezione alla norma, quindi, come si è detto più sopra, utile a stupire il lettore. E questa è certo un’ipotesi verisimile se non probabile, ma forse il dato che qui più interessa è che la tradizione a cui sembra attingere Plinio nel I secolo d.C. doveva essere pienamente attestata, almeno in ambito italico, dal momento che l'autore non usa espressioni quali ‘si dice’, ‘pare’, ma pone il dato come certo: poteva trattarsi, quindi, di una sorta di vulgata condivisa e radicata nel territorio, che attribuiva a Danae la ktisis della città di Ardea.
1.3 Servio
La tradizione presentata da Plinio è probabilmente la stessa recuperata già da Virgilio, sulla quale ci soffermeremo in seguito, e che potrebbe essere stata elaborata in ambito locale in età medio e tardo-repubblicana e amplificata dall’annalistica romana. Essa, peraltro, era nota ancora a Servio, che nel commentare l’Eneide così spiega i versi ‘danaici’:
Inachus Acrisiusque patres Danaë, Acrisii regis Argivorum filia, postquam est a Iove vitiata, pater eam intra arcam inclusam praecipitavit in mare. Quae delata ad Italiam, inventa est a piscatore cum Perseo filio, quem illic enixa fuerat, et oblata regi, qui eam sibi fecit uxorem, cum qua etiam Ardeam condidit: a quibus Turnum vult originem ducere.
Inaco e Acrisio erano progenitori di Danae, figlia di Acrisio re degli Argivi; dopo essere stata sedotta da Giove, il padre la gettò in mare reclusa in un'arca. La quale, trasportata in Italia, fu trovata da un pescatore con il figlio Perseo, che aveva lì partorito, e fu presentata al re, che la fece sua sposa, e con lei fondò Ardea: da costoro si vuole che Turno abbia tratto origine.
(Serv., Ad Aen. VII 372; trad. di chi scrive).
Rispetto alle informazioni fornite dai due autori della prima età imperiale, Servio aggiunge ulteriori particolari che sembrano sovrapporre il mitema ambientato esclusivamente in Grecia alla ‘digressione’ italica della fabula: il riferimento al ritrovamento di Danae da parte di un pescatore, infatti, è chiaramente una trasposizione sulle coste laziali della figura di Ditti, fratello del re di Serifo Polidette, che si innamorò della giovane (v. Apollodoro, Bibl. 2 4, 2: si veda il contributo di Maria Grazia Ciani in questo numero). Nel ‘nostro’ caso il re è Pilumno e con Danae fondò Ardea; da entrambi aveva avuto origine la stirpe di Turno, il quale già in Ad Aen. VI 88 è definito Greacus (v. Stok 2004, 131-132; Di Mario 2016, 47-48; Bourdin 2005, 614). Ciò conferma che sia Virgilio sia Plinio, come pure Servio, consideravano i Rutuli di origine greca o comunque grecizzati, non diversamente dagli Aborigeni, dalla cui fusione con i Troiani sarebbe poi derivata la stirpe dei Latini, anch’essi di origine greca (su tale aspetto v. Stok 2004, 120).
Vi è infine un ultimo elemento raccolto da Servio che occorre evidenziare. Nel suo commento al settimo libro dell’Eneide egli specifica che l’ablativo Acrisioneis colonis va interpretato con un valore finale (“per i coloni di Acrisio”) e non, come già ai suoi tempi alcuni asserivano, come complemento di compagnia. Nell’edizione curata da G. Ramires vengono infatti riportate sia le cosidette aggiunte ‘danieline’ (ovvero i commenti degli scoliasti antichi raccolti da Pierre Daniel), sia le collazioni di George Thilo (1878-1887), per cui la versione completa del commento serviano è la seguente:
Acrisioneis Danaë patronymi est, nam male putant ‘Acrisioneis colonis’: cum solam eam venisse constat plurimi adserunt, non cum colonis.
Acrisioneis è patronimico di Danae, infatti male interpretano [coloro che intendono] ‘con in coloni Acrisii’: molti asseriscono, è cosa nota, che lei è venuta da sola e non con coloni.
(Serv. ad Aen. 410: ed. a cura di G. Ramires, Bologna 2003, pp. 56-57; trad. di chi scrive).
Benché secondo alcuni studiosi moderni la lectio serviana sia errata, essendo preferibile la traduzione dell’ablativo in questione con un complemento di compagnia (“con i coloni di Acrisio”: Horsfall 2000, p. 281, accolto da Stok 2004, 131-132), il significato ultimo dei versi di Virgilio commentati da Servio non cambia: l’argiva Danae, fondando una città, è all’origine (greca) della stirpe dei Rutuli e dunque di Turno, antico re di Ardea.
Con tali premesse vale a questo punto ampliare lo sguardo alla città ardeatina attestata archeologicamente, al fine di inquadrare il mito di Danae in Occidente in uno spazio reale, ovvero in un contesto culturale specifico dove la versione ‘italica’ del mitema può aver trovato un fertile terreno di sviluppo.
2. Ardea e l'area archeologica di Castrum Inui
L’indagine sulla figura di Danae in Italia e sulla sua fortuna come ecista di Ardea deve necessariamente prendere in esame, sia pure in forma riassuntiva, i dati archeologici relativi alla città e al territorio nel quale viene ambientata la parte finale del mito: a essi sono stati dedicati di recente studi approfonditi sia per quanto attiene ai ritrovamenti nell’area urbana e nel territorio (Morselli, Tortorici 1982, dove vi è pure un’ampia Appendice dedicata alle fonti scritte; Ceccarelli, Marroni 2011), sia per quelli relativi all’importantissimo santuario di Castrum Inui presso la foce dell’Incastro (da ultimi v. Torelli, Marroni 2016; si veda inoltre la pagina della Soprintendenza del Lazio dedicata ad Ardea curata da F. Di Mario).
A essi, e alla bibliografia precedente ivi citata, si rimanda per i dati qui sommariamente presentati.
L’area su cui si sviluppa la città risulta frequentata in maniera stabile già a partire dall’età del Bronzo, come si ricava da resti sporadici intercettati in vari settori. Dal VII secolo a.C. l’insediamento si estende su due pianori, che comprendono l’area dell’Acropoli, di Casarinaccio e di Colle della Noce [Fig. 1], delimitati da due grandi terrapieni con possenti fortificazioni; l’insediamento già in questa fase è provvisto di strade e percorsi che conducono verso le lagune oppure nell’entroterra.
Grazie al controllo sia dell’accesso al mare, dove sorge dalla fine del VI secolo a.C. il santuario di Castrum Inui, sia delle vie di penetrazione verso i Colli Albani, Ardea occupa una posizione di grande rilievo fra le città della Lega Latina in età alto-repubblicana (Dion. Al. 6 95). Lo attesta la costruzione di templi nei tre principali siti più sopra menzionati [Fig. 2], le cui strutture e partizioni decorative indicano una continuità di vita per tutta l’età repubblicana.
Dal 442 a.C. Ardea diventa colonia latina ed è alleata di Roma contro i Galli, tanto che, secondo Livio, da qui muove l’esercito guidato da Camillo per liberare l’Urbe (Liv. 5 44-45; Plut. Cam. 23-24): non a caso, al IV secolo a.C. si datano rifacimenti e rinforzi delle mura difensive in opera quadrata di tufo, frutto di un intervento deciso dalla città in un momento di forza e di potenza documentato anche dall’apparato decorativo dei tre templi urbani (Manca di Mores 2017).
Il riferimento a scorrerie dei Sanniti fra III e II secolo a.C. nel territorio controllato da Ardea aveva fatto supporre un crollo inarrestabile del centro fino all’epoca augustea (Boëthius 1962, 40, che così spiegava la deminutio di Virgilio circa le condizioni della città ai suoi tempi). Ma l’archeologia ha dimostrato invece che in epoca ellenistica vi fu una grande vitalità economica, che portò alla costruzione del complesso civico del Foro e della Basilica, datati fra il 100 e l’80 a.C. [Fig. 3]. La realizzazione della piazza e dell’edificio per l’amministrazione giudiziaria avvenne in un luogo centrale della città, presso quello che doveva rappresentare uno dei principali templi urbani, in località Casarinaccio. A questo tempio infatti la Basilica fu giustapposta assicurandone però il collegamento tramite una scala: un semplice ma efficace elemento architettonico, che garantiva la contiguità topografica e visiva fra gli elementi costitutivi dell’area forense, ivi incluso il tempio in questione.
Il riferimento a questo edificio templare al centro della città non è secondario: infatti, sulla base della rilettura di un passo di Livio dedicato agli eventi della seconda guerra punica, Chiara Morselli e Edoardo Tortorici hanno ipotizzato che fosse proprio questo il tempio dedicato a Giunone, a cui abbiamo più sopra fatto cenno (vedi paragrafo 1.1). Lo storico patavino ricorda che nel foro di Ardea fu compiuto un grande sacrificio in onore della dea nel 217 a.C., in concomitanza di altri sacrifici per la sposa di Giove attuati a Roma e in altre città a seguito della disfatta sul Trasimeno (Liv. 22 1, 17-19: Morselli, Tortorici 1982, 97). Si tratterebbe pertanto del medesimo luogo di culto citato sia da Virgilio che da Plinio, il quale, nel libro dedicato alle arte pittoriche, scrive:
Docet non sileri et Ardeatis templi pictore, praesertim civitate donatum ibi et carmine quod est in ipsa pittura his verbis:
Dignis digna. Loco picturis condecoravit
Reginae Iunonis supremi coniugis templum
Plautius Marcus, cluet Asia lata esse oriundus,
Quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat;
eaque sunt scripta antiquis litteris latinis.
Non si può passare sotto silenzio il pittore del Tempio di Ardea, tanto più che ebbe la cittadinanza locale e un ricordo poetico dipinto sulla pittura stessa:
“Lodi degne a chi ne è degno. Lykon adornò di pitture
il tempio di Giunone Regina coniuge del Supremo,
chiamato poi Plauzio Marco; si dice nato nella grande Asia,
ora e sempre per la sua arte Ardea lo loda”.
(Plin. Nat. Hist. 35 115; trad. di S. Ferri, Milano 2000).
Il pittore Lykon, di origine asiatica, visse nel II secolo a.C. e ottenne la cittadinanza ardeatina proprio a seguito del lavoro svolto nel principale tempio cittadino (Ardeatis templum): una conferma, quindi, che in età tardo repubblicana la città era in pieno fulgore e che al santuario venivano riservate cospicue somme di denaro per riammodernarne l’apparato pittorico.
Il santuario di Giunone entra quindi a pieno a titolo nella questione affrontata nel presente contributo, dal momento che, come si è visto più sopra e come si tenterà di delineare in sede conclusiva, il radicamento e la valorizzazione del culto per la sposa di Giove ad Ardea, come in altri siti laziali (v. Marroni 2012), potrebbero aver veicolato ‘l’invenzione’ del mitema di una Danae ‘occidentale’ fondatrice della città: da Argo, infatti, dove a Hera/Giunone era tributato un culto fin dall’epoca arcaica, proviene l’eroina, da Argo ai lidi laziali si muove Giunone contro Enea nel racconto virgiliano.
È comunque evidente che se tale operazione di sapore antiquario avvenne in area locale, essa va inquadrata nell’ambito di quella generale riqualificazione urbanistica e monumentale attuata dalla città, che è stata delineata con estrema acutezza da Mario Torelli, e sulla quale si avrà modo di soffermarsi fra breve (Torelli 2016). Un progetto di grande respiro, dunque, che aveva lo scopo di enfatizzare il ruolo politico e culturale di Ardea nel territorio laziale e segnatamente all’interno della Lega latina, anche grazie al controllo di santuari extraurbani. Il primo, quello in località Baratella, aveva valenza ‘internazionale’ ed era in onore di Afrodite, che Strabone dice essere rilevantissimo sia per i Latini che per i Greci (Strabo V 3, 5), ma di cui purtroppo si sa poco, se non che fu scavato nel 1852 e che i ricchissimi materiali recuperati finirono in gran parte al Louvre o dispersi (ampia ricostruzione in Colonna 1995). L’altro, di pari importanza strategica ma molto meglio noto perché oggetto di un recente scavo, si trova presso il mare, in località Fosso dell’Incastro, su cui ora vale soffermarsi.
2.2 Il santuario di Castrum Inui
Il contesto sacro sorgeva a pochi chilometri a sud della città, in prossimità del fiume Incastro, in un luogo di grande rilevanza strategica essendo prossimo al mare e collegato all’entroterra mediante una rete di percorsi attivi già in epoca arcaica. Proprio la sua collocazione in un punto liminare fra terra e mare, l’area sacra, con i suoi preziosi votivi, era minacciata da scorrerie e attacchi ed è probabilmente per questo che nel IV secolo a.C. essa viene cinta da una fortificazione in opera quadrata di tufo (la stessa realizzata per le mura urbiche di Ardea), che ne determina anche il toponimo di castrum. Non si esclude peraltro (Di Mario 2016, 26) che il perimetro delle mura abbia ricalcato l’originario profilo del temenos arcaico.
Il santuario contava tre templi e una serie di apprestamenti cultuali eretti nel corso dei secoli e adattati ai mutamenti cultuali [Fig. 4], di cui Mario Torelli ha fornito una efficace ricostruzione e interpretazione (Torelli 2016).
Il tempio più antico è l’edificio B, oggi visibile nel suo rifacimento di III secolo a.C. essendo stato eretto già alla fine del VI secolo a.C.: a cella centrale in antis e alae, era innalzato su un podio con scalinata di accesso; oltre al rifacimento della pavimentazione della piazza, nei pressi furono costruiti due altari con orientamento e forma differenti per esigenze cultuali, nonché un pozzo rituale, in seguito defunzionalizzato. Si tratta, secondo gli studi più recenti, di un santuario in onore di Inuus, antica divinità italica con affinità al greco Pan, della cui statua di culto rimangono alcuni frammenti nell’insieme delle terrecotte architettoniche che decoravano il frontone del tempio (datate dal VI al I secolo a.C.). In occasione della generale riqualificazione dell’area registrata a partire dal III-II secolo a.C. (Di Mario 2016, in partic. 27 e ss.), è probabile che la divinità sia stata risemantizzata per identificarla con Sol, a cui, come riportano le fonti, Enea avrebbe sacrificato dopo il suo arrivo sui lidi laziali: e la tipologia dei due altari più sopra citati - uno orientato a est e l’altro a ovest -, è stata ritenuta prova sicura di un culto verso Inuus-Sol che si qualifica però anche come Indiges, divinità che connotava il culto per i capostipi di un gruppo etnico (Torelli 2016, in partic. 196-197).
Dunque, uno spazio sacro di grandissima rilevanza, nel quale la città di Ardea attua un significativo programma di rinnovamento edilizio e cultuale in età medio/tardo-repubblicana. Qui infatti vengono costruiti altri due templi, l’edificio A e il tempietto C.
Se quest’ultimo è un edificio di età augustea dedicato probabilmente a Esculapio, di cui si è rinvenuta una statuetta, l’altro edificio, a cella unica in antis su podio, fu realizzato nel II secolo a.C. ed era provvisto di un altare in peperino e di un thesauros/pozzo. Esso mostra un orientamento del tutto anomalo rispetto alla norma dei templi etrusco-italici (est/sud-est), essendo infatti rivolto verso nord-est: e come ha ben rilevato Mario Torelli (Torelli 2011), tale prassi era riservata esclusivamente ai culti eroici, ovvero, in seguito, agli edifici per il culto degli imperatori (ad esempio al tempio per il Divo Giulio). A suffragare tale osservazione soccorrono le lastre architettoniche rimaste, che raffigurano una assemblea divina in atto di accogliere un personaggio nell’Olimpo: Minerva, Ercole e Venere sono rivolti verso una figura maschile posta al centro, di dimensioni maggiori delle altre, in cui si è riconosciuto Enea [Fig. 5].
Con tali premesse, Mario Torelli interpreta il tempio A come un edificio che celebra l’apoteosi di Enea/Lar-Indiges, un culto, questo, che Ardea avrebbe deciso di introdurre nel proprio santuario extraurbano presso la foce dell’Incastro sottraendolo, di fatto, a Lavinio. Il momento di tale ‘appropriazione’ andrebbe collocato fra III e II secolo a.C., quando la città di Lavinio, che un tempo era stata sede di un culto di Enea fortemente praticato da molte città del Lazio (Enea nel Lazio 1981), perde il suo ruolo strategico, anche a seguito dello scioglimento della Lega Latina imposto da Roma nel 338 a.C. Ed è forse in questo stesso lasso temporale che viene creato il mitema di una Danae fondatrice di Ardea, a cui ora, tentando di concludere, possiamo tornare.
3. Danae fra tarda repubblica ed età augustea
L’invenzione del mito di Danae che da Argo arriva non a Serifo ma in Occidente, sulle coste laziali, e qui fonda Ardea, potrebbe aver trovato terreno fertile in area centro-italica nell’ambito di quella temperie culturale ellenistica in cui furono rielaborati e poi canonizzati moltissimi miti di fondazione delle città d’Occidente. Infatti, di una Danae ‘occidentale’ non vi è traccia nelle fonti di epoca arcaica e classica e anzi il primo che ne tratta, come si è visto, è Virgilio. Il ‘testimone’ raccolto o selezionato dal poeta augusteo potrebbe costituire, pertanto, l’esito finale di un mitema elaborato entro la cornice storiografico-annalistica in auge in area laziale fra IV e II secolo a.C. (si pensi a Q. Fabio Pittore e a Fulvio Nobiliore) e che ebbe in Catone e in Varrone due dei suoi massimi esponenti fra II e I secolo a.C. (Castagnoli 1981, 4; Micco 2016). In particolare, in alcuni frammenti delle Origines di Catone, i Rutuli, e quindi Ardea, sono presentati indiscutibilmente come di stirpe greca, secondo un topos che, come è stato giustamente rilevato, accomuna diverse città laziali (tra cui Tibur, Cori, Falerii: Bourdin 2005, 615 e 619-620). Di contro, nel pieno I secolo a.C. Varrone propone una sorta di livellamento fra i vari popoli italici, presentando l’Italia come la migliore regione del mondo omologata per ethna ma diversificata per colture e prodotti (Giardina 1994, 48).
Non va taciuto altresì che in età medio e tardo-repubblicana il mito di Danae conobbe in Italia un certo successo anche grazie alla produzione teatrale: come ha giustamente rilevato M.E. Fuchs (Fuchs 2016, 205, con rimandi precedenti), Livio Andronico nella seconda metà del III secolo a.C. compose un testo scenico intitolato Danae e a lui, si noti, è attribuito anche un altro componimento in qualche modo legato alla nostra eroina, l’Andromeda, che doveva trattare evidentemente della fanciulla liberata dal mostro marino grazie all’intervento di Perseo, che poi la fece sua sposa. Anche Nevio, contemporaneo di Livio Andronico, scrisse numerose tragedie e commedie, tra le quali se ne ricorda una dedicata sempre a Danae.
Il ricchissimo contesto culturale italico di IV-II secolo a.C. conteneva in sé tutti i presupposti perché si potesse elaborare una versione ‘occidentale’ del mito danaico. E se non si può ovviamente attribuire tale ‘invenzione’ a una personalità in particolare, è altresì possibile che Ardea abbia contribuito ad alimentare questa tradizione per trarne un vantaggio politico nell’ambito di quel forte e variegato programma di rinnovamento che ebbe luogo, come si è visto, fra III e II secolo a.C. e che, come suggerito da Mario Torelli, mirava a porre la città al vertice delle civitates laziali, sciolta la Lega Latina e venuto meno il ruolo di Lavinio. Grazie alle più diverse sollecitazioni – storiografiche, letterarie, artistiche –, Ardea poté costruire il mito delle proprie origini riadattando quello di Danae, oltre che quello di Enea, quest’ultimo ampiamente attestato nel Lazio già dal IV secolo a.C. (D’Anna 1995; Micco 2016). E infatti nella città laziale restano prove evidenti di tale dinamicità culturale medio-tardo ellenistica, sia negli interventi urbanistici e decorativi, sia nella sfera dei culti attestati anche nel territorio: se ne sono riassunti schematicamente più sopra i principali esiti strutturali e decorativi.
Entro tale cornice autocelebrativa, per Ardea l’aver individuato nella argiva Danae l’ecista della propria stirpe poteva rappresentare un antenato illustre in cui riconoscersi: la città poteva vantare un complesso e ben radicato patrimonio cultuale che la legava alla terra nativa di Danae, avendo come divinità principale proprio Giunone. Se infatti ad Argo, esisteva, come è noto, un antichissimo santuario in onore di Hera e anzi, come ricorda Virgilio in uno dei passi citati, Giunone si mosse proprio da Argo per arrivare nel Lazio e qui pianificare le sventure di Enea, ad Ardea, lo si è visto, nel cuore urbano dove poi sorgerà il foro, era presente un tempio di grande rilevanza in onore della dea, le cui prime tracce archeologiche risalgono alla fine del VI-inizi del V secolo a.C. (Morselli, Tortorici 1982, 91-97). E non è un caso che ad esso sia stato riservato un grande ‘re-styling’ proprio fra III e II secolo a.C. anche grazie al pittore greco Lykon citato da Plinio, a cui la città concesse poi la cittadinanza (vedi paragrafo 2.1).
Dunque, Ardea e Argo avevano in comune non solo un’antenata, Danae, che per Ardea fu pure oikistés, ma anche una delle divinità principali del pantheon, Giunone-Hera: anzi, nella città ardeatina l’importanza del culto sembra prolungarsi ben oltre l’età repubblicana, come si ricava dal rinvenimento di un’iscrizione in greco di I secolo d.C. contenente un oracolo, che era destinato a una sacerdotessa di origine germanica, Veleda (Morselli, Tortorici 1982, 93 e nota 320, con bibliografia specifica).
Con tali premesse appare legittima l’ipotesi in base alla quale Ardea, ovvero la sua élite politica e culturale di III-II secolo a.C., abbia potuto contribuire in maniera decisiva a costruire l’interpretatio latina di una Danae occidentale, e ciò sembra tanto più plausibile se si profila tale operazione culturale nel più volte citato quadro di riassetto generale registrato dall’archeologia sia nel centro urbano che nel territorio, in particolare nel santuario extraurbano dell’Incastro. Anche qui, come si è riassunto sommariamente nel § 2.2, Ardea attua una ri-semantizzazione del mito di Enea che viene fatto sbarcare non più a Lavinio ma presso le foci del ‘proprio’ fiume, il Numicius, non lontano dal porto cittadino, e a questi viene dedicato un nuovo tempio, l’edificio A, dopo aver monumentalizzato l’intera area sacra (v. ancora Torelli 2016, passim).
Dunque, un’operazione culturale e cultuale di grande rilevanza quella attuata in età medio e tardo- repubblicana in territorio ardeatino, a cui la nostra eroina potrebbe essere stata chiamata a ‘partecipare’ garantendo non solo le origini greche dei Rutuli e quindi degli Ardeatini, ma stabilendo, tramite la sua provenienza argiva, un legame cultuale con Hera Argeia, che ad Ardea è la Giunone venerata nel cuore della città.
Se si esaminano i due interventi di riqualificazione operati sia nel centro urbano – nuova decorazione pittorica del tempio di Giunone e di lì a poco erezione del foro e della basilica senza alternarne i volumi ma garantendone anzi il legame e la prossimità – sia nel santuario dell’Incastro – pavimentazione della piazza, costruzione dei due altari, erezione del tempio A in onore di Enea etc. – si potrebbe ravvisare una contraddizione, qualora ci si ancorasse a una lettura superficiale del testo di Virgilio. Infatti, basandoci solo sull’Eneide, i due interventi potrebbero apparire destinati a enfatizzare due culti apparentemente in contrapposizione, quello di Giunone e l’altro di Enea-Inuus-Indiges. Nell’epopea virgiliana Giunone parteggia per i Rutuli (Nec regia Iuno / immemor est nostri, dice Turno alla vecchia sacerdotessa-Aletto: vedi paragrafo 1.1), che però sono gli antagonisti di Enea: come poteva quindi una città laziale essere a un tempo urbs di origine greca, fondata dall’argiva Danae, venerare Giunone (l’Argiva Hera) nemica giurata di Enea, ed essere pure il luogo dello sbarco dell’eroe troiano?
Tale contraddizione in realtà non dovette esistere per la compagine sociale ardeatina tardo-repubblicana, la quale, se aveva già nella propria tradizione una discendenza greca, sfruttando il declino di Lavinio poté assumere entro il proprio controllo anche culti legati alla sfera troiana (l’Aphrodisium presso la loc. Baratella, quello ancora per Afrodite di Lavinio e il santuario dell’Incastro: Torelli 2016, 211). Essa poteva presentarsi così quale centro poliedrico e culturalmente vivace, capace di far convergere dentro di sé elementi apparentemente differenti (culti greci vs culti troiani), che viceversa erano perfettamente congruenti nella logica di una koiné ellenistica per la quale dalla Grecia erano comunque discendenti, attraverso figure mitiche, i popoli d’Occidente (Brelich 2010, in partic. 37-40).
Non stupisce, quindi, che anche nel testo virgiliano, in cui furono raccolte e selezionate tradizioni disparate per creare una nuova narrazione nazionale segnatamente romana, alla fine i due popoli, greci e troiani, siano configurati come un’unica progenie, da cui poté sorgere la Roma augustea (“la stirpe di entrambi discende da un unico sangue”, dice Enea a Evandro: Aen. VIII, 143). La ‘preistoria’ di Augusto e della sua gens aveva dunque radici solidissime, che consentivano di esaltarne il ruolo di unificatori e pacificatori della tota Italia, ovvero di tutto l’impero (Braccesi 2013).
E la ‘nostra’ Danae? La centralità datale nel poema virgiliano in chiave di ‘oikistés’ greca in Occidente, e in particolare in terra laziale, a mio avviso non dovette essere casuale, e anzi l’eroina argiva potrebbe essere stata scelta da Virgilio come exemplum per elogiare alcune matrone che, sul finire della Repubblica e agli albori del Principato, iniziavano ad assumere ruoli di primo piano nella scena pubblica (e privata) di Roma. In altre parole, c’è da chiedersi se il focus virgiliano sulla Danae ‘occidentale’ non sia un’operazione di più ampia portata: la giovane era infatti presentata come un’eroina eccezionale, dai natali illustri e madre di un eroe capace di sconfiggere mostri terribili (Medusa e il drago marino aguzzino di Andromeda). Ma soprattutto Danae era la fondatrice/iniziatrice di una nuova stirpe, quest’ultima tutelata dalla divinità più importante per quanto atteneva alla sfera della famiglia, del matrimonio e delle nascite: Hera-Giunone. Una divinità, lo si è più volte evidenziato, che proprio ad Ardea aveva conosciuto un culto di primissimo piano sia in epoca arcaica, sia soprattutto in età medio e tardo-repubblicana, quando furono valorizzati anche altri culti ‘fondativi’, come quello di Inuus-Enea e quello di Afrodite presso la loc. Banditella (v. ancora Di Mario 2016 e per l’Aphrodisium Colonna 1995).
Si tratta, naturalmente, di un’ipotesi, che solo con il prosieguo degli studi potrà, eventualmente, trovare conferma o smentita, ma alcuni dati giocano in suo favore, se si pensa alla centralità che ebbe Livia all’interno dell’orizzonte propagandistico di Ottaviano già nella prima fase, quella in cui operò Virgilio. Infatti, lavori recenti hanno posto in evidenza come proprio gli anni in cui Virgilio era intento alla stesura dell’Eneide siano stati cruciali nella elaborazione di un ruolo nuovo, tutto ‘al femminile’, per alcune matrone romane e in particolare per la giovanissima sposa del figlio adottivo di Cesare (su Livia v. Braccesi 2016; sulle matrone di età augustea v. Valentini 2011). Livia come moglie e madre esemplare, iniziatrice di una nuova stirpe, costituì infatti un ‘archetipo’ connotativo della propaganda augustea fin dai primi anni della loro unione, alla cui elaborazione, come ben ha dimostrato Braccesi, collaborò la stessa interessata.
Le fonti ci raccontano che Ottaviano la sposò nel 39 a.C., pur essendosi già unita a Tiberio Claudio Nerone, dal quale aveva avuto Tiberio (nato nel 42 a.C.) e del quale era gravida di Druso, partorito pochi mesi dopo le seconde nozze (nacque infatti nel 38 a.C.). L’essere ‘predestinata’ al ruolo di ‘capostipite’ venne fin da subito rivendicato mediante signa divini, ad esempio il prodigio narrato da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XV, 136-137) e da Dione (XLVIII 52, 3), avvenuto nel 37 a.C.. Si narra che un’aquila le avrebbe fatto cadere in grembo una colomba (o gallina) bianca che nel becco teneva un ramo di alloro: raccolto e piantato da Livia, il ramoscello avrebbe messo radici e da esso se ne trasse in seguito il fogliame per le corone trionfali (sull’identificazione della Villa di Livia a Prima Porta come quella in cui avvenne il prodigio, v. Messineo, Calci 1984). La nuova sposa di Ottaviano è quindi già in questa fase ammantata da un’aura eccezionale, essendo l’aquila animale sacro a Zeus-Giove e il lauro la pianta sacra ad Apollo, protettore di Ottaviano Augusto: nel suo grembo simbolicamente veniva posto il futuro della stirpe.
Nel 35 a.C. Ottaviano conferisce la sacrosanctitas a lei e alla sorella Ottavia, un privilegio che era sinonimo di inviolabilità spettante solo ai tribuni; inoltre, il princeps le assicura l’esenzione dalla tutela e le attribuisce il ius imagum: in altre parole le viene garantito il diritto di amministrare autonomamente i propri beni e quello di poter avere statue erette in onore suo e dei suoi figli (alla morte di Druso nel 9 a.C. le viene dato conforto grazie a statue erette per celebrare la scomparsa del figlio: Bauman 1981). Livia (con Ottavia) gode quindi di diritti che erano stati esclusivamente maschili, ora ri-semantizzati nell’ottica di garantire solidità al nuovo regime anche grazie alla inviolabilità della ‘first lady’ tramite il coniuge (Scheid 2003, 147). Dal 27 a.C., poi, la politica dinastica si orienta ancor più in questo senso, come ben documentato dalla creazione di un’arte e di ritratti ‘imperiali’ atti a celebrare in tutte le città dell’impero il potere della dinastia giulio-claudia (Zanker [1987] 1989; Pollini 2013).
Se poi si considera che nelle province orientali, dove il culto del sovrano era già pienamente radicato fin dalla piena età ellenistica, Livia è la prima figura femminile di rilievo a cui è data regalità ‘cosmica’ essendo venerata come ‘dea’ (theá) (Greter 1946; Mastino 1986), in Occidente viene associata a varie divinità femminili, tra cui Giunone, oltre che Cerere. Solo per inciso, si ricordi che lo stesso Augusto riabbellì, fra gli 82 edifici sacri restaurati, anche il tempio di Giunone Regina sull’Aventino, che era stato costruito da Furio Camillo nel 392 a.C. dopo aver sconfitto i Galli partendo proprio da Ardea, come si è ricordato più sopra (vedi paragrafo 1.1; Aug. Res Gestae 19; sul monumento, di non sicura localizzazione, v. Andreussi 1996) [Fig. 6]. Il culto, che duplicava in area ‘plebea’ quello già esistente sul Campidoglio, poneva in evidenza l’importanza di Giunone quale divinità legata alla sfera del conubium e della fertilità mediante il rito dell’evocatio della dea da Veio, da cui era stata presa la statua lignea (Mercattili 2012, con bibliografia precedente). I rituali si ispiravano fin dall’inizio a quelli propri della Hera greca, tra cui il lectisternium e la processione di fanciulle che accompagnavano al sacrificio due giovenche e due statue in legno di cipresso lungo il clivus Publicus, partendo dal tempio di Apollo Medico (Liv. 27 37, 7-11). Era dunque un culto che ben si adattava alla propaganda augustea per siglare ulteriormente la funzione ‘fondativa’ di questa divinità come tutrice delle unioni matrimoniali e del proseguimento della stirpe: non stupisce quindi che a ‘questa’ Giunone Livia sia stata associata fin da subito, divenendo il simbolo della prosperità pubblica ma anche della vita coniugale, due tra gli elementi che connotarono la propaganda di Ottaviano Augusto. Questi, poi, com’è noto, per testamento stabilì che alla sua morte Livia diventasse sua figlia, cui spettò il ruolo di sacerdotessa del culto a lui riservato (Scheid 2003).
In conclusione, che attraverso la Danae ‘occidentale’ elaborata e radicata, si crede, in area ardeatina Virgilio abbia voluto offrire l’esempio di una donna che, come poi Livia, fu fondatrice di una nuova stirpe rivestendo ruoli e privilegi maschili (tra tutti quello di oikistés) e che, provenendo da Argo, poteva veicolare il culto di Hera-Giunone, è un’ipotesi che sembra legittimo avanzare, pur con molta prudenza. Su di essa varrà la pena, in seguito, investigare ulteriormente all’interno di una più ampia analisi delle tracce materiali e documentarie relative al mito danaico in area italica, per cogliere ulteriori indizi che possano aiutare a meglio comprendere la ri-semantizzazione della figura di Danae nell’Italia medio e tardo-repubblicana e augustea.
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English abstract
The article aims at analysing the role of Danaë in the Latin town of Ardea and in the Latium vetus starting from a ‘local’ variation of the Greek myth. In particular, thanks to an in-depth reading of specific Latin sources and to a reconsideration of the archaeological remains in Ardea, some hypotheses about the cultural and religious context in which the Latin myth of Danaë took place are proposed. The ‘westerner version’ of the myth of Danaë could be emphasized during the Hellenistic phase with new semantic meanings and it could be reused in the Augustan age for specific ‘dynastic’ purposes.
keywords | Danaë; Ardea; Iuno; Livia; Augustus.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo/ To cite this article: Danae fondatrice di Ardea. Note per una ricerca, a cura di M. Bassani, “La Rivista di Engramma” n. 178, dicembre 2020/gennaio 2021, pp. 90-117 | PDF dell’articolo