I Patti Lateranensi: sconfessare il Corpus Mysticum e il corpo del Capo
Un affondo sull’Episodio romano della Tragedia Endogonidia*
Piersandra Di Matteo
English abstract
L’ossessione temporale che assilla la Tragedia Endogonidia si esaudisce nell’incontro ‘episodico’ con la città. L’urto con il luogo, che ospita di volta in volta gli eventi scenici, diventa l’occasione per una precipitazione tragica – temporanea – in cui sperimentare l’impossibile insorgenza nella contemporaneità di “un sistema di sentimenti universali fondati sul concetto di ‘colpa’ e di ‘espiazione’” (Benjamin [1928] 1999, 76) nel senso greco. Il ciclo “megalomane, forse infantile” (Castellucci 2004, 7) ideato dalla Socìetas Raffaello Sanzio e diretto da Romeo Castellucci nell’arco di tre anni (2002-2004), viene concepito come un “organismo in fuga” (Kelleher 2002, 11) di polis in polis, animato da una continua spinta all’autoriproduzione. Partito nel 2002 da Cesena, in cui ha sede la compagnia teatrale (oggi Socìetas), il progetto si chiude nel dicembre 2004 dopo aver attraversato Avignone, Berlino, Bruxelles, Bergen, Parigi, Roma, Strasburgo, Londra e Marsiglia.
Se è vero che la tragedia attica nasce quando si comincia a guardare al mito con l’occhio del cittadino, il richiamo alla cittadinanza in questo universo tragico si raccoglie, in un tempo circoscritto, attorno alla ‘figura’ segnata da una “anonimia provocata” (Castellucci 2004, 9) e offerta a una comunità istantanea, un insieme di solitudini aggregate nell’hic et nunc dell’evento spettacolare.
In una progressiva scissione da se stesso, il corpus endogonico si rapprende in Episodi, unità tragiche singolari, in sé conchiuse che stabiliscono un legame fondante con dieci città europee in cui vengono accolte senza possibilità di replica, rendendo disfunzionale il meccanismo standard della tournée. Il termine ‘endogonidia’, prelevato dal vocabolario della microbiologia, si riferisce ad alcuni esseri semplici dotati di entrambe le gonadi, la cui riproduzione per scissione consente all’individuo di auto-riprodursi all’infinito. In ogni Episodio che declina, per statuto, un appuntamento mancato con il divino, il portato genetico di figure, concetti e materie della scena, si manifesta per ricombinarsi su un piano che abbandona decisamente ogni orizzonte diegetico, ogni trama necessitata da una storia, ogni debito al regime mimetico, e recide il rapporto fiduciario con i personaggi tragici fissati dalla Grecia del V secolo (e con le successive reinvenzioni o riscritture). L’abiura del personaggio lascia spazio alla creazione di presenze – oggetti, animali, macchine, involucri di pelle, guaine – colte nel mare aperto della forma, lì dove non c’è più un nome da far corrispondere a un mito. Si tratta di suggerire una rivolta dall’interno verso l’esterno, e viceversa, come fosse possibile accogliere scenicamente la prosecuzione di un corpo non più visibile nella sua interezza.
Le forme principali e dorsali, promotrici dell’azione, sono convocate a generare immagini intese come forze viventi, che non rappresentano più ma muovono energie psichiche ed emotive profonde, consegnate allo spettatore senza commento e contro ogni didattica. Se la tragedia greca instaura un tribunale attorno all’azione, qui è il puro atto di violenza a prendere il centro della scena a patto di restare ingiudicato, lì dove l’eroe può solo apparire per morire in continuazione di immortalità (Benjamin 1982, 170), come soggetto a una coazione a ripetere. Se l’espunzione del Coro e degli stasimi (Di Matteo 2004, 13-14) sta a dire la liquidazione di ogni forma di ordinamento morale del mondo, il tempo della Storia non trapassa nel tempo tragico neppure nelle azioni di grandi individui (Benjamin 1982, 168).
La dimensione entropica attivata dalla Tragedia Endogonidia fagocita gli elementi che appartengono alla Storia, piegandoli in forme residuali, producendo grumi o lacerti accolti in universi incongrui nei quali si perpetua l’enigma (Brousse 2015, 79), di fronte al quale lo spettatore si scopre novello Edipo. Esempio ne è l’Episodio R. #07 ROMA (Teatro Valle di Roma, 21-30 novembre 2003). L’incontro con la Città Eterna si suggella in quell’intreccio di poteri tra Santa Sede e Stato che fu la stipula dei Patti Lateranensi, sottoscritti da Benito Mussolini e Papa Pio XI nella cornice di Palazzo del Laterano (11 febbraio 1929). Ad essere preso di mira è quel momento essenziale per il processo di fascistizzazione dell’Italia (Collotti 1994, 49-51), che vede la Chiesa rinunciare al potere secolare, alla forza fisica del suo esercito e alle pretese nei confronti dello Stato italiano, in cambio dell’affermazione del cattolicesimo come religione di Stato. Il foglio di sala di grande formato, consegnato allo spettatore, non lascia spazio a false interpretazioni: la riproduzione della pagina incipitaria del documento ufficiale affianca l’immagine di uno scimpanzé. Entrambi emergono da una campitura di linee verticali multicolori (che rispecchiano precisi elementi sintattici del settimo episodio endogonico).
Episodio R. #07 ROMA
Il sipario si spalanca su un enorme volume bianco. L’abissale monocromia è fomentata dalla quarta parete, sigillata da una vetrata suddivisa in riquadri regolari e tappa il boccascena del Teatro Valle, per il quale l’Episodio è stato concepito. Lo spazio, celebrato nel suo albinismo, è pienamente illuminato come a dichiarare una volontà di ostensione senza remore, a patto che sia garantita una distanza, quella che suggella il sottovuoto (per via del vetro) a cui è destinato ogni possibile accadimento (scenico).
Silenzio. Nel biancore aprospettico si intravede una massa in movimento: è un lenzuolo bianco dal quale, da lì a poco, si riconosce la presenza di un grosso scimpanzé. Fugato il dubbio che non si tratti di un uomo travestito da scimmione, è possibile seguire l’animale alle prese con una banana e pezzi di frutta. Lo si coglie nell’atto di grattarsi, farfugliare, emettere singolari ululati carichi di respiro sincopato, che provengono da dietro il vetro leggermente ovattati. Ciò che accade ha una durata difficile da definire come se la scena – interamente tenuta in piedi dalla flagranza oggettiva e incoercibile dell’animale, non addomesticabile ad alcun dettato scenico – tentasse di verificare la capacità dello scimpanzé di ‘tenere’ lo scorrere del tempo fino al suo punto di collasso. Rapiti dalla perfetta indifferenza dell’animale, quando la scimmia si approssima alla gigantesca vetrata e si rivolge insistentemente verso il pubblico, ci scopriamo guardati con sorpresa, quasi fossimo, noi spettatori, di troppo. È la perturbante condizione in cui l’incidente volontario dell’essere spettatore si capovolge nell’incidenza (o tangenza) della visione, lì dove prende corpo qualcosa che ti inquadra, che ti “fa quadro” (Lacan 2003, 105).
Il sipario si chiude, assecondando un rumore sinistro. Dall’alto scende un box letter analogico che s’accampa nella cornice del proscenio: in pochi secondi prende avvio il gioco combinatorio delle parole. La corsa delle lettere dell’alfabeto si fissa in uno smozzicato sillabare: ‘O… OH… OH…’. Un’esclamazione di stupore o forse una trascrizione che scimmiotta il verso animale? ‘SONO FELICE’. Lascia supporre si tratti dell’esternazione di un affetto. Il ticchettio della macchina dirotta il discorso verso una forzata rassicurazione: ‘VA TUTTO BENE’. Sembra non esserci alcun dubbio, ‘L’ULTIMA SCENA ERA PERFETTA’. “Chi parla qui?” – si domanda Nicholas Ridout – “Ovvio. La macchina del teatro, ma la logica della situazione fa sì che sia anche lo scimpanzé. Se non fosse che le lettere, che si impongono subito dopo, suonano come la smentita di tutte le possibili congetture: ‘È LA CAPRA A PARLARE’” (Ridout 2004, 3-6; Ridout 2007, 135-137), vale a dire la tragedia che annuncia se stessa (tenendo fede alla promessa del suo etimo).
È all’insegna dell’esperienza perturbante, che annoda animale, linguaggio e tragedia, che di lì a poco, al rimbalzo ritmico di un pallone, il sipario si apre su un manipolo di preti alle prese con una palla da basket. Si allude al gioco, come si trattasse di orchestrare un risultato che tarda ad arrivare (il canestro). L’insuccesso è coronato da una manifestazione di esibita costernazione. Le sottane nere dell’abito talare s’agitano nello spazio con una grazia singolare, assimilabile alle dinamiche assunte dai preti – i “Soldati della Concezione” dell’Episodio – in certe immagini della serie Non ho mani che mi accarezzino il viso, in cui il fotografo Mario Giacomelli cattura i giovani religiosi del seminario vescovile di Senigallia.
Dopo alcuni tentativi, deliberatamente non riusciti, di centrare il canestro, viene proposta una soluzione ‘a prova di scemo’. Un prete viene assistito mentre si arrampica su un inginocchiatoio: a questo punto può raggiungere il canestro semplicemente allungando le mani. La palla viene dunque accompagnata alla sua meta così da decretare finalmente il compimento dell’atto. Ma – Miracolo! – la sfera arancione rimane bloccata, sospesa tra la rete e il suo sostegno circolare. Il pallone fermo nel grembo del canestro è immediatamente celebrato come fosse l’ostia nel suo ostensorio. Si genera un andirivieni di genuflessioni a mani giunte: è un insieme di atti reverenziali di fronte al canestro-tabernacolo inscritto in un tabellone-altare, alla maniera delle sculture di David Hammons.
La celebrazione di questa paradossale transustanziazione si scopre dirottata nel seno di un’iperbole comica che non fa affatto ridere: l’universo del gioco del basket si dispone a una gag che convoca una forma imprevedibile di profanazione (Biondi, Brousse, Di Matteo 2016, 66-79). A seguire certe riflessioni del filosofo Giorgio Agamben, esiste una stretta relazione tra gioco e profanazione, nella misura in cui l’uno restituisce all’uso comune quello che una volta era separato nella sfera del sacro (Agamben 2005, 85-88). Detto in altri termini il gioco, caso d’essenza della profanazione, implicando una neutralizzazione di ciò che profana, disattiva il dispositivo di potere che la separazione nel sacro aveva messo in essere. È il modo per restituire ciò che era stato ritualmente separato, attraverso una forma di contatto, un tocco che disincanta (la palla-ostia), confiscando in uno spazio ludico la celebrazione eucaristica del Corpus Mysticum.
I preti che giocano a basket, come stessero officiando una cerimonia liturgica, inquietano la dimensione sacrale dell’azione, senza scalfire l’idea di un rituale che si sta compiendo con sue proprie regole. A ben guardare, l’affaccendato stuolo di novizi, (ri)collocando il gioco con la palla nell’universo del sacro, trasforma il ‘sacrosanto’ pallone in una sorta di figura eucaristica, a patto di rendere inoperosa e improduttiva la funzione religiosa.
La ritualità del Sacrificio Eucaristico (la palla come corpo-di-Cristo nel canestro-ostensorio) si manifesta sublimata, nello spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio nella topica del corpo dello sportivo (giocatore di basket/prete) che orchestra la sua celebrazione. È interessante notare la coincidenza tra questo annodamento e le tensioni attive nei raggruppamenti della Tavola 79 (Menemosyne Atlas 79, Engramma) del Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg. Il riferimento non è peregrino. Durante il suo ultimo soggiorno romano, a cavallo tra il 1928 e il 1929, Warburg partecipa alla celebrazione del Corpus Domini, festività ratificata con rinnovata convinzione nell’Art. 11 del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia. Come testimoniato nel Diario romano (Warburg, Bing 2005; Bordignon, Carli 2016), stilato ‘a due voci’ con Gertrud Bing (Centanni, Sacco 2020), le celebrazioni liturgiche e gli incontri ufficiali legati alla vicenda dei Patti Lateranensi impressionarono profondamente lo storico della psiche.
L’intreccio tra quel riflesso autobiografico, allacciato ai fili della Storia, e la sua inesausta ricerca delle costellazioni ‘patetiche’ delle immagini, nella piaga tra permanenza e ritorno, si ripercuote, significativamente, nelle due Tavole finali del suo Bilderatlas.
Il segno lasciato dagli accadimenti legati alla stipula del Concordato tra Mussolini e Papa Pio XI si rivela, infatti, in modo esplicito nella Tavola 78 (Mnemosyne Atlas 78, Engramma): le immagini fotografiche e i documenti legati alla firma, alla ratifica e alle celebrazioni liturgiche, avvenute in occasione dei Patti Lateranensi, testimoniano la rinuncia al potere secolare della Chiesa in cambio della conservazione della sua potenza simbolica e spirituale. Ed è proprio la sua potenza simbolica, massimamente espressa nel rito eucaristico, nella solennità del Corpus Domini, uno dei cordoli tematici della Tavola 79 che chiude l’Atlas, ed è esattamente intorno a questo perno che la lezione warbughiana diventa istruttiva per il nostro caso.
Si tratta di una costellazione di immagini incentrate sul tema redentivo del Sacrificio Eucaristico, sull’uso in funzione politico-simbolica del Corpus Domini, identificato con l’Ecclesia nutrita dal corpo sacrificato di Cristo. Evidenza ne è l’attenzione rivolta alla Cattedra di San Pietro del Bernini e la presenza di fotografie scattate in occasione della Messa Solenne e della processione eucaristica di Papa Pio XI (veduta aerea del colonnato di San Pietro con l’impressionante folla di fedeli), tenutasi a Roma il 25 luglio del 1929. Ma la Tavola 79 traccia, nel suo assemblaggio (per un’analisi approfondita si veda Seminario Mnemosyne 2001), l’evoluzione del sacrificio dal rito cruento arcaico (scena di seppuku dell’epoca dei Tokugawa) alla sublimata nell’ostensione del corpo mistico, nell’estrema Comunione del Santo (L’ultima Comunione di San Gerolamo di Sandro Botticelli) e nel miracolo dell’ostia sanguinante (Messa di Bolsena di Raffaello Sanzio presente nelle Stanze Vaticane), nel cui sangue riappare il sacrificio della Croce.
Dal cuore della Cristianità, colta in uno dei momenti di massima celebrazione della sua ritualità, il corpo dell’uomo presente nel Santissimo Sacramento è risemantizzato in una xilografia (1492) ad uso della propaganda antisemita, centrata sulla profanazione violenta del rito dell’ostia (rubata e cucinata), qui “deriva violenta della sublimazione rituale” (Seminario Mnemosyne 2001). Significativo è, infine, il ‘montaggio nel montaggio’ ottenuto dall’inclusione, nella Tavola, di due supplementi illustrati dell’Hamburger Fremdenblatt (n. 208 e n. 209), in cui l’esibizione del corpo fisico dell’atleta (giocatore di golf, nuotatore) tematizza la catarsi della potenza rituale nel pathos posturale del corpo dello sportivo. Nella Tavola 79 si assiste cioè al contrasto tra l’ostensione del corpo del Figlio dell’Uomo, transustanziato nel Santissimo Sacramento, nell’ostentazione del corpo dell’atleta: ciò che è in gioco è un passaggio che dalla ritualizzazione del sacrificio, nella piena catarsi della sua violenza originaria, muove verso la sua sublimazione in un paradigma formale coincidente con il gesto sportivo.
Alla luce di quanto detto sin qui, ritornando all’Episodio romano della Tragedia Endogonidia, si potrebbe parimenti riconoscere la profanazione eucaristica a opera del gioco del basket (della palla-ostia), come la tattica, impiegata da Castellucci, per disattivare la congruenza della condotta pretesca, sublimando la portata simbolica del rituale liturgico in una prassi che gira a vuoto. La Chiesa è qui celebrata – in un quadro in cui la spiritualità è avvilita a norma di Stato – nel suo involucro sterilmente formale, sconfessata in una potenza puramente rappresentativa, fondata su una impalcatura di gesti che si possono espletare solo a partire dal tacito accordo di barare in bella vista.
Preparare la cioccolata per gli italiani
Se la Chiesa dei Patti Lateranensi è per Castellucci assimilabile a un esoscheletro liturgicamente informato di gesti evacuati dal senso, il potere della controparte sembra poter apparire solo in veste residuale. Una figura in bianco, tono su tono, avvolto in un bianco accappatoio, si stacca letteralmente dal fondo, richiamata dalle lattee profondità della scena. Straordinaria è la somiglianza fisiognomica con Benito Mussolini. Appare monolitico con le braccia conserte. Attorno a lui – corpulento e sodo, il cranio glabro e la mascella prominente –, fervono preparativi perché sia preparata la cioccolata “per tutto il popolo italiano”. Accompagnato a sedersi davanti al tabellone-altare, colpisce che sia assoggettato a una relazione di obbedienza. Con il suo testone lucido, la piega marcata del labbro, esegue catatonico ogni comando. Tutto un trafficare concitato di novizi, vagamente sospetto di futilità, lascia intendere l’importanza dell’azione che sta per compiersi. Uno di loro si premura di immortalare la seduta con alcuni scatti fotografici, puntualmente amplificati da flash e rispettivo rumore. Mussolini è seduto al tavolo dei Patti Lateranensi come un ebete. È solo come uno scimmione in trappola, senza la controparte di vertici ecclesiastici, circondato da preti zelanti, portatori di “un comico che sconfina nel terrore e si presenta come macabro” (Castellucci 2004, 10).
Il pallone-eucaristico viene incappucciato, bardato come si conviene alle grandi occasioni. Nel frattempo, una delle figure in abito talare apre un piccolo pertugio circolare nella parete di vetro, versa della cioccolata liquida nel foro così da formare una colata color marrone e inizia a bisbigliare direttamente rivolto agli spettatori.
Non ha voluto fare la cioccolata per tutti gli italiani, ma noi lo costringeremo a preparare il cacao e poi lo ridurremo a cioccolato. Il suo tentativo di creare e ricavare caligine dalla cioccolata era fallito più volte, ma egli continuava a sperimentare dei piani riservati ai laboratori di cacao dell’Istituto Nazionale delle Armi. Il filo vaporoso di cacao descriveva tre rettangoli uniti a stella che formavano lo stemma degli italiani. Da quello si ricavò il disegno della nuova fontana marrone di Roma di via della Conciliazione.
Trascrizione tratta dalla versione filmica dell’episodio romano, parte de Il Ciclo Filmico della Tragedia Endogonidia, memoria videografica realizzata dai videoartisti Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti. (Carloni, Franceschetti 2007)
La ronda pretesca istiga Mussolini a firmare, accompagnando la sua mano inerte sul plico di fogli. Un grande quantitativo di cioccolata viene versato sui documenti, e come un’evacuazione di ceralacca (o merda?) viene marchiata dal sigillo del pallone-timbro. Ma cosa sta a dire questa extra-produzione di cioccolata? C’entra qualcosa la vicenda biografica – esaltata dalle narrazioni encomiastiche – che racconta di un giovane Mussolini emigrato in Svizzera, impiegato come zelante operaio nella fabbrica di cioccolato dei fratelli Bertoglio? O forse esiste una qualche correlazione con il fatto che il Duce, visitata l’Azienda della Perugina nel 1923, avesse affermato con quel suo tipico modo sloganistico: “Vi dico e vi autorizzo a ripeterlo che il vostro cioccolato è veramente squisito”, divenendone un celebre testimonial? (Il pubblicitario Federico Seneca aveva immortalato la frase su un celebre manifesto per la promozione dei Baci Perugina).
Dietro la convocazione della cioccolata non sembra celarsi alcuna aneddotica. La cremosa sostanza marrone si accampa in questa ‘scena ufficiale’ in quanto oggetto che allude al basso materialismo del corpo (con il rimando alla sua relativa dispersione-evacuazione). Ma è al contempo anche oggetto del discorso: l’assertiva pronuncia pretesca motteggia senza dubbio il piglio risolutore della retorica fascista convergendo su un futile elemento di consumo. Il prete fa uso nella sua perorazione (con uno scaltro anacronismo) a una vistosa ‘conseguenza’ dei Patti Lateranensi: è il caso della riprogettazione urbanistica di Via della Conciliazione, che a partire dal 1936 aveva visto la demolizione dell’isolato Spina di Borgo con la cancellazione del suggestivo gioco prospettico ideato dal Bernini. La presenza della cioccolata declassa a contre-partie scatologica la Storia, mettendo a lavoro uno sguardo seriamente derisorio (Bachtin [1975] 1997, 418). La cioccolata, sosia della merda, appare qui come “una rivolta sporca, una libagione, un’esecrazione, una macchia dolce e merdosa su tutta la storia” (Kelleher 2004, 14); alimenta una contraffazione rappresentativa che non cede al grottesco, si nutre, semmai, della caustica pertinenza del parodico, il cui originale bersaglio si scopre propriamente nella realtà (storica). L’ingiunzione del potere ecclesiastico a produrre, in grandi quantità, l’alimento derivato dai semi dell’albero del cacao, rifunzionalizza la natura dell’accordo attraverso un’incongruità che investe in pieno la presenza dell’eroe tragico che immortale sopravvive a se stesso – in questa Tragedia Endogonidia – a patto di venire “scoronato” (Bachtin [1963] 1968, 162-163), letteralmente smerdato.
Arlecchino, servitor di due poteri
Mentre Mussolini, nuovamente sdraiato sul fondo si dissolve nel bianco, una donna nuda, corpulenta, con il volto celato da una sciarpa, inizia a vagare nello spazio, spingendo un carrello da spesa. Indossa una sola scarpa con il tacco alto che la induce a zoppicare. È soggetta agli ordini gridati da una voce acusmatica, disincarnata (forse quella di Mussolini?): “Guardami! Non mi guardare! Ascoltami! Siediti! Non mi ascoltare!”. Uscita di scena, un prete vaporizza dell’acqua attraverso un sottile tubo per l’irrigazione sulla parete di vetro, attribuendole ancor più efficacemente un valore separativo: a essere opacizzato è lo sguardo dello spettatore che d’improvviso si scopre affetto da una forma di miopia, una condizione ottica assillata dall’urgenza di un correttivo. È in questo intra-vedere che fa il suo ingresso una figura rossa dai lunghi capelli neri, con cilindro, bastone e alti tacchi a spillo, che ha attraversato altri Episodi con il suo carico di violenza diabolica. Sorprende il Duce alle spalle, lo sveste dell’accappatoio per rivelarlo in un elegante doppio petto bianco, come quello indossato in occasione dell’arrivo a Roma del Direttorio del Fascio di Milano proprio all’altezza del 1929 (Luzzatto 2001, 38), o in certi ritratti fotografici di gusto pittorico di Ghitta Carell. L’entità in rosso spintona il Duce-fantoccio in avanti, lo schiaccia contro la vetrata, lo azzanna al collo nell’intento di vampirizzarlo. Poi sputa un fiotto di sangue sulla parete trasparente. Sfilato il rosso soprabito, si rivela in un completo arlecchinesco con losanghe colorate, come fosse preso in prestito da un archivio della Commedia dell’Arte. Sino a questo punto – ci fa notare Joe Kelleher – “abbiamo seguito una lezione di storia moderna italiana, abbiamo visto il contratto tra i fascisti e la Chiesa sigillato con il cioccolato ed è forse appropriato che qui ci sia l’Arlecchino enigmatico, un principio teatrale archetipico, il primo poeta di acrobati e rumori improbabili. È una figura peculiare di sottigliezza insincera, che arriva a prendere il comando di questa alleanza decisamente non santa” (Kelleher 2007, 145). Mussolini viene perquisito da preti come un farabutto: frugato dalla storia del teatro, pronta a dimostrare l’incongruità del suo ‘personaggio’.
In suo possesso si scopre, non a caso, una maschera, quella di uno scimpanzé: è l’animale che ritorna in scena come effetto di uno smembramento carnevalesco. Impugnando questa testa senza il corpo, come Giuditta quella di Oloferne, Arlecchino afferma in modo perentorio: “Mussolini cos’è questo? Chi te lo ha dato? Dove l’hai preso? Cosa ci rappresenta questo? È l’ultima volta che te lo ripeto. Basta con questi indovinelli del cazzo…”. Le contraddittorie ingiunzioni della scena precedente – pure intimazioni senza contenuto – si rivelano appartenere a questa potenza nociva, manifestata mellifluamente in una voce autoritaria. È a questo punto che il vampiro, indossata la testa da scimmia, molleggiando sulle gambe, inizia a far volteggiare un osso di femore. La dichiarata citazione kubrickiana 2001: Odissea nello spazio si compie nella trasposizione solennizzante che vede la tecnica filmica dello slow-motion convertita nella simulazione teatrale del rallenty. L’osso, divenuto strumento di offesa e dominio all’inizio dei tempi, è consegnato a Mussolini che si scopre instupidito testimonial di una genealogia della violenza.
Il nugolo di preti smantella il grande volume bianco in un batter di ciglia. La parete di vetro va in scomparsa: l’immagine si libera dal vuoto pneumatico in cui era stata tenuta. Si accampa un ambiente astratto, caratterizzato da verticali campiture di colore che occupano ora l’intera scena, come se i colori delle losanghe arlecchinesche avessero popolato interamente lo spazio. In girotondo danzano i novizi – che hanno assorbito Mussolini nella loro cerchia – come alle prese con un rituale pagano. Una vera campana in bronzo entra in scena forse per suggellare la cerimonia, ma è impossibilitata a suonare: è sprovvista di batacchio. Emette solo riverberi in essenza del colpo dal quale propagherebbero le sue onde. È infine piazzato un microfono al centro della scena lasciata vuota. Un rumore progressivo di travi spezzate proveniente da quel medesimo punto annuncia, sinistramente, la rottura della superficie del palco – sfondato per l’azione di una pressa oleodinamica nascosta. Le travi vengono divelte: da sotto si fa largo Arlecchino. Sbuca fuori armato di fucile, stavolta con losanghe bianche e nere. Punta il dito verso il soffitto del Teatro Valle. Un fascio di luce accompagna il suo gesto: un’identica figura d’Arlecchino in bianco e nero si scopre dipinta nel soffitto circolare. Come se fosse stato prodotto dall’edificio, già-da-sempre nel ‘teatrino’ di Roma, Arlecchino si rivela come “l’ibridatore, una potenza tifonica e pervasiva” – afferma Romeo Castellucci in una conversazione del gennaio 2019 –, una potenza capace di sfondare i piani, di avvolgere tutto lo spazio, manifestarsi dal basso, tornare sotto mentite spoglie – quelle congeniali alla sua maschera comica –, controfigura di un potere che si perpetua cambiando pelle nelle transizioni politiche. Serve i due padroni che governano Roma, facendo spola tra una volontà di potenza e l’altra. Arlecchino, perfetta incarnazione del deus ex machina calato dall’alto, non ammette nessuna agnizione. La sua figura di solutore e orchestratore dell’enigma sembra convocata per inceppare la macchina tragica, in uno spettacolo fondato sull’impossibilità di aderire al dato di realtà che mette in disfunzione la memoria (storica).
Aprassia e mutismo dell’eroe
L’avvento di Mussolini è predisposto da Castellucci attraverso una intenzionata mistificazione del corpo del Capo. È l’attivazione di una sovversione rappresentativa che si nutre del dato storiografico ormai acquisito, secondo cui non si dà piena coscienza storica della figura del Duce senza annodare dato di realtà e potenza esercitata dal tessuto immaginale generatosi intorno alla sua figura, nel passaggio che lo vede affermarsi come guida del partito-milizia, capo del governo e infine dittatore (v. Malvano 1988; Passerini 1991; Luzzatto 1998; Chessa 2008). Se nel fascismo l’estetizzazione della politica lavorava alla costruzione di immagini capaci di evocare immediati rimandi metonimici ai valori del regime, quei valori – forza, efficienza, prestanza fisica, velocità – erano letteralmente incarnati dal capo carismatico. Nel perseguire in modo complementare azione politica e comunicativa, il corpo del Capo rappresentava il nerbo spinale di una studiata campagna di consenso capace di penetrare in modo pervasivo l’immaginario intimo degli italiani, occupando “la scena pubblica come un’incarnazione benefica del potere” (Luzzatto 1998, 15). L’eccezionale trasfigurazione a cui fu sottoposta la sua immagine – in quell’insieme non disbrogliato di vigore, erotismo e carnalità capace di sedurre il mondo rurale e persuadere con altrettanta efficacia la piccola borghesia – era determinata da un premeditato combinarsi di ordinario e straordinario fino a contemplare doti taumaturgiche (Fogu 1997, 24-51): il corpo del Capo si imponeva come icona onnipresente, ubiquitaria, feticcio erotico, estensione biologica di una mente performante. È la “narrazione corporale, carnale e trasformistica” (Porro 2018) che lo vide alle prese con prodezze sportive e militari, impegnato nel lavoro manuale, in divisa, a torso nudo, ora in veste di oratore, ora di trebbiatore celebrato come Dio del raccolto, ora aviatore o in divisa da minatore (Luzzatto 1998, 146). Si trattava di una “operazione di ingegneria simbolica” tesa a produrre un “corpo totale”, un “corpo-ovunque” (Porro 2018) grazie alla straordinaria diffusione di fotografie, fotomontaggi, cartellonistica, statuaria monumentale (Gentile 2007). La dimensione scultorea procede in direzione di una progressiva solennizzazione attraverso un processo di “pietrificazione” che muove dall’epicità delle pose equestri (richiamanti l’eredità romana) ai severi busti wildtiani. Mettendo a lavoro la figura retorica della ripetizione, corpo, voce e gestualità – sussunti a “onnipresente metafora ideologica” (Porro 2018) – finirono per coincidere con l’essenza stessa della sua autorità, che s’impose nella rappresentazione dell’uomo-guida, “tutelatore” della stirpe italica, con cui “il popolo si identificava fisicamente” (Luzzatto 1998, 15-16).
È esattamente questa corporalizzazione del carisma del capo, che esaudisce al massimo grado l’efficienza etologica del leader, a essere presa di mira e disinnescata nello spettacolo. Bersaglio è quell’icona corporale che nell’immaginario collettivo continua a identificarsi tout court con il fascismo: la postura fiera, la mascella serrata, il labbro sporgente, le pose con le mani appoggiate sui fianchi e il busto inarcato all’indietro, appaiono – benché in carne essa – come trucco prostètico. La fronte ampia, la mandibola prominente e volitiva, il cranio rasato e lucido si accampano nell’immagine scenica come residui isteriliti di una figura privata di forza vitale (virile). La fierezza ottusa dalla rigidità di arti e collo, dall’impaccio motorio che lo ritraggono “come un campione di pugilato in pensione” (Ridout 2004, 6) restituiscono un’immagine corporale depotenziata, le cui anomalie comportamentali si approssimano a una condizione semi-vegetativa. La maschera scenica del Duce pare affetta da un rigore mortuario, una fissità a un passo dal cadavere, che, nel quadro della Tragedia Endogonidia, inscrive la sua figura – in un chiaro rapporto di parentela con Cristo, De Gaulle, Giuliani –, tra i “fantasmi che continuano a girare intorno, riciclati attraverso la macchina del teatro in un infinito processo di sostituzione” (Ridout 2004, 6). Esemplare è il caso del volto prepotentemente schiacciato sulla parete di vetro della scena-acquario: è defigurato in un’immagine che esaudisce lo sparagmos sacrificale del corpo sfigurato dai calci della folla, dal lancio di ortaggi e urina, compiutosi nello “spettacolo riparatore” (Oliva 2000, 43) di Piazzale Loreto.
Castellucci maneggia ad arte la ricchezza semantica del corpo del Duce e la propone ridotta a fantoccio della storia, oggetto d’uso (ideologico). Si tratta di rendere disfunzionale il corpo e con esso l’istrionismo esibito nell’oratoria. Laddove s’attenderebbe un pieno fiume retorico, la scena consegna una rappresentazione mutacica del Duce. Il piglio sloganistico, i noti motti a schema binario o ternario, il carattere persuasivo delle intonazioni, l’accumulo aggettivale, i frequenti latinismi pronti a esaltare il mito fascista della romanità, tutto quell’insieme di strategie linguistiche dal forte valore performativo esibite nel comportamento pubblico del Duce (v. Mengaldo 1994, 51-54), vengono ugualmente sconfessati. La voce di Mussolini assunse (anche grazie alla radio) nel fascismo una funzione cruciale quale evento (orale) memorabile, capace di creare un legame fiduciario tra l’oratore e una massa soggiogata. Il discorso politico inteso come “dialogo con la folla”, nell’oratoria comiziale del Duce, contava su un impianto retorico-argomentativo dal carattere empatico e impressivo in cui la voce, con i suoi effetti fonico-ritmici, assumeva un ruolo determinante. Strategie votate alla costruzione del proprio mito, mito di cui era a un tempo regista e primo attore, consapevole artefice e virtuosistico interprete (Luzzatto 1998, 19).
Analizzando la “politica della voce” nel saggio A Voice and Nothing More, il filosofo sloveno Mladen Dolar sottolinea, quale tratto caratteristico dei fenomeni totalitari, il proprio articolarsi attorno a una voce “autoritaria”, quella “che in una specie di qui pro quo tende a rimpiazzare l’autorità della lettera, o a metterne in questione la validità” (Dolar 2014, 135), dandosi come fonte stessa dell’autorità. Il Duce dell’Episodio tragico non è più capace di dare sfogo alla roboante tensione declamatoria, né a tutta quella peculiare mimica facciale ostentata nello strabuzzare degli occhi, nelle smorfie della mascella virilmente esibita nella presa di parola: i pronunciamenti non possono essere più sussunti a parole d’ordine.
Ma per comprendere a pieno la disfonia mussoliniana, occorre guardare a un precedente spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio, che ha per protagonista, ancora una volta, la storia di Roma. È il caso in cui l’uso della parola organizzata sui precetti di Cicerone e Quintiliano si palesa come la spina dorsale del discorso registico: è la messa in scena di Giulio Cesare (1997) (v. Castellucci, Castellucci, Guidi 2001, 163-223), da William Shakespeare e gli storici latini. Castellucci annoda presa di parola teatrale e actio, stabilendo una parentela tra arte retorica e arte teatrale. Procedendo nella lettura fonda del testo shakespeariano, ne setaccia le componenti psicagogiche fino a percorre una via nella quale mettere a confronto – suggerendone un’equipollenza – la figura dell’oratore e quella dell’attore, entrambi artefici del dire, orchestratori del consenso, sofisti della persuasione (Castellucci 1997; anche Castellucci 2001a, 218 e Castellucci 2001c, 219-222). A quell’altezza cronologica Castellucci esprime un pensiero illuminante per cogliere a pieno il suo interesse per l’“ideologia della forma” del regime retorico:
Il potere appare tale solo là dove si riveste della forza della parola. Di parola retorica. Il fascino della retorica: l’elefantiaco lievito della parola vuota. La persuasione che, non curante dell’oggetto, ha di mira unicamente il proprio effetto d’arte. Il potere è sempre retorico nella sua rincorsa dell’arte. Arte come controllo, là dove la forma dell’anfiteatro greco è sovrapposta a quella, del tutto uguale, del senato. La retorica termina dove inizia il teatro? Il teatro inizia dove inizia la retorica, forse. Il fatto è che non solo il teatro prosegue sul piano formale il discorso della retorica (o viceversa), ma la retorica è sostanzialmente un modo concreto e completo di considerare e manipolare la materia teatrale. (Castellucci 2001b, 205)
Tutto uno studio scenico sui modi di porgere la parola, di agire e possedere il discorso (teatrale), nello spettacolo della congiura ai danni di Cesare, finisce per partorire personaggi-oratori, il cui dire è esaudito nello scarico tra logos e soma, lì dove la voce può agire il suo marchio sui corpi come effetto di un trauma (Di Matteo 2015, 210-213): Marco Antonio è un larengictomizzato, la sua orazione funebre è trasformata in un puro vibrare di commozione per via dell’emissione esofagea; “...vskij” (con chiara allusione ‘oltraggiosa’ a Konstantin Stanislavskij, maestro d’attori) mostra, su uno schermo circolare, il viaggio a ritroso della voce fino alla soglia oscena delle corde vocali grazie all’uso di una sonda endoscopica; Cicerone (maestro di retorica) con i sui 180 kg, esprime, con voce acuta gravata dal peso (correlativo oggettivo di quello avuto nella cospirazione), alcuni precetti contenuti nel suo De Oratore; Bruto proferisce la sua orazione sulla necessità del tirannicidio inalando elio in un dire che rivela la scabrosità di una voce puerile, da fumetto (Donald Duck), rilevanza acustica che dà corpo sonoro al conflitto tra amore filiale e fede politica. Vale la pena ricordare il memorabile II Atto di Giulio Cesare nel quale il crollo del dominio retorico, si mostrava nella carcassa di un teatro incenerito, abitato da figure fantasmatiche che recavano il contrassegno della morte iscritto nel corpo: Bruto e Cassio trasfigurati in due ragazze anoressiche, che dismesso l’abito retorico, mostravano una parola manducata, diventata bolo indigesto. In quel quadro scenico le cui presenze agiscono posture in prestito alla statuaria romana, fa significativamente ingresso il busto capovolto di Giulio Cesare, penzolante nel mezzo dello spazio scenico. Si tratta forse di alludere al mito di una Roma per sempre fascistizzata? O forse l’accostamento sincronico del corpo trafitto di Cesare e della carcassa sospesa di Mussolini coincide con l’ostensione del corpo del capo dileggiato (alle Idi di Marzo come nella pensilina Standard Oil di Piazzale Loreto)?
Questa disgressione testimonia come l’aprassia e il mutismo mussoliniano siano due facce intenzionali di una medesima espropriazione che investe il complesso iconico e retorico artatamente costruito da Mussolini e dai corifei del regime, e agisce per sviare l’immagine istrionica che ne farebbe un perfetto ‘personaggio’ per un cattivo teatro. I tratti del suo corpo-ovunque si trovano vampirizzati dalla pervasività malefica della figura arlecchinesca che ingurgita e restituisce, smantato di ogni glassa persuasiva, anche il carattere intimamente ‘autoritario’ delle sue pronunce. È dunque la pelle dell’immagine a giocare la trappola scenica ordita a partire dalla congruità somatica – la somiglianza dell’attore a Mussolini, chiamato a supportarne una forma svuotata. La figura del Duce si ‘reincarna’ e dà sfogo alla sua immortale resistenza a morire, e con essa all’impossibilità di una definitiva immolazione sacrificale. Non si dà effetto farmaceutico del sacrificio perché l’unico linciaggio possibile, in questa scena senza commento, può essere compiuto unicamente dallo spettatore: l’aprassia e il mutismo – non più espressione della “glaciale solitudine del sé” (Rosenzweig 2005, 78) dell’eroe – inceppano il tempo della storia in un presente continuo in cui la figura sopravvive in un surplus fantasmatico. Mussolini prelevato dal novero delle figure storiche, sottratto al proprio “essere personaggio”, è sottoposto a una forma di iconoclastia, quella della Loi de l’Histoire (Pitozzi, Sacchi 2008, 92) che trasforma la super-icona in simulacro, la dispone in una “zona grigia” che pertiene allo spettatore, latore di un giudizio singolare che non ammette nessuna vera catarsi.
* Il saggio nasce dalla sollecitazione del prof. Luca Acquarelli (Université Lille/EHESS), ideatore e curatore, insieme a Francesco Zucconi e Laura Iamurri, del progetto di ricerca, Le regard des arts contemporains sur le fascisme italien. Réinterprétation, remontage et déconstruction, promosso da École des Hautes Études en Sciences Sociales de Paris e Roma, Università Roma Tre, Campus Condorcet. A lui va un ringraziamento speciale.
Riferimenti bibliografici
- Agamben 2005
G. Agamben, Profanazioni, Roma 2005, 85-88. - Bachtin [1963] 1968
M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, trad. it G. Garritano, Torino 1968. - Bachtin [1975] 1997
M. Bachtin, Estetica e Romanzo, trad. it. C. Strada Janovič, Torino 1997. - Benjamin [1928] 1999
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco [Ursprung des deutschen Trauerspiels, 1928], trad. it. F. Cuniberto, Torino 1999. - Benjamin 1982
W. Benjamin, “Trauerspiel” e tragedia, in G. Agamben (a cura di), Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, Torino 1982. - Biondi, Brousse, Di Matteo 2016
L. Biondi, M.H. Brousse, P. Di Matteo, Drammaturgia e Psicanalisi: Tragedia/Commedia, “La Psicanalisi” 60 (2016), 79-66. - Bordignon, Carli 2016
G. Bordignon, O.S. Carli (a cura di), Sconfinamenti warburghiani, “La Rivista di Engramma” 139 (novembre 2016). - Brousse 2015
M.H. Brousse, Il teatro degli Oggetti. Sguardo, voce, escrementi, in P. Di Matteo (a cura di), Toccare il Reale. L’arte di Romeo Castellucci, Napoli 2015, 79. - Castellucci 1997
R. Castellucci, Ingannando l’attesa. Sul Giulio Cesare della Socìetas Raffaello Sanzio, “Linea d’ombra” 123 (1997). - Castellucci 2001a
R. Castellucci, La retorica, in C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, Epopea della Polvere. II Teatro della Socìetas Raffaello Sanzio, 1992–1999, Milano 2001. - Castellucci 2001b
R. Castellucci, Cacofonia per una messa in scena: Giulio Cesare, in C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, Epopea della Polvere. II Teatro della Socìetas Raffaello Sanzio, 1992–1999, Milano 2001, 205-212. - Castellucci 2001c
R. Castellucci, “Ceci n’est pas un acteur”, considerazioni sull’attore in Giulio Cesare, in C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, Epopea della Polvere. II Teatro della Socìetas Raffaello Sanzio, 1992–1999, Milano 2001, 219-222. - Castellucci 2004
R. Castellucci, Tragedia Endogonidia. Nel mare aperto della forma, “Prove di Drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali” 2 (2004). - Castellucci, Castellucci, Guidi 2001
C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, Epopea della Polvere. II Teatro della Socìetas Raffaello Sanzio, 1992–1999, Milano 2001. - Centanni, Sacco 2020
M. Centanni, D. Sacco (a cura di), Gertrud Bing erede di Warburg, “La Rivista di Engramma” 177 (novembre 2020). - Chessa 2008
P. Chessa, Dux. Benito Mussolini: una biografia per immagini, Milano 2008. - Collotti 1994
E. Collotti, Fascismo, Fascismi, Milano 1994, 49-51. - Di Matteo 2004
P. Di Matteo, La logica del coniglio, in C. Astrié, J. Kelleher, N. Ridout et al. (a cura di), Tragedia Endogonidia. Idioma, Clima, Crono IX, Cesena 2004, 13-14. - Di Matteo 2015
P. Di Matteo, Voice, the irreducible materiality, in D. Blanga-Gubbay, L. Kwakkenbos (ed. by), The Time We Share. Reflecting on and through Performing Arts, Bruxelles 2015, 210-213. - Dolar 2014
M. Dolar, La voce del Padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi, Nocera Inferiore 2014. - Fogu 1997
C. Fogu, Il Duce Taumaturgo: Modernist Rethorics in Fascist Representation of History, “Representations” 57 (1997). - Gentile 2007
E. Gentile, Fascismo di pietra, Roma, Bari 2007. - Kelleher 2002
J. Kelleher, An Organism on the Run, in C. Astrié, J. Kelleher, N. Ridout et al. (a cura di), Tragedia Endogonidia. Idioma, Clima, Crono I, Cesena 2002, 10-13. - Kelleher 2004
J. Kelleher, Commedia all’Italiana, in C. Astrié, J. Kelleher, N. Ridout et al. (a cura di), Tragedia Endogonidia. Idioma, Clima, Crono VI, Cesena 2004, 7-15. - Lacan 2003
J. Lacan, Il Seminario. Libro XI, Torino 2003. - Luzzatto 1998
S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storie e memoria, Torino 1998. - Luzzatto 2001
S. Luzzatto, L’immagine del duce. Mussolini nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma 2001. - Malvano 1988
L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Torino 1988. - Mengaldo 1994
P.V. Mengaldo, Storia della lingua italiana. Il Novecento, Bologna 1994. - Oliva 2000
G. Oliva, Piazzale Loreto. La resa dei conti, Firenze 2000. - Passerini 1991
L. Passerini, Mussolini Immaginario, Roma, Bari 1991. - Pitozzi, Sacchi 2008
E. Pitozzi e A. Sacchi, Itinera. Trajectoires de la forme Tragedia Endogonidia, Paris 2008. - Porro 2018
N. Porro, Il corpo dei totalitarismi. La narrazione iconica di Mussolini al potere, “Roots§Routes. Research on visual cultures” 28 (2018). - Ridout 2004
N. Ridout, In Memoriam S.B., in C. Astrié, J. Kelleher, N. Ridout et al. (a cura di), Tragedia Endogonidia. Idioma, Clima, Crono VI, Cesena 2004, 3-6. - Ridout 2007
N. Ridout, «Monkey Business», in C. Castellucci, R. Castellucci, C. Guidi, et al., The Theatre of the Socìetas Raffaello Sanzio, New York 2007, 135-137. - Rosenzweig [1921] 2005
F. Rosenzweig, La stella della redazione [Der Stern der Erlösung, 1921], trad. it. G. Bonola, Milano 2005. - Seminario Mnemosyne 2001
M. Centanni, K. Mazzucco (a cura di), Hoc est corpus. Il sacrificio e il patto. Saggio interpretativo di Mnemosyne Atlas, Tavola 79, “La Rivista di Engramma” 11 (ottobre 2001), 23-42. - Warburg, Bing 2005
A. Warburg, G. Bing, Diario romano (1928-1929), a cura di M. Ghelardi, Torino, 2005.
English abstract
This essay focuses on the relationship between tragedy and history in Romeo Castellucci’s Tragedia Endogonidia, through its treatment of the figure of Benito Mussolini (R. #07 ROMA). This Episode establishes a connection with the Eternal City by rewriting the Lateran Treaty, comparing the Church to an exoskeleton liturgically defined by gestures voided of their sense. Transplanting the celebration of the Eucharist into the world of basketball sets the Corpus Mysticum within a space intended for games. The same sort of movement arises between Panels 78 and 79 of Aby Warburg’s Bilderatlas Mnemosyne, where – with an explicit reference to the Lateran Treaty – we see the Church surrender its secular power in exchange for maintaining its symbolic power, manifested in the passage from a ritualized sacrifice to its sublimation in a formal paradigm that consists in a monstrance of the body of the athlete. The embodied figure of Mussolini reappears onstage through an intentional mystification of the “body of the Leader”. This activates a representational subversion that draws on the embodiment of the leader’s charisma – an all-pervasive ideological metaphor during Fascism – and proposes a figure that is no more than an empty icon of History, an object for (ideological) use. The image of Mussolini onstage makes both this masculine, athletic body, and along with it the exaggerated (vocal) theatricality exhibited in his oratory, dysfunctional.
keywords | Tragedy and History; Lateran Treaty; Body of the Chief; Bilderatlas Mnemosyne; panel 78; panel 79.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: P. Di Matteo, I Patti Lateranensi: sconfessare il Corpus Mysticum e il corpo del Capo. Un affondo sull'Episodio romano della Tragedia Endogonidia, “La Rivista di Engramma” n. 180, marzo/aprile 2021, pp. 13-35 | PDF