L’edizione Adelphi de Il rituale del serpente.
Un capitolo di storia culturale europea. Intervista a Flavio Cuniberto
a cura di Silvia De Laude
English abstract
Nel 1998, per i tipi di Adelphi, viene pubblicato Il rituale del serpente di Aby Warburg. L’uscita del volume interrompe la ristampa del numero “aut aut” 199-200 del 1984, contenente la prima traduzione italiana del testo della conferenza di Kreuzlingen, a opera di Gianni Carchia. Il nuovo testo è la traduzione italiana dell’edizione tedesca del 1988 (a cura di Ulrich Raulff – del quale è conservata la Postfazione). La frase finale della conferenza diverge nelle due edizioni in modo sostanziale. Mentre la versione riportata in “aut aut” nel 1984 recita: “Il pensiero mitopoietico e quello simbolico, nella loro lotta per spiritualizzare la relazione dell’uomo con l’ambiente, hanno creato lo spazio come zona di contemplazione e di ragionamento, quello spazio che la connessione istantanea dell’elettricità distrugge, a meno che un’umanità disciplinata ristabilisca le inibizioni della coscienza”, la nuova traduzione del 1998 sembra basarsi su un testo diverso. La chiusa dell’edizione Adelphi riporta, rispetto alla traduzione di quattordici anni precedente, una cesura laconica e significativa: “Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera o per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide”. Cosa è successo? Silvia De Laude interroga a tal proposito Flavio Cuniberto, a cui Adelphi affida, insieme a Gianni Carchia, la traduzione de Il Rituale del serpente.
Silvia De Laude | Come sappiamo, l’edizione Adelphi della conferenza sul Rituale del serpente di Aby Warburg esce nel 1998. Dato che esiste una traduzione di quattordici anni precedente, pubblicata nel numero 199-200 di “aut aut” (1984), può spiegare il motivo per cui non è stata utilizzata la traduzione di Gianni Carchia, ma a lei è stata affidata una nuova traduzione dalla casa editrice Adelphi? E se la traduzione Adelphi del testo è stata affidata a lei interamente, qual è stato il testo a lei affidato per la traduzione?
Flavio Cuniberto | Fino a un certo punto le cose stanno in modo abbastanza semplice. Nel pubblicare Il rituale del serpente, Adelphi adottò – come quasi tutte le traduzioni nelle varie lingue – l’edizione Wagenbach, dove la frase finale (“a meno che un’umanità disciplinata ristabilisca le inibizioni della coscienza”) non si trova (era un’aggiunta a mano di Warburg, e venne omessa). Per quali ragioni Adelphi abbia deciso di non riproporre tale e quale la traduzione Carchia del 1984, francamente non lo so, così come non ricordo – la memoria di quella vicenda non è affatto nitida – chi fu ad affidarmi la traduzione: poiché non fu Roberto Calasso in persona, che ancora non conoscevo, fu probabilmente Roberto Cazzola, che era l’editor per la germanistica, passato da poco da Einaudi ad Adelphi.
SDL | La traduzione, come è noto, uscirà a due nomi, il suo e quello di Gianni Carchia: è stata una sua scelta, ispirata dalla sua vicinanza teorica a Carchia, nonostante la traduzione fosse stata affidata dalla casa editrice esclusivamente a lei?
FC | Non saprei dire se c’erano, in casa editrice, riserve sulla traduzione di Gianni, ma è chiaro che Adelphi voleva una ‘sua’ traduzione. Il fatto che sia uscita con i nomi di entrambi non fu semplicemente una mia scelta, credo proprio che in Adelphi si riconoscesse il valore non solo della traduzione Carchia, ma il valore di Gianni come studioso. A nessuno venne in mente di omettere il suo nome.
SDL | Ci può raccontare quale tipo di interlocuzione vi è stata, e se sono emersi punti critici tra lei e Gianni Carchia, soprattutto alla luce della parte finale del testo, nella traduzione Carchia e nella traduzione Cuniberto?
FC | La cosa strana è proprio questa: che non ci fu, da parte mia, un confronto diretto con Gianni, né sulla traduzione in generale, né sulla fatidica frase finale. In questi casi è naturale apportare qualche modifica, ma il vero ‘giallo’ riguarda soprattutto la frase finale, sulla quale avrei dovuto sentire il parere di Gianni. Perché non fu così? Alla ricerca di una risposta dovrei parlare dei nostri rapporti, in quegli anni e non solo, e il mio contributo alla soluzione del ‘giallo’ rischia di degenerare in una recherche du temps perdu. Senza dilungarmi, non posso fare a meno di ricordare che i nostri rapporti erano amicali, sì, ma come possono esserlo i rapporti tra un allievo e un maestro, benché non molto più anziano. E un maestro che era diventato tale attraverso la lettura e lo studio assai più della frequentazione personale.
Gianni era l’unica vera ‘stella’ tra i miei ex-professori del corso di laurea in filosofia (insieme a Emanuele Samek Lodovici, che la pietas della memoria mi impone di ricordare insieme a lui). Lo era nel senso che leggevo avidamente tutti i suoi scritti – saggi, libri, articoli – e ricordo benissimo – qui la memoria non mi fa difetto – che c’era sempre prima o poi il momento dell’agnizione. Si trattasse di Kant o dell’angelologia iranica, o dei suoi scritti antropologici, o dell’estetica del romanzo greco. Facendomi strada nel percorso teorico non facile dei suoi scritti, prima o poi scattava, infallibile, un movimento di perfetta adesione intellettuale. Non c’era scritto di Gianni in cui non trovassi, prima o poi, quello che cercavo (e perlopiù lo cercavo senza saperlo). Nascevano, da questa esperienza, la certezza di un’affinità e una incondizionata ammirazione, che forse per la differenza di età e di ruolo non si tradussero mai in una frequentazione personale più assidua. Ci sentivamo per telefono, ma Gianni era anche un maestro di laconicità. In occasione dei suoi passaggi torinesi mi chiamava (ricordo una sua conferenza terminata poi con una cena tra vecchi amici a casa di Franca d’Agostini e Giorgio Ficara). Malgrado gli attestati di stima da parte sua, Gianni restava per me un maestro in fondo quasi irraggiungibile, e se è vero che devo alla sua stima sostanziale un contributo decisivo alla mia carriera accademica, anche questo contributo (suo, alla mia ‘carriera’) fu all’insegna del non-detto, di una laconicità pressoché assoluta.
Se non ci fu in quell’occasione uno scambio di vedute, di pareri, come sarebbe stato lecito aspettarsi, le ragioni vanno cercate in questo rapporto di amicizia-ammirazione distante. L’omissione della frase finale gli apparve, giustamente, come un ‘delitto filologico’, ma non me ne fece parola, sapendo che a dettare legge, per così dire, era a quel punto l’edizione Wagenbach.
Merita forse un breve approfondimento la figura di Ulrich Raulff, curatore dell’edizione tedesca (1988). Risale a una decina di anni fa il suo ponderoso e informatissimo volume sulla Konservative Revolution, l’ambiente ‘generato’ dal circolo di Stefan George, e fucina di personalità di primo piano, come Max Kommerell ed Ernst Kantorowicz (Kreis ohne Meister, München 2009). Il libro di Raulff ha lo scopo evidente di riconciliare la cultura tedesca contemporanea con un episodio fondamentale del Novecento tedesco mai digerito dagli intellettuali progressisti: non solo per la sua impronta konservative ma per il suo presunto ruolo di apripista al dodicennio nero. Ma annoverare ad esempio Ernst Kantorowicz tra i precursori del nazismo sarebbe un’assurdità: di qui il tentativo di recuperare la Konservative Revolution nel canone tedesco del Novecento, da una distanza però venata di ironia, per evitare che il recupero possa essere frainteso come una consacrazione. Lo chiamerei un ‘recupero esorcistico’ o un ‘recupero-bonifica’.
Accenno a questa vicenda recente di ‘recupero’, perché anche Warburg – sebbene estraneo alla ‘rivoluzione conservatrice’ in senso stretto – non è lontano da quella costellazione di pensiero. L’occhio dello storico amburghese è sintonizzato sulle onde lunghe della storia culturale, sulla persistenza di forme-forze dotate di una propria in fondo misteriosa capacità di iniziativa (che è il contributo critico fondamentale di Gianni Carchia proprio nel citato fascicolo di “aut aut” (G. Carchia, Aby Warburg, simbolo e tragedia, “aut aut” 199-200 (1984), 92-108). Tutto questo va in direzione del pensiero magico, non certo dell’emancipazione illuministica, e lo avvicina in qualche modo naturalmente al filone ‘vitalistico’ degli allievi di George, fino a quel Klages che sulla autonomia ontologica delle immagini costruirà una metafisica poderosa, al punto da ammaliare lo stesso Benjamin.
Se nel caso di Warburg non è stato operato un ‘recupero esorcistico’ o un ‘recupero-bonifica’, si deve in sostanza all’origine ebraica di Warburg, che imponendo fra l’altro il trasloco dell’Istituto da Amburgo a Londra lo sottrasse alle persecuzioni nel segno di una ‘verginità ideologica’ a cui gli altri Konservativen non potevano aspirare (anche Kantorowicz era ebreo: ma a differenza di Warburg, intellettuale a-politico, era così convintamente tedesco e così affezionato alla storia millenaria del Reich Germanico – la grande biografia di Federico II di Svevia – da suscitare forti sospetti nella cultura progressista fino a tempi molto recenti).
SDL | C’è stata una qualche reazione, che lei ricordi, in particolare qualche recensione, che sottolineasse la differenza tra le due traduzioni, specie a proposito della frase finale?
FC | No, su questo punto posso dire che – a parte la reazione giustamente infastidita di Gianni – non ci furono polemiche, almeno a me note.
SDL | Infine, una domanda specifica sulla traduzione di Kultur (tedesco). In Carchia 1984 è sempre tradotto con “cultura”, mentre nella sua è sempre tradotto con “civiltà”. Potrebbe indicarci per sommi capi le motivazioni che hanno guidato la sua scelta?
FC | Già, il caso di Kultur. La decisione di tradurre con “civiltà” dipende, essenzialmente dalla famosa coppia Kultur/Zivilisation, dove i due termini suggeriscono, in quegli anni, un processo degenerativo, e Zivilisation non può essere reso con “civiltà” (il Zivilisationsliterat di Thomas Mann, nell’Impolitico, ha una connotazione fortemente negativa: e allora, come Zivilisation non è semplicemente “civiltà”, anche Kultur non è semplicemente “cultura”). Ma pesa anche il precedente di Jacob Burckhardt, la cui Kultur der Renaissance in Italien viene tradotta La civiltà del Rinascimento in Italia: traduzione che mi sembra tuttora preferibile a “cultura del Rinascimento”. Si tratta di uno di quei casi in cui l’origine latina del termine tedesco genera grovigli semantici.
Vorrei però concludere tornando alla mia amicizia con Gianni Carchia: tanto sostanziale quanto schiva e avara nelle manifestazioni esterne. Forse un caso di Sternenfreundschaft, di “amicizia stellare”, al tempo stesso distante e segnata dal Destino. La citazione di Burckhardt mi invita però, se non esco troppo dai binari dell’intervista, a entrare nel vivo del ‘giallo’, cioè della frase finale misteriosamente omessa (sarebbe interessante sentire gli editori tedeschi, per conoscere le ragioni del ‘delitto filologico’). Dicevo che l’occhio di Warburg, sintonizzato sulla persistenza delle forme-forze dotate di una propria capacità di iniziativa, va nella direzione del pensiero magico. Non è certo un’affermazione originale, ma credo che sia necessario riprenderla proprio in rapporto alla frase finale della conferenza di Kreuzlingen.
Com’è noto, la pagina conclusiva è un attacco frontale alla tecnica moderna (dall’aviazione al telefono-telegrafo all’elettricità), accusata di annullare quella distanza che, a parere di Warburg, renderebbe possibile il pensiero simbolico e mitopoetico. E qui si profila un vero enigma, non filologico ma filosofico. Sarebbe infatti assai più plausibile sostenere il contrario, che cioè è proprio il pensiero simbolico e mitopoietico a togliere la distanza, stabilendo un rapporto ‘ubiquitario’ tra enti o soggetti lontani (come nella tradizione dell’ermetismo rinascimentale), mentre il pensiero razionale-tecnico innanzitutto la pone – nel senso dello spazio cartesiano isomorfo, ripreso e ri-teorizzato da Ernst Cassirer nel volume sul Pensiero mitico (1925, siamo negli anni di Kreuzlingen), per poi toglierla con mezzi tecnici nello spazio metrico. Insomma è il pensiero tecnico-razionale a presupporre la distanza, mentre il pensiero pre-razionale la nega. Succede invece che Warburg inverta le due operazioni come se invertisse le due polarità di una pila (il + e il -), individuando nella messa a distanza la prerogativa del pensiero simbolico, mentre sarebbe proprio della ragione tecnica il collassare della distanza. Ciò è vero in apparenza (la tecnica moderna sembra in effetti annullare la distanza), ma solo in apparenza. Una celebre pagina warburghiana come il doppio ritratto di Burckhardt e Nietzsche (incluso anche nel pionieristico fascicolo di “aut aut”) suggerisce che anche per Warburg è vero il contrario: che la razionalità, e la salute mentale, la sobrietà, l’equilibrio, presuppongono la distanza (Burckhardt mantiene una cauta distanza dal proprio oggetto e non ne viene travolto), mentre il collasso della distanza genera il risucchio da parte dell’oggetto (ed è il caso di Nietzsche, come un Empedocle risucchiato dal vulcano nella nota lirica di Hölderlin).
Che cosa succede, a Warburg, in questa pagina finale della conferenza di Kreuzlingen? Perché Warburg inverte i due ‘operatori concettuali’ (distanza e non-distanza)? Non è facile rispondere, resta una zona grigia. La mia impressione – e si tratta di una semplice ipotesi interpretativa – è che nell’attribuire il ‘collasso della distanza’ alla ragione tecnica – che è qui sotto accusa – Warburg tenti una sorta di esorcismo: perché il ‘collasso della distanza’ (proprio in realtà del pensiero magico) rischia di assomigliare anche troppo al ‘suo’ collasso personale, e allora lo allontana, con un gesto apotropaico, attribuendolo al ‘nemico’. E proprio per rafforzare questo gesto apotropaico, per meglio allontanare il ‘collasso’, aggiunge a mano, in extremis, un elogio delle ‘disciplina’ che “ristabilisce” i “freni della coscienza” (Hemmung). La chiave è, credo, il termine Hemmung. Non tanto perché sia un termine-chiave della psicoanalisi freudiana, quanto proprio per il suo significato comune, ordinario: lo hemmen, il frenare-impedire, è il gesto che Warburg invoca alla fine per esorcizzare lo sfrenamento (l’‘indisciplina’ razionale) di cui si sa vittima. Intuisce che un elogio finale della Hemmung e della coscienza ‘lucida’, sarà più funzionale al suo discorso, che è in fondo un ‘esame di maturità’. L’ultima frase aggiunta a mano è una concessione acrobatica, e comprensibilmente retorico-funzionale, all’ordinata ragione borghese che deve ‘assolverlo’ dalla clinica svizzera.
Devo però confessare che tutto questo – ripeto, un’ipotesi di lavoro – lo penso ora, sollecitato dal vostro pregevole lavoro su “Engramma”. Questa complessa problematizzazione della conferenza e del suo finale non sarebbe stata possibile, sul finire degli anni Novanta. Il mio approccio era allora decisamente più ingenuo: Adelphi mi mise in mano l’edizione Wagenbach, che sembrava decisamente autorevole, come anche il saggio di Raulff, e a quella mi sono attenuto. Come minimo, sarebbe stata opportuna una nota, con un riferimento alla traduzione del 1984.
English abstract
In 1998, Aby Warburg’s Il rituale del serpente (The Serpent Ritual) is published by Adelphi. The release of the volume interrupts the reprinting of the 1984 issue 199-200 of “aut aut”, which contained the first Italian translation of the Kreuzlingen lecture, edited by Gianni Carchia. The new Italian translation is based on the 1988 German edition (edited by Ulrich Raulff - whose Postfazione has been republished in the Italian edition), but the ending of the Warburgian text differs substantially from the one published in 1984. Adelphi commissioned the translation to Gianni Carchia, author of the “aut aut” translation, and Flavio Cuniberto who offers a first-hand account of the story in the interview here proposed.
keywords | Aby Warburg; The Snake Ritual; Gianni Carchia and Flavio Cuniberto Translation; Ulrich Raulff; Adelphi Publisher.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. De Laude (a cura di), L’edizione Adelphi de Il rituale del serpente. Un capitolo di storia culturale europea. Intervista a Flavio Cuniberto, “La Rivista di Engramma” n. 201, aprile 2023, pp. 13-18 | PDF of the article