Tutto ciò che riguarda la croce di Cristo, dalla sua morfologia (Olmi 2015) alle caratteristiche emblematiche dell’ipotetica iscrizione in relazione alla causa poenae, ha suscitato grande interesse fin dai tempi del primo imperatore cristiano (Heseman 2000, 239). Rufino (Hist. X, 7) e Socrate Scolastico (Hist. Ecc. I, 17) informano di un episodio in cui Elena, la madre di Costantino, scorge tre croci sul Golgota durante un pellegrinaggio a Gerusalemme nel 326 d.C. (Milani 1977, 150-151; Lucco, Pontani 1997, 114; Heseman 2000, 243; Pontani 2003, 146). Poco più di un millennio dopo, nel 1492, il rinvenimento a Roma di un particolare manufatto considerato un frammento della croce originaria in cui Cristo fu inchiodato (Pontani 2003, 143-144) sembrava aver dato forma visiva al titulus crucis [Fig. 1].
Nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme era stata recuperata, nel corso di lavori di ristrutturazione (Ortolani 2000, 86-90), una reliquia lignea nella quale si poteva intuire la presenza di tre iscrizioni come riportato nel testo giovanneo, rispettivamente in ebraico, in greco e in latino. La prima risultava danneggiata e illeggibile, quelle in greco e in latino invece decifrabili con più facilità.
Nonostante dal 2002 – grazie all’analisi 14C (Azzi, Bella 2002, 685-689) – è appurato che la tavoletta risale al periodo medievale (X-XI secolo d.C.), nel momento in cui viene portata alla luce tra i pittori e gli scultori coevi si genera un entusiasmo tale da ispirare le loro produzioni artistiche e da influenzare l’iconografia di Gesù in croce con l’inserzione del titulus trilingue nel cartello affisso sopra il suo capo. Il focus del presente contributo è quello di leggere il fenomeno artistico che scaturisce dal ritrovamento di questo reperto e le modalità in cui alcuni artisti che hanno rappresentato il momento della crocifissione di Gesù rendono le iscrizioni nelle lingue da loro inserite nel cartello (Pontani 2003, 137). Prima di questa esplosione di tituli trilingui, infatti, le rappresentazioni pittoriche o scultoree includevano sovente il dettaglio iconografico della scritta in latino o dell’acronimo I.N.R.I., sigla che sta per Iesus Nazarenus Rex Iudæorum, come traduzione latina di Giovanni 19:19 (Pontani 2003, 137). Rappresentano due eccezioni il Crocifisso di Santa Maria Novella di Giotto [Fig. 2] e la Crocifissione con santi di Beato Angelico [Fig. 3], i cui affreschi, precedenti al 1492, raffigurano già Gesù inchiodato alla croce con una tavoletta che riporta le tre versioni dell’iscrizione (Pontani 2003, 161).
L’interesse per le iscrizioni greche e latine nelle opere d’arte costituisce un filone di ricerca all’interno del quale collaborano filologi e storici dell’arte (Lucco, Pontani 1997, 111), nel quale si inseriscono gli studi di Mauro Lucco e Anna Pontani (Lucco, Pontani 1997; Pontani 2003), oltre a quelli precedenti di Leander de Corrieris (de Corrieris 1830), incentrati sull’analisi delle crocifissioni europee dal Medioevo alla prima età moderna (de Corrieris 1830, 72-280; Lucco, Pontani 1997, 111-129). Una differenza sostanziale riguarda, all’interno delle testimonianze iconografiche, l’ordine delle scritture che risulta essere diverso rispetto a quello menzionato dai testi biblici: prima in ebraico, poi in latino, infine in greco (Parronci 1968; Papi Presicce 2019; Kanter, Henry, Testa 2001; Azzi, Bella 2002, 685-689). Diversa è anche la maniera in cui gli artisti presentano le iscrizioni: in alcune sono presenti errori di itacismo, come in Giotto [Fig. 2], in altre sovente le parole sono abbreviate, come in Beato Angelico [Fig. 3], in Luca Signorelli [Figg. 5 e 6] e Bartolomeo Cesi [Fig. 10]. In altre ancora invece il titulus è parzialmente riportato. Nel crocifisso di Michelangelo [Fig. 4], inoltre, le scritture in greco e in latino sono sinistrorse a imitazione di quella ebraica.
Sul cartello recante il motivo della condanna (Bultmann 1979, 307; Pontani 2003, 137), scritto e posto sulla croce in cui venne crocifisso Gesù di Nazareth per volere del prefetto romano Ponzio Pilato (Hesemann 2000, 32; Förster 2014, 114), la descrizione che traspare dai vangeli canonici mostra delle discordanze in merito al contenuto, alle scelte lessicali e alle modalità espositive (Pontani 2003, 138):
καὶ ἐπέθηκαν ἐπάνω τῆς κεφαλῆς αὐτοῦ τὴν αἰτίαν αὐτοῦ γεγραμμένην· Οὗτός ἐστιν Ἰησοῦς ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων.
(Mt 27:37)
καὶ ἦν ἡ ἐπιγραφὴ τῆς αἰτίας αὐτοῦ ἐπιγεγραμμένη· Ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων.
(Mc 15:26)
A differenza del Vangelo secondo Matteo (Maier 1996, 66-67), quello di Marco non inserisce il pronome oὗτός né il nome Ἰησοῦς (Förster 2014, 115), ma il solo titolo di ‘re dei Giudei’:
ἦν δὲ καὶ ἐπιγραφὴ ἐπ’ αὐτῷ· Ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων οὗτος.
(Lc 23:38)
Il Vangelo secondo Luca invece, oltre al titolo, non riporta il nome all’interno della tavoletta, ma solo il pronome dimostrativo (Förster 2014, 115):
ἔγραψεν δὲ καὶ τίτλον ὁ Πιλᾶτος καὶ ἔθηκεν ἐπὶ τοῦ σταυροῦ· ἦν δὲ γεγραμμένον· Ἰησοῦς ὁ Ναζωραῖος ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων. τοῦτον οὖν τὸν τίτλον πολλοὶ ἀνέγνωσαν τῶν Ἰουδαίων, ὅτι ἐγγὺς ἦν ὁ τόπος τῆς πόλεως ὅπου ἐσταυρώθη ὁ Ἰησοῦς· καὶ ἦν γεγραμμένον Ἑβραϊστί, Ῥωμαϊστί, Ἑλληνιστί. ἔλεγον οὖν τῷ Πιλάτῳ οἱ ἀρχιερεῖς τῶν Ἰουδαίων· Μὴ γράφε· Ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων, ἀλλ’ ὅτι ἐκεῖνος εἶπεν Βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων εἰμί. ἀπεκρίθη ὁ Πιλᾶτος· Ὃ γέγραφα γέγραφα.
(Gv 19:19-22)
L’autore del Vangelo secondo Giovanni ne fa riferimento usando, a differenza degli altri, il sostantivo τίτλον (Brown 1994, 962-963) e arricchisce questa notizia con ulteriori dettagli; aggiunge l’aggettivo Ναζωραῖος (Förster 2014, 115) e specifica che l’iscrizione del cartello contenente la condanna a morte era in ebraico, in latino e in greco.
Anche uno dei vangeli apocrifi informa del titulus crucis:
καὶ ὅτε ὤρθωσαν τὸν σταυρὸν, ἐπεγραψαν ὅτι· Οὗτός ἐστιν ὁ βασιλεὺς τοῦ Ἰσραήλ.
(Vangelo di Pietro 4:11)
In questo versetto è usato Ἰσραήλ perché il momento della crocifissione viene descritto da un autore giudeo che si rivolge ad altri giudei che vedono in Gesù l’adempimento delle profezie dei profeti (Is 49: 6-8; 56:8); diversamente, gli scrittori dei canonici riportano Βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων, poiché specificano che tale iscrizione è voluta da Pilato, che in quanto romano ha presente solo gli abitanti della Giudea (Dinkler 1964, 148; Bond 1998, 106). Il prefetto della Giudea condanna formalmente Gesù alla croce e fa in modo che più persone possibili possano conoscere il motivo della sua condanna (Miglietta 2021, 51).
È probabile che prima di essere affisso alla croce, il cartello contenente la causa poenae fosse stato portato al collo da Gesù, come stando alle fonti (Suet., Calig. XXXII, 2) era uso (Maier 1996, 59-60).
Secondo gli studiosi che hanno tentato di ricostruire l’iscrizione trilingue, seguendo le indicazioni del testo giovanneo, il contenuto del cartello potrebbe essere questo (Pontani 2003, 168):
ישוע הנוצרי [ו]מלך היהודים
IESVS NAZARENVS REX IVDÆORVM
ἸΗΣΟΥ͂Σ Ὁ ΝΑΖΩΡΑΙ͂ΟΣ Ὁ ΒΑΣΙΛΕῪΣ ΤΩ͂Ν ἸΟΥΔΑΊΩΝ
Il versetto biblico relativo al titulus crucis costituisce una delle venticinque occorrenze nelle quali viene usato il termine βασιλεὺς in riferimento a Gesù; tale parola, in generale, ricorre nei vangeli canonici centotre volte.
Oltre al prefetto, che chiama Gesù di Nazareth re sia quando lo interroga (Mc 15:2; Gv 18:33, 37) sia quando fa scegliere alla folla tra la sua liberazione e quella di Barabba (Mc 15:9; Gv 18:39; Gv 19:14, 15), altri personaggi e gli stessi autori dei vangeli nel corso della narrazione gli attribuiscono questo titolo: i magi d’Oriente, che sono i primi a conferirgli regalità quando chiedono di lui a re Erode (Mt 2:2), l’evangelista Matteo, citando Isaia 62:11 nel momento in cui descrive l’ingresso di Gesù in sella a un asino a Gerusalemme (Mt 21:5), l’evangelista Giovanni, raccontando lo stesso episodio quando menziona Zaccaria 9:9 e quando ricorda come la folla in Galilea (Ravallese 2021, 181) vorrebbe proclamarlo sovrano (Gv 6:15), Natanaele, nel momento in cui lo riconosce come Messia (Gv 1:49), un gruppo di persone che lo accoglie durante la sua entrata a Gerusalemme (Gv 12:13).
A questi si aggiungono i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani, i quali lo deridono mentre è appeso sofferente in croce (Mt 27:42), i membri del Sinedrio che lo conducono dinanzi al procuratore romano (Lc 23:2), e i soldati romani che, dopo averlo flagellato, abbigliato con un mantello di porpora, una corona di spine e un bastone, si fanno beffe di lui (Mt 27:9; Gv 19:3).
Dunque, tale proclamazione di regalità è spinta dal riconoscimento della natura divina del Nazareno oppure dalla volontà di beffeggiarlo. Una derisione analoga, stando al Vangelo apocrifo Pseudo-Matteo la subisce la madre di Gesù. Un testo in origine scritto verosimilmente in aramaico, poi tradotto da Girolamo, come informa il contenuto del carteggio fra quest’ultimo e i vescovi Eliodoro e Cromazio che lo precede:
Tum Joseph accepit Mariam cum aliis quinque virginibus, quae essent cum ea in domo Joseph. Erant autem istae virgines Rebecca, Sephora, Susanna, Abigea et Zahel: quibus datum est a pontificibus sericum et jacintum et byssus et purpura et linum. Miserunt autem sortes inter se quid unauqaeque virgo faceret; contigit utem ut Maria purpuram acciperet ad velum templi Domini. Quam cum acciperet, dixerunt ei illae virgines: «Cum tu sit minor omnibus, purpuram obtinere meruisti». Et hoc dicentes quasi in fustigationis sermone coeperunt eam reginam virginum appellare. Cumque haec inter se agerent, apparuit angelus Domini in medio earum et dixit: «Non erit sermo iste in fatigatione missus, sed in prophetationem verissimam prophetatus». Expaverunt autem in conspectu angeli et in verbis ejus, et rogaverunt eam ut indulgeret eis et oraret pro eis.
(Ps-Mt 8:4)
In questo passo, Maria e le sue compagne ricevono veli di diversi colori. Le ragazze li dividono fra di loro e assegnano alla promessa sposa di Giuseppe un velo di porpora, deridendola e chiamandola reginam; immediatamente si manifesta un angelo che afferma che quelle parole sono in realtà una profezia. Gesù, invece, rimane da solo in mezzo ai suoi torturatori, ma di certo non è l’unico a ricevere questo trattamento. Filone d’Alessandria (In Flaccum VI, 36-39) racconta che nel 41 d.C. il popolo d’Alessandria, per umiliare il sovrano ebreo Agrippa I, fece vestire un uomo di nome Karaba (che mostrava segni di squilibrio mentale) con una stuoia, in capo una corona fatta di rami e fiori e in mano una canna di papiro; in seguito, gli venne rivolto un atto di riverenza chiamandolo ‘Signore’ con ironia (Bösen 1994, 235; Hesemann 2000, 117). Un papiro egiziano documenta un episodio simile: durante la sollevazione ebraica ad Alessandria, che avvenne tra il 115 e il 117 d.C., vi fu una simile acclamazione beffarda. Stessa situazione si presentò durante una festa persiana, alla quale partecipava anche il procuratore romano: un condannato a morte venne fatto sedere su un trono regale per poi essere acclamato re con intenti derisori (Hesemann 2000, 117). In tutte queste circostanze, la corona di spine e quella fatta di rami e fiori, il bastone e la canna di papiro, il mantello di porpora e quello di stuoia, e il trono diventano simboli di una regalità rovesciata.
Dopo la flagellazione, troviamo ancora una volta il termine βασιλεὺς in relazione a Gesù posto dall’evangelista Giovanni nella bocca dei Giudei che suggeriscono a Ponzio Pilato di modificare il titulus crucis (Gv 19:21; Hesemann 2000, 34).
È stato ipotizzato che la richiesta dei Giudei di modificare il titulus, scaturisse dal fatto che la scritta ebraica conteneva in sé il tetragramma con cui gli ebrei indicano il nome di Dio: Yeshua Ha-notsri [U]melekh Ha-yehudim; se la prima lettera di ciascuna parola viene unita alle altre si ottiene il tetragramma YHWH (tenendo presente che l’ebraico si legge da destra verso sinistra). Quindi, in un certo senso è come dire che Gesù è Dio (Pontani 2003, 168).
Gesù, dal suo canto, si autodefinisce βασιλεὺς in due occasioni. La prima viene riportata in un versetto del Vangelo secondo Matteo:
τότε ἐρεῖ ὁ βασιλεὺς τοῖς ἐκ δεξιῶν αὐτοῦ· Δεῦτε, οἱ εὐλογημένοι τοῦ πατρός μου, κληρονομήσατε τὴν ἡτοιμασμένην ὑμῖν βασιλείαν ἀπὸ καταβολῆς κόσμου. ἐπείνασα γὰρ καὶ ἐδώκατέ μοι φαγεῖν, ἐδίψησα καὶ ἐποτίσατέ με, ξένος ἤμην καὶ συνηγάγετέ με, γυμνὸς καὶ περιεβάλετέ με, ἠσθένησα καὶ ἐπεσκέψασθέ με, ἐν φυλακῇ ἤμην καὶ ἤλθατε πρός με. τότε ἀποκριθήσονται αὐτῷ οἱ δίκαιοι λέγοντες· Κύριε, πότε σε εἴδομεν πεινῶντα καὶ ἐθρέψαμεν, ἢ διψῶντα καὶ ἐποτίσαμεν; πότε δέ σε εἴδομεν ξένον καὶ συνηγάγομεν, ἢ γυμνὸν καὶ περιεβάλομεν; πότε δέ σε εἴδομεν ἀσθενοῦντα ἢ ἐν φυλακῇ καὶ ἤλθομεν πρός σε; καὶ ἀποκριθεὶς ὁ βασιλεὺς ἐρεῖ αὐτοῖς· Ἀμὴν λέγω ὑμῖν, ἐφ’ ὅσον ἐποιήσατε ἑνὶ τούτων τῶν ἀδελφῶν μου τῶν ἐλαχίστων, ἐμοὶ ἐποιήσατε.
(Mt 25: 34-40)
Tuttavia, egli parla ai discepoli del giudizio futuro, quindi non è una proclamazione di regalità che coincide con la dimensione temporale relativa alla sua vita terrena. La seconda circostanza riguarda il suo confronto con Pilato e offe una risposta diversa da quella che troviamo nei vangeli che riportano soltanto σὺ λέγεις (Mt 27:11; Mc 15:2; Lc 23:11); poi il silenzio (Miglietta 2021, 3; Fricke 1989, 215):
Σὺ λέγεις ὅτι βασιλεύς εἰμι. ἐγὼ εἰς τοῦτο γεγέννημαι καὶ εἰς τοῦτο ἐλήλυθα εἰς τὸν κόσμον ἵνα μαρτυρήσω τῇ ἀληθείᾳ· πᾶς ὁ ὢν ἐκ τῆς ἀληθείας ἀκούει μου τῆς φωνῆς.
(Gv 18:37)
Di questi fatti, dunque, i vangeli rimangono la fonte principale. Tuttavia, da soli non sono esaustivi per comprenderne pienamente le dinamiche insite agli episodi relativi al processo e alla condanna di Gesù, perché gli autori si preoccuparono del contenuto teologico (Messori 1968, 207) piuttosto che dell’inserimento di puntuali indicazioni spaziotemporali (Miglietta 2021, 9; Léon-Dufor 1978, 202).
Perché, dunque, Pilato attribuisce un titulus regalis a un uomo citato in giudizio, abbietto agli occhi dei religiosi Giudei del suo tempo e fino a quel momento ignorato dal populus romanus? Una riflessione sul contesto storico-politico della Palestina e l’analisi di particolari contesti in cui gli autori giudei del tempo utilizzano parole normalmente adoperate in riferimento a individui che occupano una posizione di potere possono essere utili a cercare di rispondere a tale quesito.
Gesù nasce durante il periodo dell’impero di Augusto (37 a.C.-14 d.C.), sotto il regno del re idumeo Erode il Grande (Norelli 2015, 39). Nel 63 a.C. la Palestina viene conquistata dai Romani grazie a Pompeo (Jossa 2012, 37; Förster 2014, 123). Nel 4 a.C. Erode muore e Augusto divide il territorio tra i suoi figli: “le regioni principali del centro-sud, la Giudea, la Samaria e l’Idumea” sono assegnate al primo figlio Archelao con il titolo di etnarca (Jossa 2012, 37), mentre “la Galilea a nord e la Perea ad est ad Antipa e le regioni del nord-est a Filippo, entrambi con il titolo di tetrarca” (Jossa 2012, 38). Nel 6 d.C. il popolo della Giudea si ribella ad Archelao, motivo per cui Augusto rende la Giudea e la Samaria due province romane, governate da un prefetto romano che risiede a Cesarea Marittima (Jossa 2012, 38). Il governatore romano si reca spesso a Gerusalemme, soprattutto in occasione di eventi pubblici come la Pasqua ebraica, festa che attira un gran numero di partecipanti, costituendo in tal modo anche una potenziale occasione di tumulti (Jossa 2012, 38).
Gesù cresce a Nazareth, in Galilea, perciò è “un suddito di Antipa” (Jossa 2012, 38). Da Giuseppe Flavio (Ioseph. Bell. Iud. 1,665-2.,177; Ant. Iud. 17, 188-18, 62) si apprende che in questo territorio c’è un po’ di insofferenza nei confronti del dominio romano e di quello erodiano (Jossa 2012, 42); inoltre, gran parte della popolazione è composta da contadini e artigiani, afflitta dal problema della povertà (Jossa 2012, 41). Per quanto concerne la vita religiosa, il popolo galileo è “poco osservante della legge”, caratterizzato da “una religiosità semplice e tradizionale” e “diffidente assai spesso anche del potere religioso, soprattutto di quello dei sommi sacerdoti”, seppur rispettoso “delle autorità spirituali, farisaiche in particolare” (Jossa 2012, 41-42). Può darsi che essere un abitante della Galilea poteva costituire un fattore pregiudicante per Gesù. In generale, anche fra i vari gruppi religiosi il dominio romano viene percepito in modo diverso: quello dei sadducei vi scorge un’opportunità, poiché la loro autorità rimane indiscussa, quello degli esseni, al contrario, auspica un Israele restaurato (Hesemann 2000, 103).
Da questo quadro, si può più facilmente comprendere perché Erode è turbato dinanzi alla richiesta dei magi d’Oriente (Mt 2:3). Giuseppe Flavio, nel corso della stesura del Bellum Iudaicum, menziona varie presunte figure messianiche che calpestano varie parti della Palestina fra il I e il I secolo d.C., poste a capo di movimenti che aspirano alla liberazione da Roma e che provocano conflitti armati (Jossa 2012, 39; Ravallese 2021, 182). Questi individui mirano a diventare βασιλεῖς e alla costruzione di una βασιλεία “che rivendica l’autonomia politico-religiosa giudaica e disdegna ogni tipo di sottomissione romana” (Ravallese 2021, 182). Giuseppe definisce τύραννοι (Ioseph. Bell. Iud. I.10) coloro che guidano tali movimenti sovversivi; dunque, all’interno dell’opera di Giuseppe τύραννος va inteso nel senso di “capobanda che organizza una massa di fuorilegge, ricorre a tecniche di combattimento irregolari e punta spesso (…) alla creazione di un dominio territoriale alternativo al potere romano” (Ravallese 2021, 183). Quindi, è un bandito che, a differenza di altri, aspira alla regalità, al trono (Ravallese 2021, 184, 195). Circondarsi di seguaci, seppur con diverse finalità, è uno dei pochi dettagli che accomuna Gesù di Nazareth alla maggior parte di questi personaggi.
Simon Bar Kochba, schiavo di Erode, viene ricordato da Giuseppe Flavio per aver provocato un tumulto in Perea (Ioseph. Bell. Iud II, 57; Ant. Iud. XVII, 273-277). La sua bramosia di potere lo spinge fino alla distruzione del palazzo di Gerico e all’attacco di residenze regali (Ravallese 2021, 188). Viene menzionato anche da Tacito (Tac., Hist. 5.9.1), che sottolinea come si fosse proclamato rex senza attendere l’approvazione dell’imperatore (Förster 2014, 123). La sua vita si conclude con la sua cattura e decapitazione (Ravallese 2021, 188). Giuda il Galileo, operante dopo la morte di Erode, dichiara di agire per volere di Dio, così come farà Gesù tempo dopo. Desidera diventare re, tanto da distruggere i suoi rivali (Ravallese 2021, 185); impone ai suoi seguaci di non pagare il tributo a Cesare (Ioseph., Bell. Iud. II, 56, 118).
Nel 4 a.C. si manifestano le azioni di un altro aspirante re di nome Atrogeo, che riesce a creare per sé e per i suoi fratelli un esercito, con il quale organizza diversi assalti (Ioseph., Bell. Iud. II, 60-65; Ant. Iud. XVII, 278-284). Giuseppe Flavio racconta che era solito tenere in capo un diadema e che, al pari di Simone, viene decapitato (Ravallese 2021, 188).
Un discorso a parte merita un personaggio che ha più aspetti in comune con il Nazareno, ovvero Gesù Ben Ananus che giunge a Gerusalemme nel 62 a.C. Viene catturato e picchiato a motivo delle profezie negative che pronunciava pubblicamente su Gerusalemme (Ioseph. Bell. Iud. IV, 323; Jossa 2012, 223). Dopo viene condotto dinanzi al procuratore romano Albino, che lo fa flagellare, ma subito dopo lo lascia andare (Ioseph. Bell. Iud. VI, 5, 3). In lui non è presente alcuna ambizione regale.
Gesù il Galileo appare come una minaccia agli occhi dei religiosi del tempo, preoccupati dal suo stile di vita non del tutto consono ai modelli comportamentali della società a cui appartiene (Norelli 2015, 43) e dal fatto che attira il consenso di gran parte del popolo (Freyne 1988, 27-44; Ravallese 2021, 181). Certamente anche l’episodio dell’ingresso a Gerusalemme doveva avere generato non pochi dubbi sulle sue intenzioni (Mt 21:5): “Gesù fu ricevuto alle porte di Gerusalemme alla maniera dei monarchi ellenistici della Giudea” (Kantorowicz 1995, 114).
Accusare Gesù di Nazareth di essersi proclamato re d’Israele soddisfa il bisogno del popolo giudeo di punire colui che offende la santità di YHWH (Miglietta 2021, 46) e pone il prefetto romano davanti alla necessità di fermare un individuo che minaccia “la sicurezza del populus romano, nonché la maestà dell’imperatore” (Miglietta 2021, 46). Pilato non esegue quello che gli viene richiesto dal Sinedrio, ma asseconda quella che è una delle sue prerogative di magistrato provinciale (Miglietta 2021, 51): ordinare cioè l’esecuzione di una condanna capitale (Messori 1968, 316; Hesemann 2000, 41).
Il trinomio מלך-rex-βασιλεὺς, perciò, non conferisce regalità al Messia, ma lo canzona e lo mette piuttosto al pari di coloro che a differenza sua avevano preteso il titolo regale. Non poteva essere diversamente, dal momento che per un romano il titolo di rex è tale solo se è riconosciuto dalle autorità romane (Licandro, Palazzolo 2019, 38). I capi delle tribù potevano definirsi reges poiché Augusto aveva loro riconosciuto il titulus regalis (Licandro 2022, 250-251). Il titulus crucis, invece, il cui uso non era indispensabile dal punto di vista giuridico soprattutto nelle province (Hesemann 2000, 114), diventa un mezzo pubblico di proclamazione e di provocazione (Förster 2014, 114), che mira a sbeffeggiare un uomo che non è riconosciuto nel mondo romano, ignorare ulteriormente un popolo sottomesso e rendere indiscusso il buon operato del prefetto, cioè il mantenimento dell’ordine pubblico, agli occhi di Tiberio (Ravallese 2021, 180).
Ma il figlio di Giuseppe e Maria era interessato a diventare re? Avrebbe potuto costruire un regno nella Giudea? Se facciamo affidamento ai racconti evangelici, lo scopo della sua vita era quello di professare la sua ἀλήθεια: egli è re, non solo per via della sua appartenenza alla stirpe davidica, ma anche perché possessore di una regalità conferitagli dal momento che è figlio di un βασιλεὺς, la cui βασιλεία è quella celeste (Ravallese 2021, 179, 181).
Il termine βασιλεία ricorre nei vangeli canonici novantasei volte ed è utilizzato novantuno volte per designare la βασιλεία τῶν οὐρανῶν/τοῦ θεοῦ, l’unica a cui Gesù aspira, che non prende in considerazione i meccanismi del potere terreno (Coppens 1968, 176-230). Sul piano dell’indagine storica, tuttavia, la sua morte precoce impedisce di smentire o confermare questa verità.
Galleria. Le fonti iconografiche
Raffigurazioni di Cristo crocifisso con il particolare del Titulus crucis trilingue
Fonti
- βασιλεὺς | Mt 2:1; Mt 2:2; Mt 2:3; Mt 2:9; Mt 5:35; Mt 11: 8; Mt 14:9; Mt 17:25; Mt 18: 23; Mt 21:5; Mt 22:2; Mt 22:7; Mt 22:11; Mt 22:13; Mt 25:34; Mt 25:40; Mt 27:11; Mt 27:29; Mt 27: 37; Mt 27:42; Mc 6:14; Mc 6:22; Mc 6:25; Mc 6:26; Mc 13:9; Mc 15:2; Mc 15:9; Mc 15: 12; Mc 15:18; Mc 15: 26; Lc 1:5; Lc 7:25; Lc 14:31; Lc 19: 22; Lc 19:38; Lc 22:25; Lc 23:2; Lc 23:37; Lc 23:38; Gv 1:49; Gv 4:46; Gv 4:49; Gv 6:15; Gv 12:13; Gv 12:15; Gv 18:33; Gv 18:37; Gv 18:39; Gv 19:3; Gv 19:12; Gv 19: 14; Gv 19:15; Gv 19:19; Gv 19:21. Ἰησοῦς βασιλεὺς | Mt 2:2; Mt 21:5; Mt 25:34; Mt 25:40; Mt 27:11; Mt 27:29; Mt 27: 37; Mt 27:42; Mc 15:2; Mc 15:9; Lc 19:38; Lc 23:2; Lc 23:37; Gv 1:49; Gv 6:15; Gv 12:13; Gv 12:15; Gv 18:33; Gv 18:37; Gv 18:39; Gv 19:3; Gv 19: 14; Gv 19:15; Gv 19:19; Gv 19:21. βασιλεία | Mt 3:2; Mt 4:8; Mt 4:17; Mt 5:3; Mt 5:10; Mt 5:19; Mt 5:20; Mt 6: 10; Mt 6: 10; Mt 6:13; Mt 6:33; Mt 7:21; Mt 8:11; Mt 9:35; Mt 10:7; Mt 11:11; Mt 11:12; Mt 12:25; Mt 12:26; Mt 12:28; Mt 13:11; Mt 13:19; Mt 13:24; Mt 13:31; Mt 13:33; Mt 13:44; Mt 13:45; Mt 13:47; Mt 16:19; Mt 18:1; Mt 18:3; Mt 18:4; Mt 18:23; Mt 19:12; Mt 19:14; Mt 19:23; Mt 19:24; Mt 20:1; Mt 20:21; Mt 21: 31; Mt 21: 43; Mt 22:2; Mt 23: 13; Mt 25:1; Mt 25:34; Mt 26:29; Mc 1:15; Mc 3:24; Mc 4:11; Mc 4:26; Mc 4:30; Mc 6:23; Mc 9:1; Mc 10:14; Mc 10:15; Mc 10:23; Mc 10:24; Mc 10:25; Mc 11:10; Mc 12:34; Mc 13:8; Mc 14:25; Mc 15:43; Lc 4:43; Lc 6:20; Lc 7:28; Lc 8:9; Lc 9:11; Lc 9:27; Lc 9:60; Lc 9: 62; Lc 10: 9; Lc 10:11; Lc 11:3; Lc 11:20; Lc 12:31; Lc 12:32; Lc 13: 18; Lc 13:20; Lc 14:15; Lc 16:16; Lc 17:20; Lc 18:16; Lc 18:17; Lc 18:24; Lc 18:25; Lc 18: 29; Lc 19:11; Lc 21:31; Lc 22:16; Lc 22:18; Lc 22:30; Lc 23:42; Lc 23: 51; Gv 3:3; Gv 3:5. βασιλεία τῶν οὐρανῶν/τοῦ θεοῦ | Mt 3:2; Mt 4:17; Mt 5:3; Mt 5:10; Mt 5: 19; Mt 5:20; Mt 6: 10; Mt 6:13; Mt 6:33; Mt 7:21; Mt 8: 11; Mt 9:35; Mt 10: 7; Mt 11:11; Mt 11:12; Mt 12: 28; Mt 13:11; Mt 13: 19; Mt 13:24; Mt 13: 31; Mt 13: 24; Mt 13: 31; Mt 13: 33; Mt 13:44; Mt 13:45; Mt 13: 47; Mt 16:19; Mt 18:1; Mt 18:3; Mt 18:4; Mt 18:23; Mt 19:12; Mt 19:14; Mt 19:23; Mt 19:24; Mt 20: 1; Mt 21:31; Mt 21: 43; Mt 22:2; Mt 23:13; Mt 25:1; Mt 25:31; Mt 25:34; Mt 26:29; Mc 1:15; Mc 4:11; Mc 4:26; Mc 4:30; Mc 9:1; Mc 10:14; Mc 10:15; Mc 10:23; Mc 10:24; Mc 10: 25; Mc 12:34; Mc 14: 25; Mc 15: 43; Lc 4:43; Lc 6:20; Lc 7:28; Lc 8:9; Lc 9:11; Lc 9:27; Lc 9:60; Lc 9: 62; Lc 10: 9; Lc 10:11; Lc 11:3; Lc 11:20; Lc 12:31; Lc 12:32; Lc 13: 18; Lc 13:20; Lc 14:15; Lc 16:16; Lc 17:20; Lc 18:16; Lc 18:17; Lc 18:24; Lc 18:25; Lc 18: 29; Lc 19:11; Lc 21:31; Lc 22:16; Lc 22:18; Lc 22:30; Lc 23:42; Lc 23: 51; Gv 3:3; Gv 3:5; Gv 18:3.
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This essay examines the artistic representations and inscriptions associated with the crucifixion of Jesus Christ. It discusses the discovery of a wooden relic with three inscriptions in Hebrew, Greek, and Latin, resembling the trilingual title of Jesus on the Cross. The artifact, found during restoration work of the Basilica of the Holy Cross in Jerusalem, in Rome, inspired artists and influenced the iconography of Jesus in crucifixion scenes. The study analyzes the artistic renditions of the inscriptions and their variations in different works of art. It also compares the Gospel accounts of the inscription, emphasizing the variations in wording and language. Through philological and art historical research, the author contributes to the understanding of the visual representation and cultural significance of the titulus crucis in art from the Middle Ages to the early modern period.
keywords | Titulus crucis; trilingual inscription; cross of Christ; christian iconography; מלך; rex; βασιλεὺς.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Letizia Biazzo, Rex Iudaeorum. Citare in giudizio un titolo regale?, “La Rivista di Engramma” n. 202, maggio 2023, pp. 99-123 | PDF of the article