In fondo, malgrado le differenze di epoche e di obiettivi, la rappresentazione
del potere è sempre stata ossessionata dalla monarchia.
Nel pensiero e nell’analisi politica non si è ancora tagliata la testa al Re.
Michel Foucault
Occorre resistere alla tentazione di derubricare la recente cerimonia d’incoronazione di Carlo d’Inghilterra, Scozia e Irlanda del Nord (e Australia e Nuova Zelanda e Duca e proprietario del Lancaster e della Cornovaglia…) a curiosa riesumazione archeologica di un rito arcaico e incomprensibile, prodotto d’intrattenimento destinato a incontrare un probabile successo di pubblico generalista e manifestazione dei tratti eccentrici della società anglosassone. La diffusa sopravvivenza dell’istituto monarchico nel continente europeo e la sua acritica accettazione da parte di un largo spettro di tendenze politiche inducono a una riflessione meno sbrigativa, anche perché alcuni elementi delle istituzioni monarchiche sono incistati in maniera tutt’altro che residuale anche in costituzioni formalmente repubblicane.
Lo stesso Ernst Kantorowicz – lo studioso autore del celebre I due corpi del re, che ci accompagna in sottofondo e al quale con queste note viene fatto torto, semplificando in maniera consapevolmente tendenziosa la sua articolatissima dottrina – chiama “finzioni” il groviglio di liturgie, espedienti mitici e proclamazioni giuridiche sul quale, a partire almeno dall’Età dell’assolutismo (ma con radici medievali), la monarchia istituisce la sua presa fascinatoria sull’immaginario collettivo. Questa cattura delle menti produce effetti di realtà. Commenta Gianluca Solla:
Nella simulazione ambigua e vagamente infera delle finzioni, dei linguaggi e delle catene di immagini, nella produzione d'effetti per invenzione e per immaginazione, Kantorowicz ha riconosciuto il costituirsi di ciò che abitualmente chiamiamo “realtà”. Attraverso la creazione delle istituzioni della vita pubblica di uno Stato, è l'istituzione della realtà stessa e della vita che vi si tesse con lentezza, ma decisamente. Là dove sembra che la realtà non abbia altra consistenza che quella metaforica che le proviene dall'essere a sua volta istituita, su questo terreno l'arte diventa insieme alla mitologia il miglior alleato dello storico. [...] Prendere sul serio le finzioni, le immagini, i miti, significa riconoscervi l’esercizio stesso del potere sovrano, i segni delle sue evoluzioni e il carattere più segreto (Solla 2005, 10-11).
È in questa zona intermedia, sospesa in maniera indecidibile tra suggestione incantatoria e processi sociali della vita materiale, che prende forma lo stampo ideologico del potere dell’assolutismo regale. La tradizione riassunta, a torto o a ragione, nel nome di Hobbes assume coscientemente gli elementi teatrali della maschera per organizzare la dialettica tra sovrano, unico rappresentante politico, mediazione, tramite la macchina della finzione statale, e sudditi, non più cittadini ma rappresentati-deprivati dei loro desideri di partecipazione alla vita pubblica. Infatti, lo Stato dell’assolutismo, agli albori della modernità, nasce per lo spettacolo assolutamente apolitico della monarchia, che sequestra lo spazio della rappresentanza politica, delegata a un unico attore.
Se il Re svolge la parte della “persona pubblica”, in realtà costituita dall’insieme del popolo, se l'unità statuale “è l'unità di colui che rappresenta, non quella di chi è rapppresentato” (Hobbes [1651] 1989, 114), la moltitudine dei sudditi, appena oltre i bagliori degli arcana imperii, è ridotta a una caricatura spersonalizzata del cittadino medio, che non esiste fuori dalla finzione giuridica. Letteralmente non può esistere, perché ha consegnato il suo profilo tagliente e la sua irripetibile umanità politica nella caserma della rappresentanza statale, ricevendo nello scambio ineguale l’uniforme grigia di chi sta fuori dal cono di luce diretta della scena. Contro la riscoperta e la rinascita della res publica, per la quale si batteva Niccolò Machiavelli, lo Stato dell’assolutismo “fu il prodotto del primo, grande movimento controrivoluzionario nella storia dell’Europa moderna” (Skinner [2002] 2006, 318).
Organi cannibali e corpi che si sdoppiano
Chiamato a sedare una secessione della plebe, racconta Livio, Menenio Agrippa ricorse a una metafora sofistica, sostenendo che, se non si nutre lo stomaco (il Patriziato), deperiscono anche le mani (la Plebe), perché il nutrimento non arriva a nessuna parte del corpo. Un luogo comune di ogni discorso oligarchico, costantemente riproposto a giustificazione della connessione gerarchica della comunità, che fonda il dominio dei privilegiati sull’autorappresentazione della società come apparato digestivo.
Questa figura retorica è perfezionata nell’Età dell’assolutismo, liberandosi della cornice repubblicana: adesso occorre alimentare la testa dello Stato – il Re – e poco importa che, come ammette Kantorowicz, la testa ha finito per divorare tutto il corpo. La fraudolenta metafora del corpo inizia a proliferare nel linguaggio propagandistico dei giuristi di corte, dapprima laicizzando il corpus mysticum, preso in prestito dalla teologia politica del papato per indicare l’insieme comunitario, e ipostatizzando il ruolo del re, vicario di Dio, vice Dei, rivestito di paramenti sacralizzanti, sulla cui testa è posta una Corona che raggruma e moltiplica i significati simbolici della regalità. Infine, la Corona acquista un’identità quasi autonoma e favorisce lo sdoppiamento del corpo del monarca: un re, persona fisica mortale, incarna fino alla propria scadenza naturale la funzione del Re, entità immortale che sempre detiene il potere sovrano, situato quindi in una regione mediana dove il visibile e l’invisibile non sono distinguibili e il dominio si circonda di un’aura di misteriosa irraggiungibilità. Se prima la formula giuridica della teoria organicista suonava “i sudditi più il re, incorporati l’uno con l’altro”, ora i sudditi sparivano dalla scena, dove restava solo il corpo del re “incorporato con se stesso”. Nella consistenza, afferma un importante giurista di corte, Sir Edmund Plowden,
d’un corpo naturale e d’un corpo politico indivisibilmente uniti, e questi due corpi sono incorporati in una sola persona e formano un solo corpo e non più corpi, il corpo corporato nel corpo naturale e il corpo naturale nel corpo corporato (cit. da Kantorowicz [1957, 1989] 2012, 430).
Con questi serissimi giochi di prestigio, tra corpo naturale del re e corpo politico del Re, maturava il frutto degli imprestiti mutuati dalla teologia politica del papato e dalla liturgia imperiale bizantina, arrivando a creare una confusione terminologica che consentiva, di fatto e di diritto, elastici slittamenti di significato, opportunisticamente utilizzati nel variare delle situazioni contingenti:
[…] nozioni come quella di Corona, regno, corpo politico sia del regno che del re come Re potevano prendere l’una il posto dell’altra ed erano insufficientemente distinte. Su queste ambiguità –aggravate dal fatto che il re divenne poi nella realtà capo del corpo mistico della ecclesia anglicana –affondava le proprie radici la peculiarità terminologica che evidenziava i due corpi del re […] (Kantorowicz [1957, 1989] 2012, 439-440).
Tra paura della morte e mito della continuità
Un tale castello di finzioni – completato con il consolidamento del principio dinastico, come si conviene alle saghe di successo, che tendono a perpetuarsi all’infinito – ha funzionato e continua sotterraneamente a funzionare nell’inconscio collettivo, perché ha fatto leva sulla paura. Non solo sul mito della paura degli altri, che secondo la narrazione di Hobbes avrebbe spinto i singoli individui a consegnarsi allo Stato Leviatanico dell’assolutismo monarchico, barattando libertà in cambio di sicurezza. Ma anche sulla paura del vuoto, della morte, della fine dell’organizzazione sociale e della continuità generazionale, rispetto alla quale la figura del Re immortale, del re “che non muore mai”, si offre come rimedio salvifico.
Illuminato coreograficamente da una cornice sovrumana, il punto focale del meccanismo regale emana un fascino che riesce a sedurre la moltitudine della cittadinanza, ridotta così a uno stuolo di sudditi che si accontenta di proiettare i propri desideri e il riscatto delle proprie frustrazioni sulla figura del Re, l’unica titolata, è il caso di dirlo, a realizzarsi compiutamente. Il rappresentante esclusivo, il monarca, è il primo esempio di protagonista di una fiction, progettata per offrire un idolo compensativo alla platea di spettatori passivi.
“Non è ammesso confutare i misteri del potere dei re” (Giacomo I alla Star Chamber, 1616)
Per quanto l’efficacia del dispositivo monarchico si coaguli nel punto d’incontro tra credulità, enunciati retorici e suggestioni coreografiche incantatorie, la macchina da scena del potere non potrebbe funzionare senza istituire un apparato coercitivo e intimidatorio, ancor più terribile perché ammantato di mistero. L’involucro giuridico di questo congegno autoritario è la proclamazione d’insindacabilità degli atti del Sovrano. Annota Kantorowicz:
In un proclama del 1610, Giacomo I stabilisce che nulla “può essere indagato”, né “i più alti misteri della divinità” né “i misteri più profondi che appartengono alle persone o allo Stato del sovrano e dei principi che sono Dei in terra”, accusando di incapacità coloro che “si intromettono con i loro scritti nei più profondi misteri della monarchia e del governo”. In un'altra occasione, Giacomo I discusse “la mia prerogativa o il mistero dello Stato”, “i misteri del potere del sovrano” e “il rispetto mistico che è proprio di chi siede sul trono di Dio”, ordinando al portavoce della House of Commons “di informare con nostro compiacimento la Camera che nessuno si deve mai permettere di intromettersi in ciò che concerne il nostro dominio e i misteri dello Stato”. Il termine “intromissione” era naturalmente l’espressione preferita dall’assolutismo (Kantorowicz [1955] 2005, 190-191).
E “intromissione” sembra esser ancora un termine preferito anche in regimi formalmente repubblicani, se si tiene a mente, per esempio, la stizzita reazione dell’allora presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, contro un’indagine giudiziaria sui rapporti Stato-Mafia, avvicinatasi troppo ai “misteri indicibili” che passano per il Quirinale. Napolitano ha sollevato la questione della propria insindacabilità istituzionale davanti alla Corte Costituzionale, che ha prontamente, potremmo anzi dire regalmente, riconosciuto l’intangibilità erga omnes delle gelose prerogative presidenziali. D’altronde, la tuttora perdurante attribuzione di poteri di “grazia” – la possibilità che un Presidente possa mandare indenne uno o più individui dalla responsabilità per fatti penalmente accertati – dimostra la malefica sopravvivenza d’istituti dell’assolutismo monarchico, annidati nelle pieghe degli ordinamenti repubblicani. Tra i “graziati” si annoverano, per esempio, agenti segreti italiani e americani, responsabili del sequestro di un cittadino egiziano, consegnato alla polizia politica del suo paese per essere torturato. Con la grave eredità dell’assolutismo monarchico dobbiamo ancora fare i conti. Dopo, potremmo guardare con occhi diversi anche ai prodotti della letteratura e del cinema: se si considera che Ian Fleming, prima di scrivere la fortunata epopea di James Bond, ha fatto parte di svariati organismi di spionaggio inglese, si può attribuire nuovi e più letterali significati a titoli come 007, licenza di uccidere. Mentre le vicende dei moschettieri e delle guardie di Richelieu e Mazzarino lasceranno trasparire la zona d’ombra e di feroce criminalità politica che le abbaglianti cerimonie della corte del Re Sole mirano a nascondere, realizzando sul campo l’archetipo applicativo della Ragione di Stato: quell’ideologia che negli stessi anni veniva compiutamente enunciata dai teorici dell’Assolutismo, per dare copertura giuridica all’arbitrio governativo, al silenzio omertoso degli apparati nascosti del Governo, agli omissis che oscurano i documenti ufficiali, al buio legalizzato che va sotto il nome di “Segreti di Stato”. Come se – scrive Gianluca Solla – “la verità potesse essere difesa solo in forza della finzione, che la rende docile, tenera, passando giocoforza per la finzione che la racconta, che la espone, che la manifesta”. E al tempo stesso la nasconde.
Da Riccardo II a Carlo III
“Mi accorgo di non dire che sciocchezze e voi ridete di me”. Chi parla non è Carlo, nel corso di un’improbabile presa di coscienza, mentre sale al trono nel 2023, bensì il Riccardo II di Shakespeare, che ci ha consegnato con l’omonima opera la cartella clinica del percorso di progressiva degradazione della finzione monarchica, dall’autocelebrazione più fastosa al dissolvimento più annichilente di entrambi i corpi regali, quello troppo umano del regnante e quello troppo finto dell’insostenibile immortalità della funzione sovrana, che si proclamava “privo di naturali difetti e debolezze”. Le pagine che Kantorowicz dedica al capolavoro shakespeariano, il culminante incontro tra i due grandi autori, sono giustamente conosciute e in questa sede basta qualche richiamo. Kantorowicz riconosce le tre scansioni della parabola di Riccardo II, partendo dalla rivendicazione iniziale del proprio ruolo, passando dalla crisi intermedia, nella quale il re diviene il giullare, la controfigura ironica di se stesso, arrivando all’autodeposizione finale, quando Riccardo, di fronte ai suoi nemici, si spoglia progressivamente dei paramenti regali e delle funzioni sovrane:
E ora state a vedere come faccio a disfarmi: mi tolgo di su la testa questo grave peso, di tra le mani l’impaccio di questo scettro, e dal cuore l’orgoglio della sovrana maestà. Con le mie proprie lacrime mi detergo la sacra unzione, di mano propria consegno la mia corona, con la mia propria lingua rinnego la mia sacra autorità, con la mia stessa voce sciolgo ogni giuramento di rito, abiuro a pompa e fasto […]
Dimenticando persino il proprio nome, Riccardo rivela la struttura nominalistica, quindi del tutto convenzionale e artificiale, su cui si fondava il suo potere:
L’universale che ha nome “Regalità” comincia a disintegrarsi; la sua “Realtà” trascendentale, la sua oggettiva verità e divina esistenza, così brillanti fino a un momento prima, svaniscono in un niente, in un nomen. E la semirealtà che rimane assomiglia a uno stato di amnesia o di sonno (Kantorowicz [1957, 1989] 2012, 29).
Inizia a sciogliersi l’impasto di retorica del linguaggio cerimoniale e di suggestione immaginativa, che fondava l’efficacia concreta, gli effetti di realtà della finzione monarchica. È vero che finzione e teatro sembrano condividere la medesima incapacità di distinguere senza ambiguità tra verità e menzogna, tra effettività e immaginazione. Ma proprio per questo l’impalcatura spettacolare e il trucco ingannevole delle finzioni politiche possono essere distrutti dall’esorcismo teatrale, dalla sua potenza suggestiva che disputa sulla stessa scena incantatoria, mutando il veleno della stregoneria ideologica nell’antidoto di una consapevolezza rivoluzionaria. Quando Riccardo II fissa la propria immagine riflessa,
lo specchio ha il potere di uno specchio magico, e Riccardo stesso è il mago che, come il mago intrappolato e messo con le spalle al muro delle favole, è costretto a volgere contro se stesso i suoi magici poteri.[…]. Quando infine, alla “fragile gloria” del suo volto, Riccardo scaglia lo specchio al suolo, va in pezzi non solo il passato e il presente di Riccardo ma ogni sembianza di un supermondo. […] La rottura dello specchio significa, o è, la scissione di ogni possibile dualità (Kantorowicz [1957, 1989] 2012, 40).
È politicamente significativo quanto aggiunge ancora Kantorowicz: la scena della deposizione di Riccardo II non fu stampata fino alla morte della regina Elisabetta, il cui antagonista, il conte di Essex, la fece invece rappresentare al Globe Theatre, alla vigilia del suo sfortunato tentativo insurrezionale. Il dramma fu di nuovo proibito da Carlo II, perché ricordava troppo realisticamente i fatti del 1649, quando il suo predecessore, Carlo I, perse, non metaforicamente, la testa…
L’emblema di Riccardo era un sole che usciva dalle nuvole e che, ben prima di Luigi XIV, voleva abbagliare con la sua luce la vista dei sudditi. Ora le immagini solari riflettono solo “lo splendore della catastrofe”. Shakespeare mette in bocca a Riccardo lo scioglimento dell’arcano, la rivelazione lapidaria che il re è nudo:
non fatevi gioco di un intruglio di sangue e di carne tributandogli solenne onoranza; mandate a rotoli tradizione, formalità e cerimoniale, perché voi, fin qui, vi siete ingannati a mio riguardo. Io vivo di pane come voi; ho, come voi, necessità, dolori e bisogno di amici. Così definito, come potete venire a raccontarmi che io sono un re?
Qualcuno dovrebbe avvertire Carlo, appena incoronato re di Gran Bretagna, Australia e zone collegate. Il quale invece, dopo essersi assicurato di avere ancora la testa sul tronco, ci intrattiene con l’argomento sciamanico che, variando la ricetta dell’unguento sacro che lo ha titolato Unto dal Signore, introducendo quindi nella formula magica varianti vegane – che però immancabilmente renderanno vana l’immodificabile cerimonia misterica – inaugurerà l’Età edenica di un reame allineato alla moda green e – speriamo – biodegradabile. Carlo, come aveva anticipato il gossip (chiamato ormai a sostituire gli scomparsi giuristi di corte), non rha rinunciato però a schermare con una tenda il momento del suo incontro eucaristico con un non meglio specificato dio, disposto, pare, a nominarlo suo vice fino a scadenza. Facendo calare quel nero sipario, i Misteri dello Stato sono indubitabilmente salvati. Almeno fino alla prossima puntata.
Bibliografia
- Foucault [1975, 1976] 2012
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione [Surveiller et punir, Paris 1975], trad. di A. Tarchetti, Torino [1976] 2012. - Foucault [1976, 1978] 2013
M. Foucault, La volontà di sapere [La Volonté de savoir, Paris 1976], trad. di P. Pasquino e G. Procacci, Milano [1978] 2013. - Kantorowicz [1957, 1989] 2012
E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale [The King’s Two Bodies, Princeton 1957], intro. di A. Boureau, trad. di G. Rizzoni, Torino [1989] 2012. - Kantorowicz [1955] 2005
E.H. Kantorowicz, I misteri dello Stato [Mysteries of the State, 1955], in Id., I misteri dello Stato, cur. di G. Solla, trad. di D. Bovino, Genova 2005, 187-221. - Hobbes [1651] 1989
T. Hobbes, Il Leviatano [ed. or. Cambridge 1996], trad.it a cura di Arrigo Pacchi, Roma-Bari 1989. - Solla 2005
G. Solla, Finzioni, in Kantorowicz [1955] 2005, 7-34. - Skinner [2002] 2006
Q. Skinner, Virtù rinascimentali [ed. or. Cambridge 2002], trad. di C. Sandrelli, Bologna 2006.
Taking the cue from the coronation ceremony of Charles III, the paper questions the reasons for the institutional persistence of the Monarchy, an archaeological remnant of the Age of Absolutism which still maneouvre the constitutions of contemporary Europe. This includes those countries that are formally Republics and on which the gloomy legacy of absolute monarchy persists with a faint authoritarian influence. In the light of Ernst Kantorovicz’s seminal books, this paper focuses on the arcana imperii, the “Mysteries of State”, which, behind the glittering glare of ceremonies and rhetorical language and complicated mechanisms designed to seduce people, conceals all the illegal actions indispensable to perpetuate systems of power and, to this date, continues to limit the freedom of a conscious political choice – even in the societies that proclaim themselves “democratic”.
keywords | Mysteries of State; Monarchy; Republican thought.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Peppe Nanni, Finzioni che non funzionano: due corpi di troppo, “La Rivista di Engramma” n. 202, maggio 2023, pp. 13-19 | PDF of the article