Solve et coagula
Processi di destituzione del corpo nell’archivio del Teatro delle Albe
Marco Sciotto
English abstract
I. L’archivio d’arte del Teatro delle Albe: da deposito a dispositivo
La nozione di archivio, la sua funzione e, principalmente, la sua declinazione nell’idea di archivio d’artista e di archivio teatrale pare trovarsi in un cruciale punto di intersezione tra due movimenti fondamentali che, negli ultimi anni, stanno attraversando rispettivamente il panorama degli studi teorici e accademici e quello delle pratiche delle arti contemporanee e del teatro in particolare. Ci riferiamo, da un lato, all’esigenza sempre più evidente di interrogare una simile, complessa nozione con modalità e prospettive che vadano nella direzione di un ripensamento del suo stesso statuto, facendolo slittare sempre più dalla sua funzione prettamente conservativa, di deposito, a una funzione che sia al contempo attiva, di dispositivo capace di connettere, riconfigurare e rilanciare i materiali che esso conserva in sempre nuove direttrici di senso e di relazione. Dall’altro lato, ci riferiamo all’esigenza altrettanto evidente e seminale da parte delle arti contemporanee di ricorrere all’archivio, alle sue pratiche e alle sue specificità, per assumerlo come paradigma dei propri processi creativi e, nella direzione opposta e complementare, per produrre una memoria di quei processi che sia altrettanto viva e generante quanto l’atto di creazione artistica dal quale deriva.
In particolare, una simile questione si pone in modo sempre più centrale in quella che può essere considerata come la forma artistica che, con l’idea stessa di persistenza e dunque di memoria, instaura la relazione più paradossale e problematica, ossia l’arte teatrale. Un’arte che fonda la propria specificità e la propria esistenza sull’impermanenza, sullo svanire dell’opera al momento del suo compimento, sulla assoluta compresenza di opera e fruitore, pone, infatti, le questioni più problematiche e insieme necessarie e feconde all’idea di memoria e di archivio, alla possibilità di conservazione della sua essenza più profonda e della specificità della sua natura. Dunque, un’idea di archivio e di memoria dalla quale emerge in modo sempre più pressante l’esigenza di porsi non come semplice ricordo e testimonianza di ciò che è stata la vita dell’opera sulla scena, una sua traccia disinnescata e inerte, ma come processo altrettanto vivo di costante riattivazione e creazione differente.
Nel panorama del teatro contemporaneo e delle modalità in cui esso sta provando a tracciare le strade più proficue per un simile ripensamento della questione legata all’archivio e alla memoria delle arti performative, una compagnia come il Teatro delle Albe di Ravenna si pone certamente come uno dei tasselli fondamentali, un privilegiato punto d’osservazione e spazio d’azione per interrogare e insieme provare a riconfigurare le strade che l’idea di archivio può tracciare in relazione all’arte teatrale. Uno spazio d’azione privilegiato, in quanto si tratta di una realtà artistica che nel corso della propria storia ha costantemente rivolto un’attenzione non comune alle potenzialità rappresentate da un certo modo di intendere e praticare la memoria legata ai propri processi. Un privilegiato punto d’osservazione, poi, vista la multiformità radicale del percorso artistico delle Albe, che colloca il gruppo tra le realtà più poliedriche della scena contemporanea e che quindi, allo stesso tempo, ha la capacità di porre le basi per una perlustrazione davvero stratificata, variegata e complessa di cosa e come, in esso, è in grado di farsi memoria realmente viva.
Fondata a Ravenna nel 1983 da Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Marcella Nonni e Luigi Dadina, la compagnia ha portato avanti, in ormai quarant’anni di carriera ininterrotta, un percorso artistico che ha segnato, come pochissimi altri gruppi, la storia del teatro di ricerca italiano, contribuendo a una vera e propria ridefinizione e rielaborazione dei suoi percorsi e delle sue poetiche. Dalla fondamentale ricerca e interrogazione sul suono, sulla vocalità e sulla musicalità alla pubblicazione di numerosi libri che rilanciano i percorsi delineati dalle pratiche sceniche del gruppo in altrettante traiettorie teoriche ed estetiche; dalla sperimentazione attraverso il medium cinematografico alla costante necessità di elaborare relazioni, circuiti, ibridazioni con altre realtà e con altri artisti; dal rapporto intessuto fin dai primissimi anni con forme culturali distanti e insieme percepite come intimamente vicine, come nel caso della relazione – tuttora viva – con il continente africano, tra Senegal e Kenya, al rapporto fecondissimo con la comunità cittadina che vive gli spazi fisici e quelli della creazione artistica come luoghi realmente comunitari e multiformi. Fino all’attività che forse più d’ogni altra vale al Teatro della Albe la definizione di ‘teatro-laboratorio’, ossia la cosiddetta ‘non-scuola’, nata nei primi anni Novanta come rete di laboratori nelle scuole di Ravenna e poi diramatasi, fino a oggi, in innumerevoli percorsi che, come un contagio, si sono spinti di là dai confini nazionali ed europei, giungendo, ad esempio, in Africa e negli Stati Uniti d’America.
Guardare all’archivio di una realtà artistica come il Teatro delle Albe significa, dunque, provare a osservarlo come caso studio fondamentale e, in qualche modo, seminale in relazione a un’idea di archivio teatrale che vada nella direzione di un suo farsi attivo dispositivo di sensi e tracciati sempre nuovi.
Un ripensamento che sposti ulteriormente il paradigma dalla sola idea ‘archivio d’artista’ a quella di ‘archivio d’arte’, per dirla con Enrico Pitozzi, ossia di un archivio che si faccia preservazione, conservazione e messa a disposizione di tutti i materiali che una compagnia ha generato a partire dal proprio lavoro ma capace, soprattutto, di porsi al contempo come spazio ideale di riconfigurazione e organizzazione di quei materiali intorno ai princìpi estetici fondamentali che guidano i processi artistici dai quali sono scaturiti. Insomma, un’idea di archivio come spazio di creazione non meno vivo di quello della scena e che da quella tragga le direttrici in grado di unificare l’uno e l’altra in una medesima configurazione, pur nelle rispettive nature tanto differenti. Nella direzione di un ‘archivio vivente’, come definito da Eugenio Barba in merito al lavoro svolto negli archivi dell’Odin Teatret: “Il passato ha una lingua che consiste di segni emblematici che alludono al silenzio e introducono a uno spazio altro. Esiste una scienza di come evocare quello che è avvenuto in una turbolenza e simultaneità di decisioni calcolate, impulsi irrazionali, reazioni emotive, coincidenze fortuite, contraddizioni. […] Appartiene a pochi dominare questa scienza che risuscita il passato come percorso iniziatico del lettore, e lo fa sognare ad occhi aperti. I grandi storici del teatro sono poeti, sirene dal canto irresistibile. […] La lettura dei loro libri, germogliati negli archivi, ci rende ciechi e veggenti. Organizzare un archivio significa renderlo vivente per ispirare le sirene a cantare” (Barba 2015, 10).
Un archivio, dunque, che cerchi non tanto di mostrare i resti, le rovine delle forme create in scena, quanto piuttosto di rivelare, attraverso i propri stessi strumenti, i nuclei di forze, i flussi di energie e i tracciati di potenze che senza posa attraversano il percorso di una realtà artistica, condensandosi ciclicamente in singole opere ma non esaurendosi in esse. Un dispositivo che – rivolgendosi più alla persistenza dei processi che all’effimerità dei prodotti – sia in grado di intercettare quei flussi, quelle forze e quelle energie e di trovare modalità di manifestazioni differenti ma insieme affini rispetto a quelle della scena, nella sfida costante di non addomesticarle o, peggio, disinnescarle. In questa direzione, il Teatro delle Albe ha da sempre prestato un’attenzione costante alle possibili strutturazioni del proprio archivio. Dalla nascita come deposito, allo strutturarsi pian piano intorno a un suo ripensamento in grado al contempo di ridefinire l’idea di memoria dell’arte teatrale, fino alla recente costituzione di una vera e propria squadra di lavoro intorno all’archivio che include differenti competenze e al confluire dell’archivio stesso in Malagola, il centro studi internazionale di ricerca vocale e sonora fondato a Ravenna nel 2021 da Ermanna Montanari ed Enrico Pitozzi. Una realtà che nasce, già nella sua idea originaria, come spazio polifunzionale nel quale far confluire e convivere, in reciproca valorizzazione e arricchimento, una scuola di vocalità con un corso di alta formazione, spazi per incontri teorici e pratici, seminari aperti all’intera città, ambienti dedicati alla fruizione immersiva e alla consultazione di archivi audiovisivi che attraversino la storia dei percorsi più rilevanti legati alla vocalità, principalmente in relazione alla scena teatrale, e spazi destinati a farsi collettori e connettori di archivi d’arte.
II. Un unico principio alchemico per i processi della scena e quelli dell’archivio
Chiara Guidi, cofondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio, trattando delle modalità più profonde con cui ciascuno di noi può rapportarsi a un testo o a un’opera, qualunque essa sia, ricorre a un’immagine presa in prestito dal mondo degli insetti e dal modo in cui di essi si occupa l’entomologo Jean-Henri Fabre (Fabre 1913). In particolare, a interessare Guidi è quello che viene denominato “insetto Capricorno”, “il principale responsabile della rovina della quercia”. Spiega Guidi – definendo, sulla scorta di Fabre, l’insetto Capricorno come “un pezzo di intestino che striscia” – che esso
“divora letteralmente la sua strada. Percorre la via che di mano in mano apre divorandola. Non mangia tutto il legno ma nel grande albero traccia una traiettoria. […] Mi pare che la pianta sia il testo. Non posso mangiarlo tutto ma in un punto mi colloco e lì lo mangio per mettermi in cammino, per crescere dentro di lui. L’insetto Capricorno mangiando ingrassa, per cui, per procedere, dovrà dilatare lo spazio del suo cammino fino a raggiungere l’uscita e diventare farfalla” (Guidi 2021, 19).
Se in questo passo alla parola ‘testo’ sostituissimo la parola ‘archivio’, l’allegoria rappresentata dall’insetto Capricorno si presterebbe alla perfezione a raffigurare il modo in cui, inevitabilmente, ci si può porre in relazione all’attraversamento di un archivio stratificato, molteplice e complesso come quello del Teatro delle Albe. Nell’impossibilità di ‘mangiarlo tutto’, diventa necessario collocarsi in un punto e, da lì, mettersi in cammino ‘crescendo dentro di esso’, tracciando in esso ‘tunnel’ che si aprono e prendono vita solo grazie a quell’avanzare ‘fagocitante’, ponendo in contatto aree che magari, senza l’aprirsi di quelle gallerie, non avrebbero potuto scoprirsi in relazione. Come scrive Daniele Del Giudice in Atlante occidentale, “[p]er vedere bisogna avere la forza di produrre ciò che si vuol vedere […], perché ciò che è stato prodotto per poterlo vedere non lo si vede mentre accade: si vede prima come intenzione, si vede dopo come risultato” (Del Giudice [1985] 2019, 42).
Questa stessa necessità impone di interrogarsi anche e innanzitutto su quale possa essere il punto di inizio del cammino più giusto per raccontare un simile archivio, sulla scelta del più adeguato avvio per un tale tragitto. Ci si dovrà dotare di una mappa senza la quale il territorio risulterebbe impraticabile, una mappa capace di ridefinirsi e ampliarsi nel suo procedere, lungo il cammino stesso. E un simile principio non può che derivare dall’individuazione di un equivalente principio generale che governerebbe, in modo più o meno manifesto, tutte le pratiche di chi quell’archivio ha generato e che a esso ha dato, e continua a dare, forma e sostanza. Si tratterà di individuare un principio che possa contenere tutti gli altri e dal quale gli altri deriverebbero di conseguenza: a partire da quello, ci si potrà incamminare dentro l’archivio, non con l’obiettivo di ricostruire o restituire la storia della compagnia attraverso i suoi documenti, rendendo in tal modo l’archivio ‘trasparente’ e funzionale alla sola consultazione di fonti e materiali, ma piuttosto per osservare come quel principio governi l’archivio stesso, si muova all’interno dei materiali che lo costituiscono tenendoli insieme e riconfigurandoli secondo le proprie traiettorie. Un principio che dovrebbe permettere, dunque, di ricostituire un’unione tra i materiali, una loro connessione a fronte della loro separazione e suddivisione tipologica, così come quel medesimo principio, sulla scena, permette l’aggregarsi degli elementi che compongono la forma teatrale, il loro fondersi in quella tensione che genera l’opera. Dunque, un’idea di memoria differente che l’archivio in tal modo sarebbe in grado di trasmettere: non la memoria degli spettacoli – che pertiene, realmente, solo a chi vi ha preso parte o a chi vi ha assistito – ma quella di ciò che a essi ha condotto e che di essi sopravvive come slancio, impulso e necessità.
Provando ad ampliare lo sguardo e la ricerca tanto in verticale, sulla linea temporale della sua evoluzione dalle origini a oggi, quanto in orizzontale, nelle diramazioni e nelle reti di strade che in quella si aprono, potremmo affermare che un principio cardine, generale, che sembra davvero governare la storia artistica delle Albe nella sua interezza, sia quello definibile come un principio d’insufficienza. Dai prodromi della compagnia a oggi, di opera in opera e di progetto in progetto, pare sempre che la spinta prima e costante – con una consapevolezza, naturalmente, via via maggiore – sia la percezione di un’insufficienza dell’umano per come si è abituati a considerarlo, d’una sua radicale mancanza come unità autonoma e chiusa, stabile e autosufficiente. Sembra che, pur nelle modalità più diverse, l’esigenza fissa e incessante che tutto origina, muove e organizza sia sempre quella di un’arte che destituisca il canone dell’‘essere umano’ in ogni suo aspetto, che agisca attraverso gli strumenti della scena per metterne in crisi la configurazione, spezzarne i limiti, decostruirlo e disperderlo per interrogarlo e ritrovarlo altrimenti. Per ricostituirlo in un’unità differente, che non equivalga ai suoi confini delimitati che pretenderebbero di isolarlo e individuarlo, ma che, piuttosto, lo sveli e riveli nelle sue infinite interconnessioni possibili e necessarie con il circostante, con ogni altro essere e con ogni altra dimensione. Un’arte che si muova in una estrema attenzione verso l’essere umano ma in una direzione radicalmente antiantropocentrica, potremmo dire: che dell’umano possa cogliere la continuità col vivente e con l’inorganico e non il suo distacco da essi, spostandolo in una dimensione di equivalenza e non di presunta supremazia rispetto a ogni altra forma del reale e mostrandolo in quel continuum per cui se ogni unità è destinata a perire e dissolversi, la vita come interconnessione inscindibile si perpetua senza soluzione di continuità. In questo, d’altronde, sembra già di scorgere un legame di analogia con l’archivio teatrale stesso nella sua relazione con le opere dalle quali deriva: allo stesso modo, infatti, se le opere come unità sono vocate per loro natura a svanire nel breve arco della loro vita individuata sulla scena, il loro convertirsi in archivio e il loro mutarsi attraverso esso in fitte interconnessioni ne permette una sopravvivenza infinita fatta di costanti mutamenti e rigenerazioni.
E se il ricorso all’idea di ‘alchimia’ riaffiora continuamente lungo le dichiarazioni di poetica e di prassi delle Albe e i lavori di studio a esse dedicati, una simile idea non si limita, a nostro avviso, al mero riferimento al modo in cui gli elementi della scena si compongono e amalgamano attraverso l’atto di creazione posto in essere dal gruppo, ma si rivela nella sua evidenza estendendosi proprio al principio di destituzione e ricostituzione del paradigma dell’umano che stiamo assumendo come guida. In particolare, a mostrare un simile legame basterebbe il richiamo a quella formula chiave, quel suo fondamento caratterizzato dal doppio processo del ‘solve et coagula’ che, nella complessità e varietà della storia dell’alchimia, compendia in un unico principio generale tutte le funzioni che in essa si articolano e alternano. Soluzione e coagulazione, dissolvere e coagulare, o meglio: dissolvere ‘per’ coagulare. Una formula operazionale che nel processo alchemico equivale alla prescrizione di procedere dapprima allo scioglimento, la disintegrazione della materia ‘vile’ attraverso la sua lenta cottura in crogiolo, la riduzione ai suoi elementi primi per liberarla da ogni impurità, per passare successivamente alla sua ricomposizione differente attraverso quelle trasmutazioni che la condurranno allo stadio più nobile, in grado di ricavare l’oro dal piombo, la materia più pura da quella più impura.
Una formula che rispecchia accuratamente proprio quel principio che abbiamo posto come cardine di tutto il lavoro delle Albe e il processo primario che esso richiama, ossia, appunto, la disgregazione della dimensione umana nella sua configurazione finita, limitata e chiusa per ricostituirla in forme aperte, accessibili alle trasmutazioni che le derivano dal legame col circostante, in configurazioni di volta in volta differenti ma accomunate da questa propensione alla compenetrazione con ogni altra dimensione.
Dunque, un doppio movimento, un doppio processo che pertiene tanto al lavoro in scena del Teatro delle Albe, quanto all’archivio di quel lavoro scenico: l’uno e l’altro unificati e congiunti da quel principio operativo alchemico del ‘solve et coagula’ che si declina in modo differente ma affine nell’uno e nell’altro. Un principio che, così come governa nelle sue linee generali il primo, pare suggerire al secondo possibilità di lettura, di osservazione, di interrogazione.
L’archivio, infatti, sembra porsi in tal modo quasi come dispositivo ricettore e captatore di simili sommovimenti di dissoluzione e coagulazione, di disintegrazione e ricomposizione dell’umano che attraversano e strutturano il processo artistico del Teatro delle Albe, le sue opere compiute, i suoi numerosi progetti satellitari: ne tiene traccia e, a ben leggerlo e selezionandone i segni e i resti più rivelatori, li racconta, li tiene in vita e li trasmette nel tempo.
Scrive Georges Didi-Huberman: “[i]l tempo ci pone sempre sull’orlo di precipizi che, nella maggior parte dei casi, non vediamo. Lo storico-sismografo non è il semplice descrittore dei movimenti visibili che si verificano qua e là; è soprattutto l’inscrittore e il trasmettitore dei movimenti invisibili che sopravvivono, che si preparano nel sottosuolo, che scavano, che attendono il momento – per noi inatteso – di manifestarsi all’improvviso” (Didi-Huberman [2002] 2006, 117).
In tal modo, entrare nell’archivio del Teatro delle Albe per farne un dispositivo capace di mostrare le sue stesse dinamiche, i suoi campi di forza, significa intercettare e rivelare proprio quei movimenti visibili e invisibili di disgregazione e ricostruzione differente dell’umano che esso custodisce e che governano il lavoro della compagnia. Movimenti del ‘solve et coagula’, che si fanno dinamica generale e primaria di una serie di declinazioni e trasmutazioni differenti, di variazioni e deviazioni possibili, di percorsi e movimenti infiniti che si può solo provare ad abbozzare e segnalare, ma che si aprono alle altrettanto infinite letture che dell’archivio possono darsi.
Se i movimenti riconducibili al ‘solve’ sono movimenti primariamente centrifughi e agiscono disgregando la dimensione umana attraverso azioni mirate a una messa in crisi del suo corpo, della sua voce e del suo linguaggio, dei luoghi che gli pertengono e della sfera culturale in cui è immerso, quelli speculari riconducibili al ‘coagula’ si presentano invece come centripeti, ma nella direzione di un centro che è, in realtà, una irriducibile forma di policentrismo, che fa del piano umano una soglia aperta all’altro, all’unione corale col circostante, che si struttura intorno a una profonda attenzione verso l’inscindibilità tra le dimensioni animali, vegetali e minerali, fino a una spinta verso l’idea del sacro che si pone come massimo movimento di spalancamento dell’umano oltre se stesso.
E non potendo, in questo contesto, attraversare simili percorsi e movimenti nella loro interezza, è interessante provare perlomeno a interrogare e sollecitare quello che a essi dà avvio e scaturigine, ossia la destituzione scenica della dimensione fisica, corporea dell’umano e il modo in cui l’archivio delle Albe ne capta e prosegue l’azione riassettandola attraverso i propri mezzi e strumenti, differenti da quelli della scena e, dunque, in grado di integrarne i processi.
III. Tracciati di destituzione corporea dell’umano verso la Figura
“Il cammino dall’idea all’opera si fa in ginocchio”: questa frase del drammaturgo tedesco Georg Büchner viaggia da sempre lungo il lavoro del Teatro delle Albe come monito, indicazione e bussola costante. Una frase tanto fondamentale da far da ponte e cucitura tra la sua storia e quella che possiamo definire come la ‘preistoria’ della compagnia, ossia gli anni tra il 1977 e il 1983 che vedono Montanari e Martinelli all’opera con le prime sperimentazioni sceniche. La frase di Büchner, infatti, accompagnerà le Albe a partire dal loro lavoro sul Woyzeck del 1979, fino a scolpirsi tra quelle ‘pietre miliari’ che Montanari raccoglie, componendo per lampi l’immaginario mosaico dei propri riferimenti di poetica.
Una frase che, alla luce delle pratiche di lavoro delle Albe dalla nascita a oggi, si rivela ben più che meramente metaforica. In particolare, quel riferimento posturale, quell’‘in ginocchio’ – prescrizione che riferisce della necessità di un lavoro radicale che, attraverso i mezzi della scena teatrale, possa condurre dall’idea originaria dell’opera, dal suo abbozzo su carta e a tavolino, alla sua vita sul palcoscenico – inscrive quel lavoro radicale nel corpo. Sembrerebbe quasi scontato, dal momento che il teatro è per eccellenza arte del corpo e dei corpi, eppure si tratta di un riferimento che va oltre questa semplice interpretazione, segnalando già una necessità, perché l’opera trovi la propria realizzazione, di messa in crisi del corpo stesso, del suo assetto fisico consueto, della sua stabilità che ne garantisce la persistenza e la conservazione.
Senza voler ridurre e sminuire la complessità di sfumature e implicazioni racchiuse nell’assunzione della frase di Büchner come una delle indicazioni di poetica e prassi più utilizzate dalle Albe, questo accenno a un intaccamento posturale come punto di partenza, come traghettamento necessario perché l’opera si compia, esemplifica con l’evidenza della brevità quel primissimo lavoro di destrutturazione della forma umana abituale, perché un’altra forma, differente, possa annunciarsi ed emergere. Il primo processo di destrutturazione dell’umano attraverso la creazione scenica passa, dunque, per un movimento di sfaldamento del suo ordine fisico, corporeo: è quello che aprirà, poi, a tutti i successivi processi di decostruzione e ricostruzione, di obliterazione e apertura.
La citazione büchneriana torna, tra le altre cose, anche a dare il titolo alla sezione firmata da Marco Martinelli all’interno del volume Seminario sulla drammaturgia curato da Luigi Rustichelli, nella quale Martinelli sottolinea, rispetto al proprio lavoro di drammaturgo all’interno delle Albe: “Io comincio elaborando una piattaforma di personaggi, di idee; scrivo un dialogo tra due personaggi, butto giù un monologo e con questi materiali vado dai miei attori e su questi materiali cominciamo a lavorare. […] C’è una specie di andata e ritorno continua tra la scrittura del testo e il lavoro in teatro. Questa è alchimia. L’alchimia era il pasticciare nei forni, con i metalli, perché dal ferro venisse fuori l’oro. Questa è alchimia, questo è teatro. È pasticciare attorno a questi foglietti, perché diventino carne” (Martinelli 1998, 56).
Una ‘scrittura di scena’ che, nelle parole dello stesso Martinelli che coniugano teatro, alchimia e carne, si delinea come un giungere alle parole attraverso la carne e non viceversa, attraverso un processo alchemico, appunto, che dalla scomposizione dell’uno ricava l’altro. In una specifica attenzione alla terminologia usata da Martinelli, d’altronde, è la parola ‘carne’ che troviamo e non la sua articolazione in un ‘corpo’. Come se quel processo alchemico rappresentato dal lavoro di creazione agisse proprio decostruendo il corpo fino alla sua materialità grezza, la carne, appunto, per fare di essa il campo di forze che, mettendosi in azione, permettono la trasmutazione da essere umano a Figura.
Specifica Enrico Pitozzi che la “figura è il divenire dell’attore. Essa […] dischiude la molteplicità di tutte le cose e respinge, così facendo, il patto con la permanenza. La figura è allora il divenire non-umano dell’uomo” (Pitozzi 2017, 43). Ed è la medesima idea di Figura che caratterizza l’analisi che Gilles Deleuze conduce sull’opera pittorica di Francis Bacon, per cui la “pittura deve strappare la Figura al figurativo” (Deleuze [1981] 2004, 29). “Fin dall’inizio”, prosegue Deleuze, “la Figura è il corpo […]. Ma il corpo […] attende qualcosa in se stesso, compie uno sforzo su se stesso per diventare Figura” (Deleuze [1981] 2004, 37-38), che si costituisce come “zona d’indiscernibilità, d’indecidibilità tra l’uomo e l’animale”, un campo, dunque, di retrocessione dell’umano, una “zona oggettiva di indiscernibilità [che] era già tutto il corpo, ma il corpo in quanto carne (chair) o carne macellata (viande)” (Deleuze [1981] 2004, 52). Il corpo, insomma, tanto sulle tele di Bacon quanto sulla scena delle Albe, possiamo dire che “si manifesta soltanto quando viene meno il sostegno delle ossa, quando la carne non ricopre più le ossa, quando carne e ossa esistono […] ciascuna però per suo conto, le ossa come struttura materiale del corpo, la carne come materiale corporale della Figura” (Deleuze [1981] 2004, 52).
Simili forze primarie che caratterizzano il processo di creazione del Teatro delle Albe come lavoro di decostruzione dell’umano verso il suo farsi Figura – forze che, appunto, conducono quel lavoro innanzitutto verso la sfera corporea della dimensione umana – non si dissolvono in modo irreversibile nel corso del loro operare, ma sopravvivono mutandosi e sedimentandosi. Sopravvivenza, mutazione e sedimentazione delle quali l’archivio si fa captatore, operatore trasmutativo e custode, con modalità ed esiti diversi, in relazione alle tipologie di forze, alle scaturigini di esse, ai relativi esiti scenici che esse generano e alle differenti tipologie di media che, entrando in contatto e collisione con esse, li registra e manifesta come fossero sostanze reagenti.
Tutto ciò a partire, naturalmente, dalle ideali stanze dell’archivio che si trovano nella relazione più prossima e diretta con la dimensione corporea dell’attore, con gli interventi su di essa e con le conseguenze di quegli interventi, ossia le stanze ne conservano gli abiti di scena. Se nell’impermanenza dell’opera scenica il corpo dell’attore è incarnazione della presenza irriproducibile, il suo tornare nel mondo a opera conclusa lascia dietro sé, nell’abito di scena, la possibilità di una permanenza superficiale ed evocatrice, l’opportunità paradossale di un’esitazione tangibile tra il perire della Figura e il suo sussistere. Un’ombra proiettata dalla Figura stessa che segna un tracciato capace di includere, in un unico elemento, le intenzioni originarie, le ispirazioni prime, il loro concretizzarsi e tutte le modificazioni che la vita sulla scena è in grado di imprimere su di essa.
Lungi dal limitarsi ad abbigliare il corpo dell’attore come avviene nella sua dimensione quotidiana, mondana – o come può accadere in un contesto teatrale legato a un’idea di ‘personaggio’, con tutto ciò che questo comporta quanto ad accessori funzionali alla sua definizione –, l’abito della Figura è, al contrario, di volta in volta sintomo delle sue modificazioni, segno visibile di trasmutazioni impercettibili, causa scatenante del divenire scenico, dispositivo in grado di porla in stati e intensità fisiche irraggiungibili altrimenti. Fino a giungere a quanto scrive Jean-Paul Manganaro in riferimento al costume scenico in Carmelo Bene: “[n]on è maschera […], ma costume di scena che “incidenta” il corpo dell’attore, corpo e attore si trasformano l’uno in gioco con l’altro, l’altro con se stesso” (Manganaro 2022, 18).
Come distaccatosi tramite un processo di esuviazione – quello che negli animali porta alla muta, al cambiamento ciclico dello strato epidermico superficiale – il costume di scena che rimane dopo l’opera, che da essa si stacca depositandosi in archivio, è, dunque, senz’altro il supporto materiale più prossimo al corpo dell’attore, alla Figura in cui esso si converte, in grado di evocare l’uno e l’altra come ancora presenti, seppure in una intensità fantasmatica, in quella ‘negoziazione tra distanza e prossimità’ cui fa riferimento Donatella Barbieri (Barbieri [2017] 2018, 210-211).
Il reparto costumi del Teatro delle Albe rappresenta un caso doppiamente cruciale in questa direzione, dal momento che nella quasi totalità degli esemplari in esso custoditi, la loro ideazione e progettazione è a opera di Ermanna Montanari, ossia dell’attrice centrale della compagnia, di colei che incarna il lavoro più radicale di decostruzione sul proprio assetto fisico, corporeo, nella direzione di quel farsi-Figura che abbiamo descritto. Una identificazione, questa, che conduce alle sue conseguenze più estreme una siffatta interrogazione intorno agli abiti di scena della compagnia, nei quali, appunto, il loro far tutt’uno con le forze che attraversano in profondità e in superficie il corpo dell’attore è caratteristica ancor più connaturata.
Tentando uno scavo cronologico nel cuore di quella partizione dell’archivio della compagnia, uno dei primissimi elementi rinvenibili è proprio quello che potremmo definire come un dispositivo che, per la propria stessa configurazione, agisce come emblematico modificatore del modo in cui il corpo dell’attore si offre sulla scena delle Albe.
Si tratta, nello specifico, di una giacca doppiopetto in cotone di colore verde con collo a cinturino alla quale sono state applicate numerose forchette in acciaio, conficcate in essa per i loro rebbi. Un abito realizzato nel 1987 da Ermanna Montanari e che, nel medesimo anno, sarà così centrale nella definizione della sua dimensione corporea da ricoprirla tanto sulla scena de I brandelli della Cina che abbiamo in testa, quanto fuori scena, nella dichiarazione di poetica da parte della compagnia imperniata intorno all’idea di ‘teatro politttttttico’ al Convegno di Narni e che, negli anni successivi, tornerà più volte a ricoprirla.
Una sorta di dispositivo che si trova come momentaneamente disattivato nella sua funzione, per l’assenza del corpo di Montanari che lo riempiva, ma che, pur in quell’assenza, ci mostra la sua possibilità di strumento in grado di convertire, sulla scena, il corpo attoriale in carne trafitta, infilzata, resa disponibile non più come architettura fisica dell’umano, ma come pasto, come carne da macello, per tornare alle parole di Deleuze. Un primo, seminale destituirsi della dimensione umana, verso la sua identificazione con quella animale, che passa da subito per una corporeità che sprofonda verso un’animalità divorata dal mondo, martoriata, il cui corpo è già cibo da ingurgitare, da incorporare. Un darsi del corpo innanzitutto come carne macellata, a disposizione, come materia decostruita offerta a mani e bocche altrui.
L’attivarsi di un simile processo di destrutturazione del corpo innanzitutto verso la carne macellata si propaga sulla scena del Teatro delle Albe a partire dalla Figura di Ermanna Montanari, per investire via via gli altri corpi che la abitano. Così, da quello stesso 1987 de I brandelli della Cina che abbiamo in testa in avanti, questo assetto del corpo che si fa carne di cui cibarsi, si pone come il primo vero, potente movimento che avvia la sua destituzione che ne permetterà aperture e trasmutazioni di là dalla finitezza della sola condizione umana.
Se di un simile movimento, l’ambito relativo agli abiti di scena preserva, dunque, il medesimo dispositivo di attivazione incarnato da quella giacca e dalle forchette in essa confitte, per individuare i tracciati che il suo manifestarsi si lascia dietro, è necessario interrogare un medium differente, in grado di intercettare e inscrivere su di sé l’articolarsi e lo svolgersi, nel tempo, di movimenti, forze e impulsi che attraversano e si propagano sulla scena. Si tratta naturalmente dell’ambito dell’audiovisivo, così composito quanto a formati, tipologie di materiali e linguaggi, da costituire realmente un complesso ‘sismografo’, per tornare alle parole di Didi-Huberman, dei sommovimenti più o meno manifesti che compongono l’opera teatrale. E, conducendo anche qui una perlustrazione cronologica, troviamo come primo elemento un lavoro filmico relativo, ancora, a I brandelli della Cina che abbiamo in testa che non è, tuttavia, la mera registrazione della sua versione teatrale, ma una ‘rimediazione’ di essa attraverso il linguaggio video da parte della regista cinematografica Maria Martinelli.
Osservando il modo in cui quel primo video di Maria Martinelli riesce a registrare quelle forze di disgregazione del corpo attoriale innanzitutto verso il suo rendersi carne da macello al pari di un corpo animale fattosi cibo da ingurgitare, possiamo vedere come esse, a partire dal loro dispiegarsi dal corpo di Ermanna Montanari e dall’abito che su di essa agisce, investano quelli di Luigi Dadina e di Giuseppe Tolo i quali, in piedi al centro del palcoscenico, aggrediscono voracemente la propria stessa carne, quasi fosse una preda da divorare. Una auto-aggressione che colpisce le uniche parti del proprio corpo che la posizione eretta permette alla bocca di raggiungere, ossia le braccia e le mani. Un’autofagocitazione, quella di Dadina e Tolo, che invera nell’azione della bocca, il potenziale scatenato dalle forchette infilzate nella carne della Figura di Montanari per tramite del suo abito di scena. Fagocitarsi per farsi carne masticata, per cessare di essere umani nel modo in cui lo si è stati fino a un attimo prima di essere corpi scenici e spalancarsi ad altro.
E questo moto di autofagocitazione, che si dispiega dall’abito di Montanari e coinvolge Dadina e Tolo, sopravvive al concludersi de I brandelli della Cina che abbiamo in testa, continuando a lavorare sottotraccia per manifestarsi nuovamente, quattro anni dopo, nel primo spettacolo firmato dalla sola Ermanna Montanari, ossia in Rosvita, che debutterà al Festival di Santarcangelo del 1991. Del ritorno di una simile sopravvivenza, l’archivio delle Albe non conserva alcuna registrazione audiovisiva, affidandone, piuttosto, la testimonianza innanzitutto alle parole di Marco Martinelli e della stessa Montanari. Scrive Montanari, in merito a questo lavoro ispirato alle opere della canonichessa sassone medievale: “Da tempo ero in cerca di parole, che amalgamassero nella scrittura la distanza solo apparente tra l’attendere e il cercare, tra la carne e le ossa” (Montanari 1992, 14). Anni dopo, in una lettera all’editore Luca Sossella, Martinelli ricorderà di come quello scontro tutto corporeo tra parole e carne passasse, appunto, anche da quel moto di autofagocitazione che, dopo aver transitato per i corpi di Dadina e Tolo, torna a investire il corpo scenico di Montanari, proprio in quella fusione tra bocca e braccio che caratterizzava la sua prima manifestazione:
Un esempio su tutti, per me folgorante: la lettera ai dotti, dove Rosvita si rivolge agli uomini, ai sapientes, perché giudichino il suo “libretto” e, implicitamente, la sua sfacciataggine di donna-che-scrive […]. Ermanna impugnava una lunga penna d’oca, verde, e nel guardare dritto in faccia gli spettatori scriveva con quella come nell’aria, e nello stesso tempo recitava appoggiando la bocca spalancata, prima sulla mano che reggeva la penna, morsicandola, e da lì continuava mordendo il braccio disteso, lo mordeva fino all’avambraccio, formando come una croce, deformando, stirando le parole, balbettando non per finzione ma per l’inevitabile, organica conseguenza del parlare mangiandosi (Martinelli 2014, 15).
E di questo ‘parlare mangiandosi’, resta traccia in archivio anche in uno scatto fotografico di Marco Caselli Nirmal, nel quale è congelato l’istante in cui Montanari morde il proprio braccio sinistro che regge la penna d’oca verde, mentre il destro – così come il suo sguardo – è teso verso l’osservatore, con la mano aperta in una posizione che pare quasi un’ingiunzione di distanza che si contrappone al punto di vista ravvicinato del fotografo, anomalo rispetto a quello dello spettatore.
Rosvita è, d’altronde, l’opera che, più di ogni altra nella storia del Teatro delle Albe, gioca sull’idea di misura e del suo strenuo tentativo di superamento, di ossessiva verifica di lunghezze, distanze e limiti, tanto reali e spaziali quanto metaforici e ideali, in vista dello sforzo sovrumano di oltrepassarli.
E dunque, il farsi archivio proprio di Rosvita attraverso il mezzo fotografico, pone in modo ancor più evidente le questioni più rilevanti sul rapporto tra opera teatrale e il suo divenire immagine fissa, tra il modo in cui facciamo esperienza della performance nel suo fluire e quello in cui stiamo davanti agli scatti che la condensano in un istante permanente. Ancor più quando, come nel caso dell’arte delle Albe, si ha a che fare con una concezione di teatro che spinge l’immagine scenica verso il proprio deragliamento, compone geometrie e campi visivi come costituzione di spazi creati per farli vibrare fino alla loro deflagrazione, e forza sempre di più il visibile a dissolversi nell’udibile, la limitatezza dell’egemonia retinica dell’immaginario nella smisurata dilatazione relazionale dell’acustinario, per dirla con Roberto Barbanti (Barbanti 2020).
La connaturata multiformità e ampiezza dell’archivio fotografico del Teatro delle Albe permette una riflessione fondamentale sulla fotografia di scena nel contesto di un’arte così concepita, sulla necessità di non darla per scontata e sul rischio del suo essere mera replica virtuale in grado di disinnescare la pulsante ‘differenza’ – da intendere nell’accezione con cui Jacques Derrida utilizza questo termine – che rappresenta la vita della performance. Insomma, una riflessione intorno al pericolo del far precipitare nella rappresentazione un teatro che si fonda sul suo rifiuto, sul suo superamento e sul costante sforzo di sfuggirvi.
Una sezione, quella fotografica del fondo della compagnia, che si pone come una sorta di ‘archivio dello sguardo’, di ideale preservazione dell’intera collezione dei punti di vista di tutti gli spettatori che hanno assistito ai quarant’anni di lavoro della compagnia, convogliati, ciascuno nella sua differenza, nello sguardo molteplice degli artisti della fotografia che hanno realizzato gli scatti. Ma più che nella direzione della testimonianza e della sua stabilità, è importante notare come simili scatti abbiano la potenzialità di farsi medium che, fissando in un’unica immagine la complessità del flusso di percezioni nel quale lo spettacolo immerge, permette di individuare, come al microscopio, le forze che agiscono sui corpi in scena e che in quel flusso erano inafferrabili e inesplorabili.
L’immagine fissa della foto di scena, non riproducendo il dispiegarsi univoco delle ‘posture somatiche’ dell’attore in una virtuale riproduzione di come si sono svolte sul palcoscenico, le ‘incanta’ sospendendole tra un istante anteriore e uno posteriore inconoscibili. Tale incantamento racchiude, dunque, tutte le evoluzioni di quell’istante congelato, che esso contiene in sé in potenza e che in esso si agitano e pulsano senza soluzione possibile, se non nella percezione sempre differente di chi, di volta in volta, le osserva. Un’energia sospesa che, dalla dinamica interna al tempo dell’opera che l’ha generata, produce un tempo differente, poliedrico e composito, così come avviene in quella che Deleuze definisce come ‘immagine-cristallo’, che ha in sé, in modo indiscernibile, il reale e il virtuale fusi insieme con i loro differenti portati di tempo.
Come scrive Didi-Huberman sulla scorta di Aby Warburg:
non siamo davanti all’immagine come davanti a una cosa di cui possiamo tracciare le frontiere esatte. L’insieme delle coordinate positive – autore, data, tecnica, iconografia… – non può ovviamente bastare. Un’immagine, ogni immagine, è il risultato di movimenti provvisoriamente sedimentati o cristallizzati al suo interno. Questi movimenti la attraversano completamente […]. E ci obbligano a pensarla come un momento energetico dinamico […]. Ciò significa […] che il tempo dell’immagine non è il tempo della storia (Didi-Huberman [2002] 2006, 39-40).
E ciò significa, dunque, conducendo il discorso nella direzione di quella particolare categoria di immagini rappresentata dalle foto di scena, che le loro frontiere esatte, da un lato ne permettono l’archiviazione appunto per ‘autore, data, tecnica, iconografia…’, dall’altro sfuggono alla presa della percezione e si aprono a una lettura differente. Se ‘il tempo dell’immagine non è il tempo della storia’, in questo caso possiamo dire che ‘il tempo della foto di scena non è il tempo dell’opera dalla quale essa proviene’. E non semplicemente nell’accezione più scontata ed evidente – fin qui, d’altronde, spesso ribadita – per cui nel suo tempo fissato sopravvive quello che invece nel tempo dell’opera svanisce, ma nel senso che il suo tempo può essere capace di bloccare e rivelare quei ‘movimenti provvisoriamente sedimentati o cristallizzati’ nella performance, che l’occhio dello spettatore non è in grado di intercettare in modo immediato.
Questa funzione non meramente testimoniale delle foto di scena contenute nell’archivio delle Albe emerge, tra l’altro, nelle parole di uno dei fotografi che più hanno lavorato in relazione alla compagnia, ossia Enrico Fedrigoli. Grazie soprattutto all’utilizzo del formato analogico e, in particolare, del banco ottico, Fedrigoli spinge in modo radicale la foto di scena nella direzione di quel suo farsi mezzo di intercettazione e manifestazione palese di quegli strati energetici che si muovono sul palcoscenico e che costituiscono la percezione profonda di cui lo spettatore fa esperienza, senza rendersene realmente conto. Afferma Fedrigoli a tal proposito:
Nel teatro ho iniziato a ragionare su ciò che l’occhio non vede ma che in realtà esiste. Dopo la base di stesura, io voglio smontare tutto a pezzi, per vedere che cosa c’è dopo, attorno, circolarmente: non a caso le mie foto sono stratificate, sono smontabili, tagliabili in pezzi. Si può parlare di irrealtà della visione, ma questo fatto fisico esiste perché il movimento viene realmente impressionato su una pellicola. […] Grazie alla disponibilità delle persone e dei gruppi, soprattutto degli attori, che si devono sottoporre a lunghissime sedute fotografiche, […] ho sviluppato un’idea non documentativa degli spettacoli, ma di una vera e propria interpretazione personale, che fosse in particolare visione di sintesi dello spirito e del clima di un lavoro, dal generale al particolare (Fedrigoli in De Angelis-Fedrigoli 2003, 87).
Un processo fotografico, quello di Fedrigoli, che contribuisce, dunque, in modo potente allo ‘smontaggio’ della dimensione meramente umana del corpo attoriale e alla sua mutazione attraverso l’emersione di ciò che le dinamiche della scena scatenano in esso. Processo al quale prendono parte, come si legge, le stesse esigenze tecniche e materiali dell’utilizzo del banco ottico, che agiscono sui corpi degli attori, stancandoli, portandoli oltre i limiti, nel raggiungimento di una fissità di immagine come corrispettivo della fissità imposta a quei corpi stessi, come azione su di essi che si somma a quelle prodotte dalla composizione scenica.
Ciò detto, la foto di scena si rivela, allora, come ulteriore disgregazione dei corpi teatrali, spingendo il processo sul palco a protrarsi e prolungarsi fuori dal palco, fissandolo e dilatandolo all’infinito.
Anche nei casi in cui non è all’opera quella evidente rielaborazione dell’atto teatrale posta in essere da Fedrigoli, le foto di scena agiscono infatti fissando posture instabili, congelando movimenti impercettibili, arrestando e insieme protraendo nel tempo le torsioni dei corpi.
Agiscono, inoltre, sezionando i corpi ulteriormente attraverso la scelta stessa dell’inquadratura, che mutila, ingigantisce o ricompone i corpi degli attori rispetto al modo in cui li si osserva, in sala, da spettatori.
Ancora, esse agiscono modificando il punto di vista sui corpi stessi – sommando così nella percezione il tempo della foto e il tempo dell’opera, e dunque il punto di vista di chi guarda la foto e quello di chi guarda lo spettacolo – e restituendoceli simultaneamente in un policentrismo che li scompagina quasi in modo cubista.
Così, avendo visto il modo in cui, sulla scena del Teatro delle Albe, il corpo scenico trovava innanzitutto un suo sprofondamento deumanizzante nel porsi come carne masticabile, commestibile, gli scatti fotografici che fissano gli istanti in cui gli attori perdono l’adesione all’asse verticale, quella che identifica l’ergersi dell’essere umano dallo stadio animale alla posizione eretta, ci consentono di osservare l’agire di un ulteriore ribaltamento. Un movimento che forza quei corpi al movimento contrario di abbassamento posturale verso l’orizzontalità che pertiene all’animalità.
Come scrive Yve-Alain Bois,
l’uomo è molto fiero di essersi eretto (e di aver abbandonato così la condizione animale, il cui asse biologico bocca-ano è orizzontale), ma questa fierezza è fondata su una rimozione. Verticale, l’uomo ha biologicamente senso solo per guardare il sole e bruciarsi gli occhi o per contemplare i suoi piedi nel fango: la sua attuale architettura, per la quale il suo sguardo orizzontale attraversa un campo visivo verticale, è un travestimento (Bois [1997] 2003, 15).
Quelle che potremmo definire come le foto sceniche del ritorno all’orizzontalità, allora, segnano un percorso che si dipana attraverso scatti in grado, lungo tutta la storia del Teatro delle Albe, di intercettare gli istanti in cui si manifestava il ritorno di quella rimozione cui faceva riferimento Bois. Istanti nei quali il corpo viene forzato a riaccogliere quelle spinte verso il basso cui si è dovuto opporre per guadagnare il proprio statuto fisico di essere umano.
Attimi congelati durante i quali si imprime sulla pellicola non tanto, o non semplicemente, una postura, un gesto, ma l’agire della forza di gravità contro l’architettura della dimensione umana, la sua riammissione attraverso la pratica scenica per mettere in crisi, a partire dall’assetto fisico, le certezze sulle quali l’uomo è fondato.
Un atlante – quello della riammissione della gravità che intacca la stabilità della postura umana – nel quale i suoi esiti momentanei si sono bloccati sulla pellicola e in questa forma sono offerti alla perlustrazione delle forze che li ha generati, come avviene con le sequenze cronofotografiche di Eadweard Muybridge; qui, in una trasversalità che restituisce l’intera storia delle Albe come in un unico moto di abbassamento. Esiti che si concretizzano in modi differenti, dalle posture che colgono questa discesa al suo stadio iniziale, fino alla definitiva orizzontalità, passando per una disseminazione di stazioni intermedie tra asse verticale e asse orizzontale, che piegano il corpo, lo pongono in ginocchio, lo fanno sedere al suolo, lo forzano ad accovacciarsi, ad accogliere l’azione delle forze discendenti senza opporvisi.
Un differente punto di vista su queste dinamiche sceniche di destituzione della dimensione umana è offerto da un’altra direttrice che possiamo tracciare lungo la teoria di foto di scena della storia delle Albe. Un punto di vista strettamente correlato a quello precedente, ma che sposta l’osservazione verso ulteriori possibilità di lettura.
Potremmo definirlo un atlante dell’instabilità, che restituisce uno sguardo ancor più radicale su questa forma di abbassamento, ponendosi in qualche modo negli interstizi tra le immagini dell’atlante precedente per cogliere gli attimi in cui i corpi si trovano in un punto di rottura della propria stabilità. Scatti che rivelano con maggiore evidenza le potenzialità del medium fotografico per un’interrogazione delle forze che agitano i corpi in scena, dal momento che consentono di perlustrare attimi che, dal vivo, si perdono nel flusso della visione.
Si tratta, qui, di scatti che hanno non solo la valenza di farci percepire in modo prolungato momenti di concentrazioni di forze dinamiche un istante prima del loro sprigionarsi, ma anche quella di ricondurre l’interrogazione a quella ulteriore forma di destrutturazione dal chiuso del soggetto umano alla sua relazionalità multiforme, che Adriana Cavarero riunisce sotto l’idea – insieme fisica e metaforica – di ‘inclinazione’ che contrasta, anch’essa, quei “dispositivi di verticalizzazione il cui fine è l’uomo retto” (Cavarero 2013, 8). Fa notare Cavarero come
La spinta dell’inclinazione scalza infatti l’io dal suo baricentro interno e, facendolo pendere fuori, ‘su oggetti o persone’, ne intacca la stabilità. Oltre che di un problema morale, per la concezione moderna dell’io si tratta di una questione di equilibrio strutturale e dunque, in ultima analisi, di una questione ontologica (Cavarero 2013, 14).
Questa fondamentale funzione di intaccamento della stabilità rappresentata dall’idea di ‘inclinazione’, capace di fare ‘pendere’ il corpo – e l’io – di là dal proprio equilibrio, proiettandolo in una parabola di movimento discendente, la quale trova appigli e puntelli su oggetti e persone che incarnano rispettivi elementi di apertura e relazionalità, emerge, appunto, in una serie di foto di scena nelle quali gli attori si scoprono ‘inclinati’, precariamente affidati a una sicurezza ritrovata fuori di sé. Una sicurezza e una stabilità destinata, di lì a un attimo, a spezzarsi per protrarre quel moto di caduta fuori di sé che “piega l’io e lo spossessa” (Cavarero 2013, 16) e che estenderà a ulteriori, precari punti di appoggio, la dimensione relazionale che è in grado di spalancare.
Fotografie che, dunque, non si limitano a rilevare la caduta del corpo nel suo passaggio dall’assetto verticale a quello orizzontale – come nella serie precedente – ma svelano ora in essa gli spazi di relazione che é in grado di generare. Relazione plurale, dove un’idea differente di equilibrio nell’instabilità non è data dal sostegno di questo o quell’elemento esterno al soggetto che, stabilizzandosi, costituirebbe una nuova dimensione chiusa, ma proprio dalla rete rizomatica di relazioni e aperture continue, della quale il punto fissato attraverso lo scatto non è che un’istantanea esemplificazione. Ancora con Cavarero, possiamo dire infatti che “il modello relazionale […] non prevede alcuna simmetria, bensì un intreccio continuo di dipendenze plurime e singolari, a volte estreme nell’accentuare la relazione squilibrata dei protagonisti in scena e, perciò, esemplari” (Cavarero 2013, 24).
E queste aperture relazionali trovano un ulteriore approfondimento in un’altra serie ideale che possiamo delineare attraversando l’archivio fotografico del Teatro delle Albe. Ci riferiamo, nello specifico, alle fotografie nelle quali l’intervento più evidente sui corpi immortalati non proviene più da forze invisibili o dall’interazione tra cadute e appigli materiali, ma da un elemento prettamente scenico, ossia dall’azione della luce.
Queste fotografie danno luogo a un ulteriore atlante che integra i precedenti con un passaggio fondamentale nella direzione di una maggiore collisione e compenetrazione tra i corpi degli attori e gli strumenti dell’arte teatrale. In questa sequenza, la disgregazione del corpo e della sua architettura umana si arricchisce inevitabilmente di un legame più stretto con la dimensione dello sguardo tanto dello spettatore quanto dell’osservatore della scena convertitasi in fotografia. Il moto disgregatore che stiamo osservando nelle sue manifestazioni lungo l’archivio coniuga, qui, l’arte per eccellenza legata alla luce – quella fotografica – con l’intervento della luce di scena, colta nelle occasioni in cui rivela – anche qui attraverso momenti esemplari – il suo ruolo di materia capace di modificare quell’altra materia in de-formazione che è il corpo attoriale.
Fa notare Cristina Grazioli come “la luce non è mai assoluta”, ossia non è “mai ‘sciolta’, bensì intessuta, intrisa d’altro; di materia” (Grazioli in Grazioli-Mari 2021, 30), una materia “particolarmente interessante quando si manifesta indissociabile da un movimento che ne altera lo stato, colta nei suoi processi di composizione e scomposizione, in quelli che possiamo chiamare genericamente ‘stati di passaggio’, a sottolineare la transitorietà della materia-luce” (Grazioli in Grazioli-Mari 2021, 31).
Materia-luce capace di agire sui corpi che investe riconfigurandone le strutture somatiche, sezionandoli in parti che emergono dal buio o in esso sprofondano, ridisegnando le geometrie delle figure, rimescolando quelle componenti cromatiche che sono tra le manifestazioni della luce in scena che più costituiscono un intervento capace di legare, sul piano fisico, il corpo degli attori e quello degli spettatori. Come fa notare Pitozzi, infatti:
in relazione stretta con la figura, il colore in scena muta gradualmente aprendo a sensazioni non solo ottico-visive (fotologiche), ma anche termiche (calore), tattili (consistenza), acustiche (luminosità acuta o grave, cromosomiche), olfattivo-gustative (dolcezza / acidità), inaugurando per lo spettatore sensazioni da abitare (Pitozzi in Montanari-Pitozzi 2021, 126).
E questo fondamentale passaggio attraverso il rapporto tra la materialità della luce teatrale e quella dei corpi che essa è capace di scompaginare, ci conduce in fondo a questo excursus sul modo in cui il medium fotografico capta, restituisce e contribuisce ai moti di destituzione fisica dell’umano, approdando a un’ultima traiettoria che possiamo tracciare in esso. Si tratta di quella direttrice che raccoglie le immagini in cui la materialità di quei moti viene imprigionata nell’acme del suo dispiegarsi e del suo fremito.
Gli scatti riconducibili a questa direttrice sembrano in grado, in modo evidente, di aprire uno spazio all’interno dell’immagine fotografica capace di contenere, senza anestetizzarle o disinnescarle, le energie entropiche che corrono lungo la composizione scenica e che, in tensione con le opposte energie ordinatrici, permettono il suo strutturarsi in una forma.
Il movimento di queste energie, che si rivela attraverso il suo intervento sui corpi fotografati, è qui mostrato in una ebollizione che porta quelle fotografie al di là della mera visibilità, permettendo a esse di accogliere materialità e temporalità nel pieno del loro dispiegarsi. È la funzione che Bois attribuisce all’idea di ‘pulsazione’ delle immagini, laddove afferma che
la pulsazione prende di mira l’esclusione […] della temporalità dal campo visivo […]. [Q]uello che la pulsazione denota […] è un battito senza fine che lacera l’assicurazione disincarnata della pura visibilità e vi precipita l’irruzione del carnale (Bois [1997] 2003,19-21).
È in gioco, dunque, in questa direttrice un passaggio fondamentale in grado di unificare la forma umana e quella del supporto che la cattura nell’immagine, nel medesimo processo che, disfacendo l’una, pare sul punto di disfare anche l’altro. Se fin qui erano chiamati in causa scatti che ingabbiavano il movimento agente sul corpo negli istanti dell’inizio della sua sparizione, quelli qui presenti fanno slittare quel rischio nella materia dell’immagine stessa, che sembra realmente sul punto di sparire.
E questo consegnarsi dell’immagine fissa nella direzione del movimento, nell’irruzione del carnale e della temporalità attraverso la pulsazione, di cui diceva Bois, conduce nuovamente, dunque, il nostro percorso al cuore del patrimonio audiovisivo contenuto nell’archivio del Teatro delle Albe.
Attraversare il suo territorio sconfinato avendo come guida la mappa che stiamo tracciando, significa intercettare una gamma di differenti intensità e tipologie di movimento attraverso le quali l’umano identificabile con l’ordine della sua organizzazione fisica viene spinto, da dinamiche interne o esterne, verso la sua destrutturazione.
Se attraverso il congelarsi in immagine fissa di queste intensità, abbiamo avuto la possibilità di osservare il modo in cui esse si condensano nell’istante per dispiegarsi in quelli successivi, tramite lo svolgimento visibile nel tempo che l’audiovisivo ci permette, possiamo cogliere la continuità dell’azione che esse sono in grado di imprimere e le conseguenze di tale azione.
Gamma, questa, ricucibile in sequenze successive che raccolgono passaggi di opere tratte dall’intero lavoro delle Albe – dagli esordi agli ultimi anni – condensati in un crescendo che rappresenta una vera e propria teoria di manifestazioni differenti delle medesime intensità sopravvissute nel corso degli anni.
A partire dall’incarnarsi di quella che abbiamo delineato come la tipologia generale di tutti i movimenti dissipatori che stiamo osservando, ossia la forza centrifuga, la cui azione, di rotazione in rotazione, attraversa in modalità sempre differenti ma affini la scena delle Albe già dalla rimediazione di Maria Martinelli de I brandelli della Cina che abbiamo in testa (1987), passando per La mano. De profundis rock (2005), fino ad arrivare all’ulteriore intensificarsi del movimento a spirale nel quale è coinvolta la Madre Ubu di Ubu buur (2008, regia di Alessandro Renda), i cui movimenti a spirale – attraverso le riprese di Renda, frastagliate, dal montaggio rapido e dai rapidi cambi di punto di vista – si presentano a noi in tutta la loro potenza disequilibrante, che spinge il corpo a perdere punti di riferimento e stabilità, conducendolo di continuo sull’orlo della caduta, del crollo definitivo.
Caduta e crollo sono esemplificati, poi, da schianti continui che costellano i lavori delle Albe – e di essi il fondo audiovisivo conserva traccia e opportunità di visione – così come di altre modalità tramite le quali il corpo perde la propria stabilità. Da quella relativa al ritorno costante di situazioni in cui esso si ritrova in balìa dell’intervento di terzi, ai casi in cui i corpi sono invece costretti o ostacolati nel proprio agire dall’intervento altrui; dalle situazioni in cui essi sono, poi, posti in condizioni di pericolo, per propria o altrui volontà, a quelle nelle quali è il sottoporsi a sforzi sfiancanti a portare alla dispersione del corpo, attraverso la dispersione delle sue forze, delle energie che lo tengono in vita; da evenienze nelle quali a condurre allo sfinimento non sono sforzi imposti o autoimposti, ma il liberarsi, grazie al campo di forze costituito dalla scena, di potenze che sembrano possedere, attraversare i corpi in esso racchiusi, in spasmi che li squassano, li scuotono, li attraversano come fossero parafulmini, ne scompongono i movimenti, fino a quelle in cui i corpi sono sottoposti a forme di violenza autoinflitta, di annichilimenti della figura o, perfino, di autosepoltura, quasi a manifestare quel che Lehmann afferma quando scrive che “[i]l corpo è come un punto d’intersezione in cui, a ben guardare, viene sempre tematizzato e problematizzato il confine tra i vivi e i morti” (Lehmann [1999] 2019, 187).
Giunti, così, in fondo a questa ideale galleria audiovisiva, è ancora possibile spostare idealmente lo sguardo dal palco alla sala, per osservare come un’idea di lavoro sul corpo attoriale incentrata innanzitutto sulla sua destabilizzazione, come quella del Teatro delle Albe, non può che propagarsi anche nella direzione degli altri corpi coinvolti nella dimensione dell’opera, ossia quelli degli spettatori.
La storia del Teatro delle Albe osservata dal punto di vista dello spettatore, si presenta costellata di situazioni nelle quali la sua stabilità innanzitutto fisica viene messa in discussione e in crisi, attraverso interventi che convergono verso un suo differente porsi in relazione all’opera, al suo spazio, ai suoi elementi e ai corpi che la compongono, anch’essi investiti da una messa in discussione altrettanto prolifica.
È quanto avviene in modo evidente nel 1998 con Perhindérion il cui titolo – parola bretone che significa ‘pellegrinaggio’ – e il sottotitolo Trittico peregrinante, generano già un ribaltamento che sposta l’accento dal contenuto dell’opera alle sue modalità di fruizione. Il pubblico, infatti, si trova da subito privato della stabilità della propria usuale postura fisica e dell’unicità del proprio punto di vista, spinto a un pellegrinaggio tra gli ambienti esterni e quelli interni del Teatro Rasi di Ravenna nei quali si svolgono le varie ‘ante’ dell’opera ispirata ad Alfred Jarry.
Un pellegrinaggio di corpi che non è semplicemente l’attraversamento di spazi precostituiti, ma che piuttosto equivale alla creazione stessa di uno spazio differente, scompaginato, multiforme il quale, senza quel camminare da spettatori attivi attraverso di esso, non sarebbe esistito come tale. Abbandonare momentaneamente l’usuale stare seduti in uno spazio già strutturato come quello della sala teatrale, modificare il corpo stesso dello spettatore, destituirne la fissità, per generare dimensioni teatrali ulteriori. “Lo spazio di Perhindérion”, scrivono, a tal proposito, Martinelli e Montanari, “sarebbe stato il cammino” (Martinelli-Montanari 2000, 12). Non camminare attraverso differenti luoghi, potremmo dire, ma attraverso il cammino stesso ‘farsi luogo’, usando un’espressione che farà da titolo al testo-manifesto di Martinelli del 2015. Espressione che Matteo Meschiari associa proprio a questa funzione destrutturante che l’azione del camminare sarebbe capace di innescare, funzione strettamente correlata con le destrutturazioni dei corpi scenici verso le infinite possibili loro trasmutazioni, che stiamo interrogando:
Camminare […] introduce all’esperienza del relazionale, del complesso, dell’impermanente: camminando mutano i nessi, i parametri, gli orizzonti, si annulla l’io autoassertivo […] Camminare è fare luogo, è costruire uno spazio primario, è radicarsi nello spazio. Ma siccome lo spazio non è un contenitore e nasce invece con gli eventi, è anche vero che lo spazio si radica nella camminata. In questo senso, camminare è farsi luogo (Meschiari 2017, 122-123).
Farsi luogo attraverso il camminare che, vent’anni dopo, tornerà ad agire sullo spettatore delle Albe in modo ancor più estremo, divenendo la modalità cardine delle tre opere – Inferno (2017), Purgatorio (2019) e Paradiso (2022) – che compongono il grande progetto del Cantiere Dante. Il pubblico, stavolta, accede all’opera non più attraversando, in un movimento circolare, i soli spazi del Rasi, bensì portando il proprio corpo lungo le strade di Ravenna, a partire dalla Tomba di Dante, e ricucendo, grazie al proprio farsi spettatore passo dopo passo lungo quelle strade, l’intera città come unico, stratificato spazio teatrale. Città che, grazie a quella modificazione dello statuto posturale, corporeo dello spettatore, è legata a doppio filo dapprima agli spazi interni del teatro considerato nella sua interezza, tra sala, corridoi, uffici e ambienti solitamente inaccessibili (Inferno), poi ai suoi luoghi esterni e al suo giardino (Purgatorio) e, infine, come la propagazione di un contagio, agli ambienti pubblici a esso adiacenti (Paradiso).
È una funzione decostruttiva e insieme rifondativa del camminare la cui azione, spostando lo sguardo dall’ambito teatrale a quello cinematografico, possiamo rinvenire anche in uno degli ultimi lungometraggi diretti da Marco Martinelli. Er (2021) segna, nella filmografia di Martinelli, un passaggio rilevante, dal momento che si presenta come punto di incontro tra teatro, cinema e archivio, come uno spazio in cui, appunto, il teatro si fa archivio e l’archivio si fa cinema. Martinelli, infatti, costruisce un viaggio attraverso sette momenti chiave del percorso scenico di Montanari, scelti all’interno dell’archivio audiovisivo della compagnia.
A legare i sette estratti, una cornice di didascalie ispirate al mito platonico di Er, appunto, e un filo conduttore rappresentato da una lunga ripresa nella quale Montanari cammina, a passo svelto, sul ciglio di una strada asfaltata sul bordo di un campo, ripresa introdotta dalla prima didascalia che, intrecciando il tema del corpo e del suo dissolversi con quello del camminare, recita: “Si narra che l’anima di Er / uscita dal corpo / cominciò a camminare…”. E la lunga camminata di Montanari, di spalle e sussurrando ripetutamente le parole del monologo di Macbeth seguenti la morte di Lady Macbeth, incarna, appunto, un parallelo farsi luogo in quell’interstizio tra teatro e cinema che il film rappresenta, una cucitura tra il montaggio dei differenti passaggi della sua carriera, che costruisce, nel cammino, lo spazio che si apre lungo la pellicola. Ed è interessante notare come la camminata di Montanari neghi, qui, il suo volto, essendo ripresa, come dicevamo, esclusivamente di spalle, eccetto che per il breve momento conclusivo. Il volto, che, apparendo di estratto in estratto, si modifica col fluire degli anni e delle differenti figure che in essi si manifestano, viene invece sottratto e oscurato in quella cornice che sembra incarnare il medium cinematografico che quegli estratti ingloba.
C’è, in questa negazione che il mezzo cinematografico permette relativamente al corpo teatrale di Ermanna Montanari, un ulteriore passaggio nella direzione della sua decostruzione che stiamo osservando. Un passaggio per cui, il medium – che l’archivio contiene, preserva e cui dà accesso – non si limita più a rivelare le forze, anche impercettibili all’occhio dello spettatore, che agiscono sui corpi nello spazio scenico, ma si fa esso stesso azione che spinge più in là – dove il mezzo teatrale non arriva – la modificazione dei corpi umani che lo attraversano. Passaggio dato non dal mero trasmutarsi della figura dalla sua tridimensionalità teatrale alla sua bidimensionalità cinematografica, che modifica già radicalmente corpo e spazio della sua manifestazione, ma anche, e soprattutto, da una modalità di sezionatura e smarginatura di quei corpi che solo i differenti media nei quali è catturato permettono di ottenere.
Dalla negazione del volto di Er, appunto al suo ingrandimento smisurato attraverso il primissimo piano di Rosvita. Lettura-concerto, nella versione in video dal collettivo Aqua-Micans Group, in cui il volto di Montanari, immerso nel bianco latteo del trucco, è restituito a pezzi dati dal suo continuo sfuggire oltre i limiti del frame. Ancora, un’ulteriore, differente tipologia di azione sul volto di Montanari attraverso il medium cinematografico, in uno dei cortometraggi diretti da Martinelli, Ulisse XXVI, in cui gli otto minuti del monologo di Ulisse sono tutti giocati in uno spazio simulacrale condensato nel primo piano di Montanari stessa, riflesso su una superficie metallica che ce lo restituisce in modo fantasmatico e nel riverbero del suo sovrapporsi con la luce tremante di una fiamma: virtualità impalpabile dell’anima di Ulisse e, insieme, del corpo scenico di Montanari dissolto nell’immagine cinematografica.
E non è solo il mezzo cinematografico, naturalmente, a permettere un simile intervento sul corpo che vi si manifesta: esso pertiene anche all’ambito fotografico, nel quale si aprono possibilità di intervenire sui corpi in scena con ulteriori modificazioni, sezionature, smembramenti, rispetto a quelli che i mezzi teatrali permettono. In tal modo, l’archivio si pone in modo ancor più evidente come luogo non di mera testimonianza e documentazione del processo artistico cui fa riferimento, ma di intensificazione, prolungamento e potenziamento di quel processo, avviando il proprio intervento laddove quello arrivava al suo compimento, per spingerlo oltre le sue facoltà.
Così, nella sezione fotografica dell’archivio del Teatro delle Albe si dispiega una serie di scatti di autori differenti, nei quali l’inquadratura fraziona i corpi, li ripensa e riconfigura, restituendoceli per brani, per frammenti, sezionandoli come su un tavolo anatomico, isolando le sue parti e ridefinendone identità e funzionalità. Portando a un possibile compimento a posteriori, potremmo dire, la destituzione dell’umano nella sua dimensione corporea, per come la stiamo tratteggiando lungo i processi del Teatro delle Albe. Dal ‘corpo senza organi’ deleuziano a una propagazione di ‘organi senza corpo’, disponibili a un ripensamento dell’umano attraverso la pratica artistica.
Una sparizione del corpo, nella sua organizzazione umana stabile e chiusa, che si riversa poi nell’archivio della compagnia, disseminandosi tra parole, oggetti, appunti, costumi, che sembrano incarnare quello stesso smembramento che lo ha scomposto e sfatto. Dai quaderni di Ermanna Montanari – tanto quelli di lavoro preparatori a specifiche opere, quanto quelli che raccolgono pensieri e riflessioni sparsi, esperienze collaterali, coprendo periodi intermedi tra un lavoro e l’altro – alle lettere che popolano la sezione relativa alla corrispondenza di Montanari e Martinelli con artisti, studiosi e amici; dal fondo legato agli apporti critici al lavoro scenico delle Albe a quello relativo, ancora una volta, agli abiti di scena.
A tal proposito, ad esempio, se la giacca con le forchette conficcate sul tessuto-pelle della Figura de I brandelli della Cina che abbiamo in testa (1987) si presentava come dispositivo che preparava il corpo al suo rendersi carne da macello disponibile alla fagocitazione, l’abito della Figura di Luṣ (2015), Bêlda, si presenta invece come spazio vuoto, bianco latteo, disposto all’accoglimento delle tracce lasciate dal dissolversi del corpo che esso fascia. Un differente dispositivo legato, stavolta, a quella sostanza prima che al contempo rappresenta la traccia ultima del disfarsi del corpo umano sulla scena delle Albe e che ci riporta, appunto, là dove la perlustrazione di questo disfarsi s’era avviata, ossia tra gli abiti di scena conservati nell’archivio della compagnia.
L’ira alla quale la guaritrice Bêlda abbandona il proprio corpo, perché essa possa squassarlo e disfarlo – disfacendo, con esso, la sua condizione di reietta isolata dai suoi stessi compaesani – pare aver avviato quel disfacimento a partire dal suo cuore, il cui sangue in ebollizione è stato ritenuto, per secoli, l’alterazione fisiologica alla base dell’insorgere proprio del sentimento d’ira. Ed è proprio quel ribollire del sangue a lasciare le uniche tracce sul mikado di seta dell’abito-pelle di Bêlda: sangue reale, dell’artista Margherita Manzelli che ha realizzato il costume di scena e, con il medesimo sangue, i disegni che prendono corpo, in proiezione, sul fondo della scena. Tracce che si aprono con una larga coagulazione in corrispondenza del cuore per diradare pian piano lungo il fianco sinistro in cerchi sempre meno ampi, come orme lasciate sulla seta fino al bordo inferiore dell’abito.
E questa presenza fisica del sangue su ciò che in archivio resta di più prossimo al corpo svanito della Figura di Bêlda – a fronte dell’assenza della carne sotto le forchette infilzate nella stoffa della giacca dalla quale eravamo partiti – sembra porsi come ideale punto di chiusura di questo excursus esemplificativo tra ciò che l’archivio, attraverso i suoi differenti mezzi e modalità, riesce a captare e restituire del perdersi della dimensione corporea dell’umano sulla scena del Teatro delle Albe. Un excursus che, come dicevamo, rappresenta la prima, fondamentale tappa di quel viaggio dentro l’archivio della compagnia, condotto sotto il segno dell’idea alchemica di un ‘solve et coagula’, dunque delle modalità con le quali l’arte scenica delle Albe agisce di anno in anno, di opera in opera, disgregando l’umano comunemente inteso attraverso una radicale messa in discussione del suo assetto corporeo, linguistico, vocale, spaziale e culturale, per poi ricercarlo e ricostituirlo come composizione aperta, assoggettata alle trasformazioni e a un divenire che lo riconduce all’unità con il circostante.
Un viaggio che equivale, allora, al contempo, a percorrere la dimensione estetica e poetica della compagnia e a sollecitare gli strumenti propri dell’archivio a farsi cassa di risonanza e di rispecchiamento di essa, un potenziale spazio in cui i materiali che lo compongono manifestano innanzitutto – ciascuno a partire dal medium specifico di riferimento – quella generante enigmaticità della quale scrive Cristina Baldacci (Baldacci 2016) in riferimento all’idea di traccia, contrapposta a quella di mero documento. Una enigmaticità che li svincola dall’esser considerati come sole prove materiali di ciò che è stato, facendone effetti-segni vivi aperti a forme potenzialmente sempre differenti di relazione e interpretazione. In quella dialettica tra prodotto e processo che, proprio nella ricomposizione dei materiali stessi, mostra le strade più feconde nella direzione di un’attenzione sempre maggiore al secondo piuttosto che al primo e di una costante ridefinizione dell’assetto stesso della sua possibilità di memoria futura.
Riferimenti bibliografici
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English abstract
Starting from the need to rethink the theatrical archive not as a mere deposit but as a device capable of showing the materials it contains in ever new connections and directions, the essay identifies a common ‘alchemical’ process of dissolution and recomposition of the statute of the human as a common principle that would govern the artistic practices of the Teatro delle Albe in Ravenna and their becoming memory within the company’s archive. From this premise, then, it proposes a crossing of the archive, trying to follow the traces – through the different media from which it is structured – of the first, fundamental movement of destitution of the human in the art of the Albe: the physical, corporeal one, which involves both the bodies on stage and those of the spectators, up to the virtuality of those dissolved in the filmic image present in the latest cinematographic experiments carried out by the company. A crossing that intends to stand as an exemplary case study for a constant rethinking of the very nature of the theatrical archive, of its specificities and its potentialities and perspectives.
keywords | archivio; Teatro delle Albe; teatro; fotografia; cinema; archivio teatrale; estetica.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Sciotto, Solve et coagula. Processi di destituzione del corpo nell’archivio del Teatro delle Albe, “La Rivista di Engramma” n. 205, settembre 2023, pp. 119-145 | PDF of the article