Prvo, kar je našemu človeku prišlo na misel, je bilo znamenje, kot pejsažno obeležje, ki je v širši regiji, kjer živimo tudi Slovenci, že stoletja in tisočletja glavna oblika markacije usodnih dogodkov. Morda nismo daleč od resnice, če si mislimo, da je to sploh regionalni arhetip.
[La prima cosa che venne in mente al nostro uomo fu il segno come monumento paesaggistico, il quale è ormai da secoli il modo principale per indicare eventi decisivi nella regione più ampia in cui vive anche il popolo sloveno. Può darsi che non siamo affatto lontani dalla realtà se pensiamo che si tratti di un archetipo della regione in generale. (Ravnikar 1967, 31)]
Edvard Ravnikar usa la parola znamenje – segno – per indicare l’esito, tangibile, di quella necessità atavica di riconoscere e marcare un punto preciso nel territorio, in ragione degli episodi che esattamente lì sono accaduti. Questa operazione può altresì essere letta come il gesto fondativo di un luogo sacro, ove coesistono il visibile e l’invisibile, e che consente la connessione all’esperienza di una realtà altra, mediante lo svolgimento di un rito. La Jugoslavia degli anni Cinquanta era un paese in cui le ferite della Seconda guerra mondiale erano ancora profonde, e c’era l’urgenza di tematizzare e ricordare gli eventi del conflitto. Nel contesto di una ricostruzione che poneva le sue basi umane e ideologiche nella resistenza, i luoghi sacri divennero allora quelli, capillarmente diffusi nel territorio, che solo pochi anni prima erano stati teatro degli episodi cruciali della lotta di liberazione. Il rito, da svolgersi secondo una precisa drammaturgia spaziale, era la commemorazione delle vittime.
La ricerca di una rappresentazione simbolica della memoria attraverso piccole opere disseminate nel territorio, ha accompagnato gran parte della carriera professionale e teorica di Edvard Ravnikar. E se al sito viene di per sé riconosciuto il valore di monumento (Ravnikar 1951, 20-21), l’invenzione del luogo consiste in una scoperta di segni, di ritmi, di forme, presenti in esso come potenzialità latenti, ma ancora da cercare, da interpretare e da ordinare attraverso il progetto. I memoriali sono stati così l’occasione per sperimentare un’architettura nuova, di sintesi e portatrice di valori etici universali, pensata per essere esperita nel suo ambiente naturale e adeguata di volta in volta alle peculiarità del contesto, al fine di creare con esso un unicum indissolubile (Ravnikar 1964, 2-15). Per ottenere ciò, l’architetto attinge a un immaginario poetico ove le forme archetipiche depositate nell’inconscio e le forme della tradizione vengono reinterpretate, ottenendo un duplice livello di narrazione dell’opera: l’esperienza collettiva della memoria – attivata da un linguaggio universale – e l’esperienza individuale della commemorazione – sollecitata dall’interpretazione della tradizione locale e destinata a un ristretto gruppo di persone appartenenti a una precisa area geografica – in cui le forme inventate “[…] costituiscono il ‘ricordo’ di un’azione assai più che l’oggetto in se stesso” (Semerani 2007, 29). Il linguaggio usato è evocativo, lontano da ogni formalismo o rappresentazione naturalistica. Un linguaggio mai cristallizzato, che trae origine primariamente dalla lettura dei caratteri del sito e si manifesta attraverso figure semplici e senza tempo (Ravnikar 1951). Soprattutto, nei monumenti alla resistenza antifascista, Edvard Ravnikar mette in atto raffinate strategie compositive che consentono di costruire un sistema di relazioni tra opera, paesaggio e soggetto fruitore, creando uno spazio di interazione empatica in cui il visitatore non è mero spettatore assiale, ma percettore attivo.
Per indagare il processo di invenzione dei segni a partire dai quali origina il progetto e la loro metamorfosi in figure basiche dell’architettura, inserite nel paesaggio, vale la pena addentrarsi nella lettura specifica di un’opera, la cui figura nasce dalla stratificazione di tracce, visibili e non, sedimentate nel vocabolario dell’architetto e interpretate attraverso il filtro del moderno.
Si tratta del cimitero partigiano di Vojsko, ideato nel 1951 da Edvard Ravnikar con i suoi collaboratori e realizzato nel 1956. Qui, in una pausa erbosa tra i boschi dell’altopiano carsico di Idrija, sono sepolti 305 combattenti che presero parte alla resistenza. L’opera apre nuove prospettive alla sperimentazione compositiva e scultorea, e manifesta la sua eloquenza attraverso la combinazione di opposti: la figura concava contrapposta a quella convessa, il riconoscimento dell’individualità in una produzione seriale, la morbidezza ottenuta dalla lavorazione della materia dura, il movimento – percepito – di figure in realtà infisse nel suolo. Contemporaneamente, rivela una grande complessità semantica unendo il tema della morte – evento statico per eccellenza – a quello della (ri)nascita nel grembo femminile, un movimento potente ed eterno. In questo progetto tre tipi di segni propongono, gradualmente e alle diverse scale, un’esperienza iniziatica verso una personale elaborazione della memoria. Ai segni propri del luogo, che raccontano il rapporto tra uomo e universo attraverso la figura nel suo insieme, seguono quelli applicati sugli elementi, che si concretizzano in una caratterizzazione viva dei singoli personaggi. Un terzo tipo di segni, quelli invisibili che rispondono alle leggi ottico visuali, ordinano gli elementi del progetto e consentono all’architettura di rivelarsi come un dispositivo di relazione.
I segni del luogo ovvero il carattere della forma
Arrivando dalla strada che dal villaggio di Vojsko si dirige verso nord, poco dopo la tipografia partigiana Slovenjia, appare la forma del cimitero adagiata sulla radura. Il disegno del progetto consente di comprendere come il monumento si presentasse al momento della sua costruzione [Fig. 3]. Alla traccia rettangolare, leggibile solo nel progetto disegnato e funzionale all’inumazione delle moltissime vittime, era previsto si sovrapponesse un dosso vegetale, costruito nell’area ricavata dall’intersezione della vesica piscis con una terza circonferenza, raccordando poi tre ulteriori circonferenze collocate ai vertici di un triangolo basato sul rapporto sacro di √2 [Fig. 4]. All’interno dello spazio incavo così ottenuto, sono custodite trentotto lapidi in pietra bianca, sbozzate a profilo curvo. Pochi metri al di sopra del margine convesso del dosso, si doveva trovare un tumulo ovale, sul quale era collocato un cippo di forma triangolare. La figura concava che ospita elementi infissi, conficcati, si contrappone così dialetticamente a quella convessa, con gli elementi in appoggio.
Se il rettangolo della sepoltura è il primigenio segno del progetto, tracciato a partire da una necessità, il recinto morbido e vegetale – che pure sottende una costruzione geometrica con un preciso significato simbolico – risponde primariamente alle ragioni del sito. La sua forma si adatta a quella della radura, dilatandosi lì dove l’assenza di alberi e la morfologia del terreno consentono allo spazio del memoriale di trovare un maggiore respiro.
Ma il dosso erboso rimanda anche a un’altra peculiarità del luogo; infatti, nella regione di Idrija avveniva la tradizionale raccolta manuale dell’avena e nei dintorni di Vojsko, negli anni Cinquanta, il paesaggio rurale era caratterizzato dai prati segnati dalle geometrie morbide della raccolta [Fig. 1]. Il mondo agricolo è l’orizzonte di riferimento non solo dal punto di vista dell’evocazione della forma, ma anche per quanto riguarda la sua costruzione: il recinto del cimitero partigiano presenta un’anima strutturale costituita da un muro a secco, rivestita di terra ed erba, così come il kozolec, l’essiccatoio per il foraggio tipico della Slovenia, altro non è che un telaio in legno rivestito del fieno da essiccare.
Una ulteriore interpretazione sul carattere della forma, considerando il termine carattere come indicativo dell’impronta di “un’individualità artistica e dell’espressione simbolica e funzionale dello scopo per il quale l’edificio è stato costruito” (Mantese 1993, 41), trova i suoi presupposti nel periodo di formazione di Edvard Ravnikar presso lo studio parigino di Le Corbusier. Durante i pochi mesi di permanenza (da gennaio a giugno 1939), gli era stata affidata la realizzazione dei disegni per il progetto di Algeri, caratterizzato dal tema del corpo-paesaggio (Foti 2008, 126-138): Le Corbusier stesso, descrivendo il luogo, dice che “Algeri sprofonda, splendido corpo dai fianchi e dai seni morbidi” (Le Corbusier 1935, 260). Una vasta serie di nudi femminili accompagna le riflessioni progettuali del maestro svizzero e in queste opere le forme dei seni, del ventre, dei fianchi – le parti del corpo femminile che più delle altre accolgono la vita – assumono sempre maggiore autonomia figurativa. Nel cimitero partigiano di Vojsko, la somiglianza con le opere pittoriche di Le Corbusier [Fig. 2], che affondano le radici nello stesso mondo primitivo, è indicativa di un’affinità di metodo, in cui le parti, riconoscibili, concorrono a costruire l’espressività simbolica del tutto (Reichlin 2013, 347-387). Le immagini trovano così la loro forma costruita e nella figura sinuosa e concava del recinto, si ritrova l’archetipo della Madre Terra. La femminilità insita nell’opera è espressa attraverso un segno, sintesi di arcaico e moderno, che arriva a evocare l’idea del grembo, della protezione, della nascita, e sottende una concezione ciclica del tempo e della vita.
Quando, nel 1959, il dosso vegetale viene demolito insieme al tumulo e diventa muro, il recinto in pietra che delimita lo spazio sacro traccia una nuova topografia minerale nel paesaggio e costruisce per un breve tratto un nuovo orizzonte, ma non per questo perde le proprietà simboliche insite nella sua figura [Fig. 5].
Il segno ordinatore ovvero la geometria invisibile
Nel micropaesaggio all’interno del recinto consacrato, raggiungibile solo superando una scala in pietra che mette in scena la ritualità della soglia, Edvard Ravnikar dispone con precisione le lapidi tondeggianti in pietra bianca. Tutti gli elementi sono infissi nel terreno seguendo una griglia triangolare, che si interrompe in alcuni punti notevoli della composizione – in corrispondenza delle lapidi collettive, di dimensioni maggiori – per creare degli spazi di pausa, di decompressione tra la serialità degli oggetti. La tensione e la complementarità tra la disimmetria giocosa della natura e l’ordine sistemico della geometria, genera così un insieme equilibrato.
La griglia, elemento astratto per eccellenza, presenta qui un intrinseco valore simbolico: nel mondo agricolo, la piantumazione regolata dal modulo del triangolo è quella utilizzata nel sesto di impianto a settonce, e garantisce di massimizzare la crescita delle piante nei boschi cedui, anche dopo il taglio dei tronchi. Già a partire dalla disposizione geometrica degli oggetti nel progetto, è possibile intuire che ogni lapide allude alla presenza di un essere umano, la cui esistenza è stata interrotta ma che, nonostante tutto, conserva la forza vitale per germogliare dal suolo fertile e uterino.
Considerando la percezione del monumento nello spazio, la griglia diventa uno strumento ottico-percettivo, che guida il movimento attorno e dentro il memoriale. Se ci si trova all’esterno del recinto, a seconda del posizionamento rispetto agli assi individuati dalle tracce geometriche, l’occhio potrà cogliere come allineate solo una parte di lapidi – quelle a sinistra o a destra dell’ingresso rientranti nel campo visivo frontale – mentre le altre saranno percepite apparentemente scomposte [Fig. 6]. Avviene così la prima interazione con l’opera: le lapidi non sono più oggetti inanimati, ma partigiani. Alcuni di loro sono schierati, altri sono a riposo e si alternano lentamente, accordandosi con il passo del visitatore.
I segni sugli elementi ovvero la metamorfosi delle figure
Mentre si attraversa la soglia che interrompe il recinto, ci si accorge che tutti i monoliti sono rivolti verso l’ingresso, mostrando a chi si appresta a entrare una piccola stella rossa impressa nella pietra e l’iscrizione con il nome, il cognome, la data di nascita e quella di morte.
All’interno dello spazio sacro del cimitero, ci si trova immersi tra i monoliti in pietra sbozzata, e da vicino sono visibili le tracce, i segni della lavorazione manuale della materia. Con questo accorgimento, pur trovandoci di fronte a figure tutte uguali, si percepisce ogni gesto del lavoro umano e ogni pietra acquisisce una propria individualità. Le lapidi hanno così una ‘pelle’ che cerca un rapporto con l’ambiente, con la luce, con i visitatori. Allo stesso tempo hanno degli occhi – le iscrizioni – e una piccola stella rossa sulla fronte, proprio come il copricapo dei partigiani. Dati umani fondamentali, essenziali, che ci ricordano una personalità concreta con un’origine che, al di là dell’immanenza, non ha più un corpo, un volto, un’immagine. Edvard Ravnikar presenta così i caduti con un simbolo astratto, sufficientemente aperto e narrativo per letture e interpretazioni.
Proprio l’interpretazione spinge a indagare un ultimo aspetto del memoriale. Oltre alle strategie compositive che si rivolgono alle categorie universali degli archetipi – la femminilità uterina che protegge e che può generare nuova vita – l’opera parla anche un linguaggio locale, rivolto direttamente ai familiari dei partigiani uccisi, molti dei quali appena maggiorenni. La regione di Idrija è depositaria dell’antica tradizione del merletto a tombolo, un’attività delicata, che necessita cura e tutta femminile; tramandata dalle donne che tengono tra le loro mani la Bula [Fig. 7], il cuscino tondeggiante per il ricamo. Ecco allora come un oggetto di uso comune ed estremamente familiare per un ristretto gruppo etnico, un oggetto che si tiene tra le mani con delicatezza materna, attraverso un’operazione di metamorfosi acquisisce nuovi significati e la forma della tradizione diventa architettura.
L’interpretazione attenta e sensibile del luogo consente così, attraverso il progetto, di ritrovare meravigliosi segni vitali lì dove prima c’erano state solo morte e violenza (Semerani 2013, 61-67), e allo stesso tempo di rispondere alla necessità di conferire all’arte e all’architettura un carattere sociale. La disposizione degli oggetti all’interno dello spazio sacro, rivela precise ragioni ottico-percettive così come riferimenti simbolici, e le figure inanimate acquisiscono via via una loro fisiognomica e un moto proprio, fino a subire una completa metamorfosi. Il ruolo determinante dell’esperienza fisica e percettiva produce l’interazione del fruitore con l’opera e consente di cogliere, in momenti successivi, l’insieme del memoriale e le parti che affermano la loro individualità.
Edvard Ravnikar orchestra, con pochissimi elementi, la creazione di un microcosmo evocativo in perenne movimento, generato da una forza primigenia. Il memoriale, lungi dall’essere un elemento autoreferenziale e astratto dal contesto, è piuttosto un dispositivo che agisce nello spazio in modo da guidare l’esperienza della memoria e mediare le relazioni tra l’uomo e la natura.
Riferimenti bibliografici
- Foti 2008
F. Foti, Il “laboratorio segreto” dell’architettura. L’intimo legame tra arti plastiche e progetto di architettura in Le Corbusier, Siracusa 2008. - Le Corbusier 1935
Le Corbusier, La Ville Radieuse, Boulogne-Sur-Seine 1935. - Mantese 1993
E. Mantese, Carattere, in L. Semerani (a cura di), Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, Faenza 1993. - Ravnikar 1951
E. Ravnikar, Ljubljanske misli ob novi Spacalovi mapi lesorezov, “Ljudska pravica” XII, 178, Ljubljana 29-12-1951. - Ravnikar 1951
E. Ravnikar, Spomenik žrtvam in padlim borcem narodnoosvobodilnega boja v Begunjah na Gorenjskem, in L. Gostiša (ed.), Likovni svet: arhitektura, slikarstvo, kiparstvo in umetna obrt, Državna založba Slovenije, Ljubljana 1951. - Ravnikar 1964
E. Ravnikar, Arhitektura, plastika in slikarstvo, “Sinteza” 01 (1964). - Ravnikar 1967
E. Ravnikar, Če se ozremo nazaj, “Sinteza” 07 (1967). - Reichlin 2013
B. Reichlin, Dalla “soluzione elegante” all’ “edificio aperto” Scritti attorno ad alcune opere di Le Corbusier, Zurich 2013. - Semerani 2006
L. Semerani, Memoria Ascesi Rivoluzione. Studi sulla rappresentazione simbolica in architettura, Venezia 2006. - Semerani 2007
L. Semerani, L’esperienza del simbolo: lezioni di teoria e tecnica della progettazione architettonica, Napoli 2007. - Semerani 2013
L. Semerani, Incontri e lezioni. Attrazione e contrasto tra le forme, Napoli 2013.
The contribution proposes the reading of a particularly significant work, in order to investigate the process of invention of the ‘signs’ proper to the place from which the project originates, and their metamorphosis into basic figures of architecture, embedded in the landscape. This is the partisan cemetery in Vojsko, designed in 1951 by Edvard Ravnikar with his collaborators and where, in a grassy break among the forests of the karst plateau of Idrija, 305 fighters who took part in the resistance are buried.
The work represents a piece of the extensive research on the symbolic representation of memory that has accompanied much of Edvard Ravnikar’s professional and theoretical career, and which has deposited, as an architectural outcome, a constellation of small interventions spread throughout the Slovenian territory. Layered here are traces generated by necessity, elements of tradition and archetypal signs, sedimented in the architect’s vocabulary and interpreted through the filter of the modern.
keywords | Partisan Cemetery; Landscape Architecture; Edvard Ravnikar.
Per citare questo articolo / To cite this article: Susanna Campeotto, La magia figurativa del segno. Il cimitero partigiano di Vojsko, “La Rivista di Engramma” n. 207, dicembre 2023, pp. 77-84. | PDF