Da Prometeo all’Antropocene
Intervista a Salvatore Natoli
a cura di Stefano Piazzese
English abstract
Pubblichiamo in questo numero di Engramma l’intervista al filosofo Salvatore Natoli, professore emerito di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. L’intervista è stata fatta in occasione della lectio Da Prometeo all’Antropocene, organizzata dal Collegio Siciliano di Filosofia e svoltasi a Siracusa il 2 giugno 2023. La lectio e l’intervista sono state pensate come momenti di approfondimento degli itinerari interpretativi della tragedia eschilea, specialmente in relazione alla messa in scena del Prometeo incatenato al Teatro Greco di Siracusa durante la stagione INDA 2023, per la regia di Leo Muscato, nella traduzione di Roberto Vecchioni, e con i seguenti attori principali: Alessandro Albertin (Prometeo), Silvia Valenti (Bia), Davide Paganini (Kratos), Michele Cipriani (Efesto), Alfonso Veneroso (Oceano), Deniz Ozdogan (Io) e Pasquale Di Filippo (Ermes).
Stefano Piazzese | Riflettere sulle tragedie della grecità a noi pervenute, seguendo gli itinerari del suo pensiero, non è mai un soffermarsi esclusivamente presso i vasti territori semantici delle stesse, ma un interpretare anche la nostra condizione, il nostro tempo, in modo tale che le opere dei tragediografi possano essere una bussola anche per l’essere umano e per la società del XXI secolo. Dunque, se la tragedia ha la forza di suscitare le domande fondamentali sull’umano e sul divino ancora oggi, stando al Prometeo incatenato, quali sono le considerazioni fondamentali che risultano particolarmente urgenti nel nostro tempo?
Salvatore Natoli | Direi che Prometeo incatenato è una tragedia che si applica in modo particolare al nostro tempo perché noi oggi siamo agli esiti estremi del prometeismo. Ora, com’è noto, il mito è interpretabile all’infinito; ha un nucleo originale che poi va sempre riattualizzato, e ogni epoca, ogni contesto culturale lo reinveste, lo reinterpreta. Questo vale per tutti i miti. Qui aveva ragione Ovidio: il mito è metamorfico. E quindi non è la prima volta che Prometeo è stato riutilizzato, che ha parlato a un’epoca.
Ha parlato normalmente in una dimensione doppia; la dominante del tragico è doppia: da una parte il ribelle e quindi, in quanto tale, liberatore, perché si scontra con le catene della necessità cercando di spezzarle; dall’altra parte la tracotanza: questo ribelle ritiene di potere ergersi contro Zeus e, indipendentemente da Zeus, tende alla dismisura. Dunque, da un liberatore della necessità a una macchina del dominio. Ecco, questo doppio ha accompagnato la figura di Prometeo. Per un verso, dunque, un uomo pietoso nei confronti dell’umanità, per l’altro non solo un dominatore, ma un dominatore attraverso l’inganno. Da qui l’illusione dell’onnipotenza, cioè la perdita del limite o della misura, che è il motivo per cui, di fatto, viene condannato. Nel tempo ci sono state varie elaborazioni di questa figura. Prometeo è stato cristianizzato sia nella forma demiurgica – ha creato l’uomo dall’argilla: che cosa era se non una prefigurazione, o qualcosa da mettere accanto alla creazione dell’uomo che leggiamo nel Genesi? – sia come uomo della pietà, ovvero come colui che soffre per gli altri uomini, che si immola per gli altri uomini. Quindi è stato comparato a Cristo, perché poi è chiaro che tutta la tradizione cristiana ha distrutto i vecchi simboli – dèi falsi e bugiardi – o li ha reinterpretati, cioè li ha cristianizzati. Nella modernità, nell’Ottocento, Prometeo diviene espressione della potenza tellurica, non della forza che viene dall’alto ma della potenza che emerge dalla terra. È il titanismo, il titanismo politico: Napoleone-Prometeo o il Prometeo di Marx, il grande liberatore, quindi una versione rivoluzionaria. Poi c’è anche un Prometeo demitizzato in una versione ironica dove non parla più, non se ne sente più l’eco. È quello che dice Kafka: il mito si è spento.
Ma, di fatto, il mito che si è spento è diventato progressivamente storia, nel senso che il prometeismo è ciò che si è sviluppato in particolare a partire dalla modernità come sforzo di autoliberazione; e questa è diventata fondamentalmente la tecnica che libera dal bisogno in una dinamica difensivo-offensiva: gli uomini erano dispersi, erano al freddo, erano alla fame. Allora il fuoco, e quindi la tecnica, difende l’uomo da una natura crudele. Qui c’è alla base la crudeltà della natura, non c’è una dimensione idilliaca della natura, come nei miti originari quando si fa riferimento all’età dell’oro. C’è invece la generazione degli uomini, le età degli uomini e quindi il bisogno, la catena della necessità intesa come bisogno. Occorre dunque liberare l’uomo dal bisogno, dalla miseria. Pertanto, la tecnica, fondamentalmente, opera per piegare la natura alla volontà dell’uomo e per metterla al suo servizio, cioè per renderla produttiva e benefica per l’uomo stesso: qui abbiamo l’asservimento della natura come auto-liberazione dell’uomo. Allora da una partenza, diciamo, difensiva-offensiva comincia per l’uomo la dimensione dell’espansione. E qui c’è una considerazione importante da fare, ed è questa: l’uomo piegando la natura a sé, e traendone dei vantaggi, sperimenta un successo. Dal piegare la natura per il proprio vantaggio alla curiosità di conoscere il passo è breve: dalla liberazione alla necessità, alla curiosità della conoscenza. La dimensione difensiva-offensiva diventa espansiva e, siccome questa espansione ha successo, l’uomo si piazza nella terra con maggiore comodità, anche se ci sono delle controindicazioni, poiché i vantaggi che egli guadagna sono molto più alti delle controindicazioni. Così l’uomo cresce nella dimensione espansiva, comincia a occupare gli spazi della terra: ciò che prende il nome di Antropocene.
L’Antropocene nasce nel momento in cui gli uomini cominciano a occupare gli spazi terrestri. Non sto qui a dire quando nasce l’Antropocene, perché ci sono state delle periodizzazioni storiche che sono abbastanza note. Comunque, il nome è relativamente recente e fa riferimento a quando la dinamica espansiva dell’uomo diventò aggressiva, cioè quando cominciò a conquistare gli spazi del pianeta. Ora, il tratto caratteristico dell’uomo, a differenza dell’animale che si adatta alla natura, è che egli adatta la natura a sé. Non è che l’animale non sia faber: un nido è un’operazione fabbrile dell’animale, ma, tutto sommato, dentro i ritmi della natura. L’uomo, a mano a mano che va avanti, infrange questi ritmi, e quindi si giunge al momento in cui Prometeo ha smesso di essere mito, e da tempo ha smesso di essere mito. E lo sforzo umano di dominio che in quel mito era incarnato prende una curvatura eccessiva verso la dismisura perché l’uomo abbraccia non più solo l’espansione, ma pure l’aggressione, cioè l’idea che della natura si può fare quello che si vuole. A questo punto riappare la necessità, ma riappare nel senso che tu, uomo, sei un ente di natura, non sei un di più della natura. Pertanto puoi occupare gli spazi della natura, crescere, trovarti nel mondo in una posizione più comoda, ma non puoi violare la natura oltre certi limiti perché tu, non operando con misura, distruggi le condizioni della tua vita sulla terra. Qui riemerge la necessità, riemerge quel verso di Eschilo: “la necessità è più potente di ogni tecnica”. Il cammino dell’uomo è stato lungo e segnato dai successi di Prometeo, ma fino al punto in cui questi successi hanno cominciato a sviluppare controfinalità. E qui c’è una cosa molto importante da ricordare, un verso centrale in Eschilo. Quando l’Oceanina chiede al Titano: “Ma tu che hai fatto tanto bene agli uomini, perché sei in questa condizione? Forse sei andato oltre? Cosa hai fatto di più?”. E lui risponde: “Sì, sono andato oltre. Ho messo in loro la dimenticanza della morte”. Questo delirio di onnipotenza è nato dal fatto che l’uomo ha cercato sempre di differire la morte fino a portarla alla dimenticanza, e quindi ha cercato di dimenticare la sua naturalità mortale, il suo essere effimero. L’uomo, in quanto ente di natura, può aggiustare la natura finché vuole, ma poi, essendo egli natura, deve conformarsi alla natura stessa. La situazione è diventata più complicata in quanto l’uomo si trova spiazzato – in questo senso io parlo di fine dell’Antropocene, perché l’Antropocene è il progressivo dominio dell’uomo sulla terra.
Fine dell’Antropocene perché? Perché la natura ha detto all’uomo: alt! Stai alle mie leggi se vuoi che la natura resti una dimora per te. Oggi assistiamo anche all’oltrepassamento dei prodotti dell’uomo sull’uomo stesso. Ovvero: la tecnica, che era in mano all’uomo, oggi ha preso vita per sé. E che vita avrà non lo sappiamo, perché il mondo è sempre ambiguo, e di sicuro noi siamo dinnanzi a un salto di specie. Le macchine, da strumenti in mano all’uomo, stanno diventando sue interlocutrici. Oggi con le macchine noi parliamo, le interroghiamo, ma verrà il momento in cui loro interrogheranno noi. E quindi si profila un mondo in cui l’uomo conviverà con i suoi prodotti, che però non sono da pensare come superuomini ma come una specie diversa. Quando è apparso homo sapiens gli altri animali non sono spariti, c’è stata una reciproca collaborazione, un reciproco adattamento. Così, quando le macchine prenderanno sempre di più autonomia – già ci sono segni evidenti di questo – allora l’uomo dovrà appaesarsi con le macchine come nuova specie, e adattarsi ai loro comportamenti. Qui, volendo essere ottimisti e non catastrofici, perché alcuni immaginano un esito apocalittico; si può anche supporre, evitando di entrate nella fantascienza, che le macchine essendo più intelligenti dell’uomo avranno, paradossalmente, un senso dei loro limiti più sofisticato di quanto l’uomo, abbastanza rozzo rispetto alle macchine, ha (perso).
SP | Vorrei partire da quanto lei afferma in L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale: “L’uomo quanto più intende il pericolo di morte tanto più uccide: in tal modo si fa signore della vita e dominatore del mondo. Il vivente in generale e l’uomo in senso eminente tendono ad allontanare la morte divenendo previdenti. Prometeo è il simbolo eloquente di questo processo. La pietà di sé rende previdenti, ma proprio per questo anche impietosi”; vorrei cioè chiederle di delineare la sua ermeneutica dell’azione di Prometeo: il titano è davvero φιλάνθρωπος per i doni che ha fatto ai mortali? Quanto la dinamica del doppio, di cui lei spesso ha parlato soprattutto in relazione all’Orestea, caratterizza il suo agire nei confronti degli umani e nei confronti di Zeus?
SN | Ecco, l’agire di Prometeo si può definire benefico perché è un fatto che l’uomo, attraverso la tecnica e la conoscenza, ha sviluppato le sue capacità in modo crescente, ha sviluppato le sue abilità in modo crescente, ha anche fatto bene alla terra poiché ha fatto in modo di trarre dalla terra risorse, energie che la terra da sé non avrebbe mai tratto: la macchina a vapore, l’energia elettrica e atomica, ad esempio, sono segreti della natura che non sarebbero mai emersi. Quindi, conoscendo la natura, la natura si è conosciuta. Nei fatti, chi è l’uomo? Cos’è l’uomo? L’uomo è quell’ente in cui la natura perviene alla coscienza di sé. La natura non sa di essere natura, è in quell’ente di natura particolare che si è generato in essa che diventa natura. Ma nel momento in cui l’uomo porta la natura alla coscienza di sé, se ne distacca, in un certo senso, dimenticando di continuare a essere natura. In merito ai doni di Prometeo si può parlare di grandi benefici, e non stiamo qui a discuterne: il prolungamento della vita, ma anche l’allargamento delle conoscenze, e la maggiore agiatezza dell’uomo sulla terra. Vi è anche la dimenticanza della morte, il differimento della morte. Ecco, questo differimento della morte produce un altro terribile errore: l’uomo si sente esposto alla morte nonostante progredisca, e allora, in talune situazioni, quando la morte si fa prossima, ritiene di potere mantenersi in vita uccidendo. Lo fa con l’animale e lo fa anche con gli altri uomini. Qui non c’è più la dimensione pietosa, ma c’è quella violenta. E questa dimensione la troviamo nelle Operette morali, precisamente nell’operetta dedicata a Prometeo: tu hai fatto gli uomini, e allora facciamoci un giro sulla terra per vedere se questa davvero è la tua produzione migliore. Andiamo per i diversi continenti. Una volta giunti presso i continenti conosciuti si legge: andiamo prima nei continenti più lontani, perché questi li conosciamo. Andando avanti i protagonisti del racconto trovano i pigmei che mangiano gli altri uomini, che li divorano. E allora se ne vanno e giungono nelle terre evolute, dove vedono che un uomo ha ucciso i figli. E perché lo ha fatto? Lo ha fatto per odio? Per violenza? No! Lo ha fatto perché aveva tedio della vita. Una dimensione ironica: quando l’uomo dimenticata la comune mortalità, ritendendo di preservare la sua vita, uccide. C’è qui una sorta di esternalizzazione della morte. Infatti, in qualsiasi atto violento, di solito, o c’è un eccesso di difesa – uccidi per paura o un eccesso di pretesa – perché vuoi nutrirti del sangue dell’altro. Questi sono i due modi attraverso cui l’uomo non fa i conti con la propria debolezza. Ma la consapevolezza della comune mortalità dovrebbe permettere agli uomini di comprendere che la vita è maggiormente aiutata se uno diventa ausilio per l’altro, secondo la celebre espressione spinoziana homo homini deus. La morte è sorte comune. Se ti sottrai alla sorte comune ti viene l’illusione dell’immortalità, sia pure nella forma naïve della prevaricazione.
SP | Nel verso 514 della tragedia, Prometeo afferma: “La mia tecnica è di gran lunga meno potente della necessità”. Il titano, da preveggente qual è, era già a conoscenza delle pene che avrebbe patito, del prezzo che avrebbe pagato per la disobbedienza all’ordine stabilito da Zeus e, nonostante ciò, scelse il proprio errore: “ma io sapevo già tutto, lo sapevo! Volevo, volevo farlo il mio sbaglio: non intendo negarlo! Per aver aiutato i mortali, avrei avuto un castigo” (vv. 265-267). Come si sviluppa il problematico intreccio di necessità e decisione nella tragedia in questione?
SN | Beh! C’è questo tratto fondamentale della tragedia greca che è la scissione. L’anima del tragico è la scissione. Dicevo che nell’uomo la natura perviene alla consapevolezza di sé, ma perviene anche alla consapevolezza della sua crudeltà. E quindi c’è la voglia di allontanare ciò, ma anche la sottesa presunzione di potersi liberare dalla propria finitezza. L’uomo in questa dinamica perde la lucidità. Ecco gli inganni di Prometeo: ingannato dai suoi successi. Allora i successi diventano illusioni, e alla fine fantasmi. Quindi l’unica soluzione, che poi è ciò che i Greci hanno scoperto, è la misura. L’espressione di Nietzsche è “proprio perché videro l’abisso capirono la misura”, e l’abisso è l’abisso dell’uomo a se stesso, la non conoscenza di sé. Non a caso la tragedia per eccellenza, come dice Aristotele, è Edipo re. Prendiamo l’Orestea, ad esempio. Nell’Orestea l’individuo si trova in mezzo a pressioni e potenze esterne che lo squilibrano; già di suo è sempre anceps. Si ha una doppia pressione: da un lato l’obbligo del capo, dall’altro la pietà del padre. Cosa scegliere? Allora Eschilo dice: “Agamennone fu oscurato da Ate”. Si può entrare in questa ambiguità. Agamennone è stato lucido, oppure l’ambizione del capo ha prevalso sulla pietà del padre? E qui la misura, che non c’è una volta per tutte, kairotica. Ecco perché in Aristotele il giusto mezzo non è dato definitivamente, ma di volta in volta tu lo devi valutare definendo in quel momento il meglio in vista del bene. Questo è l’unico modo attraverso cui l’uomo può muoversi dinnanzi a questa scissione che lo costituisce e che è anche la ragione della sua crescita. È quanto accade, per esempio, col desiderio. La dinamica del desiderio è la passione dell’oltre, e molte illusioni vengono agli uomini dai desideri, così come vengono le frustrazioni e con le frustrazioni le rivincite. Quindi moderare il desiderio, modellarlo, non vuol dire estinguerlo, ma capire in quel contesto cosa è da scegliere. Ecco che dentro la tragedia comincia a maturare qualcosa che poi si svilupperà più in avanti: la figura della decisione. A fronte della contraddizione, l’uomo è chiamato alla decisione, è chiamato all’azione. L’elemento che nella tragedia greca non è ancora particolarmente elaborato è l’interiorità. La situazione e la decisione sono elementi abbastanza presenti, ma l’osservazione di sé non è ancora del tutto ponderata e sviluppata. Con Platone e Aristotele l’osservazione dei temperamenti umani diventa oggetto di un’attenzione sistematica. Potremmo definire, per esempio, le etiche aristoteliche come una sorta di grande fenomenologia dell’azione, di grande analisi dei comportamenti umani. La contraddizione chiama alla decisione, e la decisione esige la moderazione: questo, diciamo, è lo schema, la sintassi che la Grecia classica e la tragedia passano all’Occidente.
SP | In Prometeo Eschilo definisce Gea una forma unica per molti nomi, πολλών ονομάτων μορφή μία (Prom., v. 210); definizione che sembra coincidere perfettamente con lo sviluppo della tecnica e la sua apoteosi che ha condotto all’Antropocene: èra in cui l’essere umano con le sue attività è riuscito, attraverso modifiche territoriali, strutturali e climatiche, a incidere finanche sui processi geologici del pianeta. C’è un antidoto tragico a questa ὕβρις?
SN | Direi di sì. Nel senso che, in questo caso, ciò che è da preservare è un nome solo, ovvero quello della specie umana, perché la natura non ha bisogno di essere difesa, essa è infinitamente prolifica. Molti nomi vuol dire che la terra genera eternamente senza mai cessare, e questa è la nozione greca di φύσις; la φύσις è un’eterna metamorfosi, la φύσις universalmente compresa è un’eterna metamorfosi. Cosa vuol dire metamorfosi? Metamorfosi vuol dire metamorfosi di forme, μορφαί. Quindi la terra, nella sua continua trasformazione, genera forme. Allora ogni forma, se vuole durare, deve cercare la propria stabilità conoscendo le proprie possibilità. Ciò, però, non vuol dire che la forma si stabilizzi all’infinito. Questo mondo finirà, lo sappiamo già, sarà assorbito dal Sole. Se la specie umana non troverà modi per andare in altri luoghi dell’universo non è detto che si conserverà. Il nome da salvare è la specie umana, e per salvarsi essa deve ripatteggiare il proprio spazio con la terra. Che la natura ha bisogno di essere salvata è una nozione idilliaca dell’ecologia. Quello che è da salvare è la dimora dell’uomo dentro la natura. E allora tu, uomo, devi stare alle sue leggi. Tu hai appreso le leggi della natura, l’hai violata per i tuoi vantaggi. Adesso devi cominciare a capire che per i tuoi vantaggi devi accordarti ad altri livelli. Quindi bisogna cessare di immaginare, e questo poi è un limite del tardo Antropocene, uno sviluppo unilaterale, perché l’unilateralità dello sviluppo, a fronte di molti vantaggi, ha fatto perdere altre dimensioni che bisogna riguadagnare. La μεσότης è questo.
SP | In riferimento al Transumanesimo come si colloca la figura di Prometeo? Alcune mode filosofiche del presente vorrebbero, in qualche modo, obnubilare l’orizzonte della morte, dell’invecchiamento dell’essere umano. Stando anche al suo ultimo saggio, Il posto dell’uomo nel mondo, come interpretare questi deliri della contemporaneità?
SN | Questo discorso può appartenere all’ordine delle illusioni, ma anche alla dimensione delle praticabilità. Per quanto tempo può vivere un uomo? Non lo sappiamo, ma dobbiamo già immaginare possibili controfinalità: se nessuno morisse, ammesso che sia conquistabile un’immortalità, la popolazione della terra sarebbe contenibile dalla terra? E chi dovrebbe perire? Una concezione estrema. Non è detto che si arrivi a questo. Ma a fronte di una scoperta si sviluppa sempre la controfinalità. In questo senso io problematizzo, ma non solo io, l’idea di progresso, perché l’idea di progresso è stata concepita come un’idea di sviluppo unilineare sempre verso il meglio e a partire da un’idea indeterminata di perfezione. Bisogna modificarla! L’avanzamento verso il meglio c’è, lo vediamo. Stiamo meglio: i farmaci, la vita allungata, la cultura, le scoperte. Il meglio c’è stato, ma l’idea unilaterale di progresso è sbagliata, perché il meglio che noi abbiamo acquisito non ha ridotto o abbattuto il deficit. Anzi, al meglio raggiunto si sviluppano nuove controfinalità. Questo suggerisce l’idea che dalla finitezza non ci si libera, e quindi ai diversi livelli si è sempre costretti a fare i conti con essa, a cercare di ritrovare la misura a qualsiasi stadio, perché solo se l’uomo divenisse dio – cosa impossibile: perché se è Dio, o lo è da sempre o non lo può mai diventare –, solo lì si avrebbe un livello di perfezione senza aggiungere altro. E quindi, da questo punto di vista, progresso sì, ma non così lineare. Tant’è vero che noi abbiamo dei contraccolpi, e a tanti livelli di progresso, considerando il mondo oggi, corrispondono tanti livelli di diseguaglianza, di miseria. È cresciuta la ricchezza globale, ma non tutti ne beneficiano allo stesso modo, e questo genera conflitto, guerra, ribellione. Quindi non ci siamo liberati dal male e dal limite. Qui si comprende il titolo del mio ultimo libro, Il posto dell’uomo nel mondo; il significato di quel libro è che noi siamo chiamati ad un continuo appaesamento.
SP | Vincenzo Di Benedetto nel suo saggio L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo afferma che la dimensione politica del tragico non è individuabile in modo diretto e nell’immediato, ma solo per via di mediazioni, e cioè attraverso discorsi che toccano nell’immediato le strutture portanti della società del tempo mostrando i limiti della condizione umana, il suo problematico rapporto con la divinità e i diversi aspetti del vivere sociale. Prometeo “parla troppo liberamente” (v. 180), dice il coro, rendendo così esplicita la sua tracotanza. Tanto il parlare quanto l’agire di Prometeo vanno interpretati all’interno della dimensione politica in cui Eschilo colloca la propria parola tragica: la tragedia del poeta di Eleusi doveva assolvere anche a una funzione politica? E se la risposta è sì, in quali termini?
SN | Nel tragico, la politica – certo, c’entrano gli Stati – bisogna pensarla in termini più generali, più socratici, cioè una politica orizzontale, che vuol dire un’attenzione ai comuni interessi. Noi siamo propensi a pensare alla politica nella logica della macchina dello Stato, della delega, della rappresentanza, che poi non è detto che i politici ci rappresentino davvero, non è sempre vero che i meccanismi di delega sono così trasparenti. E questo è un fatto che riguarda i vantaggi e i limiti della politica. L’elemento di fondo è che noi possiamo aggiustare la cosiddetta macchina dello Stato se si sviluppa un senso comune, vero, della politica, e cioè avere interesse per gli altri, pensare al comune interesse, che è quello che noi troviamo nel Protagora di Platone quando Epimeteo ha distribuito tutto agli altri animali e all’uomo è rimasto poco. E che cosa gli resta? La politica, perché è soltanto prendendo interesse ai comuni destini che l’uomo può cavarsela in questo mondo. È quello che dice Socrate: io non ho mai fatto politica, è pericolosa. Quelle due volte che mi hanno eletto ci stavo rimettendo le penne. Io, però, ho fatto da tafano ai miei cittadini, più che insegnando loro la virtù – che non è socratico –, provocandoli alla virtù. Quindi se la politica la si intende come compito costante, e bisognerebbe sviluppare una pedagogia di questo tipo, allora, in questo senso, direi che essa è un tratto essenziale dell’umanità.
SP | Quando si parla del rapporto tra filosofia e Cristianesimo si fa spesso riferimento al solo Neoplatonismo, alle filosofie ellenistiche e all’Aristotelismo. Ma quanto della parola tragica è stato assorbito dal Cristianesimo? È possibile rispondere a questa domanda seguendo lo schema Prometeo-Cristo?
SN | Nella figura di Prometeo abbiamo già detto di questo doppio, ma se si vuole trovare un elemento di distinzione – perché poi ci sono anche tanti punti di convergenza, e i punti di convergenza sono molti – lo si può trovare nel fatto che nella tragedia, nel tragico, c’è quella coppia azione-decisione dove l’uomo deve essere titolare delle sue scelte, cosciente della morte, abile a trovare la misura. Nell’elaborazione del primo Cristianesimo, per quanto riguarda i modelli etici e comportamentali, molto della grecità è passato nel Cristianesimo, nella tradizione monastica. Lo stoicismo è entrato nel Cristianesimo. Qual è la differenza? C’è qualcosa che l’uomo non può fare, ed è la liberazione totale dal dolore e dalla morte. Questo è il centro del Cristianesimo, cioè la promessa escatologica. Quindi noi, nel tempo intermedio, dobbiamo trovare la misura perché dobbiamo stare su questa terra, dobbiamo praticare la carità con reciproca attenzione. Ciò non ci salva dalla morte. Ecco! Mentre Prometeo fa dimenticare la morte, il Cristianesimo promette la vittoria sulla morte, ma questo non è un argomento razionale, è un atto di fede. E allora qui c’è la differenza di fondo, o la scommessa di fondo. Per il resto, molte somiglianze ci sono non solo tra mondo greco e cristiano, ma anche tra Cristianesimo e le altre culture. Per esempio, il nucleo etico del rispetto dell’altro, quella che si chiama la regola aurea, è persistente, è ricorrente, anche se formulata in modi diversi, in tutte le culture: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, o la versione positiva: fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te; questa appartiene a tutti i nuclei religiosi, e, secolarizzata, è una regola che serve anche a noi. Ciò è in potere dell’uomo, ma che si vinca la morte no. Poi, un’ultima cosa: la nostra dimensione, soprattutto moderna, è rivolta al futuro, vuole costruire il futuro. Tutte le filosofie del progresso guardavano al futuro, all’avvenire, al Sol dell’Avvenire. La redenzione che promette il Cristianesimo non è la conquista del futuro, perché il mondo finirà, bensì è il riscatto di tutto il dolore passato. Questo vuol dire che i morti risorgono, e ciò non è nelle disponibilità umane. Ecco il punto principale di differenza – poi ce ne sono tanti di convergenza.
SP | Una sua definizione, alla luce di tutto il percorso speculativo che ha compiuto in questi anni di intensa attività di ricerca, di studio, di insegnamento, di filosofia del tragico?
SN | La filosofia del tragico è facilmente riassumibile nell’espressione di Nietzsche: “hanno conosciuto l’abisso, e hanno trovato la misura”, e questo vale per il tragico e in generale vale sempre nella dimensione dell’umano.
English abstract
In this issue of Engramma, we publish an interview with philosopher Salvatore Natoli (Professor Emeritus of Theoretical Philosophy at the University of Milan-Bicocca) made on the occasion of the lecture Da Prometeo all'Antropocene, organised by the Sicilian College of Philosophy and held in Syracuse on 2 June 2023. The lecture and the interview were conceived as opportunities to deepen the interpretative itineraries of the Aeschyllean tragedy, especially in relation to the performance Prometheus Unbound staged at the Greek Theatre of Syracuse for the INDA 2023 season, directed by Leo Muscato, in Roberto Vecchioni’s translation and with the following main actors: Alessandro Albertin (Prometheus), Silvia Valenti (Bia), Davide Paganini (Kratos), Michele Cipriani (Hephaestus), Alfonso Veneroso (Oceano), Deniz Ozdogan (Io) and Pasquale Di Filippo (Ermes).
keywords | Salvatore Natoli; Prometeo incatenato; Anthropocene; Greek Thought; Greek Tragedy.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Piazzase (a cura di), Da Prometeo all’Antropocene. Intervista a Salvatore Natoli, “La Rivista di Engramma” n. 205, settembre 2023, pp. 217-225 | PDF of the article