Una, nessuna, molteplici Madonne del Salice
Un’immagine e i suoi riflessi
Lorenzo Gigante
English abstract
Nel 1984, senza grandi clamori, l’immagine nota come Madonna del Salice scompariva dalla basilica di San Giorgio fuori le mura a Ferrara, rubata da ignoti e mai più – a oggi – recuperata (si veda la scheda di Maria Elisabetta Ancarani e Martina Caroli in Caroli, Orselli, Savigni 2013, 154-156, oltre a quanto citato nel corso del testo). Il furto non avrebbe però messo fine alla devozione degli abitanti della zona, così come, oltre un secolo prima, il culto non era cessato per la soppressione dell’oratorio dedicato all’immagine, avvenuta nel 1804. Sono, queste, solo le ultime traversie che la Madonna del Salice si è trovata ad affrontare nel corso di oltre cinquecento anni.
La devozione persistente per l’immagine rende, senza dubbio, ciò che attualmente si trova sull’altare un’‘autentica’ Madonna del Salice: paradossalmente essa è, e allo stesso tempo non è, l’immagine che nel 1502 miracolò un passante sulle rive del Po. La tavoletta in ceramica che oggi sostituisce ciò che fu rubato nel 1984 [Fig. 1] tramanda il disegno di quel che – si vedrà – le fonti antiche raccontano come un oggetto materialmente diverso. Disegno: rappresentazione grafica di un oggetto, reale o immaginario; ma anche, nel senso vasariano, quasi l’idea stessa di un’opera d’arte. L’attuale Madonna del Salice, nel suo essere oggetto di devozione e, contemporaneamente, riproduzione e raffigurazione di un oggetto scomparso, sembra rientrare appieno nella definizione. Ma anche l’originaria Madonna del Salice, di cui non resta oggi neppure una fotografia, poteva evidentemente ricadere – seppur sotto altre sfumature – sotto il medesimo termine. Gualtiero Medri, nella sua guida di Ferrara del 1933, la descrive sul secondo altare di destra della chiesa di San Giorgio, come “piccolo disegno del quattrocento” (Medri 1933, 234). Più strana la recente definizione, riferita all’attuale formella in terracotta, di “moderna copia di una pregevole pittura lignea del Cinquecento, che rappresentava la Vergine con il Bambino” (Emanuela Astori in Roveroni et al. 2000, 70). Non si tratta delle uniche contraddizioni riscontrabili nei segni che la prima immagine ha lasciato dietro di sé, che le fonti antiche identificano, concordi, come un’immagine xilografica (come anche gran parte della letteratura moderna, si vedano Pezzoli in Adani et al. 1987, 221; Maria Elisabetta Ancarani e Martina Caroli in Caroli, Orselli, Savigni 2013, 155).
Segni come memorie: un oratorio e i suoi documenti
Perduta l’immagine, perduto il suo antico scrigno, le testimonianze sulla storia della Madonna del Salice sono affidate essenzialmente alle fonti, a cominciare dalla guidistica storica. Difficilmente, oggi, nel pacifico quartiere che circonda la chiesa di San Giorgio, si percepirebbero i segni di un travagliato rapporto con il vero protagonista del paesaggio cinquecentesco: il fiume, quel Po che, sfiorando a Sud la città, ne costituiva allo stesso tempo difesa, ricchezza, ma anche una costante minaccia. Per la maggior parte del tempo, il corso d’acqua scorreva placidamente nel suo alveo, delimitato da argini. Sapendo che la portata poteva mutare in misura significativa, l’uomo li aveva innalzati ben distanti tra loro, lasciandovi in mezzo un’ampia zona golenale, ricca di terreni alluvionali, destinata a lasciare sfogo alle piene del fondamentale, quanto imprevedibile, fiume: non già il tranquillo canale che attraversa oggi un’area urbanizzata, ma un ‘vicino’ irrequieto, pronto a rotte disastrose per quella stessa popolazione che, nel resto dei giorni, da quelle rive traeva protezione, nutrimento, ricchezza ed energia.
Così, il fiume portava alle soglie della città una zona liminare, quella golena, altrimenti detta Schiappa, abitata per lo più da arbusti e alberi, piantati allo scopo di irrobustirne i terreni. Luoghi familiari a chi, come i contadini o i mercanti delle campagne circostanti, sfruttava gli argini come strade per spostarsi da e verso i mercati cittadini. È qui che, presi per mano da Marc’Antonio Guarini, nostro Cicerone nella Ferrara seicentesca, ci saremmo imbattuti nell’Oratorio del Salice. È all’autore del Compendio Historico delle Chiese di Ferrara, edito nel 1621, che si deve infatti la prima descrizione della storia e dell’Oratorio del Salice, a distanza ormai di più di un secolo dai miracolosi fatti del 13 giugno 1502.
L’Oratorio della Madonna del Salice è così nominata per una Imagine di lei in una carta impressa, ed ad un salice affissa dietro la riva del Pò oltre alla Città, dove era una Schiappa, che perciò anche con tal nome viene addimandata la Madonna della Schiappa, alla cui Imagine raccomandatosi con puro affetto in passando un tal Contadino da Villa nuova di Donore nominato Giovampietro Farolfo, che era molto travagliato da una rottura ne gli intestini subito ne ricevette la intiera sanità a’ 13 di Giugno, giorno della festività di Sant’Antonio de Padova, in segno di che discioltosi il cinto, che perciò portava lo appese con gran riverenza, e lagrime ad un ramo del detto Salice, incominciovvi il medesimo giorno a concorrervi di molta gente, ed ad accrescervisi la divozione, della quale indotto Hercole Strozzo Giudice de’Savi ottenne dalli Monaci di san Giorgio il poter ivi edificare il presente Oratorio, si come effetuò per istromento rogato da Bartolomeo Codegori sotto il 26 Maggio [1503], vedendosi tuttavia nella volta di esso il ritratto di lui al naturale in atto supplichevole, e divoto, includendo dentro ad esso il medesimo Salice con la stessa Imagine, la quale così bella si dimostra, come s’oggidì fosse stata impressa, sì come avviene del detto Salice ov’ella sta affissa, il quale stà tuttavia [1621] dietro l’Altare radicato così sodo, e rosseggiante come s’egli fosse moderno di dieci anni, e non antico di ducento, come si presume. In questo Oratorio trovasi istituita una Confraternita detta della Madonna del Salice, così anche nominata in un Breve concedutole da Sisto IV. la quale ha per costume di vestire la cappa di tela bianca, e di radunarsi in esso ne’giorni festivi a celebrare le divine lodi, ed altre opere di carità, e devozione (Guarini 1621, 396).
Il preciso Guarini, oltre a guidare il nostro sguardo verso l’immagine miracolosa, “una imagine di lei in una carta impressa” e gli affreschi dell’oratorio, racconta il miracolo fondativo e correda la vicenda di inoppugnabili fonti storiche, come l’“istromento rogato da Bartolomeo Codegori sotto il 26 Maggio”. Non avremo certo la pretesa di essere gli unici viaggiatori che a muoversi lungo l’argine del Po con il volume di Guarini sottobraccio: oltre un secolo dopo, infatti, l’altro guidista che ci accompagna all’interno del tempietto ha già evidentemente percorso gli stessi passi leggendo, controllando e verificando le parole del suo predecessore. È Giuseppe Antonio Scalabrini, che nelle sue Memorie Istoriche del 1773 racconta, ancora una volta, le vicende accadute sul 1502 sulle rive del Po.
In questo Borgo si vede il bello, ed antico Oratorio detto della Schiappa, edificato sopra di un terreno Schiappivo, e vegro di ragione del Monastero di San Giorgio. Dicesi schiappivo, perchè terreno portato, e condensato dall’aluvione del Pò verso la ripa, e quando vi corre l’acqua chiamasi piarda. Di quello ne parla lo Statuto antico del 1200. De rationibus Ecclesia S. Georgij manutenendis.
Statuimus quod Potestas teneatur manutenere rationes Ecclesiae Sancti Georgij de ultra Pado, nec vim ei facere permittat alicui in suis piardis, salvo Statuto D.ni Salinguerrae, et omnes rationes Canonicae Ferrariae.
Su questo terreno schiappivo v’erano alcuni antichi salici piantati, fra quali uno a cui nella sommità per divozione di qualche persona borghegiana era stata affissa un’Immagine della Santissima Vergine impressa in carta, avanti alla quale i Devoti si raccomandavano alla gran Madre di Dio. Avvenne che l’Anno 1502. li 13 Giugno festa di Sant’Antonio di Padova un tal Giovanni Pietro Farolfo Contadino da Villa Nuova di Denore stranamente travagliato dal mal di Rottura intestinale, benché fasciato secondo l’arte, e per il viaggio quivi sorpreso dal dolore, a cui era per cedere colla vita, levati gli occhi a quella Santa Immagine, ed il cuore al gran Vergine, disse gran Madre di Dio aiutatemi, quando subito sentitosi disciolta la fasciatura, che portava, trovossi sano senza verun dolore, onde appesa la fascia, con cui custodito andava ad un ramo dell’Albero con lagrime di divozione in segno del Miracolo, e grazia ricevuta, v’accorsero i Popolani, ed altri da lontani Paesi per le grazie, che quivi compartiva nostra Signora; laonde mosso Ercole Strozza Giudice de’ dodeci Savij, ed ottenuto da Monaci di San Giorgio con instrumento rogato Bartolommeo Codegori Notaro l’Anno 1503. 26. Maggio il sito, vi fece edificare il presente Oratorio, in cui fra il grosso del muro, dietro l’Altare fu chiuso lo stesso Salice coll’Immagine di Maria Vergine, che tuttavia qual’era, benche arido, si conserva coll’Immagine sopradetta, come se fosse stata di recente impressa. Intorno poi la Volta del medesimo Oratorio fu dipinta la Beata Vergine fra molti Santi con appiedi l’Immagine al vivo del Giudice de’ Savj, coll’Abito antico, ed usato a que’ tempi supplicante con altre Immagini d’ Uomini, e Donne supplichevoli per voti, e grazie ricevute, fra le quali l’Effigie di un certo Bernardino da Cona Villaggio quivi distante cinque miglia, qual’ era sì naturalmente espresso, che passò in proverbio, verso di chi non aveva mai passato il Pò, sotto le Porte di Ferrara Non hai mai veduto la Faccia di Bernardino da Cona, e quelli era un soggetto nobile di qualità, che quasi tutto il tempo dell’Anno stava in detta Villa, avendo un delizioso Palazzetto, dirimpetto all’Osteria, e Passo di detta Villa, andato in ruina l’Anno 1709. La maggior parte di queste Immagini, e Ritratti fu levata, nell’imbiancarsi le mura, non restando, che la Volta, in cui lavorarono Gabrielotto Bonaccioli, Niccolò da Pisa, e Francesco de’Marsigli, come si vede dal Lib. LLL. 505. De’ Memoriali del Commune di Ferrara al fol. 71. Oratorio de nostra Donna dal Salice oltra Pò dal Ponte de S. Zorzo in golena. V’era in quest’Oratorio una Confraternita di Cappa bianca fin al tempo di Sisto V. chiamata della Maddonna del Salice, che al tempo del Patriarca Crispi nostro Arcivescovo fu ad istanza del Curato di San Giorgio abbollita, come mancante de’ requisiti necessarj voluti dalla Bolla di Clemente VIII. Vi si conserva una bella Statua intiera della Beata Vergine col Bambino fra le nubi sopra d’un Albero, qual portasi in processione scolpita dal famoso Andrea Ferreri (Scalabrini 1773, 40-42 borghi).
Le parole di Scalabrini sono ancor più preziose, perché ci mostrano un oratorio colto nel momento in cui, raggiunto l’apice della sua decorazione, sta ormai iniziando un lento percorso di declino: i suoi affreschi cominciano a essere scialbati, ma se ne conserva ancora memoria; la confraternita è stata abolita, e tra le mura non risuonano più i suoi canti. Resta ancora, protagonista, “l’Immagine sopradetta, come se fosse stata di recente impressa”. L’erudito non si dimostra erede del suo predecessore Guarini solo nella descrizione dei luoghi, quanto anche nel compulsare gli archivi locali alla ricerca delle tracce delle vicende dell’oratorio. E non solo menziona il già citato “instrumento rogato Bartolommeo Codegori Notaro l’Anno 1503. 26. Maggio”, ma recupera un “Lib. LLL. 505. De’ Memoriali del Commune di Ferrara” dove, al foglio 71, trova un elenco di pittori che lavorarono sugli ultimi affreschi rimasti visibili alla fine del Settecento.
Non sarebbero, peraltro, durati a lungo neppure quelli. Come si è già accennato, nel 1804 le soppressioni seguite ai rivolgimenti napoleonici colpirono anche il nostro oratorio, che venne dapprima chiuso e, acquistato da un privato, tal Giuseppe Rossi, finì poi distrutto. Si salvarono l’immagine e il suo salice, traslati solennemente il 5 febbraio dello stesso anno nella vicina chiesa di San Giorgio fuori le Mura (Boschini in Baruffaldi 1844-1846, I, 194; Mezzetti, Mattaliano 1980-1983, II, 86; Brisighella 1991, 575; Roveroni et al. 2000, 70; Maria Elisabetta Ancarani e Martina Caroli in Caroli, Orselli, Savigni 2013, 155). Rimarranno per qualche tempo nella sacrestia, per poi trovare posto nel secondo altare della navata destra, là da dove una pala del Garofalo era nel frattempo migrata verso la futura Pinacoteca Nazionale (Bentini 1992, 142-144). Chi rimase – e rimane tuttora – in sacrestia, invece, fu la “bella Statua intiera della Beata Vergine col Bambino fra le nubi sopra d’un Albero, qual portasi in processione scolpita dal famoso Andrea Ferreri” (per cui si veda Fioravanti Baraldi 1996, con bibliografia; che però non cita la statua processionale). Per la Madonna del Salice, tuttavia, non ci sarebbe stata ancora pace: nel 1984 scomparve misteriosamente, sostituita l’anno successivo dalla copia in ceramica che raccoglie oggi la venerazione sull’altare (Pezzoli in Adani et al. 1987, 221; Maria Elisabetta Ancarani e Martina Caroli in Caroli, Orselli, Savigni 2013, 155).
Il triste destino che si accanì sulla Madonna del Salice non sembra aver risparmiato nemmeno la documentazione a essa correlata. Si ha notizia di uno specifico fondo archivistico conservato presso il monastero di san Giorgio attiguo alla chiesa, menzionato nell’“Indice degli armari primo e secondo in archivio” compilato nel 1685, dove si trovava almeno un fascicolo relativo alla “Madonna del salice hora «della Schiappa»”: materiale oggi disperso, tra le complicate vicende dell’archivio monastico successive alle soppressioni napoleoniche che coinvolsero, oltre al già citato oratorio, anche il convento di san Giorgio (Ottani 2005, 21-22). Forse le lessero Guarini e Scalabrini, pur non citandole direttamente. D’altronde, gran parte delle informazioni che propongono sembrano essere una sorta di patrimonio comune locale, come la simpatica storia di Bernardino da Cona e del suo proverbiale viso. È possibile che nel monastero, o nell’oratorio, si conservassero anche memorie precise dei fatti occorsi a Giovan Pietro Farolfo, descritti con precisione dai due scrittori. Anche perché di tali memorie non vi è traccia nei documenti che essi citano esplicitamente, dall’ “Instrumento” di Codegori al “Memoriale” del comune. Fortunatamente, infatti, almeno questi ultimi sono sopravvissuti, ed è ancora possibile leggerne il contenuto.
L’“istromento”, effettivamente rogato in data 26 maggio 1503 dal notaio Bartolomeo Codegori si conserva, in duplice copia con lievi varianti, presso l’Archivio di Stato di Ferrara (ASFe, Archivio Notarile Antico, notaio Bartolomeo Codegori, matr. 283, XXI, 26 maggio 1503) (Peverada 2000, 15; Merkley, Matthews 2007, 220-229, quest’ultimo con trascrizione parziale, non priva di inesattezze). Esso sancisce i termini di un accordo tra gli olivetani di san Giorgio e il nobile Ercole Strozzi circa la gestione amministrativa e l’officiatura dell’oratorio, sorto grazie al continuo susseguirsi di offerte da parte dei fedeli:
Cum sit quod hoc anno in parochia venerabilium monachorum monasterii Sancti Georgii prope Ferrariam ordinis Sancti Benedicti congregationis Montis Oliveti errectum et edificatum fuerit oratorium quoddam sub titulo Sanctissime Dei Matris Virginis Mariae in Salice in Contrata Misericordie in quadam sclapa extra civitatem Ferrarie non longe a dicto monasterio cura et favorem nobilis magnifici et doctissimi domini Herculis Stroze Ferrariensis ob eximium affectum et maximam devotionem quam habet erga beatissimam Dei matrem partim impensas eris sui proprii et partim contributionibus et oblationibus quas officiales salariati et creditores dicti comunis Ferrarie moti persuasionibus suis et officialium suorum de eius mandati, conferrebant et contribuebant sponte ex salariis et eorum creditis in auxilium fabrice predicti oratorii et partim elemosinis a pluribus et diversis personis pluribus et diversi vicibus et temporibus in dicto oratorio oblatis a die tertiodecimo mensi Iunii proxime preteriti citra, quo die primum miraculum in dicto loco concessum fuit per prefatam Dei genitricem Mariam usque et per totum presentem diem. [...] (ASFe, Archivio Notarile Antico, notaio Bartolomeo Codegori, matr. 283, XXI, 26 maggio 1503).
Nulla più di una generica menzione del fatto fondante, “quo die primum miraculum in dicto loco concessum fuit per prefatam Dei genitricem Mariam usque et per totum presentem diem”. Se Guarini e Scalabrini lessero il documento, non fu – solo – questo la fonte delle loro informazioni. Tanto più che la loro lettura si rivela quantomeno distratta, almeno circa il ruolo dello Strozzi: finanziatore sì della fabbrica, che nell’atto, però, risulta già in piedi, laddove per Guarini nel documento si autorizzava il nobile all’erezione dell’oratorio (Guarini 1621, 396); mentre per Scalabrini – evidentemente lettore di seconda mano tramite Guarini – Strozzi otteneva qui il sito per l’edificazione, cosa che in realtà non avvenne mai (Scalabrini 1773, 41 borghi).
Quanto al “Lib. LLL 505 de’ Memoriali del Commune di Ferrara, fol. 71.269”, dato per perduto nelle note al Baruffaldi, che lo citava attraverso Scalabrini, viene invece letto e illustrato dal Cittadella, una ventina di anni dopo (Baruffaldi 1844-1846, II, 562-564; Cittadella 1864, 39-42, si veda anche Franceschini 1993-1997, II.2, 629-630). Relativo – almeno per quanto riguarda il nostro oratorio – al biennio 1504-1505, dunque soltanto un anno dopo l’atto rogato da Codegori, ci consegna ben altra immagine del tempietto sorto sulla golena: quella di un fervente cantiere, dove le più varie e disparate maestranze si presentano a incassare il prezzo del loro lavoro: nel 1504, “a Bartolomeo de’ Mambri merchadante de legnami” per le travi del solaio; nel 1505 toccava a “M.° Tientamente marangone per comprar formajo per far colla per la seraglia ch’ è dal altaro del dicto oratorio”; nello stesso anno riscuoteva “M.° Antonio da Mantoa murator p. sua mercede d’haver smaltado [intonacato] la tribuna de dicto oratorio”; ma evidentemente erano in opera anche le cornici architettoniche, giacché si presentava anche “Domenego da V.na [forse da Verona] dicto da le Nappe per havere facto e posto in opera a tute sue spese le cornixe cum le gozzole dentro del oratorio sopra li duj ussi, l’uno verso l’arsene, e l'altro verso Po, et per doe altre poste sotto l’ architravo de legno”; e si spendeva anche per gli arredi, come il paliotto di raso: “al fìolo de M.r Bartol d’ Arsenta per la factura soa d’haver facto et cusito il palio de raso a liste bianche et zale, per la tela per foderare dicto palio; et a M.ro Zampiedro sarto che li apicho la franza, et il friso”, e ancora nel 1505, “per lo pretio d’un frixeto ch’è posto al dicto palio sopra da la franza coperto da Antonio de Thomaso merzaro dal saracino”; cui si aggiunge l’esborso per “braza quatro et uno terzo de raso biancho de squarzo, et braza quatro et uno octavo de raso zalo” da parte del Giudice d’argine Rinaldo Cati. Ci sono poi i pittori citati da Scalabrini: Gabriele Bonaccioli, saldato il 19 dicembre 1505, “A M.ro Gabreleto bonazolo depintore per tanti ricevuti in colori et altre cosse, computa certi dinari, et questo per depingere le asse dela seraglia posta drieto l’altare, le finestre, li due banchiti, et spaliere, li due schabelli, li dui asti, l’architravo suso el quale è il crucifixo in dicto oratorio, dele quale dipinture non è facto merchato; ma lire vinti vano a conto de dicta depintura”; Nicolò Pisano, che riscuote lo stesso giorno “A M.ro Nicolò da Pisa depintore lire sei soldi sei denari sei, et smalto per lire tre, et per fare li quattro evangelisti, et Lire 3: 6: 6: in tanti coluri per fare li profeti in dicto oratorio”; così come gli eredi di Fino Marsigli, “A M.ro Fino di Marsilij on per nome de suoi heredi Lire nove, soldi tredece denari nove per resto de Lire 44: 13: 0 m. detracto Lire due per el piacere che M. Pietro Antonio dal Melone [Pietro Antonio da Pavia speziale all’insegna del Melone] li fa, che erano in tutto L. 46: 13: 9 m. Et questo per tanti coluri, oro, et altre robe de sua bottega, che l’ dito M.° Piedro Antonio mostra per li soi libri haverli dato da dì primo de Octobre 1504 p. tutto dì 2 de aprile 1505 per depinger al dicto oratorio li capitelli delle colunne, architravo, friso et cornise de gesso che cinge a cerca a cerca dicto oratorio dentrovia, dele quali lire 44: 15: 9. dicti soi heredi ne haranuo a render ragione detrahendo quelo sera extimato dicta sua dipintura” (Cittadella 1864, 39-42).
L’aria era dunque ancora pregna dell’odore di vernice fresca quando, poco più in là, nell’abside della chiesa di san Giorgio, rogante Codegori, davanti ai monaci olivetani sfilava un parterre di testimoni d’eccezione:
[…] presentibus testibus vocatis et rogatis magnifico viro Petro Bembo, patricio veneto, filio quondam magnifici equitis domini Bernardi, spectabili viro domino Antonio Thebaldeo cive Ferrariensi et spectabili domino Thimotheo f.q. Magnifici equitis et iureconsulti domini Baptiste Bendedei nobile Ferrariense de contrata Buccecanalium et aliis (ASFe, Archivio Notarile Antico, notaio Bartolomeo Codegori, matr. 283, XXI, 26 maggio 1503).
Pietro Bembo, Antonio Tebaldeo, Timoteo Bendedei e, ovviamente, Ercole Strozzi, il fior fiore della poesia di corte ferrarese. Un’allegra brigata che è facile immaginare annoiata e svogliata di fronte ai contenziosi burocratici sorti tra gli Strozzi e il monastero, che reclamava la proprietà del sito, e dunque la giurisdizione sulle cerimonie da svolgersi nell’oratorio, su cui si tornerà. Forse si deve proprio alla brigata dello Strozzi, alla passione dei giovani intellettuali locali, quella vocazione musicale che sembra caratterizzare l’oratorio sin dalla sua nascita, con l’atto che menziona più volte messe votive cantate, cui parteciperanno gli Strozzi insieme ai monaci, intonando, dopo i vespri, inni composti dal giovane Ercole in lode della Madonna: se, giusta l’ipotesi di Paul Merkley e Mary Matthews, si trattasse del Virgo salutiferi messo in musica da Josquin Desprez, ne emerge un livello artistico assoluto (Merkley, Matthews 2007, 220-222). Mezzo secolo dopo, ancora, l’oratorio continua a risuonare di canti, secondo un “Memoriale del Comune” datato 1552 e citato nuovamente, senza ulteriori riferimenti, dal Cittadella: la “Compagnia di batù virdi, che officiano al dicto oratorio commissiona una bancha lunga, et uno altarollo, et uno bancheto, e mezzo uscio suso il solaro del pezolo [poggiolo, cioè la cantoria] del dicto, dove stano li ho.i [uomini] della Compagnia a cantare”, unica menzione di una confraternita di cappa verde, che altrove risulta invece sempre vestire di bianco (ASFe, Archivio Storico del Municipio di Ferrara, sec XVI, Busta 56 “Memoriale” del 1522, c. 23, registrazione del 14 aprile 1522; Cittadella 1864, 41-42 (senza riferimenti alla collocazione del documento); Franceschini 1975, 34, nota 53 (con gli estremi del documento); Marzola 1976-1978, I, 577 e 586).
Nel 1574 è ancora la confraternita, e non l’oratorio, a essere protagonista dell’ultima menzione documentaria, quando la visita apostolica descrive la “Societas Sanctae Mariae in salice vulgo della schiappa”, di cappa bianca, con circa 150 membri e nessuna rendita, dotata di capitoli propri ma non ancora approvati, da approvarsi (Marzola 1976-1978, I, 721; II, 413). Negli anni ’40 del Settecento, come informava Scalabrini, la confraternita aveva cessato la sua esistenza. Nell’Oratorio del Salice non si cantava più.
Disegno come strategia. Il piano degli Strozzi
Il 13 giugno 1502, dunque, un dolorante Giovanni Pietro Farolfo sta passando lungo l’alveo golenale del Po di Volano. Tra i depositi che vanno accumulandosi tra gli argini e il vero e proprio corso d’acqua, in quel che allora si chiamava anche schiappa, crescono i salici, talvolta piantati da mano umana nella speranza che le loro radici rinforzino quei terreni così fragili, eppure così preziosi, davanti alle acque spesso imprevedibili, capaci di distruggere a capriccio le opere di contenimento innalzate dall’uomo. Quando le radici non sembrano bastare, mani pie appendono immagini sacre, affidandosi così all’intercessione divina. Succede, a volte, che le immagini rispondano alle invocazioni dei passanti, o manifestino il loro potere. Nel 1579, poco distante dall’Oratorio del Salice, nella stessa contrada di san Giorgio, il tiro di buoi del carro di un bestemmiatore si schiantò contro un altro salice da cui pendeva un’immaginetta, piantando nel tronco il timone in modo tale che fu impossibile svellerlo. Anche lì sorse un oratorio, bruciato in seguito: non sappiamo di che materiale fosse l’immagine appesa al tronco, poi sull’altare, dove le fonti settecentesche descrivono un bassorilievo in gesso raffigurante il miracolo (Scalabrini 1773, pp. 39-40 borghi). Ma sarebbero innumerevoli i casi di piante – alberi, salici, roveri, querce, olmi, boschi – che appellano Madonne miracolose, titolari di santuari, cellette, chiese e oratori.
Tra tavolette, ceramiche, bassorilievi, dalle fronde degli alberi pendevano anche fogli xilografici, sopravvissuti per lo più in testimonianze documentarie. È il caso di una copia a stampa della Madonna delle Carceri di Prato, citata nella collezione di miracoli compilata da Giuliano di Francesco Guizzelmi nel 1505 – siamo negli stessi anni in cui Farolfo si aggira lungo il Po – colta nell’attimo in cui un passante “vide in uno ulivo, posta una Charta, nella quale era dipinta, la simola figura, della Madonna del Carcere di Prato: alla quale com divotione raccomandòsi: si sentì libero: et così con gram festa, sença gruccie, giunse alla Madonna [...]” (Maniura 2004, 91. L’uso del termine “dipinta” non deve trarre in inganno in una raccolta che fa spesso riferimento ai miracoli operati attraverso copie xilografiche dell’immagine, come quella incollata in apertura del volume stesso, per cui si veda ALU.0245, scheda di Laura Aldovini).
Insomma, Farolfo non era né il primo né l’unico pellegrino in difficoltà, né a trovarsi di passaggio sotto un albero, né a posare i suoi occhi su un foglio di carta. Né a essere, poi, esaudito. Correva il giorno della festa di sant’Antonio, per cui il nostro contadino, a tutta evidenza, percorreva l’argine tra la sua Villanova di Denore e la città di Ferrara vuoi per proporre i suoi prodotti al mercato cittadino, vuoi per elemosinare qualche benedizione da un santo sempre presente nella devozione popolare. Tanto più in quanto lo sventurato Farolfo soffre per una “rottura intestinale”, nonostante sia già “fasciato ad arte”. La scienza è, nel suo caso, impotente. Non lo è, invece, quell’immagine posta proprio su un salice, pianta i cui poteri curativi sono noti da sempre: e Farolfo si ritrova sanato; la sua benda, appesa ai rami, è il primo ex voto che testimonia il potere della nuova Madonna del Salice, e la notizia, che vola di bocca in bocca, porta fedeli, pellegrini, offerte.
In quegli anni, a Ferrara, il modesto Farolfo non è l’unico ad avere crucci. E le voci di popolo, oltre a parlare delle grazie della Vergine, parlano anche di due nobili, maledicendone il nome e l’operato. Si tratta proprio di quell’Ercole Strozzi già visto davanti ai monaci olivetani e al notaio Codegori come sponsor dell’erigendo oratorio. Lui, e il padre Tito Vespasiano, di nobile schiatta di fuoriusciti fiorentini, sono uomini di corte e di governo del duca di Ferrara: quasi loro malgrado, giacché la loro prima passione è, piuttosto, la poesia (su Tito Vespasiano ed Ercole Strozzi si vedano i recenti profili biografici di Guassardo 2019 (Ercole) e Corfiati 2019 (Tito Vespasiano); ancora valide restano le biografie contenute in Barotti 1792, I, 142-164 (Tito Vespasiano) e 165-186 (Ercole), per quest’ultimo si veda anche Wirtz 1905. Per ulteriori approfondimenti bibliografici, Folin 1998, 68, nota 18). Non solo poesia e devozione, al duca come alla Vergine, accomunano i due Strozzi. Nel 1498, l’otium letterario di Tito Vespasiano è interrotto dalla chiamata come Giudice dei Savi, apice del cursus politico, raggiunto alla non lieve età di 76 anni. Il compito è gravoso, e passati quattro mesi il vecchio Strozzi ottiene di poter essere affiancato, come coauditore, dal figlio Ercole che ne farà, in sostanza, le veci, fino a succedergli nella carica per qualche tempo dopo la morte del padre (Barotti 1792, 155-157, 171-175). La sorte non è propizia ai due, e si susseguono anni di riscossioni di tributi straordinari per far fronte a pestilenze e inondazioni che flagellano la città e il ducato: e il popolo identifica negli Strozzi, padre e figlio, che si occupano proprio della riscossione delle tasse, i veri responsabili della congiuntura (Barotti 1792, 173-174). Non li amano, e li criticano – per usare un eufemismo – tanto il loro duca quanto – soprattutto – il popolo (Wirtz 1905, 44-46), e le fonti contemporanee – un diario anonimo (citato in Barotti 1792, I, 157, e reso noto da Ludovico Antonio Muratori: Muratori 1738, XXIV, coll. 409-506) – riferiscono di un Tito “universaliter odiato, et così li Fioli, da ogni persona”, come dei “grandissimi lagni, et inimicizie universaliter di tutto il popolo” alla notizia, il 9 gennaio 1502, della riconferma di Tito come magistrato, “peggio voluto [...] che non è il Diavolo” (Muratori 1738, XXIV, coll. 381 e 400-401). Poco più di cinque mesi più tardi, accadeva il miracolo del Salice (Sfortunatamente, il Diario edito da Muratori si conclude pochi giorni prima del miracolo, di cui dunque non v’è notizia).
Tra i tanti occhi speranzosi puntati sulla Madonna del Salice, non mancarono allora quelli dei due Strozzi. Giudicati colpevoli dal tribunale del popolo, potevano fare ancora affidamento sull’avvocata celeste, e portarla dalla loro parte investendo nel suo tempio, nel nuovo Oratorio del Salice: là dove la Madonna si era manifestata, non a caso, lungo un argine: come quelli che troppe volte cedevano, obbligando il potere – nelle persone degli Strozzi – a intervenire attraverso le tasche dei suoi sudditi.
Entrando nell’oratorio, quello stesso volgo che malediva gli Strozzi avrebbe visto lì Ercole, non già in figura di magistrato avido e malvagio, ma come pio intercessore, supplicante la Vergine non solo per la sua persona, ma per la sua città, per i suoi concittadini così esposti ai capricci di quello stesso fiume. E avrebbero letto, quegli ingrati, l’iscrizione che correva lungo le mura dell’oratorio, dipinta a lettere palmari sopra quella “cornixe cum le gozzole dentro del oratorio” smaltata da Domenico da Verona: HERCULIS STROZZAE TRIBUNI PLEBIS AUSPICIO […] FUNDATUR, ABSOLVITURQUE (Barotti 1792, 175).
Assolto il suo compito, con ingente esborso di denaro, possiamo solo immaginare il suo disappunto nello scoprire come un decreto vescovile assegnasse ai monaci di San Giorgio fuori le mura la giurisdizione del ‘suo’ oratorio, impedendo a chiunque – persino agli stessi Strozzi! – l’accesso, se non dietro espresso permesso dei monaci: nessuno, insomma avrebbe potuto partecipare – ma soprattutto ammirare – l’atto di pietà – e di pubblicità – di Ercole (Merkeley, Matthews 2007, 220). Perché che quello fosse un atto pubblico, voluto in tal senso dal nobile, oltre alla logica lo indica anche un’altra fonte: la menzione che ne farà, in morte di Ercole, Celio Calcagnini, altro esponente del bel mondo culturale ferrarese, nell’orazione funebre del nobile poeta:
Extant et in his rerum angustiis publica eius opera, et moenia magna parte constructa, et portae, ac pontes lateritii novis fossis additi: Adde et illa pietatis insignia Divorum Tutelarium Basilicam multa parte refectan: Adde maximae Virginis transpontanan Aedem eius authoritate a fundamentis conditam: Adde tot pias erogationes &c. (Celio Calcagnini, In Funere Herculi Strozzae Oratio, 1508, in Calcagnini 1544, 505-508 (507 per il passo riportato), citato da Barotti 1792, 175).
L’Oratorio della Schiappa è, non a caso, tra le gesta meritorie del giovane nobile, citato tra le opere di pubblica utilità, con il restauro di ponti, porte e chiese: la sua immagine a fresco nell’abside della chiesa non pregava soltanto per sé. Nel 1503, gli accordi con i monaci chiamavano in causa la celebrazione, tra le altre, anche di messe di suffragio: l’oratorio non sarebbe stato solo il tempio della riabilitazione dello Strozzi da vivo, ma anche il segno tangibile della sua memoria, lascito pro anima per sé e la famiglia (Peverada 2000, 15; Merkley, Matthews 2007, 220. Sui lasciti pro anima, Bacci 2003). I canti sarebbero risuonati tra le mura affrescate già sul finire dell’estate del 1505, in funere del vecchio Tito Vespasiano. Nel 1508, Ercole si sarebbe trovato di nuovo a dover usufruire, stavolta per sé, dei requiem di monaci e confratelli, quando il suo cadavere venne ritrovato sulla pubblica via, la gola squarciata, nella notte del 6 giugno 1508, in circostanze mai del tutto chiarite (Barotti 1792, 158 (per la morte di Tito) e 178-184 (sulla morte di Ercole), si veda anche Guassardo 2019, 393).
Nel 1503, questi lutti sembravano ancora in là a venire. Sotto le volte di san Giorgio, Ercole sta firmando gli accordi con i monaci, ignaro che lo avrebbero riguardato così da vicino, e così a breve. È di fondamentale importanza disinnescare quanto prima la minaccia che l’avidità dei confratelli di san Giorgio possa sottrargli il suo investimento più prezioso. Con lui, è lì un’allegra brigata di amici: Pietro Bembo, Antonio Tebaldeo, Timoteo Bendedei, i bei nomi che, con Ercole stesso, rappresentavano le stelle che orbitavano intorno al mondo, cortigiano e intellettuale, di Lucrezia Borgia (per cui si veda Vecchi Galli 1994; per il Tebaldeo si veda anche Barotti 1792, 187-203, specialmente 202-203 sul legame tra Tebaldeo, Strozzi e Bembo). Quel mondo che lo stesso Ercole eternava nella sua Venatio, poema dove gli stessi comparivano nelle vesti di eroici – quanto forse, talvolta, improbabili – cacciatori (Pavan 2011, p. 133). Gente che si muoveva in un mondo di umanisti e cortigiani, persone accorte, in quanto raffinati intellettuali, del potere delle immagini e del proprio ruolo di committenti. Già Tito Vespasiano si era preoccupato, a suo tempo, di eternare la sua immagine per mano di Sperandio Savelli e Baldassarre d’Este (per il ritratto di Baldassarre D’Este, si veda la scheda di Luca Siracusano in Bacchi, De Marchi 2016, 188-191 (con bibliografia precedente), per la medaglia di Sperandio Savelli, Caterino 2013). Nella compagnia di Ercole, basti il nome di Pietro Bembo a dare la misura dell’ambiente in cui ci si muove (per cui si vedano a riguardo Beltramini, Gasparotto, Tura 2013 e Beltramini, Burns, Gasparotto 2013). E l’immagine pubblica era la più importante, tanto più in un frangente delicato come quello in cui si dibattevano gli Strozzi. Già il duca Ercole I aveva insegnato l’importanza del patrocinio delle immagini sacre (Peverada 2000, 150), e in questo caso l’occasione era troppo ghiotta, con quell’immagine capitata proprio lì, sulla golena del Po, quello stesso fiume che tanto comprometteva la reputazione dei due Strozzi. Il margine di rischio esisteva sempre: nel 1492, un caso analogo non aveva funzionato allo stesso modo. Un’immagine della Madonna ad affresco, su uno dei pilastri del palazzo delle Gabelle, altro luogo dal fortissimo valore simbolico – quale posto più legato alle tristi situazioni economiche cittadine? – aveva preso a elargire grazie, ma, al di là dell’entusiasmo iniziale, non si andò oltre la costruzione di un tabernacolo (Peverada 2000, 150-151). Ercole Strozzi non poteva permettere che il suo investimento finisse nella stessa maniera, con un nulla di fatto: e la minaccia dei monaci andava disinnescata quanto prima, per rendere pubblica, ed efficace, quell’immagine sull’abside. Per questo, Ercole scelse di andare sul sicuro, puntando su un’equipe di pittori che magari non brillavano per originalità, ma offrivano un modello di sicuro apprezzamento in città: gli esponenti di quella temperie un po’ “bigotta”, come la definì Roberto Longhi, che caratterizzò l’età di Ercole I d’Este (Longhi 1956, 63-67 e 189; Zamboni 1975, 8-10 e 75, per le opere perdute dell’oratorio della Schiappa).
Oggi scomparsi, chi fece in tempo a vederli – come Cesare Barotti – attribuiva gli affreschi dell’abside del Salice al Gabrieletto, alias Gabriele Bonaccioli, o a Domenico Panetti:
Tra l’Argine, e il Po di Volano, non molto distante dalla Piazza di S. Giorgio, stà quest’Oratorio: Nella Volta sopra l’unico Altare si vede effigiato al naturale il celebre Poeta Ercole Strozzi in abito di Giudice de Savj in atto dorare avanti la Santissima Vergine, dipinto da Gabriele Bonaccioli Ferrarese, o da Domenico Panetti. Colorì Domenico Panetti sulla Porta una piccola Immagine di Maria Vergine adorata da alcuni Fratelli in Cappa (Barotti 1770, 200-201. Per visualizzare gli affreschi perduti può essere utile un confronto con l’affresco di Panetti a Cento: Zamboni 1975, 66-67).
Si stava, insomma, nel solco del gusto più consolidato. Più curiosa, forse, la scelta di investire su una xilografia, un’immaginetta da pochi soldi, lasciata, come tante, su un salice nella golena. Ma era proprio questo che serviva: il luogo, funzionale agli Strozzi. Nessun problema, allora, a sommare i propri denari a quelli che la devozione popolare accumulava intorno al foglio, né a trascinare a testimoniare il fior fiore della gioventù intellettuale, campione di gusto e raffinatezza, davanti a un’umile xilografia. La posta in gioco è ben maggiore di qualsivoglia immagine su “carta impressa”: è l’immagine stessa degli Strozzi.
Segni come riflessi: a ritroso verso la Madonna del Salice
Benché più tarde di oltre uno o due secoli rispetto ai fatti, tutte le fonti concordano sulla materialità dell’immagine, percepita anche in relazione ai suoi poteri miracolosi: “dentro ad esso il medesimo Salice con la stessa Imagine, la quale così bella si dimostra, come s’oggidì fosse stata impressa”, dice Guarini, e conferma Scalabrini: “dietro l’Altare fu chiuso lo stesso Salice coll’Immagine di Maria Vergine, che tuttavia qual’era, benche arido, si conserva coll’Immagine sopradetta, come se fosse stata di recente impressa” (Guarini 1621, 396; Scalabrini 1773, 41 borghi). Quel che le intemperie avrebbero facilmente distrutto nel giro di poco tempo, si conservava – due volte miracolosamente, quasi – pressoché intatto, a distanza di secoli.
È quasi beffardo, davanti ad una stampa, un’immagine che trova nella molteplicità la sua essenza, scomparire nel nulla, senza lasciarsi dietro neppure una fotografia, tradendo paradossalmente sé stessa. Ma è davvero così? Oggi, chi si ferma all’interno della chiesa, vede custodita nel secondo altare della navata destra una placca in terracotta, di circa 40 centimetri per 30, commissionata dalla famiglia Manservigi dopo il furto dell’originale a tale Marcello Miani, che la firmò nel 1985 (Maria Elisabetta Ancarani e Martina Caroli in Caroli, Orselli, Savigni 2013, 155; Emanuela Astorri in Roveroni et al. 2000, 71). Quanto resta, oggi, di quel che vide Farolfo di Villa Denore nel 1502? Si potrebbe rispondere il soggetto, una Madonna con il Bambino, e la sua iconografia: la Vergine, velata e con una grande corona, regge tra le braccia il bambino nudo, anche lui con un’ingombrante corona, e una melagrana in mano. I bordi del suo abito sono ornati di perle e gemme, e dietro di lei fa da sfondo un drappo a motivi vegetali. In alto, una strana cornice chiude l’immagine. Cosa ha ispirato il pittore Miani, nell’apparente mancanza di foto? Un’indagine nelle memorie custodite nelle raccolte private locali ci aiuta a rispondere, riavvolgendo il filo del tempo, verso gli anni di Farolfo.
Colori e impostazione svelano immediatamente la fonte dietro l’attuale immagine: si tratta di un santino dei primi anni ’40, che raffigura la “MIRACOLOSA IMMAGINE DELLA B. V. VERGINE DEL “SALICE” VENERATA NELLA CHIESA DEI MONACI BENEDETTINI OLIVETANI di S. GIORGIO (Ferrara)”, sul cui retro si legge un’indulgenza con data 4 novembre 1941 [Fig. 2] (Raccolta Fabbri, Ferrara. Ringrazio qui nuovamente il sig. Alessandro Fabbri per aver messo a mia disposizione questi materiali). Le uniche differenze si trovano negli occhi della Vergine, più abbassati e quindi quasi chiusi, e nella cornice superiore, di cui qui si chiarisce la forma semicircolare, con due fioroni nei pennacchi, e una cornice a foglie lungo il bordo. Ma il colore pone già qualche questione sull’autenticità di questa rappresentazione: nessun problema sul fatto che una xilografia, tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, fosse colorata, come quasi tutti gli esempi superstiti dimostrano. Qualche perplessità in più, invece, è sollevata dalla resa di questi colori, fin troppo accesi e squillanti per una carta, anche se “bella […] come s’oggidì fosse stata impressa”, ma comunque esposta alla luce sul tronco del salice prima, poi sul suo altare nell’oratorio per secoli: non esattamente quanto prescriverebbero gli adeguati standard di conservazione. Potremmo assumere – per quanto assai poco plausibile – che l’autore del santino integrasse, a modo suo, le tracce di un colore sbiadito dal tempo: purtroppo, le altre testimonianze non permettono di saperlo. Si può già accennare, però, come sia soltanto il primo di diversi segni che qualcosa, intorno all’immagine della Madonna del Salice, non sembra tornare, ché colori così accesi rimanderebbero, piuttosto, a un dipinto: ulteriori immagini, allora, potranno fornire altri indizi. Una straordinaria cartolina dell’anno successivo raffigura il solo gruppo della Vergine e del Bambino in uno scenario di guerra, come un’apparizione: riprende in toto il santino dell’anno prima, solo in bianco e nero e privo di cornice [Fig. 3] (Raccolta Fabbri, Ferrara). Converrà tornare oltre su quest’immagine, ma intanto va sottolineato come, negli anni ’40, la Madonna del Salice avesse una sua iconografia standard, migrata poi nell’attuale terracotta. Un ulteriore passo indietro ci porta verso il più antico testimone superstite della Madonna del Salice, tramandato da due immagini identiche, probabilmente incisioni fotomeccaniche, realizzate dallo stesso laboratorio a firma AL, il cui monogramma si trova ora a destra ora a sinistra in basso. La prima è riprodotta in un pannello all’interno della chiesa, con una didascalia che la identifica come “Madonna del Salice. Xilografia del sec. XV”, ed è identica ad un secondo foglio, di collezione privata [Fig. 4] (Collezione Lamborghini D’Alberone, Ferrara. Ringrazio il dott. Giovanni Lamborghini per la disponibilità dell'immagine). Al retro, ancora una volta una scritta ci informa della data e dell’occasione dell’immagine, che qui commemora il “Ricordo del 1 Centenario della Traslazione della B.V. del SALICE dall'antico Oratorio alla Chiesa Arcipretale del Sobborgo San Giorgio (Ferrara) Febbraio 1904”. A inizio Novecento, l’immagine della Madonna del Salice è ancora coerente con quella degli anni Quaranta. Se non che, con buona pace della didascalia nella chiesa, quel che è raffigurato non è una xilografia. Non c’è alcuna traccia di qualsivoglia segno grafico, che dovrebbe invece caratterizzare una xilografia popolare dell’inizio del Cinquecento, come quella che pendeva dalle fronde del salice nel giugno del 1502. Ché xilografia doveva essere, come è tramandato da una tradizione che ha mantenuto questo dettaglio nei secoli, anche dove nel termine ‘impressa’ delle fonti antiche si sarebbe potuta, forse, equivocare un’incisione calcografica. Ma un’immagine in rame, generalmente considerata più pregiata, sarebbe stata meno facilmente lasciata sotto un albero, affidata alla devozione popolare, laddove invece abbondavano le immagini xilografiche (Cobianchi 2022). Tanto più a fronte, a quest’altezza cronologica, dell’assenza di riscontro per le stampe calcografiche nelle leggende agiografiche di immagini miracolose, così come nelle stesse immagini sopravvissute. Né forse gli eruditi, anni dopo, ne avrebbero riconosciuto così facilmente la natura grafica. Al contrario, l’incisione del 1904 trasuda la più tipica oleografia ottocentesca, del tutto opposta ai feroci grafismi xilografici. Un tradimento di quello che doveva essere il carattere originale della raffigurazione, al punto che, osservando con attenzione, si capisce di avere di fronte non già l’immagine di una xilografia, ma quella di un dipinto, con i suoi passaggi chiaroscurali evidenti sulle pieghe del manto, o i morbidi sfumati dei volti, eccessivi persino per un eventuale bulino quattrocentesco. Le corone, poi, sono evidentemente gioielli votivi, in argento o in lamiera, applicate sulla superficie, offerte all’immagine in occasione di una solenne incoronazione o di un più quotidiano scioglimento di un voto (si vedano ad esempio, per gli stessi anni a Ferrara, gli inventari di offerte ed ex voto pubblicati in appendice a Peverada 2000, 174-189, dove alla già citata Madonna sul pilastro del palazzo delle Gabelle sono offerte “chorone dodexe tra grande e pizole” in argento (Peverada 2000, 174); mentre all’immagine oggi nella chiesa della Madonnina, tra le altre, è donata “Una corona tonda de arzento la quale romane sopra alla Nostra Donna per adornamento” (Peverada 2000, 177). Accessori che, di copia in copia, sono diventati parte integrante dell’immagine.
L’attuale Madonna del Salice, dunque, incorpora gli accessori della devozione all’iconografia originaria, riducendoli da tre a due dimensioni. Se le corone furono applicate a una xilografia o già a un dipinto, è difficile dirlo: se a un certo punto intervenne una copia dipinta, o piuttosto non fu un succedersi di ritocchi, restauri, riprese di colori, necessarie a mantenere l’immagine “come se fosse stata di recente impressa”, con il paradosso di cancellare ogni tratto che la rendeva riconoscibilmente “impressa”. D’altronde, un restauro poteva compiersi anche attraverso una completa ridipintura, o addirittura l’immagine poteva essere rifatta o sostituita, senza per questo perdere il suo originario potere. Che poi fu quanto accadde, per altre ragioni, dopo il furto del 1984.
Già nel 1941, tuttavia, resta traccia di un evento traumatico nella vita della Madonna del Salice. Sul retro del santino del 1941, infatti, si può leggere nella preghiera:
[...] Vi siete compiaciuta di operare attraverso i secoli i più grandi prodigi, dal giorno in cui appeso il vostro quadrello miracoloso ad un salice guariste istantaneamente da incurabile morbo chi a Voi con fiducia ricorse, e colpiste di schifosa lebbra l’empio profanatore della vostra cara immagine [...].
Non solo, dunque, la leggenda fondativa, ma anche un ulteriore prodigio, altrimenti ignoto alle fonti: la vendetta sul profanatore dell’immagine, altro topos ben noto alle leggende agiografiche, che qui interessa, però, in relazione a un evento, come la profanazione, di cui non si sa altro che ciò che riporta il santino: quindi, che avvenne prima del 1941. Potrebbe trattarsi della sconsacrazione e della distruzione dell’oratorio, ma è tentante pensare a un danneggiamento – in conseguenza a uno degli innumerevoli furti di gioielli votivi? – o addirittura un primo furto dell’immagine, cui si dovette porre rimedio – e il pensiero corre di nuovo al 1984 – attraverso la sostituzione con una copia: dalla xilografia al dipinto, dal dipinto alla terracotta. Sembrerebbe proprio questo, allora, il momento migliore per figurarsi quello scambio che troppi indizi, pur in mancanza di prove certe, paiono suggerire: sottratta o rovinata l’immagine originaria, ecco che la memoria si affida all’immagine dell’immagine, con un dipinto che consegna alla Madonna del Salice un’apparenza meno grafica di quanto non fosse mai stata, con colori che rimandano a un’altra Madonna del Salice che nel frattempo si era imposta agli occhi del popolo, la statua che ogni anno vedevano sfilare per la piazza la seconda domenica di Settembre, su cui si tornerà oltre. Pure, la citazione di Gualtiero Medri, che nel 1933 parla di un “piccolo disegno del quattrocento”, rappresenta la più tipica svista davanti ad una stampa (Medri 1933, 234). Dopo il furto, però, si è già visto come l’immagine venga descritta in quanto “moderna copia di una pregevole pittura lignea del Cinquecento, che rappresentava La Vergine con il Bambino” (Emanuela Astorri, in Roveroni et al. 2000, 70). Ennesimo paradosso di un’immagine capace di moltiplicarsi di copia in copia, fino a confondere la sua identità.
Segni incisi. La Madonna del Salice come xilografia
In quanto xilografia, la Madonna del Salice affondava le sue radici nella molteplicità. E così, non stupisce riconoscerla tra le fronde di un albero genealogico di figurazioni che si ramifica in oltre un secolo e mezzo di immagini. Per iconografia come per datazione, la Madonna del Salice si rispecchia in una Madonna con il Bambino frammentaria, conservata a Berlino, Kupferstichkabinett, proveniente dalla demolizione di un’abitazione di Bassano del Grappa, dove vennero rinvenute diverse xilografie databili tra la fine del Quattrocento e l’inizio del secolo successivo, collocate sopra, o intorno, a una porta [Fig. 5] (ALU. 0045 (scheda di Laura Aldovini); Lippmann 1884, 316-318; Venturi 1885, 357; Lippmann 1888, 158-161; Schreiber 1891-1911, I, 311-312, n. 1045; Schreiber 1926-1930, II, 122, n. 1045; Heitz 1933a, n. 12; Heitz 1933b, 8, n. 40a; Hind 1935, II, 430; Legni incisi… 1986, 75-76.). La composizione intera, corredata di un’Annunciazione in alto e due coppie di santi ai lati è testimoniata da una matrice, simile ma non identica, oggi a Modena, Galleria Estense, proveniente dal fondo Soliani [Fig. 6, se ne illustra una tiratura moderna per facilitarne la lettura] (ALU.0044-M (Scheda di Laura Aldovini); Venturi 1885, 357; Schreiber 1891-1911, I, 311-312, n. 1045; Schreiber 1926-1930, II, 122, n. 1045; Heitz 1933b, 8, n. 40a; scheda di Maria Goldoni in Legni incisi… 1986, 75-76; Maria Goldoni in Legni incisi… 1988, 25-26; Nodari in Giacomello 2000, 114-115. La segnalazione che non si tratti della stessa matrice dell’immagine berlinese si trova nella scheda ALU. 0045, di Laura Aldovini). È improbabile che la Madonna del Salice fosse un frammento: si trattava, probabilmente, di una variante che escludeva le parti accessorie, l’Annunciazione nei tondi – sostituita da semplici fioroni – e i santi Antonio abate e Giovanni Battista a sinistra (per chi guarda), Lucia e Caterina a destra (sempre per l’osservatore). Resta il drappo, appena variato nel decoro, ma cambia invece l’oggetto nelle mani del bimbo, che da un globo diventa una melagrana. Scompare soprattutto il seno scoperto della Virgo lactans di Modena e Berlino, già peraltro ridotto a poco più di un segno a graffa, ma pare restarne, a Ferrara, il gesto della mano del bambino, che ancora sembra cercarlo. La ricerca di quel seno scomparso stringerebbe ulteriormente il legame tra la Madonna del Salice e il suo ascendente più antico, pure proveniente dalla casa di Bassano, la grande Madonna con il Bambino, Annunciazione e Santi del British Museum di Londra [Fig. 7], da cui derivano, solo stilisticamente aggiornate, tanto il frammento berlinese quanto la matrice modenese (sulla xilografia del British Museum si vedano ALU.0034 (scheda di Laura Aldovini); Lippmann 1884, 316; Lippmann 1888, 158; Schreiber 1891-1911, I, 348, n. 1158; Schreiber 1926-1930, II, 164, n. 1158; Dodgson 1934, I, 23-24, n. 150; Hind 1935, I, 160-162; Rosenthal 1962, 357-358; Field 1987-2008, CLXIV, 199; Areford 2010, 3-4; Pon 2015, 46-48; Katherine Tycz in Corry, Howard, Laven 2017, 118-119). Un foglio, quello londinese, dalla datazione dibattuta, estesa nei cinque decenni che vanno dagli anni ’20 agli anni ’80 del Quattrocento, a sua volta discendente da un modello ancora più antico, che si rispecchia in dipinti veneziani della fine del Trecento come la Madonna allattante e Santi di Giovanni da Bologna alle Gallerie dell’Accademia di Venezia [Fig. 8], o la Madonna Belgarzone di Niccolò di Pietro conservata nello stesso museo, dal medesimo sorriso ammiccante (Rosenthal 1962, 358). Quasi un secolo prima dei fatti della Madonna del Salice, anni che però vengono apparentemente cancellati dall’identica provenienza delle due xilografie di Londra e Berlino, che si trovavano – fianco a fianco, o sovrapposte – sulla medesima parete dell’ancora misterioso edificio di Bassano: a loro modo, di fatto, ugualmente attuali per il devoto, a dispetto di ogni differenza di stile. Quasi trent’anni dopo, intorno al 1530 secondo la filigrana della carta su cui è impressa, andrebbe poi datata l’ulteriore versione già in asta presso Christie’s, a New York [Fig. 9] (Christie’s, Old Master Prints, New York, 25 January 2017, lot 16 (North Italian School, Late 15th or Early 16th Century). Si vedano ALU 0038 (scheda di Laura Aldovini e Silvia Urbini); McDonald 2004, II, 469-470, n. 2593; Aldovini, Landau, Urbini 2018, 9-10). Qui la Vergine ha un aspetto più bizantino, i nomi sulle aureole identificano ulteriormente gli stessi santi, e soprattutto compare la raffigurazione dell’Ultima Cena in basso, a guisa di predella. Iconografia rara, non solo nell’incisione (Aldovini, Landau, Urbini 2018, 9-10, scheda di Laura Aldovini e Silvia Urbini in ALU.0038), che permette di relazionare il foglio a un’altra immagine, oggi perduta ma descritta nell’inventario cinquecentesco di Fernando Colombo – figlio del celebre navigatore Cristoforo – come uguale, ma in controparte, rispetto al foglio già a New York (sulla Madonna già Colombo, Mc Donald 2004, II, 469-470, num. 2593: lo studioso suggerisce che la scena dell’Ultima Cena fosse presente in origine anche nella matrice modenese, ipotesi non verificabile, mentre effettivamente la xilografia a Berlino mostra le tracce di un bordo in basso che non risulta nella matrice, e l’immagine sembra proseguire di poco anche in basso. Sulla collezione di Colombo, McDonald 2000, McDonald 2003; McDonald 2004, McDonald 2005).
È difficile collocare la Madonna del Salice in questo rincorrersi di copie e varianti. Appesa su un albero, esposta alle intemperie, non sarebbe sopravvissuta a lungo, e dunque doveva trovarsi lì da non molto tempo. Ciò non significa necessariamente che si presentasse come un prodotto di attualità: la strana relazione di compresenza tra le Madonne di Berlino e Londra mostra quanto la questione stilistica fosse relativa, nella xilografia rinascimentale. Così come la consapevolezza di lavorare su una copia complica ulteriormente la questione: sarà nel passaggio da stampa a dipinto che eventualmente scompare quel seno, ormai già ridotto a un grafismo disperso tra le pieghe di un manto? O il processo era già maturato nelle copie a stampa? Che la figurazione, le cui radici affondavano nella laguna veneziana della fine del Medioevo, fosse in pieno Rinascimento ancora ben viva, lo mostra il foglio di New York, dove non solo l’iconografia di Londra rifiorisce, con il suo seno in bella vista, alla luce dello stile ombreggiato a cavallo tra i due secoli, ma si arricchisce di nuovi elementi, come l’Ultima Cena in basso. Se probabilmente quest’asse – Londra-New York – rappresenta il tronco principale dell’albero genealogico, il ramo che si stacca con la variante di Berlino-Modena poté germogliare nel perduto foglio di Ferrara, sfrondato di ogni elemento accessorio. Che lo stile fosse quello lineare della Madonna di Londra, o quello più spigoloso e ombreggiato del frammento di Berlino, siamo comunque ben lontani dall’oleografia novecentesca: Farolfo guardò una xilografia, a differenza di quel che possiamo fare noi oggi, che tutt’ al più cerchiamo di interpretarne i segni.
Disegno come rappresentazione: dalla materialità del salice alla smaterializzazione della Vergine
Come si è già visto, le fonti della guidistica ferrarese tra Sei e Settecento non descrivono sostanzialmente l’immagine, se non nella sua materialità: Guarini tratteggia il contenuto dell’altare, “dentro ad esso il medesimo Salice con la stessa Imagine, la quale così bella si dimostra, come s’oggidì fosse stata impressa”, seguito da Scalabrini: “dietro l’Altare fu chiuso lo stesso Salice coll’Immagine di Maria Vergine, che tuttavia qual’era, benche arido, si conserva coll’Immagine sopradetta, come se fosse stata di recente impressa” (Guarini 1621, 396; Scalabrini 1773, 41 borghi). In questi anni, la smagliante materialità di un’antica immagine cartacea è essa stessa parte del suo potere miracoloso, come si può riscontrare in altri casi, come quello della Madonna del Fuoco di Forlì, la più celebre delle xilografie miracolose, descritta da Bartolomeo Ricceputi nel 1686 (Ricceputi 1686, 29-30; Gigante 2022, 234). A Ferrara, l’immagine e il suo supporto arboreo condividono lo stesso potere, la capacità di combattere, e vincere, il tempo: tanto più singolare, allora, risulta il mutamento iconografico che interessa la Madonna del Salice in quegli stessi anni. Perso l’oratorio costruito sulla golena, andarono distrutti anche gli affreschi che lo decoravano: non sappiamo, dunque, davanti a quale Madonna del Salice fossero inginocchiati i devoti, a cosa rendessero grazie, e soprattutto a chi si rivolgesse Ercole Strozzi, eternato in preghiera nell’abside davanti all’immagine su cui tanto andava investendo, in termini tanto economici, quanto di immagine (stavolta, la propria).
Sopravvive ancora, invece, il paliotto in scagliola dell’altare dell’oratorio, evidentemente traslato insieme all’immagine e al suo salice prima nella sacrestia, e poi nella navata destra della chiesa di san Giorgio fuori le mura. L’iscrizione “GIROLAMO E FRATELLI DE BARBIERI ANO S[alut]IS 1694” ne testimonia data e donatori, e mostra il primo segno superstite della nuova iconografia che sembra imporsi – forse sulla traccia dell’affresco absidale? – a cavallo tra Sei e Settecento. Non è più il foglio a mediare tra i due devoti in cappa bianca prostrati sotto l’albero e la divinità, ma la Vergine con il bambino appare direttamente su una nube in mezzo alle fronde dell’albero, con accanto, ognuno sulla sua nuvoletta, i due contitolari del convento, san Giorgio e san Maurelio, protettori della città [Fig. 10]. Dall’immagine miracolosa si passa così a una vera e propria apparizione miracolosa, tralasciando completamente il ruolo dell’oggetto-stampa. Con il paliotto, insieme all’albero e all’immagine, si mise in salvo anche la statua lignea che veniva portata ogni anno, la seconda domenica di settembre, in processione, menzionata da Barotti e da Scalabrini come opera di Andrea Ferreri, oggi conservata nella sacrestia della chiesa di san Giorgio [Fig. 11] (Barotti 1770, 201; Scalabrini 1773, 42 borghi). Anche qui, la Madonna del Salice è un’apparizione assisa tra le nubi, con solo il tronco che la sostiene a richiamare l’originaria appellazione. Il bambino non è più tenuto in grembo, come nella stampa e, seppur in posizione differente, nel paliotto, ma è in piedi sulle ginocchia della madre, esibito, quasi un’ostensione, alla folla dei fedeli. Il gruppo è così raffigurato anche in un piccolo affresco popolareggiante, all’interno di una nicchia a destra della porta che conduce alla sacrestia, dove probabilmente si trovava una cassetta per le elemosine destinate alla confraternita del Salice [Fig. 12]. Evidentemente, l’immaginario popolare aveva eletto la statua che vedeva sfilare ogni anno davanti alle proprie case a nuova vera imago della Madonna del Salice. Se le più autentiche motivazioni dietro questo cambiamento iconografico sono ignote, è comunque plausibile che, in clima controriformato, lo spostamento del focus dall’oggetto al soggetto risultasse particolarmente gradito alle gerarchie ecclesiastiche, sempre attente a tenere sotto controllo ogni possibile deriva idolatra davanti a quel che, in fondo, era e doveva continuare a essere né più né meno che un simulacro, un disegno di qualcosa che, nella sua vera natura, risultava ineffabile come una visione. E difficilmente, non conoscendo la leggenda fondativa della Madonna del Salice, si penserebbe a una xilografia prodigiosa, vedendo sfilare quel che, a tutti gli effetti, appare piuttosto la celebrazione di un’apparizione divina. A meno che ciò non rispecchiasse la volontà di Ercole Strozzi di essere protetto non già da un’immagine, ma dalla Vergine stessa, che gli accordava i suoi favori nell’eternità di un affresco. Fu forse, allora, sul suo esempio che i fedeli impararono a vedere nella nuova Vergine sulle nubi la vecchia xilografia, volgendo alla statua le loro preghiere durante le processioni annuali. Un singolare paradosso, per un’immagine su carta, quindi facilmente trasportabile e, per la sua stessa natura di stampa, replicabile all’infinito. Eppure, il Settecento sembra aver scelto la Madonna sul salice, tutt’uno con il suo albero, in luogo dell’originaria Madonna del Salice. Toccherà al Novecento, perduto l’oratorio, riscattare il prestigio di quell’immagine.
Segno come polarità: il lato oscuro della Madonna
Il legame della Madonna del Salice con il suo salice, che andava facendosi sempre più forte nel corso di Sei e Settecento, sembra rompersi improvvisamente con il Novecento. È vero che, nel frattempo, intercorse il momento più drammatico nella sua esistenza: la distruzione, nel 1804, dell’Oratorio del Salice, cornice e complemento dell’immagine, costruito proprio intorno all’albero che si conservava incorrotto all’interno. La traslazione verso la chiesa di San Giorgio salvò, oltre al paliotto e alla statua processionale, anche lo stesso salice, ormai ridotto a poco più di un tronco, ma già la raffigurazione di Andrea Ferreri mostra come la Vergine, sulla sua nube, non avesse quasi più bisogno del suo albero. La questione diventa assai curiosa qualora si rilegga, alla luce di questo, la ripresa dell’iconografia tradizionale nel Novecento. Il foglio del 1904 rimette in auge la Madonna del Salice come immagine ‘fisica’, specifica immagine di una specifica Madonna, o perlomeno di quel che, al momento, ne restava o la rappresentava: ed è la stessa iconografia che, come si è visto, è riproposta dal santino del 1941 e dalla cartolina del 1942. Voltato il santino, la scritta sul retro, la stessa che ci informa delle traversie dell’immagine, certifica anche il suo potere di rispondervi:
[...] Vi siete compiaciuta di operare attraverso i secoli i più grandi prodigi, dal giorno in cui appeso il vostro quadrello miracoloso ad un salice guariste istantaneamente da incurabile morbo chi a Voi con fiducia ricorse, e colpiste di schifosa lebbra l’empio profanatore della vostra cara immagine [...].
Per quanto, come già accennato, la punizione del profanatore rientri nei più consueti topoi delle immagini agenti, capaci di pietrificare, immobilizzare, reagire nei modi più disparati a offese fisiche, bestemmiatori, infedeli e nemici di ogni sorta, è quasi sorprendente trovare il potere di infliggere il morbo, nella fattispecie la lebbra, in chi si era fatto un nome per l’opposto potere di guarire chi per primo l’aveva invocata. Manca, purtroppo, tutto il contesto di questa inversione di polarità della Madonna del Salice, chi e perché, insomma, la provocasse al punto di portarla a mutare completamente di segno. Ma, forse, era semplicemente un segno dei tempi che stavano cambiando, con l’immagine che si stava preparando a smettere i panni a lei più consueti, per assumerne di nuovi, più adatti alle circostanze storiche: è tempo di guerra, e tutti devono fare la propria parte per l’Italia che verrà. Compresa la Madonna del Salice.
Ed ecco la cartolina dell’anno successivo, dove tutto il potenziale ‘inverso’ della Madonna del Salice giunge all’apice. Nel cielo – apparizione sì, ma di QUELL’immagine – il gruppo sacro domina un palcoscenico di guerra totale: carri armati che sfondano linee di filo spinato, facendo fuoco sui mezzi nemici già in fiamme, mentre nel mare da una corazzata si alza il fumo degli spari che stanno affondando la flotta nemica. Anche in cielo, intorno alla Vergine, incombono i bombardieri e i caccia. Al centro, su un poggetto, svetta il tricolore con lo stemma sabaudo al centro. Dietro ad esso, sorge dalle acque il mondo del futuro, con l’Italia in tutta evidenza. E sopra quest’alba surreale, ecco l’apparizione, la Madonna del Salice, circondata dagli aeroplani, quasi moderni cherubini. Sul retro, la titolazione recita “Miracolosa immagine della Madonna del Salice che si venera nella chiesa dei Monaci Benedettini Olivetani di S. Giorgio in Ferrara” con data 1942, XX dell’era fascista. Un singolare voto, in piena guerra, per mano di un illustratore che si firma C. Furlan, all’immagine ferrarese, come si ripete sotto l’immagine: “Vergine SS. del Salice proteggete i nostri cari”.
Quando sembrava che il medium dovesse cedere il posto al soggetto, e la Madonna del Salice diventare una qualsiasi Madonna sul Salice, il suo potere mostrava di poter passare, inalterato, attraverso le mutazioni. La perdita di un patrimonio immateriale fatto di preghiere, orazioni, invocazioni e richieste all’immagine impedisce di sapere perché, o quando e come, si cercasse la Madonna del Salice. Lo si faceva, evidentemente, durante la guerra, per proteggere i propri cari al fronte, votandosi collettivamente all’immagine, mentre le sorti del conflitto parevano tutt’altro che decise. Ma se questo è ciò che affermano le parole sotto all’illustrazione, la figurazione stessa sostiene l’opposto. È il trionfo dell’esercito dei giusti: il tricolore sventola sulle navi che sparano, mentre i nemici affondano inesorabilmente, ed è da credere che ogni mezzo che sta vittoriosamente avanzando sia italiano, ché d’altronde la stessa Italia domina il futuro, stagliandosi nell’alba di questo inedito sol dell’avvenire. La guerra è vinta, il nemico è schiacciato sotto l’egida di una salvifica Galaktotrophousa, capace di ridonare la vita, fattasi al bisogno moderna Vergine Nikopeia, portatrice di vittorie alla testa delle sue truppe. Troneggiante sul globo, a togliere ogni dubbio sul suo ruolo è tutta l’immagine che, a ben guardare, altro non è se non un moderno Giudizio universale [Fig. 13]: l’inizio di una nuova era, dove la Madonna del Salice, troneggiante sul globo del Cristo giudice, osserva i salvati alla sua destra, trionfanti, e condanna senza appello i dannati alla sua sinistra, ove sarà perpetuo stridore, non già di denti, ma di lamiere. L’immagine è – o si vuole che sia – più potente che mai, nonostante una storia di profanazioni, capaci non già di distruggerla, ma di risvegliarne, ribaltandolo, il potere. Il popolo, sconvolto dalla guerra – e con lui la propaganda bellica – avevano bisogno di una speranza, se non addirittura di certezze, nel bene e nel male: nella già decisa vittoria proclamata dall’immagine, così come nelle difficoltà ricordate dall’invocazione: “Vergine SS. del Salice proteggete i nostri cari”, ultimo persistente segno di quel potere salvifico che aveva portato la Madonna del Salice all’onore degli altari nel 1502.
Segno come predestinazione: sotto il segno del molteplice
L’esperienza materiale della Madonna del Salice, a questo punto, non contava più, superata dalle variabili dell’iconografia, dalle profanazioni, fino ai furti e alle sostituzioni. La Madonna del Salice trionfò, in principio, per ragioni del tutto fortuite: il trovarsi al posto giusto nel momento giusto, appesa a un salice presso un argine, nel momento più buio della carriera di un nobile ferrarese. Ma se sopravvisse fu in virtù di un’adattabilità al mutamento, che vide la Madonna del Salice rinascere e cambiare – iconograficamente e iconologicamente – ogni qual volta le circostanze glielo richiedessero, fino a trascendere la sua stessa natura. Fisicamente, ma non nell’essenza: che in fondo, era già nata molteplice: una di tante impressioni, una di tante xilografie, una di tante immagini.
Bibliografia
Repertori
Fonti
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In 1984, the image known as Madonna del Salice was stolen from its altar. No pictures of the Madonna survives: a paradox, for a print, born as one of many repeated images. In its existence, however, the image has left a serie of signs, sufficent to reconstruct its original appearence and its events. Unknown to early woodcuts repetories, her luck was that of finding herself in the right place at the right time, attracting the attention of Ercole Strozzi, a ferrarese nobleman who made her the protagonist of his image strategy. In a history made up of traumatic events, the Madonna del Salice was always able to find new ways to survive, adapting to the changes in history, in an exemplary story for the power of images.
keywords | Madonna del Salice; Xilography; Reinassance; Ferrara; Ercole Strozzi; Miracle.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Lorenzo Gigante, Una, nessuna, molteplici Madonne del Salice.
Un’immagine e i suoi riflessi, “La Rivista di Engramma” n. 207, dicembre 2023, pp. 147-173. | PDF