"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

207 | dicembre 2023

97888948401

L’igloo di Mario Merz come forma del tempo

Pasquale Fameli

English abstract

Veduta della mostra Mario Merz. Città irreale, a cura di Harald Szeemann, Kunsthaus, Zurigo 1985.

La forma dell’igloo segna il percorso di Mario Merz (1925-2003) sin dalla sua partecipazione alle vicende dell’Arte Povera, ma un riesame dei significati attribuitile negli anni permette di collocarla al di fuori di ogni tendenza codificata. La grande mostra tenutasi all’Hangar Bicocca di Milano nell’autunno del 2018, a cura di Vicente Todolì, ha idealmente aggiornato e ampliato Città irreale, organizzata da Harald Szeemann alla Kunsthaus di Zurigo nella primavera del 1985. Nel testo steso per la mostra milanese Germano Celant (2020, 24) sottolinea che l’igloo di Merz si oppone a ogni rigidità geometrica per riaffermare una circolarità formale e ideale al contempo. Valérie Da Costa (2019) descrive l’allestimento dell’antologica milanese come “un paesaggio cosmico, lunare, in cui le forme […] sembrano nascere le une dalle altre secondo la concezione di una forma matriciale, che non varia intrinsecamente, ma diviene sempre più proliferante e invasiva con il procedere della circolazione nello spazio”. Riproposto in molte varianti dal 1968 al 2003, l’igloo si colloca infatti nella poetica di Merz come un mitologema, l’elemento minimo di un dato complesso mitico sottoposto alla reinvenzione continua, ma si riconnette anche a differenti motivi culturali contestuali alla sua prima manifestazione. L’ipotesi di un’Arte abitabile lanciata da Piero Gilardi, Gianni Piacentino e Michelangelo Pistoletto con una mostra omonima alla galleria Gian Enzo Sperone di Torino nell’estate del 1966 trova infatti nella ricerca di Merz una declinazione ben diversa. L’artista non intende ridefinire lo spazio dell’opera come un campo fisicamente praticabile – è questo, per esempio, anche il caso dell’Igloo in poliuretano espanso realizzato da Gilardi già nel 1964 – ma attivare processi immaginativi carichi di valenze simboliche, antropologiche ed esistenziali. A differenza di altri suoi colleghi, l’artista non sembra tralasciare mai, neppure nei momenti di maggiore iconoclastia, il fattore iconico dell’arte (Vettese 2011, 284). Lo stesso Merz ha dichiarato: “quando ho fatto l’igloo ho agito con l’immaginazione dato che l’igloo non è solo elementarità della forma ma anche un punto di partenza per la fantasia. L’igloo è una sintesi, è un’immagine complessa, visto che io tormento a fondo l’immagine elementare dell’igloo che porto con me” (Ammann, Pagé 1983, 149-150).

Per Giovanni Lista (2011, 184) il modello del rifugio a cupola tipico degli Inuit e l’alchimia costruttiva che ne unisce i materiali rendono l’opera di Merz “una metafora della resistenza creativa di cui è capace l’uomo utilizzando solo il necessario per la propria sopravvivenza”. Spesso ritenuti lavori tra i più rappresentativi dell’Arte Povera, gli Igloo di Merz ne assecondano le premesse ideologiche, ma ne sconfessano del tutto i presupposti poietici. La rielaborazione di un preciso referente formale, la struttura semisferica dell’igloo, blocca infatti il processo di regressione a uno stadio iconico, entro un limite che non giunge allo stadio “preiconografico” indicato da Germano Celant (1968). La presenza di citazioni e frasi sull’estradosso di ciascun igloo moltiplica i livelli di significato dell’opera e ne potenzia il portato simbolico, innescando quella “complicazione retorica” cui i precetti poveristi formulati da Celant si oppongono radicalmente. Siamo perciò di fronte a una scelta operativa che, seppure condotta secondo criteri di precarietà e di temporaneità, contrasta con la viva concretezza delle ricerche processuali di altri poveristi quali Giovanni Anselmo, Pierpaolo Calzolari o Gilberto Zorio, che mettono a nudo la fisicità della materia “al di fuori di ogni mitizzazione” e “al di fuori di un principio di ordine” (Calvesi 1978, 191). 
L’igloo fonda uno spazio indipendente, uno “spazio assoluto in se stesso” (Merz 1983, 52), che meglio risponde a un altro modello operativo teorizzato da Celant nel 1967, quello dell’im-spazio. Sotto questa categoria rientrano le installazioni incentrate sull’articolazione fisica di conformazioni iconiche e aniconiche capaci di ridefinire l’ambiente circostante come ‘campo’ di forze spazio-visuali. La strutturazione ‘aperta’ dei frammenti visivi, propria dell’im-spazio, produce una più dinamica integrazione tra immagine e ambiente senza tuttavia proscrivere il suo carattere addizionale. Come spiega Celant (1967, 20), infatti, “il frammento di im-spazio diventa un’entità separata, genera e si genera in rapporto agli altri frammenti; l’im-spazio non è più inteso come dato, costruito, costretto e verificato, ma è visto come ‘processo’ con possibilità di crescita, da fase a fase”. È ciò che si verifica anche negli Igloo merziani, concepiti idealmente come abitazioni temporanee, precarie e instabili, in cui nulla è preordinato, ma concepito direttamente in base al contesto. Lo stesso Celant (1983, 111) ha evidenziato questo aspetto:

[…] l’igloo è l’immagine del nomade o del vagabondo che non credono nell’oggetto sicuro, quanto nell’esserci dinamico e contraddittorio. Per il nomade e il vagabondo esistere significa muoversi in qualsiasi contesto e reinventarsi un’osmosi con il cibo e la natura locali, senza cristallizzarsi in qualcosa di definito e stabile. Parimenti le loro costruzioni non sono durature, nascono piuttosto dall’accumulo degli oggetti necessari alla sopravvivenza. Le dimore hanno carattere provvisorio e spesso servono più a rendere identificabile il suo abitante che a proteggerlo dalle intemperie. Merz è conosciuto come costruttore di igloo, quindi come nomade che sceglie i luoghi del suo accamparsi stabilendo un rapporto calibrato con il territorio, da cui trarre risorse economiche e stimoli culturali.

Mario Merz, Lumaca, 1970.

È possibile comprendere il rapporto degli Igloo di Merz con l’Arte Povera osservando il problema da una diversa prospettiva. Nei suoi primi testi teorici Celant dichiara che la povertà della neonata tendenza riguardi la dimensione dei significati: l’opera si riduce a un evento, a un gesto elementare, a un processo fisico, a una constatazione. I materiali naturali sono impiegati come istanze di una mondanità primordiale, di grado zero, ma sempre in dialogo con elementi tecnologici: le serpentine frigorifere, le barre al neon e così via. Esiste però una povertà ‘altra’ messa in opera da parte di molti degli stessi poveristi: una povertà intesa come recupero di una dimensione arcaica e rurale, come strategia di resistenza all’industrializzazione. Nicholas Cullinan (2011) si è soffermato su questo aspetto evidenziando i legami con il cinema neorealista di Vittorio De Sica e di Luchino Visconti, con le posizioni critiche di Pasolini sulla perdita dell’identità nazionale e con la lezione di San Francesco d’Assisi. Lo attestano opere come i Campi arati (1967) e gli Attrezzi agricoli (1968) di Pino Pascali, Il mio letto così come deve essere (1968) di Pier Paolo Calzolari, il Cono portante (1967) di Mario Merz o le Scarpette (1968) di Marisa Merz. La riscoperta di una dimensione preindustriale diventa così il rimedio per sottrarsi all’alienazione di una società altamente industrializzata. Queste opere sembrano richiamare le idee di uno dei filosofi ispiratori del Sessantotto, Herbert Marcuse (1967, 25), il quale, ne L’uomo a una dimensione, afferma: “i soli bisogni che hanno un diritto illimitato a essere soddisfatti sono quelli vitali: il cibo, il vestire, un’abitazione adeguata al livello di cultura che è possibile raggiungere. La soddisfazione di questi bisogni è un requisito necessario per poter soddisfare tutti gli altri bisogni, sia quelli non sublimati sia quelli sublimati”. A queste stesse parole sembra rifarsi anche Goffredo Parise (2013, 18) quando, in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” nel 1974, dichiara la povertà come unico rimedio agli sprechi e agli eccessi del consumismo. “Povertà non è miseria […] Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua”. Difficile non pensare che, a consolidare queste riflessioni, ci fosse, oltre a Marcuse, l’esempio ‘arcaico-rurale’ dell’Arte Povera, anche per via della familiarità che lo scrittore poteva avere con le novità dell’arte contemporanea tramite la sua compagna, Giosetta Fioroni. Visto in quest’ottica, l’igloo di Merz diventa allora una sorta di ideale “trincea” o una metafora di “resistenza” (Boatto 1968, 19) che si costituisce quale paradigma ideale di una primarietà intesa come vita essenziale e autentica in armonia con la natura.

Ma al di là delle connotazioni ideologiche legate al coevo clima politico e sociale l’igloo di Merz si configura anche e soprattutto come casa-archetipo immersa in un tempo mitico. “Fare la casa significa tenere conto della proporzione che fa parte della vita biologica”: da questa affermazione, Marlis Grüterich (1976, 57-58) ha dedotto che Merz ambisca a pensare nuovamente in modo mitico per tornare alle origini dell’uomo. Non a torto, la studiosa riporta un passo di Ernst Cassirer dedicato al processo di identificazione della totalità cosmica con l’immagine del corpo umano e con la sua organizzazione, un processo proprio della mitopoiesi che domina l’intera cosmografia e la cosmologia. Merz ha dichiarato che il pubblico ama il suo igloo perché “capisce immediatamente la sua vocazione reale e cosmologica” (Celant 1983, 116). D’altra parte, egli stesso considera l’artista come “una specie di demiurgo” (Ammann, Pagé 1983, 145.). Per Celant (1983, 118), infatti, la centricità dell’igloo si costituisce come paradigma di una circuitazione attiva tra la dimensione individuale e quella cosmologica, simboleggiando un asse ideale di incontro tra tutti i centri e tutti i cerchi. L’opposizione tra mito e scienza sottolineata da Cassirer emerge nella poetica dell’artista sottoforma di missione estetica: occupare lo spazio contemporaneo con gli Igloo deve servire infatti a contrastare l’eccesso di conoscenza scientifica per ritornare all’equilibrio originario. È significativo, a questo proposito, quanto scrive l’artista in un testo newyorchese del 1970 (Grüterich 1976, 59):

Genesi
Lo spazio originario non era saturo di scienza
Lo spazio astratto non è saturo di scienza
Lo spazio in cui viviamo è saturo di scienza

Utopia
Sottrarre lo spazio in cui viviamo alla saturazione di scienza
Parlare dello spazio e sulla qualità dello spazio futuro

Mario Merz, Vento preistorico dalle montagne gelate, 1976.

È soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, in una reazione al clima neoespressionista e citazionista che, secondo Celant (2011, 178), si intensifica l’esigenza dell’artista di ripensare alla preistoria, agli archetipi e alle immagini ‘primarie’ come istanze di una nuova presa critica sulle origini. Il titolo di alcune opere, diverse per tecnica e per periodo, è indicativo di questo suo ripensamento: Vento preistorico dalle montagne gelate è infatti la metafora di una temporalità vissuta internamente, ma intesa come origine e condensazione di ogni successiva articolazione storica e cronologica:

Il ‘vento preistorico’ – dice Merz – è qualcosa che toglie al vento il suo lato puramente fisico per dare un senso del tempo che ciascun uomo ha in sé; il senso del tempo preistorico è l’impressione di un tempo gigantesco che si manifesta come una specie di vento. Le ‘montagne gelate’ sono una espressione poetica per le glaciazioni. La mia opera è costantemente legata al tempo, al senso del tempo che, qualche volta, è in contraddizione con il realismo del tempo attuale e assomiglia più a una metafisica del tempo. Il tempo è il sentiero sul quale l’umanità si è data pena di vivere e la storia di essere storia (Ammann, Pagé 1983, 159).

Le ‘montagne gelate’, riprese da un racconto di Franz Kafka intitolato Il cavaliere del secchio (Guzzetti 2022, 73), rappresentano per Merz le grandi trasformazioni fisiche, i mutamenti della Terra al di qua di ogni suddivisione in eoni ed ere. Zdenek Felix (1995, 96) considera la nozione merziana di ‘tempo preistorico’ in relazione alla aletheia di Martin Heidegger, lo svelamento originario dell’essere che illumina di significato il vivente. La sua opera si diventa così una “metafisica del tempo” attraverso cui eludere la vocazione ordinativa della tecnica. Per Giorgio Verzotti (2018, 105) il vento preistorico che soffia dalle montagne gelate è invece una forza scaturita da quello che egli stesso chiama “il tempo primigenio della somiglianza e della parità […] centrato magicamente su una circolarità fra vita e morte che lega gli esseri in un unico ritmo cosmico. Un tempo mitico, certo, ma accertabile nella storia dell’evoluzione […]. Un tempo la cui istanza panica torna come eco, o come ‘vento’ appunto, fino a noi, come necessità disalienante”. Affidata alla velocità della fantasia, questa forza panica riemerge nella poetica di Merz come un ‘dispiegamento’ dell’essere singolo al di là dell’essere totale, cioè trasformazione o migliore autorealizzazione in un essere totale” (Ammann, Pagé 1983, 156-157). Tramite una raffigurazione primitiva di animali come il coccodrillo, la tigre, il rinoceronte o il muflone Merz tenta infatti di rievocare la pienezza della relazione originaria che l’uomo stabiliva con essi nella preistoria e che l’uomo più evoluto ha ormai virtualizzato in un “transfert simbolico” (Ammann, Pagé 1983,158). Ecco perché Mario Diacono (1983, 159) vede quei soggetti non come “figure di un’apocalisse preistorica” ma come “metafore di una permanenza dell’Archetipo”. Lo stesso igloo è, per l’artista, un simbolo di “passato e futuro” e si richiama alla totalità circolare della Terra oltre che del tempo, perché “riunisce i venti dell’est e dell’ovest, del nord e del sud” (Merz 1983, 44). Ma questo può accadere solo in un perpetuo ritorno critico alle origini, in una mediazione tra passato remoto e presente: Merz afferma infatti che “solo ricomponendo ogni giorno la propria genesi, mediante l’innesto degli atti espressivi di ieri nel discorso di oggi, lo spessore temporale può intendersi come un fascio di relazioni significanti” (Pistoi 1983, 35).

Secondo Celant (2011, 182) la soluzione del doppio igloo, riproposta dall’artista in diverse occasioni, richiama il tema geologico della sedimentazione e consente che l’igloo più grande blocchi nel tempo quello più piccolo; ma è soprattutto il paragone con la chiocciola, con la lumaca che porta con sé la sua casa, a suggerire la relazione dell’igloo con un altro motivo chiave dell’immaginario merziano, quello della spirale, connesso a sua volta al tema delle origini. Già in una performance videoregistrata del 1970, Lumaca, Merz associa la chiocciola e la spirale alla progressione numerica di Fibonacci, decretando la continuità simbolica tra tutti questi elementi: la forma della spirale, i cicli di crescita organica, un’abitazione in movimento che segue il proprio ospite. In varie culture il simbolo della spirale rappresenta lo sviluppo del cosmo a partire da un centro di origine; per Merz (2001, 9) essa rappresenta anche un doppio movimento di attrazione e repulsione che veicola “una valorizzazione cosmica della distanza”. Bartolomeo Pietromarchi (2015, 16) chiarisce come la spirale merziana sia difatti “espressione immediata di una dimensione mitica, preistorica, non databile, di una crescita organica, spazio che si moltiplica riproducendosi e contiene in sé l’idea di infinito, vettore in cui si rispecchia una misura cosmica”. Si stabilisce qui una relazione con la poetica di Ezra Pound che non ha ancora trovato un’occasione di analisi. Merz (1983, 31) ha dichiarato: “Pound interviene poeticamente sul mio lavoro in maniera forte, molti miei pensieri vengono ancora dal suo pensiero”. Un omaggio al grande poeta angloamericano emerge proprio da un doppio igloo intitolato Hoarded centuries to pull up a mass of algae and pearls (1983): è un verso del Canto LXXX che campeggia sull’estradosso dell’igloo interno e che metaforizza la concezione circolare del tempo di Merz. A questo si può accostare anche l’Igloo con vortice del 1979. Tale rapporto ci interessa in relazione alla forma e ai significati della spirale, affini a quelli del ‘vortex’, simbolo con il quale Pound (1914, 153) schematizzava i processi attivi della materia:
 

Il vortex è il punto della massima energia. […] 
Ogni concetto, ogni emozione, si presenta alla consapevolezza viva sotto qualche forma primaria. […]
Ogni esperienza si precipita in questo vortex. Tutto il passato pregno di energia, tutto il passato vivo e degno di vivere. […]
Il Vortex umano ha in pugno il PROGETTO del futuro. Tutto il passato che è vitale, tutto il passato capace di vivere nel futuro è in gestazione nel vortex, ADESSO.

Vortici e spirali si costituiscono quindi, per entrambi gli autori, come forme capaci di condensare la vitalità del passato, l’energia del futuro e ogni esperienza presente. L’estensione della spirale nella serie di Fibonacci permette poi a Merz di superare la fisicità dell’opera e collocarla in uno spazio “biologicamente infinito” (Koshalek 1983, 73). La serie è infatti il sistema che permette all’artista di schematizzare e visualizzare il senso della proliferazione organica in opposizione all’attitudine più fredda e meccanica del Concettuale analitico (Accame 2006). La stessa serie virtualizza inoltre la centralità dell’origine quale motore dello sviluppo cosmico: Merz riconosce infatti nella formazione delle sue somme “un sistema simbolico capace di mostrare come le energie iniziali vengono conservate per la crescita, stimolandola” (Grüterich 1976, 57).

Mario Merz, Igloo con vortice, 1979.

Intrecciando in una relazione di continuità formale e concettuale formule e simboli tratti dai più disparati contesti culturali, Merz definisce quindi una propria, personale cosmologia e si pone al centro di un’impresa demiurgica volta alla comprensione del mondo attraverso la mitopoiesi. Ne Il pensiero selvaggio, libro che ha interessato molti artisti attivi negli anni Settanta, Claude Lévi-Strauss (2015, 36) sostiene che l’arte si ponga a metà strada tra la scienza e il pensiero mitico: l’artista coniuga aspetti sia dello scienziato sia del bricoleur poiché “con mezzi artigianali egli compone un oggetto materiale che è in pari tempo oggetto di conoscenza”. Merz incarna perfettamente questo modello di artista-mitologo che, con mezzi e materiali eterocliti, tenta di comprendere il mondo secondo una via alternativa a quella scientifica: la scelta ricade infatti su forme e simboli risemantizzati al fine di sostenere una precisa visione del mondo. È anche in virtù di ciò se riteniamo appropriata l’inclusione di Merz nella sezione delle ‘mitologie individuali’ ideata da Szeemann per Documenta V di Kassel nel 1972. È un aspetto su cui si sofferma anche Wieland Schmied (1983) in uno scritto del 1974 dedicato all’artista italiano. Come spiega Szeemann (2005, 165), le mitologie individuali esplorano “il campo di formazione soggettiva del mito con la pretesa di validità universale attraverso la formulazione figurativa”. Schmied (1983, 79-81) evidenzia come, lungi dall’essere una nuova tendenza artistica, le mitologie individuali vadano, per vie spesso tortuose e labirintiche, alla ricerca di chiarimenti sulla complessità del mondo ma a partire dalle proprie ossessioni personali. Si tratta di una possibilità precocemente rilevata da Piero Manzoni, autore di grandissima importanza per lo sviluppo dell’Arte Povera, il quale – è interessante notare – impiega la stessa espressione utilizzata da Szeemann: per assumere significato nella propria epoca, dice Manzoni, bisogna che l’arte raggiunga “la propria mitologia individuale là dove giunge a identificarsi con la mitologia universale” (Manzoni 2007, 178). Per Merz, l’arte non è dunque vera creazione se non quando si avvicina al fondamento archetipico dei miti che tematizzano la totalità umana. I materiali e i mezzi adoperati da Merz non potrebbero essere più semplici, eppure, come afferma Schmied (1983, 84), da essi emergono sistemi planetari, orbite, edifici a stella e labirinti. Il “cosmo numerico” di Merz, come lo chiama lo stesso critico, vede il suo principale nucleo simbolico nell’igloo ma trova nei numeri di Fibonacci la sua formula generale: essi tracciano uno schema spiraliforme che può espandersi o rinserrarsi, mappando un universo buio e labirintico in cui l’igloo resta l’unico rifugio sicuro.

Riferimenti bibliografici
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English abstract

The igloo has characterised the career of the Turin artist Mario Merz ever since he joined Arte Povera. Since then, Merz has reproposed the form of the igloo in numerous variations, exhibiting them in the most important national and international museums. Over the years, statements by the artist himself and critical reflections have accumulated around this symbolic form, contributing to its conceptual complexity. However, in the artist’s poetics, the igloo is configured above all as a cultural archetype, a metaphor for human life and its basic needs. With the reinvention of the igloo, Merz makes an imaginary journey to the origins of culture by exploring the concepts of protection, survival and resistance in order to define it as a form of relationship with time. Starting from a contextualisation of the Merz igloo in the climate of Arte Povera and the related historical-stylistic issues, the contribution examines the symbolic and cosmological implications of Merz’s poetics, providing an alternative interpretation of the igloo to the dominant ideological one. This analysis makes use of a review of the critical literature on Merz’s poetics and igloos as well as a comparison with the meanings that emerged from the analysis of other cycles of works by the same artist.

keywords | Mario Merz; Arte Povera; Igloo; Time; Individual mythology.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Pasquale Fameli, L’igloo di Mario Merz come forma del tempo, “La Rivista di Engramma” n. 207, dicembre 2023, pp. 211-221. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.207.0016