Un ciclo di lunette per il Chiostro Grande della Certosa di Firenze
Piero di Matteo, un conciliabolo di santi eremiti e Giovanni Maria Canigiani abate di Vallombrosa
Danilo Sanchini
English abstract
A circa tre miglia dalla città di Firenze, sull’altura conosciuta come Monte Acuto, nella frazione di Galluzzo, sorge la Certosa di San Lorenzo (conosciuta anche coi nomi di Certosa di Monte Santo o Certosa di Val d’Ema), imponente monastero fondato l’8 febbraio 1342 dal banchiere e uomo d’armi fiorentino Niccolò Acciaiuoli (per una bibliografia essenziale sulla storia e sulle opere del monastero si rimanda a: D.B.G.T.G. 1861 (l’autore di questo testo si firma solo attraverso tale sigla); Bacchi 1930; Lucaccini 1935; Hogg 1979; Leoncini 1980; Chiarelli, Leoncini 1982; Chiarelli 1984; Viti 1984). La fine dei cantieri si fa coincidere grossomodo col 21 marzo 1395, giorno in cui la Certosa venne consacrata dal vescovo di Firenze Onofrio Visdomini (Leoncini 1980, 135). Della Certosa di quel periodo poco o nulla rimane. Ben presto, infatti, il deperimento di alcune parti e i mutati canoni funzionali fecero avviare un’imponente stagione di restauri e rifacimenti, proseguita ininterrottamente fino al terzo decennio del Cinquecento. L’intervento di maggiore spessore si attuò nell’area del Chiostro Grande [Figg. 1-2], grande spazio monumentale attorno a cui ruota la vita meditativa dei certosini, fulcro, assieme alla chiesa, dell’intera vita monastica. È qui infatti che, attraverso la preghiera e la meditazione, nel silenzio delle proprie celle, i monaci contemplano Dio. Il Claustrum, ricostruito interamente nei suoi caratteri essenziali tra il novembre 1491 e il 1520 (Leoncini 1980, 182-187), vide l’avvicendarsi di numerose personalità alla sua decorazione. Oltre ai celebri interventi pittorici di Iacopo Pontormo (Clapp 1916; Berti 1956, 80-81; Smith 1979; Cox-Rearick 1981, 221-222; Moreno 1981; Sénécal 1982; Smith 1982, 140; Pilliod 1992, 78-88; Costamagna 1994, 61-65, 168-178; Michalski 2015) e di Agnolo Bronzino (Clapp 1916, 133; McCorquodale 1981, 16-17; Pilliod 1992, 78-82; Bietti 1996, 84; Natali 2010, 39; Natali 2020, 59), troviamo il monumentale ciclo di busti realizzato da Giovanni della Robbia (Cruttwell 1902, 240-243; Marquand 1920, 167-174, nn. 172-173; Chiarelli, Leoncini 1982, 291-292, nn. 218-283; Chiarelli 1982; Chiarelli 1984, vol. I, 109-111; Gentilini 1992, vol. II, 324) incorniciato da tondi in pietra serena riconducibili, come le altre membrature architettoniche, alla bottega lapicida dei Della Bella (Bacchi 1930, 129-130; Morselli 1977; Leoncini 1980, 179-185; Chiarelli, Leoncini 1982, 25, 289-291; Chiarelli 1984, vol. I, 105-107, 155).
Accanto a questi, vi sono diverse pitture murali, dislocate tra i prospetti delle celle e la parte esterna delle gallerie, che si possono ricondurre a un artista altrimenti sconosciuto: Piero di Matteo di Piero di Giovanni Ser Martello. Il pittore, noto esclusivamente per la sua attività alla Certosa, pare essere stato un personaggio assai stimato dalla locale comunità religiosa che, già nel 1500, gli aveva affidato la realizzazione di alcune decorazioni per la chiesa monastica. Piero di Matteo dovette ricevere ben tredici pagamenti, dilazionati tra il 12 dicembre 1500 e il 1501, per la realizzazione di un fregio dipinto che cingesse le pareti laterali del tempio (Archivio di Stato di Firenze (ASF), Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51 (San Lorenzo al Galluzzo detto la Certosa), n. 35, cc. 107r, 108r, 108v, 109r, 109v, 111v, 112r, 113v, 115r. Così in Chiarelli 1984, vol. I, 96-97) [Fig.3]. Quest’ampia fascia, posta a raccordo dei capitelli dei pilastri, realizzata a imitazione d’un architrave con tanto di peducci, si mostra composta da elementi quali ovuli, lance, dentelli, astragalo e sima, per essere poi decorata da una serie di motivi antichizzanti, in cui figurano grifoni, candelabre e mascheroni. La pittura, realizzata con una gamma di colori terrosi, fu mantenuta fino agli inizi del Seicento, quando venne ricoperta da uno strato di intonaco per essere sostituita da una serie di grandi tele di Orazio Fidani, ritraenti Dottori della Chiesa, Evangelisti e venerabili certosini, visibili ora all’interno di Palazzo Acciaiuoli (Moreni 1791-1795, vol. II, 119; D.B.G.T.G. 1861, 16; Bacchi 1930, 106; Chiarelli 1984, vol I, 96-97).
Questa prima prova documentata del pittore dovette soddisfare ampiamente i monaci, i quali ricorsero ancora una volta al suo pennello per decorare il luogo a loro più caro: il Chiostro Grande. Il 5 luglio 1506 Piero di Matteo ricette così un pagamento “per la dipintura de le prime due celle de lo inclaustro, zoè per due frisi con due Yesu” (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 78, c. 157d; così in Chiarelli 1984, vol. I, 97). Come specificato, le pitture, oggi perdute, erano state realizzate per la decorazione di due celle, verosimilmente la priorale e quella a lei direttamente collegata, essendo in quell’anno terminata l’erezione della galleria d’accesso al chiostro e l’innesto di quelle a lei congiunte (Leoncini 1980, 186-187). Da questo momento il nome di Piero di Matteo scompare per lungo tempo dalla documentazione ma, nel febbraio 1516, un omonimo e non meglio specificato “maestro Piero” viene ricordato per la realizzazione de “l’arme del cardinale segnata †”, venendo pagato 9 lire e 2 soldi (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 39, c. 35d; così in Chiarelli 1984, vol. I, 98). Quest’ultimo artista, probabilmente identificabile col nostro, è poi ricordato per la realizzazione di perduti stemmi e vari ceri devozionali, pagati in totale di 4 lire e 28 soldi, che testimoniano forse una continuità dei rapporti tra Piero di Matteo e i certosini di Monte Santo (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 39, c. 61d; così ibidem). Come ricorda anche Chiarelli, è bene sottolineare che il 30 giugno 1510 un tale “Piero della Nuntiata” veniva retribuito per aver dipinto due angeli all’interno della chiesa monastica, mentre il 17 marzo 1511 è ricordato per la doratura di due candelieri (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 13, c. 3r; n. 38, cc. 81d, 82d). Non possiamo escludere a priori che la documentazione si riferisca a tale maestro, ma la sua presenza circoscritta e il lungo rapporto intrattenuto dai certosini con Piero di Matteo, ci permette di ipotizzare l’intervento di quest’ultimo in tali lavori. Piero di Matteo non viene mai definito “della Nuntiata”, né sembra avere mai avuto a che fare con l’omonimo santuario fiorentino, permettendoci di escludere uno sdoppiamento della stessa persona. La campagna decorativa del chiostro dovette a questo punto interrompersi per permettere l’erezione delle restanti ali del loggiato e dei caseggiati. Proprio per tali ragioni, l’artista venne ricontattato solo a cantiere finito, sottoscrivendo un contratto, il 24 marzo 1520, per la decorazione pittorica del chiostro.
“Adì XXIIII di marzo 1519 [stile fiorentino, dunque 1520].
Richordo come oggi questo dì soprascritto 24 di marzo 1519 alloghammo et demmo a dipingere el ciostro nostro de’ monaci a Piero di Matheo di Piero dipintore el quale è obligato di dipingere le faccate delle celle per l. cinque l’una con sua fregi et corniconi nel modo et forma che sta quella dove è l’arme delli Acciaioli et più presto migliorare che declinare, et l’archi nel modo che sta quello che è all’incontro della porta del ciostro et per l. cinque l’uno chome e fregi delle celle d’achordo chon el nostro padre priore don Octaviano da Mantova al presente priore del nostro monastero di Sancto Lorenzo conviscitatore totius pronincie Tuscie.
Io Piero di Mateo son contento a qua[n]to di sopra si chontiene e per fede di cho mi sono sochipto qui da piè di mia propria mano, ano, mese e dì detto di sopra.”
(ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 15, c. 188v; così in Chiarelli 1984, vol. II, 272)
Piero di Matteo si impegnò in tale maniera a realizzare un ciclo di lunette che dovevano riprendere una sua precedente pittura raffigurante lo stemma Acciaiuoli – realizzata poco tempo prima su una cella del chiostro e saldata lo stesso 24 marzo 1520 (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 39, c. 93r; così in Ivi, vol. II, 342) -, attorniato da fregi e cornicioni che i monaci ora volevano ripetuti sulle proprie celle. Oltre alla decorazione di quest’ultime, i certosini richiesero all’artista di dipingere anche le arcate delle gallerie, premurandosi che anche queste riprendessero forme e colori di una pittura realizzata in precedenza, “nel modo che sta quello che è all’incontro della porta del c[h]iostro”. Per completare questo lavoro l’artista ricevette compensi costanti per quasi due anni, venendo pagato cinque lire per ogni cella dipinta e per ogni arcata completata, dal marzo del 1520 ad almeno il 23 febbraio 1521 (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 15, c. 93r; così in Ivi, vol. I, p. 97, dove viene erroneamente riportata la data 1522).
Con l’ultimo pagamento versato, i rapporti tra Piero di Matteo e la Certosa paiono interrompersi, permettendoci di considerare questa sua impresa tra le prove ultime della sua attività. A conferma di ciò, si conserva presso l’Archivio di Stato di Firenze, il testamento dell’artista, datato 8 gennaio 1522 e rogato dal notaio Lorenzo di Tommaso Poggini (ASF, Notarile antecosimiano 17151, cc. 235r-236r). Il testamento, compilato nella casa dell’artista nel quartiere di San Pier Maggiore a Firenze, ci narra della volontà di Piero di Matteo di essere seppellito in suddetta chiesa, all’interno di un sepolcreto nel quale avrebbero trovato posto anche il fratello Giovanni Battista e altri parenti. Egli avrebbe inoltre voluto che si celebrassero messe in suffragio della propria anima nella chiesa di San Salvatore al Monte, sede dei francescani osservanti. A erede universale viene indicata la figlia del pittore Agnoletta, ma viene precisato che gli averi, qualora la donna fosse morta prima del matrimonio o si fosse consacrata monaca, sarebbero passati all’Ospedale di Santa Maria Nuova. Il testamento non ricorda l’età di Piero di Matteo che comunque, definito “corpore languens”, non doveva essere particolarmente avanti con gli anni, specie se si considera il nubilato della figlia e certe sue vicinanze all’arte di Fra Bartolomeo e Andrea del Sarto. L’esistenza del documento era stata già segnalata oralmente da Ugo Procacci (Chiarelli 1984, vol. I, 96-97, nota 57), limitandosi però a indicare un registro di estratti testamentari, senza però riportante il contenuto, qui ora trascritto:
“Piero di Matteo di Piero di Giovanni di S. Martello dipintore fece herede universale l’Agnoletta sua figluola; et s’ella morisse avanti si maritasse, et consumasse il matrimonio con il suo futuro marito, ò avanti si monacasse, in quel caso li substitui lo Spedale di Santa Maria Nuova di Fiorenza; come più a’ piero suo”.
(ASF, Appendice al Notarile antecosimiano 112, c. 5r).
La documentazione appena analizzata ci attesta una piena attività dell’artista per almeno il primo ventennio del XVI secolo. Per quanto in gran parte mutile e in condizione conservative precarie, le sue pitture alla Certosa di Monte Santo caratterizzano profondamente il claustrum cellarum, sebbene siano sempre state considerate secondarie rispetto al ciclo robbiano e a quello pontormesco. Per le celle, Piero di Matteo dovette realizzare una serie di lunette raffiguranti vari santi, quasi tutti legati all’Ordine certosino e alla pratica eremitica. Del ciclo sopravvivono oggi diciassette lunette realizzate a mezzo fresco, tecnica che spiega le pessime condizioni delle stesse. Tra queste, la raffigurazione di San Paolo eremita, posta in origine sul caseggiato “P”, fu staccata a ridosso degli anni Ottanta del secolo scorso e riposta all’interno del medesimo ambiente. Per facilitare la ricostruzione del ciclo, ci viene incontro la successione alfabetica delle varie celle, le cui lettere, aggiunte nel corso del tempo agli architravi delle porte, ci guidano nel chiostro in senso orario. Principiando lungo la galleria a sinistra del portale d’ingresso, si nota che i primi tre vani non presentano più decorazioni riferibili alla mano del nostro artista. La prima lunetta che incontriamo, sopra la cella priorale segnata “A”, raffigura il Buon Pastore e fu realizzata nel 1717 da Tommaso Redi (Chiarelli, Leoncini 1982, 290, n. 90) [Fig. 4]. Il pittore fiorentino dovette collaborare in più di un’occasione coi monaci, almeno dal 1713, quando è ricordato in un pagamento “per aver riconciato la tavola di San Giovanni Battista di Lodovico Carracci” (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 58, c. 13; riportato in Chiarelli, Leoncini 1982, 243, n. 46). Redi compare poi negli inventari redatti all’indomani dell’unità d’Italia, dove viene segnalata una sua tela, già collocata nella sala capitolare, con “Nostro Signore che riceve il cibo dagli Angioli. Quadro alto 46 largo 58 cornice gialla” (Biblioteca delle Gallerie degli Uffizi (BU), ms. 437, Certosa del Galluzzo. Inventario degli Oggetti d’Arte del Venerabile Monastero e chiesa di Certosa presso Firenze, 41; BU, ms. 439, Certosa del Galluzzo. Inventario generale, vol. I (2 voll.), n. 194). Il dipinto, oggi purtroppo disperso, doveva servire da bozzetto preparatorio in vista della realizzazione di una composizione più grande, eseguita nel 1716 nel loggiato della foresteria della Certosa (ivi, 243, n. 46). L’intervento del 1717 nel Chiostro Grande invece, con ogni probabilità, dovette interessare la stessa porzione di muro che nel 1506 aveva ospitato uno dei due “frisi con […] Yesu”. il Cristo Buon Pastore andò a sostituire la precedente composizione di Piero di Matteo che, a inizio Settecento, doveva presentarsi in condizioni non adeguate a segnalare la cella priorale. Redi realizzò una lunetta di dimensioni quasi sovrapponibili alle altre, agendo, anche a causa di alcune preesistenze, sulla stessa area della pittura cinquecentesca. La raffigurazione del Buon Pastore, accompagnata dalla citazione tratta del vangelo di Giovanni (10:11), “Ego sum pastor bonus”, ben si adatta a segnalare la cella del padre priore. Il pittore ha qui compiuto una sorta di rifacimento, ripassando le linee tracciate nell’intonaco da Piero di Matteo e dipingendovi sopra. Le incisioni e alcune variazioni del colore lasciano inoltre intravvedere la preesistenza di una tabula ansata che doveva fungere, così come nella maggior parte degli altri sovrapporta, da coronamento alla composizione. Lecito dunque ipotizzare che l’intervento di Tomasso Redi si caratterizzi come un vero e proprio restauro, accompagnato forse anche da un cambio di iconografia.
Non solo la facciata della cella priorale fu manomessa nel corso del XVIII secolo, ma anche quelle dei caseggiati “B” e “C” hanno avuto sorte simile. Grazie alla documentazione, come già visto, sappiamo che anche il cubicolo successivo avrebbe dovuto ospitare un secondo soggetto cristologico, ma non sappiamo se questo sia stato mai realmente messo in opera. A quattordici anni di distanza, nel 1520, l’artista fu infatti incaricato di dipingere un San Giovanni Battista “supra ala 2a cella” (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 51, n. 39, c.93; così in Chiarelli 1984, vol. I, 97), la medesima che avrebbe dovuto ospitare la decorazione in questione. Per nostra sfortuna, la porzione di muro interessata venne completamente abbattuta durante alcuni lavori strutturali, finalizzati all’apertura di una finestra per la prima cella in luogo dell’accesso al locale “B” (Bacchi 1930, 132; alcune foto d’epoca testimoniano questa trasformazione, ma tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento l’ingresso fu ripristinato). La cella segnata “C” presenta invece uno stato conservativo talmente compromesso da renderne difficoltosa la lettura [Fig. 5]. Il dipinto in questione, caratterizzato dall’alterazione delle cromie e da numerose cadute di colore, mostra l’esistenza di due diversi strati pittorici, rivelando come esso sia stato realizzato sopra una precedente lunetta. Della pittura di Piero di Matteo è possibile osservare con certezza solo il dettaglio sommitale: un tondo decorato da motivi floreali al cui interno si poteva leggere un simbolo o una scritta, forse il monogramma bernardiniano. Nella situazione attuale si nota un santo, probabilmente vestito con un piviale vescovile, che impartisce una benedizione a una donna, riconoscibile per i capelli lunghi e per l’abito, postagli innanzi a braccia aperte. Al centro della scena si scorgono poi vari dettagli, quali due mani che si raggiungono e dei raggi che scendono perpendicolari al terreno. È difficile concepire cosa vi sia rappresentato e quali brani pittorici spettino a un pittore e quali all’altro. Se il santo monaco potrebbe anche richiamare i modi di Piero di Matteo, specie nei lineamenti schiacciati del viso e nella mano affusolata benedicente, la figura di destra sembra essere realizzata con modi più goffi e linee più marcate. Le mani che si scorgono al centro, sottolineate con terra rossa, paiono collegare i due personaggi ma quella di destra non sembra potersi congiungere alla donna per ovvi motivi anatomici e spaziali. Giovanni Bacchi (1930, 132) sostenne che tale composizione rievocava un miracolo di Niccolò Albergati, il cui corpo riposa proprio all’interno della Certosa, reputandolo “facile lavoro di Ignazio Moder – 1700”. L’autore dovette però confondersi con una notizia riportata nella Guida del 1861 (D.B.G.T.G. 1861, 43), che ricordava la presenza di un dipinto dell’artista tirolese, col medesimo soggetto, all’interno dell’appartamento priorale”. Possiamo dunque supporre che la lunetta dipinta da Piero di Matteo fu in qualche modo rifatta in tempi imprecisati, probabilmente a inizio Settecento come il dipinto di Redi, così come è imprecisato il motivo di tale deperimento, forse dovuto alla scarsa riuscita del fondo pittorico. La composizione parrebbe raffigurare la guarigione di una donna, ma non sappiamo se la primigenia scena realizzata recasse un soggetto analogo, né se il fautore del miracolo sia o meno un venerabile legato ai certosini. Potendosi anche trattare di una scena d’esorcismo, il primo pensiero corre al vescovo certosino Ugo di Lincoln. Tra i miracoli a lui attribuiti vi è infatti anche la liberazione di un indemoniato, episodio che Gherardo Starnina aveva già raffigurato nel polittico par la Cappella di Santa Maria (sul polittico di Gherardo Starnina, un tempo alla Certosa e ora smembrato, si vedano gli studi fondamentali: Sirén 1904; Colasanti 1934; Pudelko 1938; Longhi 1940, 151-152, Oertel 1964; Volpe 1973; Van Waadenoijen 1974; Syre 1979, 11-23). Lo scomparto di predella, oggi al museo Poldi Pezzoli di Milano, potrebbe essere ritenuto l’ideale antecedente della lunetta, sebbene il santo compaia già in corrispondenza della cella “T”. Alla luce di quest’ultimo dato, vi si potrebbe invece riconosce un miracolo del certosino Stefano di Châtillon. Il monaco francese, priore della certosa di Portes, venne scelto da Innocenzo III per guidare la diocesi di Die nel 1202, incarico che riuscì ad adempiere assieme al rispetto della regola certosina, senza per questo trascurare i fedeli. Morto pochi anni dopo, nel 1208, alla sua figura si attribuiscono vari miracoli, tra cui l’aver fatto apparire alcuni demoni ai fedeli che non erano soliti rispettare il riposo domenicale e varie guarigioni. Nella vita di Santo Stefano è particolarmente significativo il risanamento di una giovane a cui i medici non avevano dato alcuna speranza. La donna infatti, dopo aver ricevuto una particolare benedizione da parte del certosino, dovette recuperare le forze e la salute, mentre Stefano, a poche ore di distanza, spirò serenamente (Société des Bollandistes 1746-1762, vol. III, 193; sulla vita di Santo Stefano di Châtillon si rimanda a Depéry 1834-1835, vol. I, 337-357; Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. XI, coll. 1396-1398).
Giunti a questo punto del ciclo, le restanti pitture di Piero di Matteo si sono conservate pressocché tutte, e si distribuiscono, in ordine orario, secondo la seguente successione:
- San Bruno (cella “D”)
- San Nicola di Bari (cella “E”)
- San Bernardo di Chiaravalle (cella “F”)
- San Giovanni Gualberto (cella “G”)
- Sant’Ugo di Grenoble (cella “H”)
- San Benedetto (cella senza intitolazione)
- Beato Pietro Petroni (cella “M”)
- San Lorenzo (cella “N”)
- Beato Guglielmo da Fenoglio (cella “O”)
- San Paolo eremita (già sulla cella “P”)
- San Romualdo (cella “Q”)
- Beato Giovanni Spagnolo (cella “R”)
- Sant’Antonio Abate (cella “S”)
- Sant’Ugo di Lincoln (cella “T”)
- San Girolamo (cella “V”)
- Sant’Ambrogio (cella “X”)
- San Gregorio Magno (cella “Y”)
Considerando le pitture perdute, è ben chiaro come il ciclo di Piero di Matteo dovesse figurare su ognuna delle venti celle che si affacciano sul chiostro. A queste vanno però aggiunti tre ambienti, il cui ingresso, segnato rispettivamente con le lettere “I”, “K” e “L”, è collocato nel breve corridoio formatosi dall’incrocio delle gallerie nell’angolo Nord. Il portale “K” non conduce ad alcuna cella, ma immette in uno stabile destinato al lavoro comunitario dei monaci, il cui prospetto era ornato dalla Resurrezione di Cristo di Pontormo (1523-1524). Rimangono così prive di decorazioni le porte “I” e “L”, poste l’una innanzi all’altra. L’ingresso “L” ha subito nel tempo delle modifiche che gli permisero di collegarsi direttamente alla prima cella del lato Nord-Est, quello opposto alla galleria d’accesso. In questa ricostruzione, la porta “I” si configura come l’unico accesso a una cella senza alcun tipo di decorazione su di essa. La muratura sopra l’architrave non mostra segni che permettano di ipotizzare l’esistenza di una pittura preesistente, ma ciò ovviamente non toglie che eventuali interventi ne abbiano potuto occultare la memoria.
Questa teoria di santi assume pieno significato se pensata in accostamento ai busti invetriati di Giovanni della Robbia per gli oculi dei loggiati con i quali, al netto anche di ripetizioni, forma un insieme dal profondo significato spirituale per la comunità certosina. Una sorta di Paradiso, di exempla virtutis, all’interno della galilea maior (riprendendo l’antica etimologia della parola traducibile con “passaggio”, la tradizione certosina impiega questo lemma per identificare il Chiostro Grande, luogo destinato al solo transito dei religiosi, i quali svolgono le attività cenobitiche intorno al Chiostro Piccolo, minor; si veda Leoncini 1990, 49-51). I certosini effigiati nel Chiostro Grande, al pari degli altri santi campioni della Fede e dell’Ascetismo, fungono in tal modo da concreti modelli spirituali e di comportamento, riferimenti perfetti a cui appellarsi nella preghiera e nella meditazione. Le lunette di Piero di Matteo, ridotte in gran parte a uno stato simil-larvale in cui a malapena si riescono a distinguere forme e iconografie, non ci permettono di delineare a pieno e la cultura figurativa del loro autore. Le pitture inoltre mostrano diversi livelli qualitativi, il più delle volte amplificati alle attuali condizioni conservative, che in passato hanno portato a ipotizzare la presenza alla Certosa di personalità vicine alla bottega di Andrea del Sarto e del Pontormo. Conti (1983, 57) affermò, per esempio, di intravvedervi lo stile del Franciabigio (San Gregorio), di Jacone (San Lorenzo), di Bronzino (San Bruno) e di Pier Francesco di Jacopo Foschi (comunicazione orale quest’ultima riportata in Costamagna 1994, 175, nota 1), mentre altrove rilevava la ripresa di stanchi moduli di primo Cinquecento. Queste affermazioni contraddicono però le notizie riportateci da Vasari, secondo il quale Pontormo si sarebbe recato a Monte Santo accompagnato dal solo Bronzino, e non trovano inoltre conferma nella documentazione conosciuta (Vasari 1568, ed. 1966-1987, vol. V, 319).
Lo stile di Piero di Matteo pare radicato nella tradizione pittorica fiorentina di inizio secolo, con forme e personaggi ridotti all’essenziale, al fine di una maggiore funzionalità e leggibilità. Questa sorta di semplicità compositiva ben si accordava col rigore morale di un’élite generalmente conservatrice come quella dei certosini, assai vicina a quel sentimento di religiosità riformata che aveva sconvolto la Firenze di fine Quattrocento. Negli anni immediatamente precedenti alla realizzazione del ciclo, una simile teoria di santi era stata già realizzata a Firenze da Fra Bartolomeo (1511-1512) [Fig.6] in alcuni sovrapporta del convento domenicano di San Marco che, a loro volta, riprendevano le pitture di simile destinazione eseguite da Beato Angelico (Fischer 1990a, 184; Fischer 1990b, 140-143, n. 37; M. Scudieri in Padovani 1996, 271-274, cat. 92-96. Decorazioni di tale tipologia erano state realizzate anche da Pietro Nelli in San Domenico al Maglio: Boskovits 1975, 419). Le pitture di San Marco svolgono un ruolo equivalente a quelle realizzate alla Certosa, differenziando tra di loro le varie stanze e incentivando al decorum e alla mondizia d’animo chiunque vi transiti innanzi. Questo tipo di religiosità aveva investito anche l’ambiente monastico di Monte Santo, al punto che esso divenne la sede di una delle profezie più celebri riferite a Girolamo Savonarola. Nel 1527, Fra Domenico di Calvisano, religioso vicino alle posizioni del predicatore e confessore delle venerabili domenicane Stefana Quinzani e Lucia Broccadelli da Narni, scrisse una lettera a una non meglio specificata suora, riferendole di una profezia fatta proprio tra le aule della Certosa (Herzig 2008, 166-170). L’epistola, giunta sino a noi grazie a un repertorio di fonti savonaroliane del XVI secolo, parla del certosino don Alberto da Trento il quale, nel 1436, avrebbe vaticinato l’avvento di un santo profeta che sarebbe morto sul rogo, “q[ues]to chiaram[en]te parla q[ue]sto certosino della sa[n]tità del r[everen]do p[ad]re fra Hier[onim]o Savonarola” (Archivio di Santa Maria Sopra Minerva, rep. III, n. 280 (Miscellanea savonaroliana), c. 76B, Prophetia di don Alberto da Tridento circa il p[ad]re fra Hieronymo da Ferrara):
“Vi scrivo, dilettiss[im]a madr[e], una prophetia, qual m’è stata p[re]se[n]tata al p[re]se[n]te assai lo[n]ga, la qual fu vista da un certosino nel 1436, ditto don Alberto da Tridento, il quale parla ... di tutte le tribulazioni, ch[e] sono accadute insino al[l‘] hora p[re]sente, come[n]zando 1490... parla[n]do d[e]l R.do p[ad]re fra Hieronymo dice in q[ue]sto modo... “surget propheta missus ex alto... & moriet[u]r ab igne... Et no[n] erit in dubiu[m] sa[n]ctitatis viri”. Ved[i]te dilettiss[im]a madr[e] q[ues]to chiaram[en]te parla q[ue]sto certosino della sa[n]tità del R.do p[ad]re fra Hier[onim]o Savonarola. Dio ci dia gra[tia] d’imitar[e] sua dott[rin]a. No[n] altro. A vostr[e] or[azi]oni devote mi raccoma[n]do. Die p[rim]o Quadragesime. 1527. Frate Dom[eni]co Calvisano ord[in]is p[re]dicatorum”
(Documento trascritto in Herzig 2008, 169, nota 68)
La rivelazione pare però essere una creazione successiva alla morte del frate ferrarese, composta intorno al 1503 e rientrante nel genere delle profezie apocalittiche, tipologia letteraria molto in voga in quegli anni a Firenze e in Toscana, specie tra i seguaci del domenicano (Weinstein 1970, 340; Weinstein 1971, 311-331; la prima testimonianza a noi pervenuta di questa profezia è del 1512). Per quanto il vaticinio sia dunque un falso storico, creato ad arte per il sostegno di una specifica causa, la menzione di un certosino del monastero di San Lorenzo al Galluzzo fa sì che si possa considerare la Certosa tra i luoghi più sensibili ai venti di questa nuova spiritualità.
La sequenza delle lunette superstiti vede effigiati lungo il loggiato “del bosco” (Nord-Ovest) i santi Bruno, Nicola di Bari, Bernardo di Chiaravalle, Giovanni Gualberto e Ugo, nel lato verso Firenze (Nord-Est) Benedetto, Pietro Petroni, Lorenzo e Guglielmo da Fenoglio, lungo il fianco successivo (Sud-Est) vi sono Romualdo, Giovanni Spagnolo, Antonio abate, Ugo di Lincoln, Girolamo e Ambrogio, infine, sul lato rimanente (Sud-Ovest) vi è rappresentato Gregorio Magno. Manca a questa lista San Paolo Eremita, la cui lunetta, un tempo sulla porta “P” nel lato Nord-Est, è stata staccata e riposta all’interno della medesima cella. In tutti i casi tranne in uno, i venerabili dipinti da Piero di Matteo sono immaginati a mezzobusto, posti all’interno di uno spazio che simula una nicchia. L’effetto prospettico si mostra però non pienamente raggiunto, con i personaggi sovradimensionati rispetto all’area che li circonda. I santi sono a volte affiancati da oggetti liturgici che, oltre ad avere una valenza iconografica, aiutano nella definizione della profondità spaziale. Le numerose lunette sono concepite, lì dove non sussistano impedimenti, con volute arricchite da motivi fitomorfi, quasi a riprendere le forme del grande Lavabo (1495) realizzato da Piero di Giovanni della Bella e da Matteo di Cecco per il Chiostro Piccolo (sul lavabo del Chiostro Piccolo si veda: Chiarelli, Leoncini 1982, 282, n. 191) [Fig. 7].
Diversamente da quest’ultimo, alla decorazione fogliacea della parte alta viene preferita una tabula ansata a fondo blu, in cui è riportato il nome e il titolo dell’effigiato. Questa specifica sezione si presenta però quasi sempre mutila, col nome del santo apposto in tempi successivi lungo l’intradosso dell’arco dipinto. I diversi sovrapporta mostrano inoltre due diverse decorazioni del finto estradosso, presentate in modo alternato lungo tutto il ciclo. Questa successione, visivamente compromessa dalle pessime condizioni conservative delle pitture, vede avvicendarsi un motivo fitomorfo (Celle “D”, “F”, “H”, “M”, “O”, “Q”, “S”, “V” e “Y”) a uno composto da ovoli, dardi e astragalo (Celle “E”, “G”, quella senza intitolazione con San Benedetto da Norcia, “N”, “P”, “R”, “T” e “X”.), entrambi caratterizzati da elementi ocra che simulano inserti bronzei. Nei sovrapporta coi santi Bruno e Ugo di Grenoble è inoltre presente un tondo con un monogramma, identificabile con quello di San Bernardino da Siena. Per semplificare il lavoro e ottenere un migliore risultato, Piero di Matteo fece probabilmente ricorso a cartoni preparatori che dovette variare all’occorrenza. Questo modus operandi è evidente in quelle lunette che mostrano santi con le mani posizionate in prossimità del petto, proiettate sempre in direzione opposta al volto (è il caso delle lunette con i santi Bruno, Benedetto, Guglielmo da Fenoglio, Giovanni Spagnolo e Ugo di Lincoln).
Tra le lunette di Piero di Matteo, il primo santo che incontriamo è il fondatore dell’Ordine certosino: San Bruno [Fig. 8]. Posto sopra la cella “D”, Bruno è vestito con l’abito bianco dei certosini, impugna il bastone a tau degli eremiti e con l’altra mano regge il libro della regola assieme a un ramoscello d’ulivo. Intorno a quest’ultimo è avvolto un cartiglio in cui si legge “Ego [autem] sicut oliva fructifera in domo Dei”. La frase, tratta dal salmo “52,10”, fa riferimento all’ordine da lui creato, a simboleggiare che l’”albero” certosino produrrà sempre santità all’interno della Chiesa (a Sorianello, nei pressi di Soriano Calabro, esiste il cosiddetto “ulivo di San Bruno”. La tradizione vuole che il santo, qui di passaggio, si sia fermato a riposare e a pregare all’interno del suo tronco cavo). Intorno al nimbo del santo comparivano sette stelle, qui poste a ricordare il sogno anticipatore di Sant’Ugo vescovo di Grenoble. Il presule francese vide la caduta di sette stelle d’oro nel luogo dove poi sarebbe sorta la Grande Certosa, a segnalare l’arrivo di altrettanti religiosi capeggiati da San Bruno, giunti a richiedere un luogo in cui praticare la vita eremitica (su San Bruno si veda: Morozzo 1681, 11; Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. III, coll. 561-569; Wallis 1991, 12, n. 18). San Bruno è ritratto affiancato anche da altri suoi attributi, quali il pastorale, la mitria e la stola, ed è accompagnato dalla scritta identificativa “S. BRUNO ~ PRIMUS ~ PATER ~ CARTUSIAE”, essendo scomparso il titulus sulla tabella sommitale. È bene notare come quest’ultima parte sia decorata con la testa e con le ali di un putto, motivo che ricorre anche in altre lunette. Al tempo dell’esecuzione del ciclo Bruno non era stato ancora elevato all’onore degli altari, e per questo si dovette attendere fino al 17 febbraio 1623. Nonostante ciò, grazie al ritrovamento del corpo del santo nell’eremo di Santa Maria della Torre in Calabria, papa Leone X autorizzò oralmente i monaci bianchi, il 19 luglio 1514, a celebrarne il culto (Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. III, coll. 567).
Dopo San Bruno incontriamo, sulla cella “E”, San Nicola di Bari [Fig. 9]. Il santo, non collegato all’Ordine certosino e alla pratica eremitica, è qui effigiato per i suoi legami col fondatore del monastero Niccolò Acciaiuoli. Il padre della Certosa, morto da più di un secolo e mezzo, era ancora tenuto in grande considerazione - come testimoniava lo stemma realizzato da Piero di Matteo nel chiostro - e per tale motivo lo si volle omaggiare con la presenza del suo santo protettore. Nicola è rappresentato in abiti vescovili, con la mitria, il pastorale e le tre sfere d’oro che lo contraddistinguono. È possibile inoltre notare le incisioni che il pittore apportò all’intonaco ancora fresco, permettendoci di meglio comprendere la spazialità originaria del santo, oggi compromessa dalle condizioni conservative non ottimali. Tra tutte le lunette questa è l’unica, assieme a quella con Sant’Ugo di Grenoble, che conserva ancora leggibile il titolo originario apposto alla tabella sommitale, “S. NICOLAUS EPUS”, accompagnato anche dalla successiva scritta sul sottarco “S. NICOLA DA BARI”.
La cella “F” presenta una delle pitture meglio conservate, raffigurante l’Apparizione della Vergine a San Bernardo [Fig. 10]. La preesistenza di un peduccio in pietra serena ha reso impossibile l’inserimento di un ritratto frontale del santo, facendo propendere per una rappresentazione di tale tipologia. Bernardo compare qui in virtù dei suoi legami coi certosini; egli era infatti amico e confidente di Guigo I, quinto priore della Grande Chartreuse, al quale dovette anche indirizzare diverse lettere (Petrina 1756, vol. I, 49-58). Sarebbe poi quasi superfluo ricordare come opere di San Bernardo di Chiaravalle fossero presenti tra gli scaffali della biblioteca di Monte Santo. Tra questi sono ricordati il Liber de diligendo Deo e i Sermones super Cantica canticorum (Gargan 2012, 49; i volumi sono menzionati nell’Inventario dei manoscritti della Certosa di Firenze, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (ms. Vat. Lat. 11276, ff. 452r-458r [indice redatto nel 1600]). Il suo legame con la Vergine trova inoltre numerosi punti di contatto con la spiritualità certosina: negli statuti dell’ordine Maria ricopre un ruolo assai centrale, al punto da essere chiamata “Madre particolare dei certosini” (Les Moines Chartreux, Statuti dell’Ordine certosino: https://chartreux.org/moines/it/statuti/, XXXIV, 2). Bernardo è raffigurato seduto al suo scrittoio, dove fino a qualche istante prima era assorto nella lettura, mentre volge il capo alla miracolosa apparizione con le mani giunte in preghiera. In basso a sinistra vi è poi un libro che, quasi appoggiato all’ideale rientranza del muro, ci permette di indagare la scena in profondità. Più in alto, circondata da fumose nubi, compare la Vergine Maria assieme ad alcuni curiosi angeli, immaginati mentre scrutano lo spazio intorno ad essi. Il nimbo di Bernardo è l’unico dell’intero ciclo a essere realizzato come un disco diafano, diversamente dagli altri venerabili che ne possiedono di opachi. La composizione di Piero di Matteo pare ispirato alle pitture di analogo soggetto realizzate da Perugino per Santa Maria Maddalena di Cestello (1488-1489) (sull’opera di Perugino oggi a Monaco di Baviera si veda: Syre 2007, 208) [Fig. 11] e da Fra Bartolomeo per la Badia Fiorentina (1504-1507) (sulla Visione di San Bernardo di Fra Bartolomeo: S. Padovani in Padovani 1996, 88-93, cat. 18) [Fig. 12], evidenziando una comune sensibilità per una spiritualità riformata che ben era condivisa anche dai monaci della Certosa. La peculiare composizione della scena, unita a una maggiore attenzione ai dettagli, permette di rendere meno immediata la percezione del peduccio. Proprio a causa di questo la lunetta difetta delle volute e della tabella sommitale col titolo del santo. Quest’ultimo dettaglio, quasi del tutto svanito, compare lungo il sottarco in latino - “DIVUS BERNARDUS” - ed è stato tracciato con un pigmento scuro in luogo del solito rosso, facendoci ipotizzare un suo inserimento in un momento prossimo alle pitture.
Su questo lato del chiostro, l’ultima cella a presentare una decorazione pittorica è la “G”, la cui lunetta è dedicata a San Giovanni Gualberto [Fig. 13]. Il venerabile è qui raffigurato lievemente di tre quarti, col pastorale abbaziale a tau, caratterizzato dalle consuete protomi leonine sull’impugnatura, simbolo della Congregazione Vallombrosana da lui fondata. San Giovanni Gualberto regge un libro e un crocifisso, classici suoi attributi, mentre indossa la tunica e la cocolla della propria congregazione (Kaftal 1952, coll. 569-580, n. 166). La sua presenza all’interno del ciclo di Piero di Matteo può essere spiegata per più ragioni. Egli aveva infatti optato per uno stile di vita eremitico, affiancandosi, assieme a un compagno di nome Goffredo, agli asceti Paolo e Guntelmo, in località Acquabella, nei boschi di Vallombrosa (Quilici 1941, 55-56; Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. VI, coll. 1016-1019). Si potrebbe inoltre pensare che la sua raffigurazione sia collegabile alla presunta parentela che lo legherebbe a Onofrio Visdomini, il vescovo che il 21 marzo 1395 aveva consacrato il complesso di Monte Santo (a ricordo dell’evento vi è una lapide, copia dell’originale perduta, murata nella facciata interna del coro dei conversi; Leoncini 1980, 135). La notizia dell’appartenenza di Giovanni Gualberto a tal casato fiorentino pare essere però priva di basi storiche, essendo ricordata solo dai brevi frammenti superstiti della Vita di Gregorio di Passignano, testo scritto per favorire la canonizzazione del santo, edito solo nel Settecento (Soldani 1731, 33-35; Soldani 1741, 190-191; Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. VI, col. 1016). La sua presenza non è forse però solo da imputare ai suoi trascorsi eremitici, ma anche a un altro elemento.
La lunetta, la meglio conservata di tutto il ciclo, è anche l’unica a mostrare, ai lati dello spazio pittorico, due stemmi sagomati di tipo b, entrambi arricchiti dalla presenza di un pastorale e di una mitria con infule [Fig. 14]. L’emblema qui effigiato, d’argento, al crescente montante d’azzurro, sormontato da un lambello a tre pendenti di rosso, corrisponde a quelli dei fiorentini Canigiani e Paganelli (ASF, Manoscritti, 471, c. 43; ASF, Deputazione sopra la nobiltà e cittadinanza 178-223, Libri d’oro della nobiltà e del patriziato toscano, sec. XVIII-XIX, vol. CXCVII, tav. 15). Questi due casati, imparentati tra di loro al punto che i Paganelli divennero una vera e propria famiglia consortile della prima, assumendone anche lo stemma, vantavano possedimenti al Galluzzo e nelle sue immediate vicinanze (Mini 1893, 243; Carocci 1906-1907, vol. II, 271-274.). L’arme Canigiani-Paganelli è l’unico elemento araldico presente nel ciclo di Piero di Matteo e, proprio per tale motivo, deve essere considerato come elemento di differenziazione e di prestigio per il monaco che ne abitava la cella corrispondente. Lo stemma, affiancato dal pastorale e della mitria, rimanda inevitabilmente a un personaggio di rango vescovile o abbaziale. Il primo pensiero corre al priore della Certosa, ma egli aveva una cella a lui dedicata, di dimensioni maggiori e collegata agli ambienti del cenobio, e nessun membro di queste famiglie è rammentato aver ricoperto tale carica – al tempo era inoltre priore Ottaviano Trani da Mantova –. Tra Canigiani e Paganelli invece, a ridosso del 1520, è ricordata un’unica personalità degna di potersi fregiare di tali simboli: Giovanni Maria Canigiani (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (BNCF), Collezione Genealogica Passerini, 186, 10: “Giovan Maria – n. 28 luglio 1481. Domenicano in S. Marco – nel 1515 fu tratto da quell’ordine per riformare i Vallombrosani, dei quali fu generale – vescovo d’ Ippona in partibus infidelium – coadiutore del cardinale Antonio Pucci nel vescovato di Pistoia. † 20 novembre 1541”).
Nato il 28 luglio 1481 da Odoardo Canigiani e Costanza di Lorenzo di Bartolomeo Gualterotti, Giovanni Maria prese i voti come frate domenicano nel convento fiorentino di San Marco, dove rimase fino al 1515. Il 10 gennaio di quell’anno infatti, grazie alla sua vicinanza al casato mediceo e a papa Leone X, venne eletto abate del monastero di Vallombrosa che, elevato “caput ordinis”, fu posto sotto l’autorità papale (Vasaturo 1973, 124). Giovanni Maria Canigiani prese così il posto di don Biagio Milanesi, generale di Vallombrosa inviso ai Medici dai tempi di Lorenzo il Magnifico. Nel 1512 il figlio di quest’ultimo, Giovanni, aveva addirittura dato l’ordine di saccheggiare i monasteri vallombrosani di Santa Reparata di Marradi e di San Salvatore a Fontana, ma solo l’8 gennaio 1515, divenuto nel frattempo pontefice, riuscì nell’impresa di eliminare il religioso, condannandolo come falsario e simoniaco ed esiliandolo a Gaeta (Vasaturo 1973, 123; Vasaturo 1994, 147). Due giorni dopo, il pontefice inviò otto Costituzioni apostoliche al fine di riformare Vallombrosa, ponendo Giovanni Maria Canigiani a capo della congregazione “eius vita durante” (Cherubini 1722, 12-13; Vasaturo 1973, 124). Il prelato prese ufficialmente possesso del monastero il 28 gennaio, e dette avvio a un generalato discutibile, ricordato principalmente per la mala gestione della Congregazione. Già il 3 agosto dello stesso 1515, Leone X dette autorità all’abate di alienare vari beni del monastero per pagare alcune pensioni accordate ai cardinali Grimano, Passerini e Tornabuoni, così come a Giuliano de’Medici. Per tale motivo Canigiani si guadagnò l’ostilità degli stessi suoi confratelli, i quali videro i propri beni svenduti per sovvenzionare perfino i suoi progetti personali (Locatelli 1583, 309-312; Vasaturo 1973, 123-124). Nel 1520 venne poi convocato il capitolo generale della Congregazione a Firenze, nel quale il cardinale Giulio de’Medici, cugino di Leone X, espose il decreto pontificio che stabiliva che la carica di abate di Vallombrosa sarebbe stata perpetua e non più annuale. Questa conferma del Canigiani alla guida del monastero venne accompagnata anche dalla volontà di erigere a Firenze, coi finanziamenti della Congregazione, ben quattro nuovi monasteri femminili (Vasaturo 1973, 125). Giovanni Maria rimase alla guida di Vallombrosa fino al 28 gennaio 1540, riuscendo ad accaparrarsi almeno la metà dei proventi del monastero, quando papa Paolo III Farnese lo nominò vescovo d’Ippona e suffraganeo del vescovo di Pistoia Antonio Pucci (Locatelli 1583, 312; Cherubini 1722, 13; Sala 1929, vol. I, 113-114; Vasaturo 1973, 125). Il nobile prelato non dovette però godere a lungo di tali entrate, egli infatti trovò la morte nella stessa Pistoia il 20 novembre 1541 (BNCF, Collezione Genealogica Passerini, 186, 10; su Giovanni Maria Canigiani si rimanda anche a Locatelli 1583, 309-312).
Lo stemma Canigiani, arricchito dalla mitria e dal pastorale, posto in corrispondenza del San Giovanni Gualberto, richiama dunque la figura di Giovanni Maria, specie se si tiene conto che il ciclo di Piero di Matteo dovette essere realizzato proprio a partire dal 1520, anno in cui il prelato ottenne la carica perpetua di abate di Vallombrosa. La presenza di tale emblema all’interno del Chiostro Grande, luogo in cui vige la più assoluta clausura, potrebbe trovare più di una motivazione. Le cronache del tempo ci ricordano come il Canigiani fosse assai munifico nei confronti delle diverse istituzioni religiose affini alla Congregazione vallombrosana, e ciò potrebbe essere vero anche per la Certosa, anche in virtù dei possedimenti di famiglia nelle sue immediate vicinanze (Locatelli 1583, 309-312; Cherubini 1722, 13). Altra spiegazione, forse la più percorribile, è da ricercare nella rete di amicizie politiche intrattenute dal prelato. Giovanni Maria e la sua famiglia godevano in quegli anni del supporto dei Medici e quest’ultimi ebbero fitti legami col monastero di Monte Santo, soprattutto attraverso la figura di Ottaviano de’Medici. Questo, di dichiarate simpatie savonaroliane come il Canigiani (Assonitis 2019, 18, nota 7), e dunque vicino alla religiosità diffusa alla Certosa, fece probabilmente da tramite tra i monaci e Pontormo, essendo suo patrocinatore almeno dal 1519 (Costamagna 1994, 42-44; si veda inoltre Bracciante 1984 e Paolozzi Strozzi 2000 per i rapporti tra Ottaviano de’Medici e Pontormo). Sempre grazie a Ottaviano, il giovane Giorgio Vasari, divenuto nel frattempo suo protetto, ottenne l’accesso al claustrum per ricopiare e studiare quegli affreschi (Paolozzi Strozzi 1996, 37). Tale intrusione nella vita certosina ben fa comprendere il potere e l’influenza che la famiglia medicea aveva sul monastero e potrebbe anche spiegare la presenza di uno stemma amico come quello dei Canigiani. I libri contabili del monastero, a causa delle molteplici lacune a cui sono andati incontro, non serbano purtroppo traccia di alcun intervento diretto del Canigiani, il cui coinvolgimento pare però evidente.
Tra i parenti prossimi di Giovanni Maria Canigiani, il già citato albero genealogico conservato del Fondo Passerini (BNCF, Collezione Genealogica Passerini, 186, 10), mostra l’esistenza di uno zio paterno, di nome Alberto, ricordato col semplice appellativo di “frate”. Alberto Canigiani, nato il 16 dicembre 1446, avrebbe avuto all’epoca settantaquattro anni e la sua data di morte non viene riportata. Nulla però sappiamo circa il suo ordine d’appartenenza e per questo non è possibile avvicinarlo al ciclo certosino. L’intervento pittorico si deve probabilmente a un’iniziativa personale del prelato. Oltre infatti a mancare lo stemma di Vallombrosa, i libri contrabili della Congregazione non paiono serbare traccia di contatti intrattenuti con la Certosa (ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 260, n. 144, “Alfabeto di tutti li vocaboli, o nome de’beni nel presente libro del generale Canigiano detto Ricordanze segnato A in materia di alienazioni, vendite, con distrazioni di quelli e di altri simili atti dall’anno MDXV al MDXXXV”; ASF, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese 260, serie Amministrazioni e decimari, n. 87, “Entrate e uscite del Padre Canigiani”; n. 102, “Ricordanze al tempo del generale Canigiano”). Lo stile stesso delle pitture di Piero di Matteo, vicino agli esempi della Scuola di San Marco, può essere visto come un indizio del coinvolgimento del nobile religioso, specie se si considera che Giovanni Maria e Fra Bartolomeo avevano vissuto negli stessi anni nel monastero domenicano fiorentino (Assonitis 2019, 20-21).
Sopra la porta “H”, a terminare questo lato del chiostro, troviamo Sant’Ugo di Grenoble [Fig. 15], collocato proprio innanzi la galleria di Nord-Est. Ugo, benché non fosse un vero e proprio seguace di San Bruno, emerge come uno dei protagonisti della fondazione dell’Ordine. Nel 1084 fu lui infatti a indicare al padre dei certosini e ai suoi seguaci il luogo in cui potersi ritirare e dare originale al primo nucleo della Grande Chartreuse. Egli inoltre, nel 1101, decise di stabilirsi sullo stesso massiccio di Certosa, fondando l’Ordine eremitico di Chalais (su Ugo di Grenoble si veda: Morozzo 1681, 62; Du Boys 1837, 68-78, 240-242; Richard, Giraud 1832-1839, vol. XIX, 397-398; Bibliotheca Sanctorum 1861-2013, vol. XII, coll. 759-763; Wallis 1991, 25-26; sull’Ordine di Chalais si rimanda a Excoffon 1997). In questo sovrapporta si conserva intatta anche la tabella sommitale, in cui è possibile leggere “HUGO GRANOPOLITANO EPUS”, rafforzata dalla presenza della consueta scritta all’interno della lunetta, “VESCOVO GRENOBLI”. Ugo è riconoscibile dal saio bianco, fitto di incisioni sull’intonaco che dovevano contribuire alla plasticità delle sue pieghe, ed è accompagnato da un libro, dalla mitria episcopale e dal pastorale.
Il lato successivo del Chiostro Grande, quello di Nord-Est, è inaugurato da una porta senza alcuna lettera distintiva, sopra la quale è ritratto San Benedetto da Norcia [Fig. 16]. La sequenza alfabetica, frutto di un intervento successivo alla realizzazione del ciclo, ignora questo ingresso perché non conduce ad alcuna cella. Oltre questa porta si trova infatti una scala che immette al piano interrato, posto sotto il chiostro. Tale soluzione è evidentemente dovuta a lavori effettuati dopo l’erezione delle celle, i quali devono aver spostato l’ingresso della stessa sul corridoio risultante dall’incrocio di questa e della precedente galleria, segnandolo con la letta “I”. La lunetta col santo, particolarmente abrasa e recante i segni di una infiltrazione d’acqua proveniente dal tetto, mostra la tabella sommitale in cui è ancora possibile leggere parte del titulus: “S. BENEDETUS” seguito da una parola che pare volutamente cancellata (forse “ABBAS”). Nella decifrazione non ci aiuta nemmeno la scritta più recente che riporta un immediato “S. BENEDETTO”. Il santo è rappresentato frontalmente, col saio bianco dei benedettini, canuto e con la barba lunga. Porta l’indice della mano sinistra alla bocca intimando il silenzio, mentre con la destra regge la verga col quale aveva corretto il monaco dissipato. Benedetto è qui ritratto non solo per essere il fondatore dell’ordine che da lui prende il nome, ma anche perché dovette trascorrere parte della sua vita come eremita, presso Subiaco (Gregorii Magni 593-594, ed. 1866, coll. 128-130).
Segue, sulla cella “M”, il Beato Pietro Petroni [Fig. 17]. Il nome del venerabile, un tempo posto sulla tabella sommitale, è riportato nel sottarco: “PETRONIUS SENESIS”. Pietro, entrato appena diciottenne nella comunità certosina di Maggiano, fondata pochi anni innanzi dal cardiale Riccardo Petroni suo parente, visse in odore di santità. Celebre rimane la sua decisione di privarsi dell’indice della mano destra per non essere nominato sacerdote e dir messa, preferendo rimanere un semplice monaco (sul Beato Pietro Petroni si veda: Scala 1619, 15-27; Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. X, coll. 511-513; Wallis 1991, 21). Egli ebbe in vita il dono della preveggenza, vaticinando la data della propria morte e quella di alcuni dei personaggi più celebri della propria epoca: a Giovanni Boccaccio e a Francesco Petrarca profetizzò un’imminente dipartita se non avessero rinunciato alla lirica profana (Petrarca 1361-1374, ed. 1892, vol. I, “5”, 34-35, dalla lettera a Giovanni Boccaccio del 28 maggio 1362). Il beato Pietro Petroni è quei raffigurato con l’abito certosino, mentre impugna il bastone degli eremiti e regge un teschio umano.
La pittura successiva, posta sopra l’ingresso al caseggiato “N”, venne concepita in una maniera totalmente aliena dalla consuetudine compositiva del ciclo. Vi è qui raffigurato un santo che in vita non praticò mai l’eremitismo, né fondò un ordine religioso, ma che fu elevato a titolare della Certosa: San Lorenzo [Fig. 18]. Il martire, raffigurato durante il tormento della graticola, fu ritratto in tale maniera a causa della preesistenza di un peduccio in pietra serena che ha compromesso irrimediabilmente lo spazio pittorico. Lorenzo è così immaginato con un perizoma violaceo, il busto leggermente sollevato e le mani giunte in preghiera. Il peduccio non ha permesso ovviamente nemmeno l’inserimento della tabella sommitale col titolo, lasciando all’iconografia il compito del riconoscimento dell’effigiato. Nonostante la chiarezza del soggetto, anche qui fu aggiunto lungo il sottarco, in rosso e in lingua latina, un esplicativo “S. LAURENTIUS MARTIR”. La lunetta, posta al centro della propria galleria di riferimento, si trova idealmente allineata col corridoio che collega il Chiostro Piccolo al Chiostro Grande, e dunque con l’accesso stesso al rettangolo delle celle. Questa direttrice visiva avrebbe permesso ai monaci, di ritorno ai propri alloggi, di meditare sulla figura e sul sacrificio del santo titolare della Certosa. La grandezza contenuta della pittura, unita all’ampiezza del claustrum, non rendevano però immediata questa visione, col risultato che nel novembre 1525, forse per ovviare a tale problema, fu richiesto ad Agnolo Bronzino una pittura di analogo soggetto (1525-1526), da realizzare sopra il portale d’accesso al Chiostro Grande (la pittura, a mezzo fresco, venne completamente ridipinta nel XIX secolo da Giacomo Bertazzoni per rimediare al pessimo stato conservativo in cui verteva. Si veda Chiarelli, Leoncini 1982, 286, n. 195; Pilliod 1992, 78; Bietti 1996, 84) [Fig. 19]. L’affresco di Piero di Matteo si presenta oggi in pessime condizioni conservative, ridotto a essere quasi un’ombra rispetto allo stato originario, con vari elementi perduti per sempre, come la graticola, il volto del santo e parte delle gambe.
Di questa lunetta è stato possibile rintracciare, presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, un disegno a matita rossa su carta bianca, identificabile come uno studio preparatorio per la realizzazione pittorica della composizione [Fig. 20]. Il foglio (Gallerie degli Uffizi – Gabinetto dei Disegni e delle Stampe – Inv. 17819F), grande attualmente 358 x 213 mm, privato dei margini originali e degli angoli sommitali, ci presenta il santo completamente nudo, semidisteso su una graticola appena abbozzata e collocato all’interno di una lunetta. Il perimetro di quest’ultima, più volte tracciato, è nettamente interrotto da dei segni verticali, posti a segnalare la preesistenza del peduccio a sostegno della volta della galleria. Questi dati, assieme ai numerosi ripensamenti, visibili soprattutto in corrispondenza delle gambe e del braccio sinistro, e delle linee che simulano un ipotetico perizoma, fanno propendere per assegnare a questo foglio il ruolo di studio preparatorio per il Martirio di San Lorenzo di Piero di Matteo (sul disegno preparatorio per il Martirio di San Lorenzo si veda: Berenson 1903, vol. II, 162, n. 2439; Clapp 1914, 288-289; Kusenberg 1930; Berenson 1938, vol. II, 63, n. 604A; Smyth 1949, 186, nota 20; Emiliani 1960, 60-61; Cox-Rearick 1964, vol. I, 391, n. 175A; Petrioli Tofani 1992, 317-318; Petrioli Tofani 2014, vol. III, 1095-1096; segnalo poi D. Sanchini, Un disegno di Piero di Matteo per la decorazione del Chiostro Grande della Certosa di Firenze, “Contesti d’Arte”, 3, in corso di stampa [2023]).
Sopra la porta successiva, segnata “O”, troviamo raffigurato il Beato Guglielmo da Fenoglio [Fig. 21]. Il soggetto di tale lunetta è di difficile lettura a causa dell’alto degrado della superficie pittorica. Il monaco, dall’aspetto quasi spettrale, è identificabile grazie alla scritta posta sul sottarco, “B. GUGLIELMO DA FENOGLIO”, poiché il suo attributo canonico, la zampa di mulo che impugna, appare nelle condizioni attuali più simile a un bastone. Guglielmo da Fenoglio, tra i fondatori della Certosa di Casotto, non fu mai un vero e proprio certosino, ma preferì trascorrere la vita come frate converso, diventando il protettore di quest’ultimi una volta elevato agli onori degli altari. Il beato, incappucciato e con una lunga barba, volge lo sguardo alla sua sinistra, indicando la zampa che tiene con sé. Tale attributo richiama un episodio cardine della vita di Guglielmo il quale, mentre si stava adoperando per rifornire di viveri il proprio monastero, venne aggredito da un gruppo di briganti. Il beato, non avendo nulla con cui difendersi, afferrò la zampa del povero mulo suo compagno e, troncandogliela di netto, l’agitò contro gli assalitori mettendoli in fuga. Guglielmo, a questo punto, risistemò miracolosamente l’arto all’animale che poté proseguire il cammino, come se nulla fosse accaduto (sul Beato Guglielmo da Fenoglio: Molin 1903-1906, vol. I, 258-259; Bacchi 1930, 134; Amedeo 1966, 86-87; Kaftal 1985, coll. 665-666, n. 244).
Arrivati a questo punto, il ciclo dovrebbe continuare, sopra la cella “P”, con la raffigurazione di San Paolo eremita [Fig. 22]. La lunetta, staccata dalla parete attorno agli anni Ottanta del secolo scorso, fu riparata all’interno della sua stessa cella, e venne collocata sopra una porta laterale dove è conservata ancora oggi. La pittura mostra chiaramente una mancanza, nella parte alta, dovuta alla preesistenza di un peduccio, mentre non si è conservata una delle due volute laterali, né la parte sommitale. L’opera è in pessime condizioni conservative e non sembra essere stata realizzata, o non si è conservata, la scritta esplicativa lungo il sottarco. Piero di Matteo ha qui ritratto di profilo, contravvenendo alla consueta rappresentazione frontale del ciclo, un uomo anziano dai radi capelli e della lunga barba bianca, mentre si sorregge grazie al bastone degli eremiti. L’avanzato degrado della superficie pittorica non permette di comprendere se l’attenzione del venerabile fosse rivolta verso qualcosa postogli innanzi, zona che, per l’equilibrio compositivo della scena, ben si prestava a essere dipinta. Generalmente raffigurato vestito con una tunica ottenuta dall’intreccio di foglie di palma (Kaftal 1952, coll. 789-792, n. 231), il santo è qui immaginato con indosso un abito monacale bianco. Paolo di Tebe, considerato il primo eremita della storia cristiana, dette il nome, nell’Ungheria del XII secolo, all’Ordine di San Paolo eremita, i cui monaci vestono il saio bianco proprio come i certosini (Annibali 1796, vol. II, 171-172.). Egli è inoltre citato nelle Consuetudines di Guigo come esempio virtuoso di solitudine che dà forza alla preghiera e alla contemplazione (Guigonis, 1121-1128, ed. 2018, cap. LXXX, n. 11, 66).
Il lato successivo del chiostro, quello rivolto verso Sud- Est, viene inaugurato dal San Romualdo ritratto sopra la cella “Q” [Fig. 23]. Romualdo, padre dei monaci camaldolesi, tradizionalmente è considerato l’uomo che visse più tempo come asceta, dedicandosi per circa novantasette anni alla pratica eremitica (Petri Damiani 1142, ed. 1957, 112-113). Lungo il sottarco della lunetta è presente la solita scritta identificativa, “S. ROMUALDO”, mentre le pessime condizioni della pittura ci mostrano un uomo il cui viso è quasi del tutto scomparso, caratterizzato da barba lunga e da un’estesa calvizie. Veste il classico saio bianco dei camaldolesi e regge un modello dell’antico eremo casentinese da lui fondato, intanto che fa passare per le mani i grani di un rosario. Romualdo è leggermente spostato a sinistra, a causa di un peduccio che termina all’altezza della fronte e, per ovviare al vuoto così creatosi, è stato immaginato con a fianco un calice con due colombe che vi si abbeverano. Questo motivo rimanda alla visione che egli ebbe di alcuni confratelli, vestiti di bianco, che ascendevano al Cielo tramite una scala. In quel punto degli Appennini venne così deciso di fondare l’eremo e il monastero di Camaldoli, due strutture differenti ma poste sotto il segno di Cristo. Tali fondazioni, ovvero la vita attiva e comunitaria e quella contemplativa ed eremitica dei camaldolesi, vennero poi espresse, a livello simbolico, nelle due colombe che si abbeverano alla stessa sorgente: il calice col sangue del Redentore (Kaftal 1952, coll. 896-902, n. 272).
Segue sulla porta “R” la lunetta dedicata al Beato Giovanni spagnolo [Fig. 24]. Il venerabile certosino è raffigurato coi consueti abiti dell’ordine, in contemplazione del crocifisso, mentre regge un volume dalla coperta bruna. Gli elementi presenti non sono sufficienti a identificare con precisione il personaggio, il quale doveva essere ben dichiarato dalla tabella sommitale. In essa si riesce infatti ancora oggi a leggere, a fatica, “[HIS]PANUS”, titolo poi riportato nel sottarco come “B. GIOVANNI SPAGNOLO”. Il santo di origine iberica fu dedito all’eremitismo già prima dell’ingresso nella comunità certosina. Entrato a far parte del monastero di Montrieux, col tempo ne divenne priore per poi passare alla Grande Chartreuse. Da qui si mosse verso l’Alta Savoia, dove fondò la Certosa di Le Reposoir, ma la sua fama si deve anche all’aver redatto, su invito di Sant’Antelmo, il primo statuo delle monache certosine (Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. VI, col. 907; Wallis 1991, 15, n. 36).
Sant’Antonio Abate [Fig. 25], padre del monachesimo cristiano, è invece effigiato sopra l’ingresso del caseggiato “S”. La lunetta risulta assai abrasa, col celebre maialino e diversi dettagli completamente svaniti, come la mano che un tempo sfogliava le pagine del volume, oggi individuabile solo per l’alternanza cromatica con la tunica bianca sottostante. Antonio Abate ha la testa leggermente inclinata, per evitare la mensola di un peduccio, e rivolge lo sguardo a coloro che transitano lungo la galleria. Il maialino è invece posizionato alla sua sinistra, dove l’impronta bruna individuabile sull’intonaco ci permette di immaginare la testa dell’animale intento a osservare il padrone. Il protettore degli animali porta la barba lunga e il saio bianco con la caratteristica cappa scura che qui, per l’alterazione dei pigmenti, si presenta con una tonalità rossastra. Il santo è da sempre considerato il padre fondatore delle comunità eremitiche d’Egitto, dalle quali discendono le laure della Palestina, antichi villaggi autosufficienti in cui si praticava l’ascetismo, che avevano ispirato San Bruno per il proprio stile di vita (Pincherle, Corso 1929). Antonio è universalmente riconosciuto anche come il patrono degli animali domestici e ciò ben si accorda con i bisogni dei certosini (Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. II, coll. 114-121). Pur non potendosi cibare di carne, i religiosi di Monte Santo necessitavano della forza lavoro animale all’interno delle proprie grange, le celebri fattorie sottoposte alla Certosa. Ecco dunque che cavalli, muli e buoi erano di fondamentale importanza per la sopravvivenza stessa della comunità monastica (sulle grange della Certosa di Firenze si veda: Leoncini 1991).
Percorrendo la galleria troviamo poi Sant’Ugo di Lincoln affrescato sopra la porta “T” [Fig. 26]. Ugo di Avalon fu un nobile borgognone che decise di divenire certosino ed entrare nella Grande Certosa, della quale, col tempo, divenne procuratore. Entrato in contatto con Enrico II d’Inghilterra, fu chiamato in Britannia a reggere la regia Certosa di Witham. Il monaco, distintosi particolarmente per il suo operato, fu infine elevato a vescovo di Lincoln il 21 settembre 1186, dando avvio a un periodo aureo per quella diocesi, segnato dalla protezione accordata a bambini, ebrei e lebbrosi (su Ugo di Lincoln si veda: Morozzo 1681, 46, 165-166; Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. XII, coll. 756-757; Wallis 1991, 25). La lunetta, oggi alquanto compromessa, mostra “S. UGO DI LINCOLN” attorniato da molteplici dei suoi attributi, i quali rendono questa pittura tra le più interessanti del ciclo. Vi sono il pastorale e la mitria, ovvi rimandi al suo ruolo episcopale, così come canonica è la presenza del libro. Il santo, raffigurato con indosso l’abito certosino, regge un calice eucaristico da cui spunta la figura di Gesù Bambino (Kaftal 1985, coll. 353-354, n. 119). Questo elemento rievoca la visione che egli ebbe durante la celebrazione di una messa, nella quale vide apparire Cristo Infante all’interno del calice nel momento della consacrazione del vino (Thurston 1898, 340-356). La presenza più curiosa è però quella del bianco cigno, compagno immancabile nelle rappresentazioni del santo. L’animale gli fu donato dagli abitanti del maniero di Stow, il giorno della sua consacrazione a vescovo, e questo divenne subito legatissimo al suo padrone, inseparabile, tanto da dormire nella sua stessa camera (Ivi, pp. 141-147).
La lunetta successiva, segnata “V”, è in condizioni conservative drammatiche, più larva che pittura, col santo ritratto quasi totalmente svanito. Dai pochi lacerti di pittura a mezzo fresco rimasti, si intuisce la fisionomia d’un uomo anziano, con capelli e probabilmente barba, vestito con una tunica rossa aperta sul petto, che la scritta del sottarco identifica come “S. GIROLAMO” [Fig. 27]. Il San Girolamo di Piero di Matteo ha la testa indirizzata verso il basso, a contemplare la croce che regge in mano, intuibile solamente grazie all’alternanza cromatica con la veste. Sulla destra della composizione, una macchia rossastra può essere identificata come il galero cardinalizio del Dottore della Chiesa ma paiono mancare, rispetto alle tradizionali raffigurazioni, il fido leone e il sasso con cui si percuoteva il petto (Kaftal 1952, coll. 521-536, n. 158). La presenza di quest’ultimo è ipotizzabile nella mano scomparsa, mentre non vi è traccia alcuna dell’animale, il quale poteva però figurare nello spazio ora vuoto alla destra del santo. La presenza di Girolamo sui sovrapporta non è solo da imputare alla vita eremitica che conduceva presso la grotta di Betlemme, ma anche alla sua fama di dotto e di letterato. Quest’ultima, in particolare, doveva avere carattere di exemplum per i certosini in quanto, come prescritto dalle Consuetudines, nella solitudine delle loro celle avevano l’obbligo di svolgere l’attività di copiatura, potendo avere in prestito fino a due libri dalla biblioteca monastica (Guigonis 1121-1128, ed. 2018, cap. XXVIII, nn. 1-6, 39-40).
Questo lato del chiostro si conclude con la cella “X”, sulla quale è rappresentato un altro Dottore della Chiesa: Sant’Ambrogio [Fig. 28]. Il vescovo di Milano è vestito di tutto punto – spicca il piviale coi suoi toni verdi, gialli e rossi –, con il pastorale e un libro indirizzato verso il passante, un tempo recitante un qualche passo evangelico, mentre con la mano destra agita il flagello suo attributo (Kaftal 1952, coll. 21-30, n. 12). La presenza di “S. AMBROGIO” in questo ciclo non è motivata dall’avere praticato l’eremitismo, ma principalmente per il titolo di Dottore della Chiesa. Com’è facile immaginare, la biblioteca della Certosa possedeva numerose opere di Ambrogio, tra cui il De Officiis ministrorum, rivolto in particolare al clero e improntato sulla morale e sull’ascetismo (Gargan 2012, 68).
Per quanto le celle dei monaci siano disposte su tre dei quattro lati del Chiostro Grande, ve n’è una che, per motivi di spazio, ha l’ingresso agganciato al lato Sud-Ovest. L’ultima lunetta realizzata da Piero di Matteo è dunque anche l’unica posizionata in tale galleria, posta proprio all’angolo tra i due loggiati. La cella “Y” venne così adornata dalla raffigurazione di un’ulteriore Dottore della Chiesa: San Gregorio Magno [Fig. 29]. Papa Gregorio, abbigliato con i paramenti pontifici, col triregno e il pastorale, sta seduto allo scrittoio, pronto a tracciare con piuma d’oca e calamaio le parole dettategli dallo Spirito Santo. La sua presenza non è solo da imputare al rango di Dottore della Chiesa ma anche per la considerazione che egli ebbe degli asceti. San Gregorio, nei suoi celebri Dialoghi, considerava i santi del proprio tempo forse superiori a quelli del passato, elencando tra costoro non solo i monaci e gli abati, ma anche gli eremiti (Gregorii Magni 593-594, ed. 1862; Bibliotheca Sanctorum 1961-2013, vol. VII, coll. 267-268).
Con quest’ultima lunetta termina così il ciclo di Piero di Matteo, ma sorprende come a figurare sui sovrapporta siano solo tre Dottori della Chiesa. Non pare infatti essere stato mai dipinto Sant’Agostino. È improbabile che il santo di Ippona sia stato ritratto in altre parti del chiostro, poiché i Dottori effigiati sono stati posti uno di seguito all’altro e difficilmente questa successione sarebbe stata interrotta. Agostino non può essere stato rappresentato sulle porte “I” e “L” del corridoio cieco, ed è inimmaginabile che fosse stato dipinto sulla cella del priore, dove è plausibile l’esistenza, ab origine, di un soggetto cristologico, né sulla porta “C”, dove è evidente che il soggetto iniziale fosse di ben altra natura. Dobbiamo dunque supporre che la lunetta con Sant’Agostino non fu mai realizzata (diversamente dal ciclo di Giovanni della Robbia dove compaiono i busti di tutti e quattro i Dottori della Chiesa).
Il contratto siglato tra Piero di Matteo e i monaci prevedeva, oltra alla realizzazione dei sovrapporta, la decorazione degli archi del loggiato, per i quali l’artista doveva rifarsi a precedenti pitture già eseguite nell’arcata in corrispondenza dell’accesso al chiostro. Il pittore riuscì qui a impiegare una gran varietà di soggetti e composizioni, dando prova del proprio estro decorativo. Queste sono state però in larghissima parte restaurate nel corso dell’Ottocento, se non addirittura rifatte da zero come nel caso dello sfortunato lato “del bosco”, quello di Nord-Ovest, crollato in seguito al terremoto del 1895 (Cioppi 1995, 171-173, 194, 207). Come è visibile dalle decorazioni superstiti, esse furono eseguite in base a criteri di alternanza e simmetria, impostando moduli che si ripresentano con leggere variazioni lungo tutto il chiostro. Nonostante le evidenti ridipinture, il lato che meglio si presta a essere analizzato è quello collegato direttamente al Chiostro Piccolo (Sud-Ovest). La muratura di rinfianco tra arco e arco è decorata principalmente da motivi fitomorfi, mentre l’ornamentazione dell’estradosso è caratterizzata da ovoli, dardi e un doppio giro di astragalo. I tondi in pietra serena, ideali assi di simmetria, sono anch’essi contemplati dalla decorazione, venendo sottolineati da una cornice circolare che riprende la pigmentazione accordata alle parti in finta pietra. La gamma cromatica qui impiegata, così come quelle dei sottarchi, presenta tonalità terrose, tendenti al grigio, al rosso e all’ocra, le stesse utilizzate quasi vent’anni prima nella decorazione interna della chiesa. Cornucopie, girali fitomorfi ed elementi fogliacei che assumono sembianze ferine dovevano dunque caratterizzare l’aspetto esteriore del Chiostro Grande [Figg. 30-31-32]. L’uso di tali elementi doveva in qualche modo variare all’interno dello stesso chiostro, venendo interpretati in modi differenti al mutare delle gallerie. Ciò non è purtroppo riscontrabile per i due lati maggiori, oggi purtroppo non conservati e ridipinti a imitazione di quelli superstiti – non possiamo considerare i rifacimenti del lato Sud-Est, poiché paiono avere ripreso e applicato arbitrariamente i motivi del primo lato –, ma è ben evidente nel lato di Nord-Est, popolato dalle sante di Giovanni della Robbia [Figg. 33-34-35]. Possiamo qui infatti osservare, per quanto più deteriorate, le medesime tipologie decorative declinate in maniera differente e forse anche con maggiore articolazione. La successione dei vari ornamenti non sembra corrispondere a un particolare ordine o a specifiche corrispondenze, né coi sovrapporta e neppure con i busti robbiani. Quest’ultimi, inseriti nei tondi nel 1523, generano con le pitture un importante effetto decorativo che pare ricercato e non certo casuale, facendoci ipotizzare che la loro presenza fosse contemplata sin dall’inizio della campagna decorativa del Chiostro Grande.
La parte più caratteristica di queste pitture è però quella realizzata negli intradossi delle arcate. Piero di Matteo ha qui inserito una gran quantità di motivi decorativi, tra cui elementi vegetali, candelabre e creature dal gusto classico, motivi affini a quelli utilizzati nel fregio chiesastico. Come per le murature esterne, anche queste sono sopravvissute per la maggior parte lungo il lato di Sud-Ovest, e come quelle furono ridipinte e reintegrate (nel lato di Nord-Ovest e Nord-Est si presentano completamente rifatte, mentre nel versante Sud-Est invece, per quanto ridipinte e lacunose, mostrano una varietà compositiva paragonabile al lato meglio conservato). La decorazione dei sottarchi si presenta quadripartita, con tondi floreali che separano i vari segmenti, comparendo ammezzati in corrispondenza dell’imposta dell’arcata. Gli elementi qui presenti paiono svincolati dal contesto che li circonda, all’infuori delle tre campate centrali. L’arcata di mezzo, probabilmente la prima a essere realizzata e citata dal contratto del 1520, è quella che permette l’accesso al prato e al rettangolo cimiteriale. Questa presenta una decorazione composta da un basamento su cui si innesta la testa di un cherubino di gusto archeologico, che regge il simbolo della Certosa: il monte Golgota con la croce e gli strumenti della Passione [Fig. 36]. L’arco in questione, il primo che si presentava alla vista del certosino che entrava nel Chiostro Grande, inquadra immediatamente la Galilea, intesa come luogo di contemplazione e preghiera. Specifici ornamenti sono realizzati anche nelle arcate che affiancano l’apertura centrale. Queste due, poste davanti al rettangolo cimiteriale, mostrano decorazioni paragonabili a una sorta di memento mori, che ben segnalato ciò che vi si apre innanzi. Rivolto verso le sepolture di laici e monaci vi è infatti un teschio umano, incluso in una sorta di plinto con motivi fogliacei che sta alla base del leone rampante degli Acciaiuoli con la “N” di Niccolò, fondatore della Certosa [Fig. 37]. I restanti archi del loggiato presentano poi motivi di tutt’altro genere, riproponendo talvolta anche gli ornati appena analizzati, senza però avere un particolare legame con l’ambiente. Notiamo così decorazioni fitomorfe inframmezzate a spighe di grano o a volti di umana memoria, ceste di frutta e motivi fogliacei su candelabre, fino a riconoscere motivi antichizzanti quali vasi, aquile e creature simili a cherubini [Figg. da 38 a 43].
Il Chiostro Grande, specie dopo i successivi interventi di Giovanni della Robbia e di Pontormo, assunse il carattere di un vero e proprio conciliabolo di santi e beati. Questo insieme di venerabili aveva come obiettivo quello di permettere ai monaci una migliore riflessione su Cristo e sui suoi insegnamenti, al fine di stimolare la preghiera e la riflessione. Le lunette, come il ciclo pontormesco, assumono così un ruolo di fulcro visivo, impossibile da ignorare per i religiosi che si spostavano verso le restanti aule del monastero, un confronto obbligato e una ispirazione perenne per i certosini di Monte Santo.
L’attività di Piero di Matteo di Piero di Giovanni di Ser Martello si caratterizza in tal maniera per essere l’intervento più ampio apportato al Chiostro Grande all’indomani della sua erezione. La scelta dei monaci di ricorrere a tale maestro, il cui lavoro sarebbe stato a breve affiancato da quelli di artisti di ben più ampia e chiara fama, ci permette di ripensare alla sua reale grandezza artistica. Non più solo un “decoratore”, ma un pittore capace di realizzare opere dall’alto rigore spirituale e morale, la cui valorizzazione potrebbe contribuire alla riscoperta di tale personalità.
Il contributo prende le mosse da un capitolo, rivisto e ampliato, della mia tesi di laurea magistrale, incentrata sul Chiostro Grande della Certosa di Firenze. Colgo per questo l’occasione per ringraziare con affetto il professore Gabriele Fattorini che per anni mi ha seguito e incentivato nei miei studi, così come il dott. Hayato Arikawa per avermi aiutato nella decifrazione del testamento di Piero di Matteo. Un ringraziamento speciale va inoltre agli amici della Certosa che in questi anni mi hanno permesso, più e più volte, di visitare e studiare questo meraviglioso monumento.
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Sitografia
During the XV century, the Florentine Certosa was greatly restored and the Great Cloister with the monks’ cells, heart of the eremitic part of the monastery, were completely rebuilt. In 1520, Carthusian monks required to the painter Piero di Matteo di Ser Martello, the artist otherwise unknown, a lunettes cycle focused on Carthusian and eremitic saints. Piero di Matteo also undertook to realize a series of ornamental paintings for the external part of the loggias. The larger part of this decorative campaign is now lost, and the remaining ones are in poor conditions, but the rediscovery of a preparatory drawing and the recognition of the coat of arms of Giovanni Maria Canigiani abbot of Vallombrosa, on the lunette of St. Johan Gualbert, allows us to understand better the genesis of these paintings. The reading of his will, and the revaluation of his works, allows us to comprehend the figure of this artist, greatly appreciated by the monks of Monte Santo. Piero di Matteo’s paintings would later be complemented by the works of Pontormo, Bronzino and the workshop of Giovanni della Robbia, creating a perfect environment for the prayers and the meditation of the monks. The painter work is the most extensive intervention made to the Great Cloister in the aftermath of its erection. The Carthusians choice to engage him, whose paintings would soon be joined by those artists of far greater and clearer renown, allows us to reconsider his real artistic greatness. No longer just a “decorator”, but a painter capable of realizing works of high spiritual and moral rigor, the appreciation of which could contribute to the rediscovery of such a personality.
keywords | Florentine Charthouse; Piero di Matteo; Great Cloister; Giovanni Maria Canigiani; Bronzino; Pontormo; Giovanni della Robbia; renaissance frescos.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Danilo Sanchini, Un ciclo di lunette per il Chiostro Grande della Certosa di Firenze. Piero di Matteo, un conciliabolo di santi eremiti e Giovanni Maria Canigiani abate di Vallombrosa, “La Rivista di Engramma” n. 207, dicembre 2023, pp. 175-210. | PDF