“La storia siamo noi”
Moda e cultura popolare in Annarella ‘benemerita soubrette’
Alessandra Vaccari
English abstract
Soffocherai tra gli stilisti
imprecherai tra i progressisti
CCCP – Fedeli alla linea, Maciste contro tutti
“Senz’altro l’abito”
“Era il 4 maggio 1984 quando al Tarantola di Reggio Emilia andò in scena la sfilata di moda filosovietica e nello stesso mese usciva Ortodossia, il 45 giri d’esordio dei CCCP – Fedeli alla linea” (Giudici 2014). Con queste parole Annarella (Antonella) Giudici ricorda il momento in cui gli abiti, la moda e la sfilata diventano parte integrante del progetto musicale del gruppo punk emiliano, segnando un nuovo corso della loro estetica. Umberto Negri, bassista e co-fondatore del gruppo, ha a sua volta ricordato come gli inizi fossero stati visivamente caratterizzati da una “presenza scenica molto fredda, dura, in cui c’era [Giovanni Lindo] Ferretti che cantava, noi [Massimo Zamboni e Umberto Negri] che suonavamo. Non c’era niente di spettacolare” (Negri 2007). C’è quindi accordo nel sostenere che la componente spettacolare – grazie all’inclusione nel gruppo dei performer Danilo Fatur ‘artista del popolo’ e di Annarella Giudici ‘benemerita soubrette’ – caratterizzi il periodo di attività dei CCCP tra il 1984 e il loro scioglimento, nel 1990.
Le parole di Giudici, citate in apertura, sono state pronunciate nel trentesimo anniversario della sfilata filosovietica, il 4 maggio 2014, in occasione della presentazione del libro Annarella benemerita soubrette. CCCP – Fedeli alla linea e della mostra omonima, curata da Giudici e dalla sarta teatrale Rossana Tagliati allo Spazio Gerra di Reggio Emilia (2 maggio/15 giugno 2014). Il titolo della mostra fa riferimento al personaggio o, meglio, alla fantasmagoria di personaggi incarnati da Giudici nei panni di ‘benemerita soubrette’. “Senz’altro l’abito”, sottotitolo della mostra e argomento di questo contributo, è invece una citazione tratta da un testo di Giudici, così come l’espressione “La storia siamo noi” (Giudici 1999, 23), scelta qui come titolo.
Analizzando fonti visive e materiali d’archivio presentati nella mostra del 2014 e nella più recente “Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024” (Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro, 12 ottobre 2023/10 marzo 2024), il contributo considera l’approccio all’abito di Giudici nelle sue reti di relazione con la depoliticizzazione delle sottoculture e il neoliberismo della moda italiana degli anni Ottanta. Nel riflettere storicamente su tale esperienza, il desiderio è di fornire spunti di riflessione utili a comprendere il riemergere nel XXI secolo di impulsi critici all’elitismo culturale e il ritorno di ideologie in tempi di populismi culturali (McGuigan 1992; Dei 2020).
Con il termine moda si intende il cambiamento degli abiti nel loro contesto storico, ma anche le modalità in cui le forme e i processi della moda sono alla base della sua indagine. In altre parole, la moda come metodologia. A questo proposito, la teorica della moda Ilya Parkins ha esortato a superare le “antinomie tra approcci teorici ed empirici” (Parkins 2010, 105), suggerendo di considerare l’abito e il fenomeno moda come alleati. “La mediazione materiale delle identità propone implicitamente che le conoscenze non siano fatte da individui, ma da comunità della conoscenza, in modo intersoggettivo” (Parkins 2010, 105). Un guardaroba, quindi, non è mai solo il prodotto di un’estetica individuale: esso incarna ideologie e orientamenti condivisi su genere, etnicità, consumi e concezioni del tempo. Questo anche nel caso di Annarella, il cui lavoro per i CCCP consisteva esattamente nel portare in scena queste ideologie e orientamenti attraverso gli abiti da lei ideati e indossati.
La prima parte del contributo introduce il rapporto tra moda e sottoculture nell’Italia degli anni Ottanta del XX secolo e si concentra sulla sfilata di moda come forma di spettacolo scelta dai CCCP e Giudici in particolare. Le parti successive considerano gli abiti indossati da Giudici rispetto alle temporalità del postmodernismo e alla critica interna della moda al suo sistema. Infine, l’ultima parte inquadra storicamente il suo ruolo di soubrette e modella e riflette sulle questioni di genere implicate attraverso una disamina del concetto di emancipazione femminile. L’obiettivo del lavoro è duplice, da un lato considerare i rapporti finora poco studiati tra i CCCP e la moda; dall’altro – attraverso l’esperienza di Giudici – esaminare le relazioni che coltiviamo con gli abiti, in quanto seducenti e paradossali materiali del contemporaneo.
CCCP e la moda italiana
Con il loro lavoro, i CCCP – Fedeli alla linea hanno esplorato e narrato le profonde trasformazioni dell’Italia tra la fine degli anni di piombo e l’ascesa della moda Made in Italy degli anni Ottanta. Il loro nome era stato scelto dal gruppo per bilanciare il fatto di vivere in un paese come l’Italia che consideravano “troppo filoamericano” (Tacchini 1983), mentre l’idea di essere “fedeli alla linea” nasceva dalla consapevolezza, come hanno affermato, che “una linea non c’è più” (Tacchini 1983). Il linguaggio estetico dei CCCP si è affidato a quell’“inversione o deviazione dei significati ordinari appartenenti a un oggetto” (Hebdige [1979] 2002, 117) tipica del punk. Il gruppo emiliano ha praticato tale tecnica in varie forme, combinando l’immaginario sovietico con i loghi delle multinazionali e delle cooperative della grande distribuzione emiliana, in uno sguardo globale e locale che è un altro elemento caratteristico del gruppo.
“Ci siamo stancati di avere gli occhi abbagliati dalle luci, dalle paillettes, da tutte le storie del mondo occidentale” (Tacchini 1983), dichiarava il cantante e co-fondatore dei CCCP Giovanni Lindo Ferretti in una intervista radiofonica all’inizio della loro carriera. Ma come coesistono socialismo e moda nel loro progetto? Una prima risposta può venire dal Capitale di Karl Marx, secondo il quale la moda è il principio d’azione e la metafora stessa del sistema capitalista occidentale (Marx [1867] 1996). La moda è, di conseguenza, anche un potente simbolo dell’occidente e, in particolare, dell’Europa che ne è stata la culla, secondo alcune posizioni storiografiche. Più in generale, i CCCP hanno rappresentato culture preoccupate per la mutevolezza, come le culture della moda, ovvero – secondo il filosofo Jonathan Dollimore – “culture di transizione in cui tutti i punti fermi sembrano essere stati rimossi” (Dollimore 1998, citato in Evans 2003).
Negli anni di attività dei CCCP i riflettori internazionali sono puntati sulla moda italiana, sul suo nuovo epicentro che è Milano e sul fenomeno degli stilisti. Dalla fine degli anni Settanta, Milano era diventata la città delle sfilate, della fashion week e aveva fatto il suo ingresso tre le capitali globali della moda. Stilisti come Giorgio Armani, Giorgio Correggiari, Gianfranco Ferrè, Krizia (Mariuccia Mandelli), Franco Moschino, Gianni Versace avevano raggiunto una fama mondiale. Si utilizza qui il termine ‘stilista’, invece dell’espressione corrente ‘designer di moda’, per restituire un’esperienza a cui sono stati riconosciuti caratteri specifici nel contesto della cultura italiana del tempo (Stanfill 2014) e anche perché il termine è utilizzato nei testi dei CCCP, come nella citazione posta in esergo a questo contributo, tratta dalla canzone Maciste contro tutti (Epica Etica Etnica Pathos, Virgin, 1989).
L’interesse per la moda va anche inquadrato in quanto evoluzione del discorso sulle sottoculture. Nel 1983 usciva in Italia, con il titolo evocativo di Sottocultura: il fascino di uno stile innaturale, traduzione del testo sul punk londinese di Dick Hebdige, Subculture: The Meaning of Style (1979). Con questo studio, il teorico dei media e sociologo inglese metteva a punto una definizione di stile sottoculturale come un insieme di tratti distintivi capace di esprimere dissenso rispetto alla cosiddetta classe dominante. In termini gramsciani, Hebdige vedeva il punk come espressione culturale subalterna rispetto all’egemonia della classe dominante. Così facendo, lo separava dalla moda, storicamente intesa in quanto espressione materiale e visiva di potere economico e culturale. Si delineava in questo modo una dicotomia tra sottoculture e moda, seppur riconoscendo a quest’ultima, in quanto espressione dell’industria culturale, il potere di diffondere l’immagine delle sottoculture, in un processo di assimilazione della loro immagine e di privazione della loro iniziale carica sovversiva. I Sex Pistols, band nata dal lavoro congiunto del produttore musicale Malcolm McLaren e della designer di moda Vivienne Westwood, è forse l’esempio più celebre dell’assimilazione del punk nei territori della moda. Inoltre, dagli anni Ottanta, le sottoculture hanno direttamente “iniziato a essere ispirate dai designer di alta moda, ma riappropriandosi e rappresentandone gli abiti”, come ha affermato la storica della moda Amy de la Haye (2019, 28-29), co-curatrice della mostra “Street style: From Sidewalk to Catwalk. 1940 to Tomorrow” al Victoria & Albert Museum di Londra (16 novembre 1994/19 febbraio 1995). Analisi più recenti, hanno dimostrato che se le sottoculture sono state progressivamente assorbite dalla moda, in parallelo la moda ha cominciato ad attivare azioni critiche volte a cambiare il modo di pensare la moda stessa e le sue convenzioni (Geczy, Karaminas 2017).
L’interesse dei CCCP per la moda è stato incarnato principalmente dalla figura di Annarella, come si vedrà nelle due prossime sezioni: da un lato svolge un’azione critica nei confronti della moda, mutuandone il linguaggio attraverso meta-sfilate ed evidenziando questioni di genere che soggiacciono alla professione della modella; dall’altro, elabora un guardaroba che si ispira alle mode storiciste degli anni Ottanta, contribuendo con il suo lavoro a precisarle.
Il Černenko Party
Intitolata Černenko Party, la serata al Tarantola del 1984 prevedeva una “parata di moda filosovietica”, oltre ai “CCCP – Fedeli alla linea in concerto” e a proiezioni di “video film diapositive”, come si legge nel volantino d’invito. Il programma evidenzia come l’aspetto extramusicale della serata fosse già a quelle date importante quanto l’aspetto musicale, nonostante le divergenze sottolineate da Negri (Negri 2007) tra la parte dei “dei vestiti, della sfilata di moda” e la parte musicale del gruppo, non esteticamente coinvolta in tale trasformazione.
La grafica del volantino è ispirata all’estetica delle fanzine punk e rimanda alla povertà e immediatezza comunicativa del foglio stampato a ciclostile. Sul fronte del volantino campeggia l’immagine di un cosmonauta dell’Unione sovietica con la scritta CCCP sul casco. In un angolo, c’è il close-up di un occhio, simile a quello del film surrealista Un chien andalou (1929) diretto da Luis Buñuel. Il testo è dattiloscritto e con alcuni caratteri visibilmente cancellati da “xx” sovrapposte. Si tratta di un aforisma inneggiante alla fugacità della vita, preso a prestito, senza indicazione della fonte, dal monaco buddista e samurai Tsunetomo Yamamoto (Yamamoto Jōchō), presumibilmente attraverso la mediazione di Yukio Mishima, il cui testo La via del samurai era stata tradotto in italiano (Mishima [1967] 1983) l’anno prima del Černenko Party.
La riflessione sulla caducità della vita è stata un elemento fondativo anche degli studi sulla moda che si sarebbero sviluppati di lì a poco, negli anni Novanta del XX secolo. Rifacendosi al celebre Dialogo della moda e della morte, scritto nel 1824 da Giacomo Leopardi (Leopardi 1827) e soprattutto a Walter Benjamin (Benjamin [1982] 2000) che cita Leopardi in apertura del suo Konvolut B, il rapido cambiamento dello spettacolo della moda appare come espressione della sua immortalità. Considerando lo sfondo teorico che ha caratterizzato la critica culturale degli ultimi decenni del XX secolo, appare lungimirante l’idea dei CCCP di includere la moda nei loro spettacoli e, in particolare, la sfilata come esplicita manifestazione di quell’eternizzazione dell’istante che era stata teorizzata da Benjamin (Benjamin [1982] 2000).
La “parata di moda filosovietica” porta in scena un assemblaggio non coerente di abiti, inclusi abiti di seconda mano, indossati da modelle non professioniste. Così come tutti possono suonare e formare un gruppo musicale, secondo la pratica del fai da te promossa dal punk, allo stesso modo tutti – in questo caso tutte – possono mettere insieme una collezione e sfilare. Tale pratica liberatoria si scontra tuttavia con il termine ‘parata’, che evoca immaginari di disciplina militare e un contesto politico, quello sovietico, che aveva rifiutato la moda. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, la moda venne bollata come ideologicamente sospetta in quanto espressione culturale di derivazione occidentale (Bartlett 2012). La sfilata del Černenko Party è quindi una narrazione ucronica, inventata, perché fa esistere ciò che la storia aveva boicottato, proponendo una moda finzionale per un socialismo prossimo al collasso.
La sfilata, di cui resta la videoregistrazione (Punknotdead 2022), ha inizio sulle note di ¼ Dead (1983) del gruppo anarcho-punk britannico Rudimentary Peni. La prima uscita comprende tre abiti bianchi. Annarella e altre ragazze si muovono nello spazio tra la balconata e la scala del locale, camminando con passo deciso e passando davanti a due figure immobili in uniforme. Hanno capelli tinti di blu sulle tempie oppure nuche rasate o anche capelli sforbiciati, come nel caso di Annarella, e un make-up con blush acceso sugli zigomi. Alzano le braccia, mettono le gambe sulla balaustra e fanno rapidi cambi di abiti, alternando vestiti da sera, abiti da giorno, abiti da sposa con strascico, sottovesti, cappellini da lavoratore con visiera e pantaloni. Indossano varie stratificazioni di indumenti, eliminando di tanto in tanto un pezzo. L’ultima uscita, che nella consueta narrativa della sfilata è il momento più importante, consiste nel togliersi in pubblico alcuni indumenti, rimanendo con sottovesti coordinate di raso tinta unita: rossa nel caso di Annarella che mostra in questa occasione ascelle non depilate. Tra le modelle figurano anche Silvia Bonvicini, che era all’epoca una componente dei CCCP con mansioni di soubrette e corista simili a quelle di Annarella, e l’amica Francesca Costa. Alcune fonti accreditano inoltre la presenza di Carolina Pattacini (Punknotdead 2022), altre quella della scultrice Eleonora Calestani e di Federico Mattioli (Valdesalici 2014; Contiero, Ferretti 2015).
Attraverso questo spettacolo collettivo mettono in scena un’idea di moda profondamente diversa da quella patinata del sistema milanese del prêt-à-porter del tempo, ma che ha un senso proprio perché ne coglie l’importanza e si misura con il suo linguaggio. In una testimonianza, Negri ha evidenziato la collaborazione tra Giudici e il cantante dei CCCP nell’ideazione di questa:
Sfilata di moda in cui partecipavano in realtà tante persone, con una serie di vestiti, organizzati da Ferretti, da Annarella che era una sua amica. E anche questa parte spettacolare, in qualche modo, è stata poi unita allo spettacolo dei CCCP, che è diventato una cosa un po’ sui generis, cioè [avveniva] mentre noi suonavamo, in maniera completamente scoordinata e non preventivata, lasciata quindi all’improvvisazione e all’happening (Negri 2007).
Benedetto Valdesalici, psichiatra e amico dei CCCP, mette invece in evidenza soprattutto il contributo di Giudici, assegnandole il duplice ruolo di modella e direttrice creativa di una immaginaria casa di moda filosovietica. Scrive: “l’Antonella Giudici del Černenko, è già una grande indossatrice di abiti con la sua Maison” (Valdesalici 2014, 244). A questo duplice ruolo di direttrice creativa e modella sono rispettivamente dedicate le due sezioni che seguono.
La modalità contemporanea
Ai CCCP è stata attribuita una certa dote di preveggenza rispetto a fatti politici come la caduta del muro di Berlino nel 1989; la dissoluzione dell’impero sovietico e l’inizio delle guerre di religione islamica. Giudici si è vestita da matrioska, ha ballato la danza del ventre, ha recitato con il volto e il corpo coperto dal burqa, ha indossato l’hijab con la minigonna favorendo con la sua pratica un decentramento culturale della moda e del suo discorso. Ha inoltre legittimato il subalterno affidandosi spesso ad abiti di seconda mano per la costruzione dei propri personaggi. Un esempio sono le immagini che Giovanni Lindo Ferretti ha scattato a Giudici, ancora prima del suo ingresso nei CCCP, ritraendola in una discarica di Cervarezza e in un negozio di abiti usati di Castelnovo ne’ Monti, in provincia di Reggio Emilia.
Nel dare una voce all’alienazione e ai traumi della modernità, i CCCP sono stati contemporanei, nel senso indicato da Giorgio Agamben. Secondo il filosofo italiano ‘contemporaneo’ non significa coincidere con il proprio tempo e aderire a esso, ma trovarsi in una posizione di sfasatura che permetta di cogliere il lato oscuro delle cose, invece di ciò che appare in piena luce (Agamben 2008). Come questa sfasatura possa essere utilizzata per evidenziare il lato oscuro della moda o per creare una distanza da vetrine troppo scintillanti è Giudici stessa a spiegarlo. Nel documentario Tempi moderni (1989), diretto da Luca Gasparini, afferma:
Compro quello che la gente scarta, ciò che il consumismo getta. Posso abbinare un abito anni Settanta con una borsetta anni Cinquanta con un ombrello di fine secolo. Cose che non c’entrano, che però fanno questi personaggi (Giudici, Ferretti, Tagliati 2014, 249).
Questa pratica della moda consiste nel rovistare nei “bazar, mercatini, negozi dell’usato, bauli nei solai, veri affari a prezzi stracciati … le rimanenze – de cose vecchie – gli scarti” (Giudici 1999, 23). È ciò che la storica della moda Caroline Evans chiama “rovistare nei rifiuti della storia” (2003, 11). Evans ha preso a prestito la figura ottocentesca dello straccivendolo proposta da Walter Benjamin per elaborare una metodologia d’indagine della moda che tenga conto di ciò che è stato dimenticato o rimosso dalla nostra cultura.
Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da ciò che i curatori americani Richard Martin e Harold Koda (1989) hanno definito “modalità storica”, riferendosi al postmodernismo e allo storicismo della moda del tempo nella loro mostra “The Historical Mode”, tenutasi al Fashion Institute of Technology di New York (1 novembre 1989/27 gennaio 1990). L’intenzione dei curatori era di dimostrare come nella moda degli anni Ottanta, al pari di altri ambiti artistici, fosse emerso un impulso “di appartenere al passato, ma nel presente” (Martin, Koda 1989, 7) e, anzi, che questo impulso potesse essere considerato come la quintessenza della moda, per esempio nei lavori di designer di moda come John Galliano, di Franco Moschino; Karl Lagerfeld e di Romeo Gigli. Soprattutto, la “modalità storica” è per loro una forma di resistenza all’essere “à la mode” – scrivono – “alla trivialità e al capriccio” a essa associati. La modalità storica ha permesso alla moda degli anni Ottanta di essere sollevata “oltre la vanità”, divenendo “un importante barometro artistico e culturale per gli anni Ottanta” (Martin, Koda 1989, 7):
Il ritorno degli abiti vintage come modo di vestire preferito dalle giovani avanguardie dimostra la pertinenza del passato storico negli anni Ottanta e inoltre sottolinea il potere evocativo e nostalgico degli abiti. Esaminare – persino riesumare – la storia è stato un motivo significativo della cultura popolare del decennio (Martin, Koda 1989, 7).
Precoci rispetto allo sviluppo accademico delle analisi sul tempo antilineare da parte degli studi sulla moda (Evans, Vaccari 2020; Gnoli 2023), le riflessioni di Martin e Koda hanno evidenziato la critica che le avanguardie del vintage stavano muovendo alla “gabbia del frivolo”. La decostruzione della “gabbia del frivolo” è stata la priorità degli studi sulla moda fin dalla loro nascita negli anni Novanta, ma come ha suggerito Simona Segre Reinach, è solo con la svolta critica del XXI secolo che è emersa la consapevolezza di una moda che fa domande, invece di porre domande alla moda (Segre Reinach 2022, 5).
Il critico letterario Marco Belpoliti, amico di lunga data dei membri dei CCCP, ha analizzato l’evoluzione del guardaroba della ‘benemerita soubrette’ (Belpoliti 2014), suggerendo una trasformazione dagli abiti di seconda mano dei primi tempi a costumi via via sartorialmente più raffinati degli ultimi anni Ottanta. A quest’ultima fase risalgono gli abiti ideati e realizzati da Giudici in collaborazione con la sarta teatrale Rossana Tagliati: l’abito modulare in metallo – stile Paco Rabanne – fatto con i coperchi delle confezioni della crema Nivea; l’abito da crocerossina per il brano Emilia paranoica, ricavato da un abito da sposa usato degli anni Settanta, e il cappotto per Il testamento del capitano realizzato con un vecchio campionario di tessuti da tappezzeria. Quest’ultimo è indossato da Annarella con una gigantesca parrucca in stile settecentesco fatta di canapa idraulica. Nonostante l’aspetto effettivamente più ricco e il complicarsi dei riferimenti storici con il progredire degli anni Ottanta, gli abiti di seconda mano restano sempre al centro del procedimento creativo di costruzione di un outfit e di un personaggio da parte di Giudici, con o senza Tagliati. A volte gli abiti di seconda mano sono indossati tali e quali, altre volte sono modificati. A volte sono utilizzati oggetti fuori contesto, come nel caso del voluminoso portaombrelli di metallo, indossato come fosse un copricapo insieme a un abito da sera di lamé degli anni Settanta, per l’incipit recitato da Annarella in La profezia della Sibilla nel 1988. Il fatto di essere abiti di seconda mano non ne riduce però il valore, né materiale, né tanto meno affettivo, come si evince dal fatto che alcuni di questi abiti sono rimasti nel guardaroba di Giudici dall’inizio della sua storia nei CCCP fino al presente. È questo il caso del vestito di crespo beige con applicazioni di piume di struzzo indossato da Giudici fin dalla sfilata filosovietica del 1984. Tornerà a indossare questo vestito nel servizio fotografico di Luigi Ghirri a Villa Pirondini di Rio Saliceto realizzato per il doppio LP Epica Etica Etnica Pathos (Virgin, 1990), ultimo album dei CCCP prima del loro scioglimento. E lo stesso vestito è stato allestito alla mostra “Felicitazioni!” (Reggio Emilia, Chiostro di San Pietro, 12 ottobre 2023/10 marzo 2024; si veda a proposito l’intervista a Stefania Vasques e il contributo di Francesco Bergamo in questo numero di Engramma), ricordandoci la capacità degli abiti di rilanciare il passato nel presente.
Memoria e invisibilità di una “mannequin ultraspeed”
L’ultimo aspetto da considerare è il ruolo di Giudici/Annarella come soubrette e modella, su cui si riflettono questioni d’invisibilità storica delle donne. In un’interpretazione femminista dei ruoli femminili, Parkins esorta a non “accontentarsi di quella dimensione pubblica, spettacolare della moda che ha semplicemente inserito le donne nella narrativa della modernità” (Parkins 2010, 111) e suggerisce di provare a “complicare la netta dicotomia tra nuovo e vecchio” (Parkins 2010, 111). Per molto tempo le donne sono state chiamate fuori dal tempo a incarnare l’instabilità della moda e il simulacro del suo cambiamento, più del cambiamento stesso.
Il ruolo di Annarella all’interno dei CCCP aiuta a esemplificare i paradossi di questa condizione delle donne. Pubblicamente, in quanto soubrette, indossa lo spettacolo della trasformazione che è proprio della moda. Come lei stessa scrive:
Annarella è leziosa damina, domina imperiosa, aliena metropolitana, mondina, paesana al ballo, avanguardista con megafono… fino a 37 mutazioni in scaletta (Giudici 1999, 23).
La sua immagine è versatile, ma non nuova. Il ruolo di soubrette rimanda piuttosto a echi nostalgici di teatro di varietà e alla televisione in bianco e nero. D’altra parte è lo stesso Ferretti a spiegare che l’innesto di Annarella nei CCCP serviva in quanto “elemento che dal vivo bilanciasse la preponderanza maschile” (Belpoliti 2014, 13). Anche l’aspetto di Annarella non insiste sulla rottura con il passato. Diversamente dalla nuca rasata e dalle ciocche scomposte di Ferretti, porta una chioma di capelli lunghi e folti, che è uno dei più classici attributi di femminilità.
I due performer del gruppo, uno maschile e uno femminile, sviluppano la loro immagine e le loro attitudini in direzioni opposte, che si sarebbero poi ricomposte sul palcoscenico, nel momento della performance. Da un lato c’è la sfilata, la passerella, il ballo, i tessuti morbidi e i cambi d’abito di Giudici; dall’altro il corpo nudo, i fluidi corporei di Danilo Fatur ‘artista del popolo’ e il ferro e il legno delle macchine da lui indossate. L’analogo della sfilata filosovietica organizzata da Giudici nel 1984 è lo spettacolo-spogliarello di Fatur Sexy Soviet, organizzato a luglio dello stesso anno a Modena (CCCP, 1998). Belpoliti sottolinea che:
Quella di Annarella, come quella di Danilo, era una performance che riguardava il genere. Lei era in passerella, per mostrare ‘qualcosa’ che nelle canzoni di Ferretti e Zamboni non era direttamente visibile. La femminilità dei CCCP? Anche questo, e allo stesso tempo qualcosa d’altro che non è facile dire, perché la gran parte della forza dei CCCP non era nel detto, bensì nel non detto. E Annarella la benemerita era la forma del non detto (benemerita proprio per questo) (Belpoliti 2014, 15).
L’elegante formulazione di Belpoliti termina sull’inesplicabilità dei CCCP e di Annarella in particolare. A questo proposito, la chiave di lettura della moda può aggiungere qualche elemento di comprensione. Come è accaduto per molte generazioni di modelle, anche Annarella non ha un cognome. È l’unico membro del gruppo a essere semplicemente Annarella ‘benemerita soubrette’, dove l’omissione del cognome corrisponde a una certa cancellazione dell’identità. Inoltre, come è accaduto di frequente nella storia della moda, dove alle modelle d’inizio XX secolo veniva chiesto espressamente di non parlare, anche Annarella è ‘muta’. Durante le interviste, è l’unico membro del gruppo a non prendere la parola. Lo spiega Ferretti al conduttore televisivo e ideatore della trasmissione del 1989 Superclassifica Show, Maurizio Seymandi, in un’intervista fatta per lanciare la versione del brano Tomorrow in collaborazione con Amanda Lear. Dice Ferretti: “Lei è Annarella, ma per statuto non parla. […] Lei è la benemerita soubrette dei CCCP e fa già un sacco di cose, mi sembrerebbe un sovrappiù inutile. Lei è presente all’interno degli spettacoli dei CCCP in maniera clamorosa, quindi non è proprio necessario. A noi poveri esseri umani tocca invece parlare, spiegare le cose” (Ferretti in Seymandi 1989). In un’altra intervista su Rai 1 del 1989, si mette significativamente in relazione la mancanza di parola con il cambiarsi d’abito: “Antonella che cambia un abito e assume una personalità che si addice a un abito, vale tanto quanto una strofa che magari qualcuno reputa intelligente o quanto un giro di chitarra che qualcuno trova molto bello o molto ben fatto”.
Annarella incarna un mondo femminilizzato fatto di vestiti e ne assume tutti i possibili stereotipi e idealizzazioni. Massimo Zamboni, il chitarrista dei CCCP, ha raccontato la genesi e il senso attribuito alla figura della soubrette, ricordando che in un testo scritto agli inizi della loro storia musicale, avevano immaginato “ragionando come sempre sul mondo in maniera accanita, che l’unico modo in cui il mondo si poteva trovare era intorno al tavolo – alla toilette veramente – di una soubrette” (Zamboni 2014). Ancora in occasione della mostra e del libro del 2014, Giudici è l’unica degli autori a non presentare un nuovo testo da lei firmato. Suo è però il lavoro di ricostruzione dell’archivio da cui provengono i materiali; sue e di Rossana Tagliati sono le descrizioni degli abiti raccolte nelle didascalie della sezione Teli Veli Abiti Costumi… . In tali descrizioni, si legge che “vengono specificate con annotazioni tecniche informazioni sulle caratteristiche dell’abito presente nell’immagine riprodotta, la sua provenienza, l’epoca e l’occasione in cui è avvenuta l’esibizione o è stata scattata la fotografia” (Giudici, Ferretti, Tagliati 2014, 253). Nel corso degli ultimi dieci anni, Giudici è divenuta la memoria storica, l’eredità materiale dei CCCP e, secondo Ferretti (Ferretti 2024), anche il suo “amministratore delegato” ed “esecutore testamentario”. Sebbene ricordare e conservare facciano parte dei tradizionali ruoli femminili, l’archivio della soubrette è il luogo attraverso il quale si è ricomposta l’identità nominale di Antonella (Annarella) Giudici.
Riferimenti bibliografici
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The paper analyzes the persona and wardrobe of Annarella (Antonella Giudici), the showgirl and model who has been the female member of the Italian punk band CCCP – Fedeli alla linea for decades. Through her clothes and style, the paper discusses how she has tackled the many contradictions associated with gender and women’s condition. The paper adopts the lens of fashion to investigate Annarella’s role and contribution to both the band’s aesthetics and ethics. Her approach to clothes is here considered in relation with the depoliticization of subcultures and the neoliberalism of 1980s Italian fashion. The paper also intends to address the under-researched relationships between CCCP and fashion in the twenty-first-century’s resurgence of critical impulses against cultural elitism.
keywords | CCCP; Annarella; Annarella Giudici; Rossana Tagliati.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Vaccari, “La storia siamo noi”. Moda e cultura popolare in Annarella ‘benemerita soubrette’, “La Rivista di Engramma” n. 210, marzo 2024, pp. 215-227 | PDF