"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

215 | agosto 2024

97888948401

Il nome segreto della politica

Presentazione di: Donatella Di Cesare, Democrazia e anarchia. Il potere nella polis, Einaudi, Torino 2024

Peppe Nanni

English abstract

“Democrazia, ultimo atto?” si è chiesto recentemente Giorgio Galli di fronte al massiccio profilarsi di un sistema post-democratico, dove la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica è ai minimi termini, i programmi dei partiti indistinguibili, la progettualità sociale, economica, culturale completamente evaporata. Nella totale assenza di un dibattito critico storico, permane solo un richiamo rituale alla democrazia, intesa naturalmente nella famosa (e infame) accezione diminutiva formulata da Winston Churchill nel 1947 davanti alla Camera dei Comuni: “La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Una concezione minimalista e degradante che ha favorito il progressivo deperimento della politica, intesa allora come un male necessario, un’attività riservata ai pochi, autoproclamati specialisti competenti, disposti, bontà loro, a sopportare il fardello di governare popoli e continenti, secondo un programma obbligato e “senza alternative” (quindi, letteralmente, senza politica).

Ma si tratta di una concezione minimalista anche e soprattutto perché la democrazia non è una “forma di governo”, una banale procedura che consente al corpo sociale di scegliere tra due élites in lizza nel corso di una periodica lotteria elettorale, quasi un surrogato dell’elezione per mano divina in auge nei bei tempi andati, quando la reductio ad unum trovava la sua forma perfetta nell’incoronazione del monarca, che, “unto dal Signore”, sequestrava nella sua persona ogni istanza di potere. È impressionante constatare quanti residui di quella istituzione allignano ancora nella civilissima Europa, dove troppi si sono entusiasmati morbosamente perfino per i grotteschi riti che hanno accompagnato l’ascesa al trono dell’ennesimo Carlo d’Inghilterra (sull’argomento vedi il numero di Engramma dedicato a “Monarchia e arcana imperii”). 

Molti giuristi e molti scienziati sociali accompagnano disinvoltamente questa impostazione, ‘realista’ nei due sensi del termine, preoccupati soltanto di garantire formule di governance, parola oscena per indicare la massima stabilità sistemica: incuranti di qualsiasi discorso valoriale, politici e accademici al loro seguito vigilano sulla continuità della permanenza delle strutture di potere e, se un elettorato indisciplinato si esprime talvolta in modo dissonante, architettano congegni correttivi (elezioni a doppio turno, soglie di sbarramento, inammissibilità di referendum, etc.) per riportare le moltitudini alla ragione. Esercitano cioè quel “potere pastorale”, ben descritto da Jacques Rancière nei suoi lavori, per guidare un gregge di cittadini ritenuti poco responsabili, magari brandendo a casaccio “l’etica della responsabilità” di weberiana memoria, certo senza mai accendersi delle complementari convinzioni che quell’etica dovrebbe solo proteggere. Nella prevalente vulgata liberale – l’unica versione sopravvissuta, senza meriti propri, dopo l’estinzione delle altre – la democrazia è stata svuotata di qualsiasi connotato e proprio questa buccia residuale, questo fantasma ineffettuale tende a spacciarsi come il risultato finale di un processo di raffinamento storico di lunghissima durata.

Con il suo Democrazia e anarchia, Donatella Di Cesare prende d’infilata questa monumentale invenzione della tradizione, decostruendo criticamente la genealogia del dispositivo ideologico che la sorregge e mettendo a nudo il punto focale della struttura narrativa: l’arché – il nebuloso racconto delle origini, il principio di dominio che pretende di informare gli albori, l’assetto gerarchico di un nebbioso inizio protostorico – che ha la pretesa di disegnare, a volte sotterraneamente, tutto il dispiegamento storico successivo. L’arché, permanendo costantemente legittimata in un flusso epocale che non conosce rotture, increspature, soluzioni di continuità, smussa gli angoli delle differenze prospettiche e assorbe, a volte con distorcente acribia, a volte con l’oblio e la damnatio memoriae, i ricorrenti conati sovversivi. Il libro di Donatella Di Cesare invita a inaugurare un percorso di ricerca rigoroso, a risalire il fiume carsico della democrazia fino ad arrivare non già alle sue ‘origini’, che ricadrebbero anch’esse all’interno del discorso egemonico del principio archico, ma invece al punto di insorgenza nel quale l’apparire del Demos interrompe, almeno a tratti, lo scontato predominio dell’assetto naturaliter gerarchico. Non una ricerca archeologica, quindi, semmai un’indagine “anarcheologica”, sulle orme di Foucault. Si potrebbe anche dire, con Giorgio Colli che occorre “aggredire il passato alle spalle”, oppure, presa alla lettera l’indicazione di Hannah Arendt, che il compito è quello di “saccheggiare gli archivi dell’antica prudenza”. L’avventura che Di Cesare ci invita a intraprendere non è quindi un ghiribizzo culturale, ma un’impervia sfida di filosofia militante, nella consapevolezza che il disagio sociale e il dissenso politico è destinato a rimanere un vago e confuso lamento impotente se non viene nutrito da un lavoro intellettuale capace di fornire le coordinate di densità ontologica, la profondità di pescaggio storico critico, l’esattezza illuminante delle traiettorie filologiche: tutti ingredienti indispensabili perché la passione politica, armandosi di curiosità epistemologica, non finisca a naufragare sugli scogli della depressione e dell’insignificanza fattuale. Per contrapporsi a molti nomi cardine del Canone occidentale, Platone più di tutti, Di Cesare convoca nelle sue pagine la costellazione degli autori contemporanei che hanno tracciato i sentieri (fortunatamente non interrotti) di fuoriuscita dall’Archivio della più quieta e innocua filosofia politica, da Jacques Rancière a Reiner Schürmann, da Claude Lefort a Miguel Abensour, lo scrittore che forse si è spinto più avanti nello scavo di recupero delle radici anarchiche della democrazia. E l’anarchia, come substrato filosofico – tenuta distinta dall’identità dell’anarchismo organizzato criticato per le sue chiusure settarie e fotografato come un negativo troppo ricalcato sulla dominante tradizione dell’arché – rappresenta uno dei tre vertici che perimetrano il testo, insieme a Demos e a Kratos: i due termini che, pronunciati insieme per la prima volta, a indicare quella imprevista ‘forza del popolo’, cristallizzavano un composto che suonava anche foneticamente come un ossimoro straniante alle orecchie di molti. Meraviglioso per alcuni, tremendo per altri.

Anarchia

Riprendiamo a volo d’uccello alcuni snodi del libro. Scrive Di Cesare:

L’anarchia è il profondo rimosso nella storia monumentale della democrazia. Strati di solerte storiografia, di impolverata tradizione, l’hanno consegnata all’oblio dell’archivio, la sede istituzionale dell’arché, il dominio dell’archèion, dove risiedono gli arconti che sorvegliano e interpretano, custodiscono il deposito dei documenti e richiamano all’esegesi consolidata […]. Un’archeologia filosofica della democrazia, che risalga a contropelo la storia, appare come una regressione che […] potrebbe dirsi “dionisiaca”, nel più incompreso intento di Nietzsche. […] È anarchico il punto di insorgenza della democrazia. Riportare alla luce questo rimosso, lasciarlo riemergere, vuol dire andare oltre l’azione dirompente, per sondare al fondo quel nesso. La questione è ontologica prima ancora di essere politica. Un passaggio continuo dall’una all’altra – dall’ontologia alla politica, e viceversa – si renderà necessario per evitare sia di prendere la democrazia per mera forza di contestazione sia di ignorare le ripercussioni politiche di quella liberazione dall’arché (Democrazia e anarchia, 63-65).

Dunque: da un lato, quello tra democrazia e anarchia è un intreccio indissolubile, che ne fissa la formula chimica esplosiva e indica la profondità strutturale del suo agire. Rimosso quel vincolo, denaturato il suo spirito dionisiaco, la democrazia diventa un’innocua procedura, una “forma di governo” addomesticata, che può ricevere il nulla-osta, come abbiamo visto, perfino dagli ultraconservatori alla Churchill. Dall’altro lato, situare la democrazia nell’andirivieni tra ontologia e politica significa riconoscerne la consistenza filosofica, misurare il suo grande peso specifico come dirimente questione intellettuale, accorgersi della sua precipua portata irradiante sia come modo d’essere del tutto peculiare della compagine comunitaria sia come stile di vita, come bussola d’orientamento esistenziale per ogni membro della comunità: in altre parole, il “vivere politico”, continua esortazione del Machiavelli dei Discorsi, quando Nicolò era intento a liberare un inedito scorcio prospettico sull’antichità, scrostando via i pesanti relitti classicheggianti di un Umanesimo troppo compiacente, troppo cortigiano.

Scrutata alla radice la democrazia rivela il suo vincolo indissolubile con l’anarchia. Ma certo è proprio lì, dove una parola inedita, e inaudita, si solleva per destituire il progetto di città ordinata sull’arché, che quel nesso si rivela in tutta la sua radicalità. Lo spettro dell’anarchia si aggira già nei primi documenti, nei testi di poeti e storici, filosofi e tragici. Il vincolo con l’anarchia, per quanto dissimulato, irrompe tra le righe. Ma è Platone a parlare chiaro, a denunciare quell’alleanza sovversiva: la democrazia è poikíle e ànarchos, “variopinta e anarchica” (Resp. 558c 5) (Democrazia e anarchia, 65-66).

L’atavica diffidenza per il demos si manifesta ancora oggi con la ricorrente accusa di populismo contro qualsiasi proposta di partecipazione diretta della cittadinanza all’esercizio del potere. È notevole il rovesciamento dei termini, per il quale ogni forma di maggior coinvolgimento popolare nelle decisioni della sfera pubblica viene etichettato come un gesto irresponsabile di ‘antipolitica’. E ogni espressione del desiderio di libertà politica attiva, ogni progetto di convivenza che voglia travalicare i limiti angusti di un sistema di governo strutturato solo sull’imposizione di austerità economica, sulla piattezza uniforme dei programmi e sulla cooptazione clientelare come metodo elettivo, ogni anelito trasformativo viene stigmatizzato come anticamera di terrorizzanti regimi totalitari:

L’interesse per il soggetto del potere scade spesso nel pretesto per chiamare in causa il popolo, per incolparlo di populismi e totalitarismi passati e futuri. Non esce bene neppure la democrazia. Così compare quasi sempre un demos senza kratos – come se fosse possibile concepire la democrazia prescindendo da quel secondo elemento su cui si preferisce sorvolare. D’altronde proprio il demos che ha perso ogni kratos, nei molteplici sensi di questo termine, è l’immagine più pregnante ed efficace della democrazia attuale. Una tale diffusa reticenza – forse affine a quella antica – appare tanto più eclatante se si considera che kratos è il termine del potere che contraddistingue la democrazia (Democrazia e anarchia, 227-228).

Il kratos, dunque, come cuore incandescente della democrazia, irriducibile antitesi del potere fondato sull’arché che indica il potere di chi ha iniziato, si è fatto avanti guidando, soprattutto in ambito militare, e ha così acquisito il diritto di comandare, secondo una narrazione atavica che vorrebbe far passare questo Logos di dominio quasi come una legge naturale, una verticalità gerarchica indiscutibile perché iscritta nel genoma del Cosmo. Così Di Cesare:

È tempo, dunque, di riconsiderare la democrazia nel caleidoscopio semantico di kratos, nelle sue oscillazioni, nelle sue inattese risorse, per nulla riducibili a questo significato negativo che negli ultimi tempi è accettato con un’ombra di disfattismo. Spostare l’attenzione dal primo al secondo elemento non vuol dire tralasciare il demos, bensì vederlo attraverso l’instabile e inquieto rapporto di reciprocità che lo lega al kratos (Democrazia e anarchia, 228).

La monarchia e l’oligarchia sono le forme istituite di questo potere. Ma la parola ‘democrazia’ rimanda a una diversa desinenza, il kratos, che, pur indicando la forza, contiene una estrema oscillazione semantica ed è connotata di volta in volta, nelle diverse occorrenze, da una carica valoriale mutevole, dal positivo al negativo. Ancora Di Cesare:

A ben guardare demokratia è un composto inatteso e del tutto disallineato. In un vocabolario che non conosceva altro suffisso che -archia – a cominciare da monarchia – interviene un mutamento profondo nel modo di intendere il potere che non può non avere influito sul soggetto. È in questo senso che segna una cesura. Non solo per quell’assemblea del popolo che diventa protagonista, ma anche perché il nome che prende non rinvia alla sovranità di un potere archico (Democrazia e anarchia, 231).

Se ne accorge già Aristotele, che registra, con apparente distacco, come i moti del 507, preludio della rivoluzione clistenica, abbiano tagliato in due la storia di Atene. Ma è una cesura che richiede censura, anzi una sutura dello sguardo prospettico per non vedere quella straordinaria irruzione storica:

È in una sorta di an-archia che il nuovo termine si profila, contrapponendosi ai precedenti. Tutti esercitano il potere, cioè nessuno – motivo per cui viene chiamata demo-kratia. Solo un secolare rigido allineamento ha potuto oscurare quella cesura (Democrazia e anarchia, 231).

Ricorriamo allora, come del resto ha fatto anche Di Cesare, al Vocabolario di Benveniste, che ci propone la formula logica “la x che è il kratos”, dove x non esprime un’identità ma una condizione variabile, confermando l’escursione di significati del termine. Il kratos non indica semplicemente una forza, ma una prevalenza “temporanea, essa è sempre rimessa in questione” (Émile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II, Potere, diritto, religione [Paris 1969], Torino 2012, 340). Il lemma prosegue, accennando al fatto che il kratos è sempre caratterizzato da audacia e che in altra accezione indica “durezza, indurimento”. Il che sembra autorizzare l’idea di un cambiamento improvviso di stato (di Stato?) dovuto all’eruzione di un’energia fluida che si cristallizza repentinamente, assumendo un profilo ruvido e tagliente, un potere che interrompe lo stato di quiete. Di Cesare sottolinea ancora la polarizzazione:

Nel caso di archein viene occupata già sempre una posizione di potere, che perciò gode di autorità e ha il crisma della sovranità. Nel caso di kratein si avanza verso un potere che non è fondato, stabilito, che non ha ratifica ufficiale, un potere a cui si perviene non senza una forza dirompente (Democrazia e anarchia, 241).

Se in kratein è presente la traccia di un potere che è riuscito a prevalere, questo significa che è l’esito di un conflitto. La democrazia esibisce la sua costitutiva natura polemica, perché, come tutte le cose, è figlia di Polemos. Ascoltiamo uno dei tanti passaggi nei quali Rancière definisce la questione:

La politica è la sfera di attività di un comune che può essere solo conflittuale, un rapporto tra parti che non possono essere altro che partiti, e fattori la cui sommatoria è sempre diversa dal tutto (Jacques Rancière, Il disaccordo [Paris 1995], Roma 2007, 35).

L’assetto dell’arché è ora out of joint e gli oligarchi sono spiazzati dalla ‘perdita del Centro’. Costretti a definirsi come partito, come parte, non più legittimati a spacciarsi come emanazione dell’Intero, di un corpo sociale integro e compatto, alcuni di loro, in Atene, apprendono la tecnica politica e stanno nel gioco della democrazia, sono contaminati, senza mai integrarsi completamente. Per questo Plutarco ha parlato di “difetto di fusione” nello stampo metallico della Polis. Ma è una imperfezione che ha prodotto la perla di un esperimento politico e culturale di rarefatto valore, una congiuntura unica e irripetibile, il momento precario di una ‘grazia’, che si irradia, debole e intermittente, fino ai nostri giorni (così ha dimostrato con estrema efficacia l’appassionato lavoro di Monica Centanni, La nascita della politica: la Costituzione di Atene, Venezia 2024). La grandezza della Polis risale anche alla sua movimentata imperfezione, all’andamento ossimorico, contraddittorio e, in una parola, anarchico della vita politica nella ‘Città impura’, priva di fondamenta compatte e mai acquietata nella perversa utopia antipolitica di una perfetta postura monumentale. I difetti costitutivi portano la democrazia a eccedere sé stessa, ne siglano la cifra: ancora una volta, Churchill aveva torto.

La società politica è alimentata dalle scintille energetiche che scaturiscono dall’attrito tra le parti: lo aveva visto la filosofia, con Anassimandro e Eraclito. Il teatro tragico darà forma scenica al campo energetico che si sviluppa tra polarità contrapposte. Mentre la retorica del potere monarchico e oligarchico – il racconto dell’armonia prestabilita che avrebbe dato origine alla totalità sociale – struttura il racconto che maschera il fondamento violento del potere dell’arché, determinandone la pretesa di sempiterna durata e di granitica stabilità, il kratos invece:

[...] scaturendo da una contesa, resta un potere conteso, rivelandosi un pre-dominio, è relativo e relazionale. Dato che non esiste già sempre dall’inizio, viene dopo e ha una storia. La racconta giustificandosi. È temporale e temporaneo, precario, revocabile. Mentre lascia già sempre trapelare il gesto conflittuale da cui sorge, per cui potrebbe apparire aggressivo, quasi violento, il kratos rappresenta una vittoria tanto entusiasmante quanto provvisoria e incerta, così come inevitabilmente vacillante e instabile è il suo potere, messo di continuo alla prova (Democrazia e anarchia, 241).

Si incomincia a delineare la netta differenza qualitativa tra il dominio di un ordine immutabile, accentrato sul fondamento dell’arché e l’irruzione di un’energia sovversiva che disperde e disloca i centri di potere. Resistiamo allora alla tentazione di divagare, seguendo Hannah Arendt e il suo invito a moltiplicare e distribuire le funzioni di potere per mutarne il fine, da strumento di potere ad aumento esponenziale del possibile a disposizione della Polis e torniamo invece al tentativo di Donatella Di Cesare di ritagliare dentro una dialettica oppositiva i contorni della democrazia:

Il suffisso -kratia, che va preso alla lettera, nomina la potenza che irrompe, al punto da travolgere anche sé stessa, e non indica, come nel caso di -archia, il potere insediato in un principio basato su un fondamento. Si intuisce già qui che in democrazia il “potere del popolo” non è che la sua potenza che si oltrepassa svincolandosi da sé stessa. Mentre il popolo è mantenuto a distanza dalla logica arcaica della fondazione sovrana, il kratein democratico sbarra il passo all’archia, la mina e la invalida. Affiora il suo tratto aperto, incompiuto. Né fine né principio, né sopra né sotto. Da qui il convergere con l’anarchia (Democrazia e anarchia, 242).

La politica e la democrazia non sono pensabili prescindendo dalla loro natura conflittuale, sono fenomeni che emergono dalla contesa e quindi dal variare delle condizioni, dalla disposizione cangiante delle forze in campo, in una parola dalla congiuntura. Impossibile avvicinarle con regole generali e astratte da cui desumere serialità delle situazioni, ripetitività dei comportamenti, effetti necessitati. Solo gli esorcismi della ‘cultura di governo’ e i ‘saperi’ dei ‘tecnici’ si esercitano vanamente con schemi del genere, nel tentativo di addomesticare la politica e tenere sotto tutela la democrazia, “la nostra riconosciuta follia” nella definizione dell’Alcibiade tucidideo. Comunque una follia che funziona, dovrà riconoscere un intelligente oligarca, l’Anonimo Ateniese, perché la capacità di adattamento alle circostanze e alla morfologia geografica, l’imprevedibilità della sua manovra, la capacità di scarto e perfino di strappo identitario (per il quale la Città può essere abbandonata al nemico, perché Atene si identifica con i suoi cittadini in movimento) configurano una metis comunitaria, inattingibile da parte oligarchica: la capacità prensile “come quella del polipo”, la plastica morfologia e la strutturazione delle istituzioni intorno a un centro vuoto, inappropriabile da parte di una singola personalità o di una fazione, configurano la vocazione geometricamente anarchica della politica democratica.

Lo statuto non solo politico ma anche filosofico della democrazia non può essere afferrato prescindendo dalla sua vitale ispirazione anarchica. A sua volta, il pensiero politico della rivoluzione democratica non può essere astratto dalla congiuntura storica. E Di Cesare allinea le precondizioni fattuali, le vicende ateniesi che hanno costituito il preludio della rottura democratica.

La parte dei senza parte. Clistene e l’orientamento al mare

Clistene tende a favorire una nuova solidarietà di natura squisitamente politica. E non mancano le attestazioni in tal senso, già da parte degli autori più o meno coevi:

Erodoto dice abbastanza esplicitamente che Clistene fu colui che istituì ad Atene le tribù e la democrazia. Da parte sua Aristotele scrive: “Clistene cercò di attrarre dalla sua parte il popolo, dando il potere alla moltitudine”. Ma dubbi e interrogativi non mancano. La rivoluzione anarchica del popolo fu l’evento dirompente, senza cui non avrebbe potuto compiersi il successivo sviluppo. È però un’ingenua fantasia, un’ottica distorta, credere che sarebbe stato sufficiente. Se quell’evento fece sorgere la democrazia, e rese possibile il ruolo pubblico del popolo, non meno decisiva fu la capacità di intuire il momento propizio e convogliare l’energia rivoluzionaria nell’alveo complesso e sofisticato delle istituzioni che permisero alla democrazia ateniese di avere una forma storica. Questo fu appunto il merito delle innovazioni clisteniche (Democrazia e anarchia, 184-185).

Alcuni studiosi sono scettici circa il grado di consapevolezza con cui Clistene ha messo in atto la sua riforma, spesso svalutata come un semplice atto amministrativo. Ma l’idea di suddividere Atene in dieci demi, circoscrizioni che comprendevano ognuna una parte dell’entroterra, una parte della città e una parte delle coste, riunendo insieme contadini, ceti urbani e marinai, esibisce manifestamente l’intenzione di spezzare il legame localistico, clientelare e familistico e di superare la semplice rappresentazione degli immediati interessi economici.

In tal senso si può dire che, se per un verso legò a sé il popolo, rendendolo parte politica, per l’altro Clistene si schierò incontrovertibilmente da quella parte. Lo dimostra la sua opera istituzionale. Radicali e profondi, i mutamenti investirono ambiti diversi come la cittadinanza, il consiglio, l’esercito, il controllo sull’autorità. Ma si perderebbe di vista il senso complessivo della sua azione, se la si intendesse come una catena di singole riforme. Clistene disegna la cornice politica della città, che viene inscritta in un nuovo spazio e in un nuovo tempo. […] Mescolanza, unificazione, parità scandiscono la riorganizzazione della polis. A tal fine vengono spezzate le solidarietà familiari, scisse le appartenenze tradizionali (Democrazia e anarchia, 185-186).

Gesto eminentemente politico, quello di Clistene, almeno se si condivide la tesi di Alain Badiou che la politica è slegamento, rottura dei vincoli sociali paralizzanti e se ha ragione Arendt che la politica è un patto per l’avventura, una promessa reciproca che ci si scambia nell’Agorà, una condivisa tensione progettuale. Anche i provvedimenti di natura economica e contro la povertà vanno visti sotto questa luce: ribaltando il senso dello slogan oligarchico, secondo il quale il governo doveva essere appannaggio esclusivo dei ricchi, che avevano tempo da dedicare alle funzioni pubbliche, le sovvenzioni a favore dei poveri tendevano a consentire a tutti di essere in condizione di partecipare attivamente alla vita politica della Polis.

Il passo successivo è l’orientamento verso il mare e il grande ispiratore fu Temistocle. Dice Erodoto che Temistocle “costrinse gli Ateniesi a diventare marinai”. Di Cesare riassume invece la tesi dell’Anonimo Ateniese, forse Senofonte, comunque un intellettuale di punta della fazione oligarchica:

Dietro la democrazia va scorta la talassocrazia. La tesi è questa: dato che è il popolo che fa andare le navi e Atene trae la propria potenza dal mare, Atene è necessariamente una democrazia. Ancora una volta sono chiamati in causa i marinai – rematori, timonieri, manovratori, ecc. – il popolo dell’anarchia (Democrazia e anarchia, 245).

Scriverà Aristotele: “La massa dei marinai che era stata la causa della vittoria di Salamina e con essa della egemonia di Atene grazie alla potenza sul mare, rese più forte la democrazia” (Arist., Cost. Ath. 23). Girarsi verso il mare implica l’accelerazione del processo di condivisione nella responsabilità e nella conduzione della città con tutto il demos. Un’accelerazione sovversiva. Potere assembleare, sorteggio e rotazione annuale nelle cariche, disordinano l’assetto gerarchico imposto alla società, dove ognuno doveva stare, appunto, al suo posto: dai contadini fino al vertice dei governanti, la distribuzione delle identità funzionali confinava ciascuno in un ruolo sociale immodificabile dentro uno statuto complessivo inalterabile, risolvendo la piramide degli addendi, delle parti ineguali, in una somma aritmetica senza resto, senza residui. La politica nasce, sotto il nome di democrazia, quando i conti non tornano. Quando la somma delle parti – sotto la spinta di quelli che erano esclusi, non avevano parte e non venivano contati (“il resto degli Ateniesi”, con le parole di Erodoto) e dentro il sommovimento rivoluzionario che moltiplica le proiezioni identitarie di altri, cittadini che non vogliono più ‘stare al loro posto’, all’unico miserabile posto che li incasellava – provoca un eccesso smisurato che blocca e fa saltare il calcolo di dominio ordinatorio dell’arché.

Di fronte a questa spettacolare metabolé, questo rovesciamento dell’assetto della costituzione materiale di Atene, diventa davvero difficile dar torto a Donatella Di Cesare. Eppure, negare l’ispirazione anarchica della democrazia è la vocazione costante di una secolare tradizione censoria. Chi intuisce il valore della posta in gioco, non ha motivo di stupirsi.

Stasis

Che cosa vuol dire stasis? Movimento o arresto, agitazione o posizione? Questa parola dalla duplicità semantica così stridente racchiude in sé l’enigma della politica greca. […] L’allegoria della città, agitata dal conflitto, squassata dalle lotte intestine, non potrebbe essere più efficace. Resta l’interrogativo sulla parola stasis, dilemma e cruccio di tanti interpreti. Alcuni traducono con “posizione”, altri con “discordia”. I due significati coesistono […]. Sin dal suo apparire nella letteratura greca la parola stasis, attinente al linguaggio della fisica, esibisce un valore politico. Non è un caso che non ne porti traccia la lingua omerica, testimone di un mondo edificato ancora intorno a un’asse verticale. Solo quando l’arché si sgretola può emergere la stasis. D’altronde sembra che i Greci avessero dimestichezza con il duplice significato della parola e si orientassero facilmente in quell’arresto movimentato che portava un movimento tale da arrestare la città (Democrazia e anarchia, 213-214).

Come spesso accade in Atene, è un nemico della democrazia, Platone, a dare la più affilata definizione di stasis. Lavorando la sua etimologia, Platone ci restituisce la più suggestiva spiegazione psico-onomatopeica e semantico-fonetica del termine:

Nel Cratilo di Platone, il dialogo sulla giustezza dei nomi, si tenta la via della fonetica icastica per interpretare quella singolare parola che inizia con una aspirante, il sigma e con la tau, che designa appoggio (426b-467c). Quali suoni potrebbero rendere meglio la fisica politica della stasis? Un movimento che si arresta, che prende posizione, una parte che si separa sollevandosi, che insorge. […] Condizione fondamentale della sua esistenza, la stasis è insieme l’abisso sotteso alla polis (Democrazia e anarchia, 214-220).

Come rendere pregnante la traduzione di stasis? Un rompicapo per gli interpreti, almeno per quelli che non si sono accontentati di banalizzarla riduttivamente a semplice guerra civile, senza chiedersi, per esempio, perché una nota legge attribuita a Solone imponeva ai cittadini, in caso di sedizioni, di schierarsi con una parte o con l’altra, sanzionando chi fosse rimasto in disparte. Uno che ha riflettuto sul punto, anche se in riferimento alla Roma repubblicana, è Machiavelli, che esalta i tumulti e le ‘disunioni’ come generative della libertà politica. Di Cesare non lo cita, forse per mantenere il focus sull’esempio greco. Ma in quanto eversore dell’ingessato canone umanistico, ha un ruolo ineludibile nel ‘bruciare il classico’ e ha ispirato tutti i teorici attuali della democrazia tumultuaria, “selvaggia”, “insorgente” presenti nelle pagine del libro (anche su questo punto, vedi il numero di Engramma “Machiavelli: un uso sovversivo della tradizione classica”).

Dunque, la stasis rappresenta il pericoloso privilegio di una democrazia necessariamente tumultuaria, dove il kratos politico non può assestarsi su un solido fondamento, pena l’involuzione in un potere archico di ritorno, una paradossale forma di dominio retoricamente camuffata. Sia la pratica politica, sia la riflessione che alimenta l’azione non possono quindi appoggiarsi a istanze esterne, a garanzie trascendenti che farebbero cadere il baricentro della democrazia fuori da sé. Sospesa sull’abisso senza fondamento, esposta all’eccesso energetico, che la fa vivere ma che è sempre sul punto di disintegrarla, la città democratica deve – con le parole di Cornelius Castoriadis – ‘autoistitursi’ continuamente, incanalando le risorse dell’immaginario sociale in forme adeguate ad acclimatarsi in un ambiente vertiginoso.

L’agorà, la piazza vuota caratterizza la polis rispetto alle città imperiali, agglomerati palaziali centrati sulla reggia, nelle quali è inconcepibile che sorga un sito dove il popolo possa radunarsi. Al contrario, l’agorà è uno spazio insaturo, uno luogo pubblico aperto alla condensazione della vita politica e dove il teatro tragico ha messo in scena le sue prime sperimentazioni: solo prove tecniche di democrazia? La stessa idea del potere del popolo configura urbanisticamente lo spazio della polis e viceversa:

In quanto hanno accesso a quello spazio circolare, i cittadini rientrano nell’ambito della polis. Ma come suggerisce la semantica di agorà, tale ambito implica, oltre all’esistenza in una sfera politica, anche lo sviluppo di un discorso politico. In breve: non solo si è legati da un inedito, nuovo legame alla polis, ma si riflette anche su questo legame, si discute sulla partecipazione, si decide insieme sulla polis stessa, sul suo destino (Democrazia e anarchia, 97).

La rottura dell’ordine politico è accompagnata da una analoga trasformazione della concezione cosmologica:

La terra non ha bisogno di base e fondamento – né di radici. Non ha bisogno neppure di un discorso fondativo, perché si tratta solo di conoscere che la terra, come una colonna tronca, sta salda al centro del cosmo. Allo spazio gerarchico del mito subentra lo spazio sferico determinato geometricamente da rapporti di distanza e posizione. Non è necessario alcun sostegno – né una base altra, l’aria o l’acqua che la regga, né tantomeno una forza altra, superiore, che dal di fuori la comandi (Democrazia e anarchia, 100).

Anche la filosofia presocratica è partecipe e immersa nel nuovo clima culturale. Anassimandro introduce l’àpeiron, l’apertura illimitata come elemento decisivo dell’economia cosmica, nel cui sostrato ancora indeterminato risiedono confuse le polarità oppositive:

Non è difficile scorgere qui le tracce del nuovo lessico politico. La centralità della terra implica la sua autonomia, sempre in equilibrio fra tensioni contrapposte, fra forze contrarie. […] La rivoluzione avviata dall’àpeiron evoca quella che si va compiendo nella polis. Un’analoga ontologia anarchica, qual è quella sottesa all’immagine del cosmo offerta da Anassimandro, si disegna nello scenario politico. A partire da qui è possibile interrogarsi sulla tragicità della democrazia. Senza una arché su cui fondarsi e senza un telos a cui richiamarsi, la democrazia va stagliandosi in un precario equilibrio, sull’orlo perenne dell’abisso (Democrazia e anarchia, 100-101).

Senza riti (ricattatori) di fondazione e senza rimandi (sacrificali e ingannatori) a qualche ‘Sol dell’avvenire’, la democrazia necessariamente non può essere localizzata altrove, non può avere altro sito d’insorgenza. Un habitat estremo, e si capisce perché sia forte la tentazione di rinunciare all’impresa e rassegnarsi a vivere nella piatta depressione della “servitù volontaria”: forse anche per questo Arendt sostiene che la politica è una merce rara, che la politica “non è un asilo” e che la politica richiede una dote di coraggio, sia pure ‘a bassa intensità’. Ma aggiunge, di contro, che la politica è la più umana delle attività e che la vita nello spazio pubblico è un particolare stile esistenziale, che induce una particolare felicità.

Dobbiamo essere grati a Donatella Di Cesare per aver convocato nelle sue pagine la schiera degli scrittori politici che si sono spesi sull’enigma del cuore anarchico della democrazia e per aver inaugurato la strada di una ricerca così impervia e così seducente. Che richiede urgentemente un’inedita trivellazione filosofica, per dare energia intellettuale al comune desiderio di realizzare una democrazia di nuovo in grado, come Zarathustra, di danzare leggera sull’orlo dell’Abisso.

English abstract

Donatella Di Cesare’s Democrazia e anarchia critically examines the historical and ideological construction of democracy by challenging its minimalist conception as merely a form of government. Through Di Cesares’s words, Peppe Nanni argues that democracy has been reduced to a superficial procedure devoid of genuine participatory substance, perpetuated by an entrenched power structure (arché) that stifles true democratic engagement. By tracing the genealogy of democracy, he highlights its intrinsic relationship with anarchism, proposing an “anarcheological” approach to understanding its roots. This perspective reveals the foundational moments where the demos disrupts hierarchical dominance, countering the prevailing narrative that marginalizes democratic vitality. Thanks to Di Cesare’s interpretation of ancient Greek political history, Nanni emphasizes the necessity of intertwining ontological and political dimensions to foster a deeper, transformative political discourse. By invoking such contemporary thinkers as Jacques Rancière and Miguel Abensour, he underscores the enduring subversive potential of democracy when unbound from its current constrictions, advocating for a dynamic interplay between democratic power (kratos) and anarchistic resistance.

keywords | Democracy; Anarchy; archékratos; 5th-century Athens.

Per citare questo articolo / To cite this article: Peppe Nanni, Il nome segreto della politica. Presentazione di: Donatella Di Cesare, Democrazia e anarchia. Il potere nella polis, Einaudi, Torino 2024, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.215.0022