Decifrare il reale. À Rebours di Jean Hélion
“Jean Hélion. La Prose du Monde” (Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 22 mars 2024 – 18 août 24)
Mario De Angelis
English abstract
Contraddistinta da forme chiare e accordi tonali semplici ed efficaci, À Rebours (1947) [Fig. 1] di Jean Hélion costituisce a detta dei critici “una riflessione sul passato e sull’avvenire del pittore” (Perl 2005). In effetti, osservando la grande tela dopo aver attraversato le sale precedenti della grande retrospettiva sull’artista, ospitata dal 22 marzo al 18 agosto 2024 dal Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, era facile riconoscervi tutti gli elementi che avevano segnato il percorso artistico di Hélion fino a quel momento, insieme a quelli che d’ora in avanti conquisteranno sempre più spazio nel suo teatro di “archetipi visivi e umani” (Ottinger 2005).
Sulla sinistra, dove per tradizione comincia la lettura, troviamo un “équilibre”, ovvero un’opera-tipo di quelle che Hélion aveva prodotto tra il 1932 e il 1935, le quali rappresentano il più importante contributo dell’autore alla storia dell’astrazione novecentesca [ad es. Fig. 2]. Il nudo sulla destra corrisponde invece all’(auto)citazione di un altro lavoro, questa volta molto più recente: si tratta del grande quadro a olio Nu Renversé [Fig.3], realizzato da Hélion appena l’anno precedente, e che nella mostra di Parigi trovava posto sulla parete adiacente rispetto a quella che ospita l’opera di cui ci stiamo occupando. Tra queste due entità, sostituti simbolici di due fasi del percorso e della vita dell’artista, sta in Á Rebours un’imponente figura maschile in cui non facciamo fatica a riconoscere un autoritratto dell’artista stesso (le fattezze della figura richiamano quelle de Le peintre à moitié nu del 1945 [Fig. 3], anch’esso presente in mostra sulla parete adiacente di cui sopra).
Oltre ad una strana indiscernibilità di genere, a colpirci in questo strano personaggio è dapprima la resa formale dell’abito, la quale per le forme bombate e l’alternarsi sinuoso di curve, per la divisione arbitraria delle superfici e le ombreggiature nette ma anti-referenziali, ricorda alcune opere a guazzo su carta a cui Hélion aveva lavorato negli anni appena precedenti. Oltre alla famosa Figure tombée del 1939, esempi di questa fase di mezzo sono Nature morte à la flaque d’eau del 1944 [Fig.5] e Les Salueurs del 1945 [Fig. 6], opere a guazzo su carta di fronte alle quali si ha la netta sensazione che il pittore stia cercando (e con quale godimento!) di liberarsi da una costrizione auto-impostasi, come stesse finalmente provando a lasciar fluire quella passione per il “mondo degli esseri e delle cose” che per molto tempo l’astrazione geometrica aveva soffocato. Al contempo, da una prospettiva futura, ci si rende conto di come in questi piccoli formati (e molto più che nei contemporanei oli) si annidi un incunabolo dello stile maturo di Hélion, del quale del resto À Rebours costituisce una delle prime e compiute manifestazioni (è il pittore stesso ad affermarlo in un appunto del 5 febbraio 1946, quando con riferimento a questa e ad un’altra opera – Trois Nus (1947) – scrive: “me semblent les tableaux les plus complets et les plus éclatants que j’aie réalisés. J’aimerais être jugé là-dessus” (Hélion 1992, 79).
La resa stilistica dello strano personaggio centrale di Á Rebours è dunque particolarmente significativa per una duplice ragione: da una parte perché incarna – citandolo – un periodo che si trova effettivamente a metà strada, dal punto di vista cronologico, tra quelli di cui le due entità che la fiancheggiano sono rappresentanti; dall’altra perché questo stesso periodo corrisponde ad un momento transizionale in senso assoluto, una fase – collocabile grossomodo tra 1936 e 1945 – in cui le diverse componenti che abitano lo spirito dell’artista si stanno sviluppando e riassemblando in modo inedito; non pare casuale, in quest’ottica, la scelta del guazzo come tecnica privilegiata in questi anni: con la sua asciugatura rapida e la sua impermanenza, essa era forse più di ogni altra in grado di veicolare un senso di elusività e fluida gestazione (era stata proprio questa revocabilità processuale a guadagnarle anticamente il nome di ‘tempera magra’).
Ma basta riallargare il nostro sguardo, osservando l’autoritratto centrale Á Rebours in relazione alle citazioni dell’Équilibre e del Nu Renversé, per rendersi conto del fatto che questa impressione di sequenzialità lineare viene sfidata (o contraddetta) da tutta una serie di rimandi sincronici e consonanze latenti. Del quadro-nel-quadro montato sul cavalletto, ad esempio, l’autoritratto dell’artista sembra ricalcare le linee di forza fondamentali – quelle “tensions” spesso apertamente evocate nei titoli delle opere degli anni Trenta. Anche la palette, giocata sul grigio, marrone, rosa, rosso e azzurro, è del tutto in linea con quella delle forme concrete che gravitano attorno a un centro invisibile sulla tela bianca.
Se un certo rapporto di coerenza cromatica lega poi l’autoritratto dissimulato di Hélion anche alla donna alla sua destra – ed in generale all’opera tutta –, è un altro, a ben vedere, il terreno o livello operativo in cui l’effige dell’artista e il nudo invertito entrano davvero in risonanza: laddove lei ci si mostra a testa in giù, nuda, dimentica di sé stessa e di noi che guardiamo, lui è invece dritto in piedi, vestito, e – pur non guadandoci – fa appello alla nostra attenzione. Se lei, collocata in profondità in una spazio ‘sfondato’, gira il collo a sinistra, lui si volta a destra, fermo di fronte al pieno architettonico che divide la finestra dallo pseudo-spazio espositivo che accoglie l’“équilibre”. Sembra chiaro allora che tra la figura dell’artista e il nudo invertito sussiste una rapporto di inversione strutturale, il quale si condensa nelle mani dell’artista e nel vuoto di carne viva che esse formano congiungendosi. Tale conformazione – lo sottolineano del resto anche gli autori della didascalia presente in mostra, quando evidenziano la “carica erotica del soggetto, sottolineata dal gesto dell’artista” – non può che ricordare un organo sessuale femminile, quasi a costituire l’ambiguo controcampo di quanto (non) vediamo sulla destra, dove sia per la prospettiva che per i peli pubici che lo ricoprono il sesso della donna rimane lontano e inaccessibile per lo spettatore. Negli anni a venire sarà alla zucca, “questo attributo incontestabilmente dionisiaco” (Ottinger 2014), che Hélion affiderà il testimone per la continuazione di questa strategia che consiste nella rappresentazione implicita o ‘spostata’ del sesso femminile. Questo sarà infatti il soggetto indiscusso di molti suoi quadri dal 1948 al 1987, anno della morte del pittore, tra cui La Belle Étrousque (1948), Nature morte à la citrouille (1948) e lo straordinario La Citrouille et son Reflet (1958) [Fig. 9, in basso]. In un’opera tarda, L’instant d’Après (1982) [Fig. 8], che non a caso tematizza proprio il rapporto tra opera, modella e autore, ritroveremo addirittura lo stesso binomio (sesso chiuso nascosto alla vista / sesso ‘vegetalizzato’ offerto allo spettatore) presente in À Rebours. Seguendo Marc Le Bot, che in un appunto de L’oeil du peintre metteva in luce come “la réversion projective des images du corps et de la nature seraient […] au fondement de la peinture”, diremo che guardando questi quadri noi siamo presi con l’opera e con la modella in un “gioco di compenetrazione” che ha il “quadro come luogo di incontro” (LeBot, 37). L’opera, in questa cornice di senso, si rivela al contempo gioco di ruolo (e scambio simbolico), rebus ed esperienza somato-sensoriale (lo stesso Hélion del resto, in un appunto del 5 aprile 1948, ovvero pochi mesi dopo la realizzazione di À Rebours, a proposito della zucca si esprimeva in questi termini: “À présent tout le sens charnel, la lourdeur éclatante, le soleil couchant, la chair couchée, le ventre ouvert, l’or ruisselant de ce légume vulgaire, et de pauvre, m’éblouit”.
A contrapporsi in À Rebours all’aura di chiusura e inaccessibilità della donna, rimarcata anche dalle mani, saldate come sono in un’unica massa rosacea, è poi anche la natura dello spazio architettonico in cui è situata. Parlare di una “finestra”, come hanno fatto la maggior parte dei commentatori (ad esempio Perl 2005) non è che solo parzialmente accurato: si tratta invece, a ben vedere, di una porta-finestra. Questa differenza, che a prima vista può apparire irrilevante, rivela il suo peso cruciale se si considera che, come rilevato da Paul Virilio in un dialogo con l’équipe dei “Cahiers du cinéma” nel 1981, la potenza d’astrazione ottica che fin dall’Alberti siamo portati ad associare alla finestra ha le sue radici nella stessa esperienza a distanza che caratterizza lo spazio in cui tale dispositivo si colloca, nella misura in cui “anche se potremmo fisicamente, dalla finestra non si può entrare né uscire. La finestra è un orifizio da cu l’aria e la luce entrano ed escono” (Virilio 1981, citato in Deleuze 2023, 103).
La porta-finestra, invece, è un luogo di attraversamento: dalla porta-finestra ad entrare e uscire è non solo la luce, ma sono anche i corpi. Innalzata da semplice variazione sul tema al rango di vero e proprio dispositivo estetico da Pierre Bonnard, il quale proprio nello stesso 1947 si spegneva nella sua villa di Le Cannet, nel sud della Francia, la porta-finestra è dunque prima di ogni altra cosa un operatore simbolico, un ente modulatore delle relazioni tra sguardo contemplativo – l’opera finita ed esposta che non possiamo toccare (nel “NE” in alto a destra ha riconosciuto le ultime lettere della parola “vitrine”) – e corpo vedente – l’universo percettivo e la comunanza di frequenze sensibili che nell’opera di condensano. Che Hélion tenesse bene a mente l’opera di Bonnard durante la realizzazione di À Rebours mi pare dimostrato, oltre che dalla presenza stessa della porta-finestra, anche e soprattutto dall’estrema vicinanza, per il comparto cromatico, ma anche e soprattutto per l’orientamento a testa in giù della figura, tra il Nu Renversé e un’opera di Bonnard del 1907, Nu allongé sur un plaid à carreaux, oggi allo Städel Museum di Francoforte. Di questo portato corporeo-immersivo della porta-finestra il nudo invertito di Hélion sembra recare traccia: contrapponendosi all’astratta staticità dell’“équilibre”, esso sembra farsi rappresentante non tanto della figurazione come nuovo indirizzo della ricerca del pittore, com’è stato scritto, quanto piuttosto dell’esperienza incarnata del mondo come componente irrinunciabile e intemporale del processo creativo, della reciprocità fisica che lega il pittore, la modella/o e lo spettatore in un’unica entità di risonanza senziente.
Prima di provare a tirare qualche conclusione, vale la pena soffermarsi ancora un poco sul rapporto che si instaura tra le tre figure dell’opera e sulla gestualità dell’artista. Per quanto riguarda il primo punto, bisogna evidenziare che il nudo invertito intreccia un rapporto non solo con la figura del pittore, ma anche con il quadro-nel-quadro astratto (L’équilibre) a cui per altri versi si contrappone. Le forme in quest’ultimo sembrano ricalcare vagamente anche la silouhette della donna. Anche in questo caso, tuttavia, sembra attiva la legge generale che regola i rapporti tra tutti gli elementi del quadro e che si potrebbe definire inversione nell’omologia e omologia nell’inversione: l’angolo formato dalle gambe della donna è infatti complementare rispetto a quello formato dai due elementi obliqui pseudo-verticali che occupano la porzione superiore della tela.
Passando al secondo punto, la gestualità dell’artista, sembra evidente che essa non si allinea ad alcuna iconografia conosciuta. Con lo sguardo perso in un punto imprecisato fuori dalla scena, egli se ne sta “con le mani in mano”. Non si tratta, tuttavia, di mani “a riposo”, né di mani pigre o indolenti. Oltre che dalla stazione eretta dell’imponente figura, tali letture sono confutate dalla teatrale platealità di questo non-gesto, nonchè dalla sua squisita, rivendicata oscenità. Attraverso di esso, ma guardando da un’altra parte, l’artista ci ‘fa segno’, ma solo per offrirci in forma subliminale – eppure fin troppo chiaramente – qualcosa come l’essenza stessa della propria inoperosità. Osservandolo, tornano in mente le parole di Agamben, che seguendo Deleuze scrive
L’opera – come per esempio Las Meninas – che risulta da questa sospensione della potenza, non rappresenta solo il suo oggetto: presenta, insieme a questo, la potenza – l'arte – con cui è stato dipinto. Così la grande poesia non dice solo ciò che dice, ma anche il fatto che lo sta dicendo, la potenza e l’impotenza di dirlo. E la pittura è sospensione ed esposizione della potenza dello sguardo, come la poesia è sospensione ed esposizione della lingua (Agamben 2014, 26).
Ciò che Hélion formalizza, con la rappresentazione di questo strano gesto, mi sembra proprio qualcosa come la “sospensione ed esposizione della potenza dello sguardo”. È come se, attraverso di esso, il pittore si ritrovasse qui a dar corpo non alla propria potenza creatrice, ma alla disattivazione temporanea dello schema potenza-atto che la sottintende. Utilizzando il prontuario concettuale offertoci da Louis Marin, diremo che questa carne viva tra le due mani giunte del pittore corrisponde a un punto uncinato che buca la “transitività bianca” (Marin [1994] 2014, 195) della rappresentazione e che fa dunque accedere (percettivamente, ermeneuticamente) a quella dimensione sempre attiva ma spesso invisibile in cui “ogni rappresentazione si presenta mentre rappresenta qualcosa” (Marin [1994] 2014, 198). Come il riflesso della figura del soldato sull’elmo convesso della Crocifissione del Sodoma (1525), o come il pennino poggiato sul candido foglio in primo piano ne La Fenêtre (1925) del già citato Bonnard, che invita lo spettatore ad “inscriversi” nel testo visivo riferendosi surrettiziamente al contempo ai propri strumenti d’esecuzione (tela e pennello), questo assurdo non-gesto è un dettaglio “che interpella (turba, infrange, interrompe, sincopa) […] la trasparenza del piano, il diafano della superficie, il vuoto del supporto” (Marin [1994] 2014, 198).
Sospeso tra attività e passività, o meglio in quella “idealità in genesi” che le comprende entrambe, ed in cui Merleau-Ponty rilevava la condizione originaria della creazione artistica (Merleau-Ponty 2002, 12), il pittore si fa tramite di un passaggio paradossale dall’astratto al reale, dal concreto all’ideale, dal quadro in vetrina (dominio di un ordine artificiale, ab-tracto e dunque fermo, pietrificato) al corpo nudo che trasborda dalla (porta)finestra, e viceversa. Il suo osceno gesto sugella (e lubrifica) questo processo. Esso è il vero, impenetrabile punto d’accesso del quadro.
Á Rebours, il titolo dell’opera, connota dunque non tanto una volontà dell’artista di guardare indietro al suo percorso e di annunciare intenti futuri, com’è stato finora inteso. Piuttosto, mi sembra che l’opera debba essere letta come una dichiarazione di autonomia da parte dell’artista, finalmente libero, dopo la fine delle grandi narrazioni estetiche della modernità, di attraversare con il suo lavoro le epoche e le tecniche, e soprattutto di invertire, nello spazio privato e sperimentale della creazione, il flusso del tempo storico in cui agisce. Decifrare il reale, come amava dire, indicava forse proprio questo compito infinito e inattingibile, questa paradossale rincorsa a qualcosa come un ordine che è inscritto sul dorso screziato delle cose, e che pure sfugge, si metamorfizza continuamente e continuamente cambia di posto. Era sempre questo del resto – una sorta di anacronismo ab-soluto, di revocabilità demiurgica al di là del progresso e delle mode – che Hélion intendeva rivendicare quando scriveva in un appunto del 1983, poco prima di morire: “L’abstrait est l’âme du concret, comme celui-ci à son tour est le fantôme du premier” (Hélion 1992, 385).
Post-scriptum
“Je demeure donc, pour tous”, – scrive il pittore in un appunto del 1943 intitolato Solitude – “et même pour mes plus proches amis, un étranger que l'on respecte, que l'on aime, mais à qui l'on n'offre aucun secours […]. Et dans une lettre de 1946, il confiait : "Vous n’avez pas idée de ma solitude en ce moment : je suis, pour tous, un renégat” (Hélion 1992, 349). Questi sono solo i più espliciti degli innumerevoli passi in cui in cui Hélion confida al suo diario privato il proprio sconforto e inconsolabile senso di isolamento. E se finora il Journal d’un peintre è stato considerato giustamente per quella miniera di piccole illuminazioni di teoria estetica che anche è, credo che altrettanto importanti siano le continue richieste di aiuto, le continue lamentele e litanie disarmanti che ne ritmano la stesura.
Con Leonardo Cremonini, Guido Biasi e Dieter Kopp, per citarne alcuni, Jean Hélion fa parte di quella schiera di pittori europei che nella seconda metà del Novecento si sono posti come primo obbiettivo quello di “spazzolare la storia della pittura contropelo”, parafrasando la celebre espressione di Benjamin. Non facendosi abbindolare dalle sirene del post-modernismo di risulta, o da quel concettualismo globalizzato che da lì a poco infetterà come un’epidemia impercepita gallerie e musei di tutto il mondo, questi pittori hanno considerato l’indipendenza come valore supremo, e la messa a punto di una serie di “tecniche dell’originalità” (l’espressione è di Richard Shiff) indissolubilmente legate ad un medium specifico come un problema mai davvero eludibile. Filosofi della materia e artigiani di concetti visivamente esperibili, essi hanno avuto il coraggio di posizionarsi esattamente al centro del ciclone – nel suo occhio –, in quella zona di calma apparente che a prezzo dell’isolamento e della sofferenza permette di tenere fisso lo sguardo sul proprio tempo senza aderirvi in toto, di allungare la mano e attingere dalle rovine fluttuanti per smontarle e rimontarle a piacimento.
Questi pittori vengono oggi ricordati genericamente come ‘neo-figurativi’, un termine che non può in nulla restituire la reale complessità del loro approccio alla creazione. Essi sono piuttosto – per usare un’espressione che Stoichita ha impiegato per Caillebotte, influenza cruciale per Hélion ma anche per gli altri che ho nominato – “collezionisti di idee pittoriche che essi stessi commentano attraverso i mezzi della pittura” (Stoichita 2017, 44). La silenziosa lezione di inattualità che ci hanno lasciato è forse oggi più preziosa di quanto a prima vista potrebbe sembrare.
Riferimenti bibliografici
- Agamben 2014
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M. Merleau-Ponty, L’institution dans l’histoire personnelle et publique. Le problème de la passivité. Le sommeil, l’inconscient, la mémoire. Notes de cours au Collège de France (1954-1955), Paris 2002. - Ottinger 2005
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P. Virilio, Vidéo, vitesse, technologie. La troisième fenetre, “Cahiers du cinema” 322 (avril 1981), 35-40.
English abstract
This article presents an in-depth exploration of À Rebours (1947), a pivotal work by Jean Hélion. Composed as a montage of three self-referential quotations drawn from the artist’s previous oeuvre, À Rebours has traditionally been interpreted as a contemplative reflection on Hélion’s evolving artistic journey, marked by a shift from abstraction to the figurative. However, this study challenges such a linear reading, proposing instead a framework that highlights the synchronic interrelations and latent echoes that reverberate among the figures inhabiting the canvas. In doing so, it posits that through À Rebours, Hélion asserts his artistic autonomy, fluidly traversing genres and historical epochs with a deliberate embrace of anachronism as working method. This interpretive lens reveals how the work not only recapitulates the artist’s personal trajectory, but also mirrors the broader arc of painting’s history. Special emphasis is placed on the nexus between the body and the self-reflexivity of the medium, uncovering in the bold and provocative gesture of the central male figure’s – an autoportrait of the painter – a profound locus of ideal condensation.
keywords | Jean Hélion; La Prose du Monde; Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris; À Rebours; Équilibre; Nu Renversé.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. De Angelis, Decifrare il reale. À Rebours di Jean Hélion “Jean Hélion. La Prose du Monde” (Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 22 mars 2024 – 18 août 24), “La Rivista di Engramma” n. 217, ottobre 2024.