Andrea Lelario. Nomadi del sogno
Lettura della mostra al Mattatoio, Roma
Antonella Sbrilli
English abstract
E poi scoprirsi in tutta l’aggrovigliata profondità dei piani dell’incisione, e l’arabesco diventare
storia del destino umano, donare anche all’orrido una bellezza, come se tutta la sofferenza della
vita servisse poi solo a quella perfezione della morsura dell’acido sul rame.
(Marisa Volpi, Le ombre di Peyrelebade, 1986)
Nello spazio imponente del Padiglione 9a del Mattatoio Testaccio di Roma sono stati esposti per un mese (settembre-ottobre 2024) alcuni gruppi di opere grafiche dell’artista romano Andrea Lelario: una trentina di incisioni e matrici di rame, più di seicento disegni su taccuini, questi ultimi in gran parte provenienti dall’esemplare acquisito dal Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi.
Sotto il titolo di Nomadi del sogno, la curatrice Nicoletta Provenzano e l’artista, nato nel 1965 e docente di Tecniche dell’Incisione all’Accademia di Belle Arti di Roma, hanno raccolto opere che coprono un trentennio di lavoro.
Ci sono le acqueforti degli anni Novanta, in cui i paesaggi e le tracce archeologiche della campagna dei Castelli romani ospitano presenze fantasmatiche [Fig. 4]; le lunghe carte estese in orizzontale con mappe siderali e terrestri, le maniere nere con le vedute lunari, insieme a molte delle corrispondenti matrici in rame.
Il salone centrale del Padiglione, con le sue possenti strutture in ferro, accoglie come per contrasto i circa seicento disegni realizzati con penne punta micron 003 su taccuini Moleskine, in cui “si addensano forme antropomorfe, figure primigenie di animali immaginari, frammenti di insetti, reminiscenze di studi da entomologo, rettili fantastici e strutture astratte” (Scaravaggi 2020, 56-58) [Fig. 2].
È una scelta di opere che mette di fronte alla complessità delle tecniche calcografiche, alla necessità quotidiana, da parte dell’autore, di praticare il disegno e, soprattutto, alla trasformazione a cui i soggetti trattati vanno incontro: una trasformazione causata dal profondo intreccio fra la perizia tecnica e il lavorio misterioso dell’immaginazione, al confine, come scrive la curatrice Provenzano, “tra Cosmo e psiche”.
Ai grovigli di linee, ai piani sovrapposti, alle trame dei tratteggi connaturati alla tecnica incisoria si aggiungono, in alcune tavole, stringhe di parole che accompagnano le scene come paratesti che attraversano il cielo, o spuntano da selve e dirupi, insieme a segni al limite della scrittura asemica e a citazioni letterarie dirette (Dante, San Francesco, Jung, fino ad Álvaro Mutis).
I disegni di piccolo formato dei taccuini, a loro volta, sfuggono a riconoscimenti chiari e distinti: le forme alludono a dettagli botanici, cellule nervose, artefatti, macchine volanti, grilli fiamminghi, suggerendo ritmi vorticanti e nessi sinestetici (talvolta ai disegni è accostata anche un’annotazione musicale). Se per queste caratteristiche e per le loro dimensioni minute rimandano all’idea del capriccio e della rêverie (“Solo come miniatura il Mondo può rimanere composto senza andare in frantumi”, con Bachelard [1933-1934] 1997, 6), esse aprono un affaccio su tante riflessioni contemporanee che investono i processi di generazione delle immagini, il codice binario del disegno, la quota delle tecniche manuali nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale.
Questi taccuini di disegni, realizzati negli ultimi quindici anni, consentono anche considerazioni interessanti sull’allestimento della mostra: gli originali sono esposti in teche protettive, aperti su una doppia pagina. Per mettere in mostra tutte le pagine con i rispettivi disegni, la scelta è stata quella di scansionarle ad alta definizione, stamparle in scala 1 a 1 su carta cotone ed esporle in scatole – cornici che ricordano quelle delle raccolte di entomologia che alloggiano gli insetti: in analogia con le farfalle da collezione, le pagine sono appoggiate sul fondo nero, con tutto il loro corredo di segni più o meno riconoscibili, enigmatici o amorfi. Riproduzioni volatili e mobili di un originale compresso dalla rilegatura in un unico punto dello spazio [Figg. 5, 6].
Sono opere che attivano in chi guarda un cannocchiale rovesciato, che sprofonda in una lontananza quasi inesauribile, sia sul piano delle ascendenze storiche, tecniche e formali (la tradizione alchemica da Dürer a Duchamp, l’attrazione per il regime notturno delle immagini, la schiera dei maestri del bianco e nero, Rembrandt, Piranesi, Goya, Redon, la riemersione e l’innesto delle immagini in engrammi) sia su quello delle connessioni con altri domini dell’espressione e della ricerca, fra cui l’esecuzione e l’ascolto della musica e le neuroscienze.
Un patto d’attenzione
Ognuna delle carte esposte richiede un patto di attenzione. Fra le tante incisioni di Lelario che interrogano gli osservatori, ce n’è una del 1995 dal titolo Le Verger du roi Louis, Il verziere di re Luigi, che si presta ad esempio. [Fig. 3]. Acquaforte, bulino e puntasecca concorrono a creare un bosco dal fitto intreccio arboreo che, guardando più da vicino, rivela – come generati dai rami – dei cartigli. In essi, osservando ancora più vicino e seguendone gli andamenti a spirale, si leggono parole in francese. Sono i primi versi del componimento Ballade des Pendus (Ballata degli impiccati) che compare in una pièce teatrale di Theodore de Banville, Gringoire, del 1866 (de Banville 1866).
Gringoire è un giovane poeta che denuncia in forma di ballata la cupa presenza degli orti o verzieri degli impiccati al tempo di Luigi XI. Grappoli di “frutti sconosciuti” pendevano dalle querce nel terreno destinato alle esecuzioni, chiamato perciò “verziere di re Luigi”.
Una volta compreso questo nesso, vessilli, picche, maschere, brandelli emergono allora dalla trama varia e reticolare di questa incisione, mentre il pensiero va a una altrettanto densa rete di rimandi che oscillano dalla poesia quattrocentesca (François Villon), alle scene macabre di Jacques Callot, fino alla musica di Georges Brassens, che interpretò Le Verger du roi Louis in una canzone (1960) considerata un manifesto contro la pena di morte e la guerra, ripresa come partitura da Fabrizio de André nel 1967.
Tanti indizi ci portano verso il Nord e verso un tempo dai tratti tardo-medievali. Ma a destra, nella fascia alta del foglio, emerge una sottile scritta autografa dove si legge, fra l’altro, “siedo ai margini delle rovine del Maschio di Lariano già castello dei Principi Colonna”. Ecco che il bosco, dal nord della Francia, scende verso sud e la massa scura sul davanti diventa un rudere laziale.
Una rovina acquattata nella natura, come tante che si incontrano nei luoghi che compongono la “geografia sentimentale” dell’autore, “ancorata ai due laghi di Albano e Nemi e al monte Tuscolo. A pochi chilometri da Roma, quella che un tempo fu la zona di villeggiatura di aristocratici prelati e papi è ancora in verità, come sottolinea Lelario, una zona pagana, selvaggia e verde […] che ispirò i primi studi antropologici sul mito di James Frazer nel suo Il ramo d’oro” (Volpi 2024, 58).
A questa topografia d’elezione va aggiunto il fatto che l’atelier di Lelario si trova nella Villa Mondragone, situata fra Monte Porzio Catone e Frascati, la villa dove nel 1582 fu promulgata la riforma del calendario con la Bolla “Inter gravissimas” di papa Gregorio XIII. Un cambio di passo del tempo che ancora scandisce la sequenza degli anni bisestili, le date della Pasqua e la griglia delle agende, fra cui i taccuini usati da Lelario, che spesso lascia visibili, sotto i disegni, il giorno e il mese.
Tornando al Verger du roi Louis, la pratica del disegno en plein air nei luoghi prescelti si innesta sul bagaglio immaginario dell’artista generando infiorescenze di forme visibili, di nuclei di storie, di catene di connessioni. Le connessioni conducono a volte in direzioni inaspettate: a distanza di decenni dalla creazione del suo Verziere, Lelario ha scoperto che nel 1869 l’artista francese Ludovic Napoléon Lepic, aristocratico, collezionista, amico di Edgar Degas, aveva dedicato allo stesso tema un’incisione su due tavole, una per l’immagine e una per il testo della ballata degli impiccati. Per di più, a unire l’ispirazione poetica e il paesaggio del Lazio, Lepic ha rappresentato in diverse incisioni il lago di Nemi e altri luoghi deputati di un grand tour che prosegue e si ripete, in forme personali e visionarie, anche in epoca contemporanea.
Lungi dall’aver esaurito le sue stratificazioni, l’acquaforte contiene altre aree e altri dettagli da decifrare: inoltrandosi nelle parole dissimulate nella zona scura in basso a destra, si legge “chi è l’uomo senza gioia” (un riferimento ai canti degli Indiani d’America), mentre sotto l’incisione si incontra una scritta con le parole di Samuel Bellamy, pirata alle Antille nel XVIII secolo.
Se il titolo dell’incisione – invece di richiamare la ballata degli impiccati – avesse esplicitato da subito il paesaggio laziale, il percorso di decrittazione dei segni avrebbe preso svolte diverse. Ma qualunque punto reale e immaginato avvicini nomi, luoghi e date in questa rete di rimandi orizzontali, essi sono saldati negli strati della matrice e della carta, in una unità visiva che può farne a meno e a cui sono indispensabili.
“Lelario non teme di passare dalle dimensioni fuori misura a quelle minute: non perde occasione di ricordarci come nella sua opera, e quindi nel suo mondo, macrocosmo e microcosmo siano talmente vicini da sovrapporsi” (Donati 2024, 28). Passando da un nucleo all’altro di opere, la mostra consente in effetti di confrontare pattern che emergono dalla distanza e dalla vicinanza, non solo sulle scale del cosmo e del dettaglio, ma nei confini di una stessa immagine [Fig. 7].
Allo sguardo telescopico e microscopico sulla natura, allo studio delle tecniche, alla pratica dell’insegnamento accademico va aggiunto un interesse dell’autore per i processi creativi e le zone profonde e incontrollate in cui avvengono. In conversazione con Florinda Nardi, così l’artista si avvicina con le parole a una sua opera: “una sezione di albero, una dimensione organica, la canalizzazione di una mappa cerebrale, le relazioni tra altre forme viventi. Ci sono tanti elementi, alcuni anche concreti, come una moneta o persino oggetti che ora non ricordo più perché nel flusso perdono il loro senso dopo il momento creativo” (Nardi 2024, 24).
E nella prospettiva di un’apertura a indagini sinestetiche, per due volte la mostra è stata il laboratorio di incontri fra esecuzione musicale e generazione di segni: due performance, La risonanza dell’atto creativo (18 luglio 2024, Auditorium del Palazzo delle Esposizioni di Roma) e Mezzocielo 4.0 – Interferenza tra mondi distinti (24 settembre 2024, Padiglione 9a del Mattatoio) hanno visto Andrea Lelario insieme con il pianista Matteo Bevilacqua in un esperimento di traduzione visiva degli impulsi cerebrali provocati dall’ascolto della musica, captati da un caschetto EEG e trasformati da un software in forme cromatiche dinamiche [Fig. 8].
Galleria
Andrea Lelario. Nomadi del sogno, a cura di Nicoletta Provenzano, Roma, Mattatoio, 13 settembre-13 ottobre 2024, Azienda Speciale PalaExpo, con il patrocinio di Accademia di Belle Arti di Roma, Tor Vergata Università degli studi di Roma, INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica, INFN – Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
Riferimenti bibliografici
- Bachelard [1933-1934] 1997
G. Bachelard, Le monde comme caprice et miniature, trad. ita. a cura di F. Conte, in Il mondo come capriccio e miniatura. Gaston Bachelard, Milano 1997. - de Banville 1866
T. de Banville, Gringoire, Paris 1866. - Donati 2024
L. Donati, Lelario agli Uffizi, in Provenzano 2024. - Nardi 2024
F. Nardi, La parola che lascia il segno o il segno che lascia la parola. Parola e segno di Andrea Lelario, in Provenzano 2024. - Provenzano 2024
N. Provenzano (a cura di), Andrea Lelario. Nomadi del sogno, catalogo della mostra (Roma, Mattatoio, 13 settembre-13 ottobre 2024), Roma 2024. - Scaravaggi 2020
S. Scaravaggi, L’affascinante storia dei taccuini d’artista, “Artribune” (gennaio-febbraio 2020), 58-68. - Volpi 1986
M. Volpi, Le ombre di Peyrelebade, in Il maestro della betulla, Firenze 1986. - Volpi 2024
C. Volpi, Il taccuino come libro del mondo, in Provenzano 2024.
English abstract
The article reviews the exhibition Dream Nomads by Italian engraver Andrea Lelario, held at the Rome Mattatoio in the fall of 2024. The exhibition features etchings, copper matrices, and 616 notebook drawings, the latter primarily from the recently acquired collection by the Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Uffizi, Florence. The subjects of the works include landscapes of the Via Appia and Castelli Romani, inhabited by archaeological ruins, mythological and ghostly figures; sidereal and terrestrial maps; lunar views; and hybrid, fantastical forms rendered in miniature format. The references span from the alchemical tradition in art (from Dürer to Duchamp) to a fascination with nocturnal imagery, the visionary tradition in black and white (Piranesi, Goya, Redon), and the re-emergence and blending of images in the form of engrams and memes. The exhibition also explores connections with other domains of expression and research, including music performance and listening, neuroscience, and most recently, generative AI programs in dialogue with manual artistic techniques.
keywords | Andrea Lelario; Etching; Drawing; Matrix; Imagination.
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Sbrilli, Nomadi del sogno. Lettura della mostra al Mattatoio, Roma, “La Rivista di Engramma” n. 217, ottobre 2024.