Su e giù dalle stanze di sopra
Un canto accompagna Penelope la prima volta che appare nell’Odissea, il canto di Femio che racconta il ritorno degli Achei da Troia ai pretendenti seduti nella casa di Ulisse. Ma il poeta dell’Odissea smorza subito il livello sonoro, non appena ci porta nelle “stanze di sopra”, dove il canto arriva più debole. Non tanto da impedire alla moglie di Ulisse di intenderne le parole; per questo Penelope scende a pianterreno percorrendo “l’alta scala” assieme a due ancelle[1]. Così, in una sorta di piano-sequenza, la seguiamo dalle sue camere fino al mégaron, la sala in cui si trovano gli uomini che vorrebbero sposarla: “E quando giunse dai Pretendenti /, chiara fra le donne, / si fermò vicino a un pilastro del solido tetto, / tenendo davanti alle guance il lucido scialle: / da ciascun lato le era accanto un’ancella fedele[2].” Due spazi fortemente connotati dal punto di vista del genere: il chiassoso pianterreno dei proci e le silenziose “stanze di sopra” di cui Penelope con le sue ancelle è signora, e in cui all’occorrenza può nascondersi[3]. Nel poema la discesa al pianterreno si ripete, con andamento formulare, altre due volte[4]: Penelope si accosta a un pilastro della casa, mentre le ancelle l’affiancano da un lato e dall’altro.
L’attenzione al rapporto delle cose tra loro – il tetto e il suo sostegno architettonico – e tra le cose e le persone, è una costante che attraversa il poema: le giare una accanto all’altra e lungo il muro nella casa di Ulisse, ad esempio[5]; oppure Ulisse travestito da mendicante che, nella propria casa, si siede sulla soglia lignea all’interno della porta, e si appoggia allo stipite a sua volta in legno[6]. Sottolineare più volte il dettaglio architettonico che fa da sfondo alla donna assolve a una doppia funzione, simbolica e iconica. Da un lato, nell’attesa del ritorno del marito, la sorte di Penelope si salda a quella della dimora regale, dall’altro la sua figura fisica si va definendo anche visivamente. Le due ancelle che le stanno accanto, da un fianco e dall’altro, servono a questo più che a un’improbabile protezione davanti ai pretendenti: cominciano a tracciarne il contorno, un profilo marcato dalla solennità, poiché le due astanti costruiscono un’implicita gerarchia (la regina di Itaca è al centro).
Come si immaginava Penelope il poeta dell’Odissea? Ricostruire questo suo aspetto, come del resto la sua personalità, non è così semplice. Il poeta la assomiglia “ad Artemide o alla dorata Afrodite”[7], ma Calipso non ha dubbi nel sentirsi superiore a lei nell’aspetto esteriore[8]; e, rispondendole, Ulisse conferma questo paragone a svantaggio della “saggia Penelope”: il suo aspetto (èidos) e la sua statura (mègethos) sono certamente inferiori a quelli della ninfa[9]. Eppure, gli stessi termini si ripresentano nelle lodi di uno dei pretendenti, Eurimaco: la moglie di Ulisse supera tutte le donne “nel volto”, “nella statura”, e “per la mente assennata”[10], affermazioni che lei stessa nega subito dopo (e anche in altra occasione)[11]: èidos e mègethos – sostiene – non sono più gli stessi dopo che lo sposo partì per la guerra.
C’è persino un momento in cui gli dèi intervengono per abbellirla. Quando, per intervento di Atena, si addormenta [Fig. 2], e la dea “puro le fece prima il bel viso, con quel belletto / divino con cui Citerea dalle belle corone / si unge, quando va all’incantevole danza delle Cariti, / e la fece più alta e robusta a vedersi, / e poi la fece più bianca dell’avorio tagliato”[12]. Le braccia sono candide, come prevede il canone estetico femminile, ma le sue, come precisa altrove il poeta, sono mani “robuste”[13].
D’altra parte, nel considerare l’immagine di Penelope disegnata dal poeta dell’Odissea, dobbiamo tener conto anche di quello che non c’è: la cháris, la grazia. Questo dono degli dèi può diffondersi su una persona arricchendone l’aspetto fisico, ravvivandone fascino e bellezza. Atena lo concede a Telemaco[14], e anche a Ulisse: prima davanti a Nausicaa, una volta lavato e vestito, poi nell’assemblea dei Feaci e ancora, di nuovo, dopo un bagno e con nuove vesti, dinanzi alla moglie[15].
Penelope invece non riceve il dono della cháris: la sua bellezza sembra concentrarsi nel suo modo di stare eretta (mègethos), per trasmettere visivamente dignità, eleganza, signorilità. Il suo aspetto esteriore è insomma determinato dall’esigenza di controllo sulla casa e sui suoi spazi, poiché la moglie ha assunto di fatto il compito di proteggere tutte le proprietà di Ulisse; l’intelligenza e la circospezione necessarie – la sophrosỳne – impongono nel frattempo modi misurati, atteggiamenti prudenti, cautele. Le eccezioni non cambiano il quadro generale. Oltre alla scena in cui Penelope scende giù dai pretendenti e si copre il viso, c’è un altro momento in cui il poeta dell’Odissea ci parla delle sue guance.
Atena le ha indotto il sonno e, mentre dorme, la dea l’abbellisce in tutto corpo, per poi andarsene; entrano le ancelle, la svegliano, e a quel punto, prima di lamentare la propria sorte piangendo, Penelope si strofina le guance con le mani[16]. È una di quelle messe a fuoco del corpo dei protagonisti che nell’Odissea a volte sorprendono per l’inattesa, improvvisa angolazione. Come quando Telemaco sveglia Pisistrato, che gli dormiva accanto, colpendogli il piede con il calcagno[17] (oppure quando Ulisse rigira tra le mani l’arco per verificarne l’efficienza[18]). Per non parlare dello scalciare dei piedi – “per un po’ […] non molto a lungo”[19] – delle ancelle infedeli impiccate, che tanto colpì Horkheimer e Adorno per “l’esattezza della descrizione, che emana già la freddezza di una vivisezione anatomica”[20].
In modo altrettanto inaspettato, e come in un’istantanea rubata, ecco la moglie di Ulisse che ride, dopo che uno starnuto di Telemaco è risuonato nella sala[21]. Ben più ambiguo un altro suo sorriso, quello rivolto alla dispensiera Eurinome nel dirle che ha deciso di scender giù dai pretendenti[22]; un sorriso “senza ragione” e inappropriato[23]? Imbarazzato[24], amaro o improvviso? L’incertezza che caratterizza certe mosse della regina sembra trasmettersi anche agli interpreti moderni.
C’è infine un dettaglio prossemico che verso la fine del poema viene raccontato dalla stessa Penelope: in procinto di partire per la guerra, il marito le parlò prendendole la mano destra: un saluto ovvio fino a un certo punto, perché la mano di Ulisse le stringeva il polso[25]. Espressione spontanea d’affetto, ma non solo: la mano dell’uomo sul polso della moglie (chèir’epì karpó) era il segno fissato dalla tradizione per i rituali del matrimonio, a confermare anche visivamente la gerarchia interna alla famiglia[26].
Lo scialle davanti alle guance[27]
Una volta nella sala a pianterreno dinanzi ai pretendenti, Penelope indossa un “lucido scialle”[28]; il termine usato, krèdemnon, ritorna nel V canto per indicare un oggetto del tutto diverso, il velo fatato ricevuto dalla dea Ino che Ulisse applicherà al petto per salvarsi durante l’ennesimo naufragio[29]. Nello stesso canto è la ninfa Calipso a mettersi una candida veste, una cintola d’oro e un velo nel desiderio di rimarcare la propria bellezza[30]. Come non notare che il nome di questo altro velo, kalýptren, è legato al verbo che indica il nascondere, kalýptein, e a sua volta adombra il nome della ninfa, Kalypsó, la “Nasconditrice solitaria” come scrisse Giovanni Pascoli[31]? Che un abito nasconda il corpo e, al tempo stesso, lo abbellisca è un paradosso solo in apparenza: come insegnava Hegel nelle lezioni di estetica, i vestiti spostano l’attenzione dalla pura materialità del corpo al suo agire e al suo proporsi agli altri. Nel caso di Calipso, insomma, le vesti e il velo collaborano con l’inclinazione seduttiva della ninfa.
In Penelope, invece, il velo ha un ruolo differente. Più avanti nel poema, chiederà a due ancelle di accompagnarla giù nel mègaron, nella sala, perché si vergogna di trovarsi da sola davanti al folto gruppo dei pretendenti[32]. Non ha tutti i torti, perché i loro sguardi, di lì a poco, faranno trasparire il loro desiderio di “giacere al suo fianco nel letto”[33]; non basta allora che la moglie di Ulisse tenga lo scialle sulla testa, occorre che esso scenda giù “davanti alle guance”, e così il volto venga coperto il più possibile.
Velarsi – come tante volte ribadiranno le immagini della ceramica attica del V secolo a.C. – è il gesto con cui la donna greca manifesta visibilmente il proprio aidós, il pudore, il contegno[34]. Ma i gesti non coincidono mai con un significato puntuale e si portano dietro una costellazione di sottintesi. Il velarsi di Penelope è anche un nascondersi, un celare le proprie intenzioni[35]. Come accade anche oggi presso culture diverse, mentre traduce una disposizione d’animo momentanea e individuale, il gesto del coprire il viso rinvia anche a un determinato sistema valoriale[36].
Il fatto che Penelope compaia velata anche in due immagini della fine del Quattrocento – l’arazzo di Boston [Fig. 3] e una miniatura del De mulieribus claris di Boccaccio [Fig. 4] – non si deve certo a un’intuizione antiquaria dei due artisti, ma al fatto che anche nella cultura europea di quel tempo coprirsi il capo era un contrassegno delle virtù morali femminili. Al cospetto dei pretendenti, dunque, Penelope è donna, madre, sposa e regina: mentre si porta lo scialle “davanti alle guance” sottolinea tanto il proprio aidós, quanto la propria sophrosỳne, insomma il pudore e la ragionevolezza, il riserbo e il buon senso.
Per secoli, nel mondo antico, il gesto femminile di velarsi è rimasto associato a Penelope. Nel suo viaggio in Grecia, a circa cinque chilometri da Sparta, Pausania incontrò un monumento isolato che interpretò come “statua del Pudore”[37]. Non descrisse la scultura, ma riportò la diceria che fosse una dedica di Icario, il padre di Penelope. Ulisse aveva vinto la gara di corsa voluta da Icario per scegliere lo sposo della figlia[38], senonché dopo il matrimonio il padre supplica Penelope di restare a Sparta, e non andare a Itaca. Ulisse impone allora a Penelope di scegliere tra sé e Icario. A questo punto la donna tace, ma si copre il volto; Icario comprende e dedica una statua (àgalma) al pudore. Il gesto di Penelope – un segno di vergogna come nel I canto dell’Odissea – rende così palesi le implicazioni ambigue dei desideri di Icario (che Pausania lasciò sottintese).
[…]
La pausa dell’arco
La postura statica di Penelope che il poeta disegna lungo tutta l’Odissea, si interrompe in un solo episodio, quello del recupero dell’arco di Ulisse[39]. Come all’improvviso, il racconto viene investito da un’intensa tensione figurativa, che delinea le azioni della donna, gli oggetti che lei maneggia, gli spazi percorsi: il talamo nella parte più remota della casa (vera e propria stanza del tesoro); l’apparato della porta (la soglia di quercia, i battenti, i chiavistelli, la cinghia e l’anello metallico); la chiave di bronzo con l’impugnatura d’avorio; il “soppalco” e le casse con le vesti; il fodero che contiene l’arco, la faretra, le frecce.
Per la prima volta vediamo una Penelope che agisce con rapida determinazione: protesa verso l’alto, si allunga in punta di piedi per raggiungere il chiodo a cui è appeso il “fodero splendido” dell’arco[40]. Ma è proprio a questo punto che il talamo-tesoro e i materiali preziosi che contiene sembrano sopraffare Penelope col loro carico di senso, impregnati come sono di memoria e di eventi incombenti. Prima ancora di essere strumento di gara e “inizio di strage”[41], l’arco è infatti mnéma, “ricordo” di un viaggio in Messenia e di un’amicizia ormai lontana del consorte: quella che segue[42] – molto più che una digressione – è proprio la rievocazione di questa vicenda remota con il suo peso di legami e affetti. Molto più che un’arma o un mezzo di dimostrazione di forza questo arco è una sorta di correlativo oggettivo: intatto da vent’anni, protetto da una custodia, riposto in una zona separata della casa, sembra condividere in forma inanimata il destino della moglie di Ulisse[43].
La collisione tra l’imminente gara dei pretendenti e un evento felice del passato (per quanto relativo al marito) è insostenibile: Penelope scivola a terra (perché dovrebbe esserci un seggio in quel talamo-tesoro sempre chiuso a chiave?), posa il fodero sulle gambe e, mentre ne estrae l’arco, piange gemendo. Un cedimento segreto e una pausa breve, che non sembra lasciar traccia nell’immaginario degli antichi e dei lettori moderni dell’Odissea, salvo in Angelika Kauffmann. Come si è visto, la pittrice svizzera ritrasse più volte Penelope: impegnata alla tela, in preghiera per il ritorno del figlio, risvegliata dalla vecchia nutrice di Ulisse [Fig. 5]. Eseguì poi diverse repliche di questo pianto di Penelope sull’arco di Ulisse [Fig. 6], a volte come pendant della figura di Calipso in lacrime dopo la partenza di Ulisse[44].
Sono gli anni in cui l’artista riflette sul tema della donna addolorata e sola partendo da sollecitazioni letterarie: a cominciare dalla Poor Maria, la pastorella triste che Laurence Sterne descrive nel Sentimental Journey del 1768[45]. Non c’è bisogno di sottolineare l’analogia tra le posture di queste figure di donne dolenti e le Penelopi di età classica, che con ogni probabilità la pittrice non conosceva: il gesto è infatti “cristallo di memoria storica”[46] in una saldatura di movimenti e stati d’animo che le immagini registrano affiancando alla memoria corporea una tradizione visiva (che non di rado anche i testi riecheggiano)[47].
Altre Penelopi
Anche se viene la tentazione di considerare le Penelopi del V secolo come le “vere” Penelopi, si deve tener presente che queste immagini sono pur sempre il prodotto della ricezione del testo omerico in età classica. Tanto è vero che, appena si abbandona il contesto greco, l’attenzione si sposta sul nesso tela-Penelope, che ben presto si configura come un’associazione proverbiale, un topos da usare a piacimento[48]. Per fare un solo esempio, le Imagines di Filostrato il Vecchio (2, 28): un “bel quadro” mostra la regina al lavoro su un telaio in cui si distinguono spola, licci e ordito. In parallelo, si ha l’impressione che siano soprattutto gli ultimi canti dell’Odissea a colpire l’immaginario dei lettori: è l’incontro con Ulisse (piuttosto che la solitudine della moglie) a presentarsi come il momento cruciale.
E non stupisce che – carico com’è di tensione (gli ascoltatori-lettori sanno, Penelope ancora no) – si prediliga il momento il cui l’eroe è ancora travestito da mendicante; momento non così banale dal punto di vista visivo, perché lo spettatore mentre osserva un povero viandante deve poterlo identificare come Ulisse. Nel dipinto del Macellum di Pompei, l’eroe ha un’aria sciupata, ma nello stesso tempo ha la barba ricciuta e folta, e porta sul capo il copricapo di feltro (pìlos) che lo accompagna solitamente nell’iconografia antica[49]. Penelope gli sta dinanzi con una posa perplessa (di nuovo una mano portata a contatto col volto), ma è in piedi: ancora una volta le immagini fanno il loro percorso, senza sentirsi in obbligo di rispecchiare perfettamente il testo omerico.
Penelope è di nuovo in piedi, e in una postura non molto diversa, su una serie di teche di specchio etrusche databili al III secolo a.C.: anche qui l’anonimo viandante (con un grosso bastone) e l’eroe (l’abituale pìlos sul capo) si sovrappongono[50]. Tra i due sposi che si fronteggiano (Ulisse sta prendendo la parola) c’è il cane Argo, presenza che non rispetta affatto il racconto omerico nel canto XXIII, ma che serve a togliere ogni dubbio allo spettatore sul fatto che Ulisse è tornato a casa, e viene riconosciuto dal proprio cane. È forse già presente la connotazione simbolica della fedeltà coniugale? Su un vaso a figure rosse ancora d’ambito etrusco, la stessa scena perde il tono solenne che aveva nelle teche di specchio, e si anima fin troppo[51] [Fig. 7]: il cane abbaia, Ulisse con un copricapo da viaggio, una lancia (e un vestito fin troppo elegante) parla alla moglie, che gli risponde gesticolando nell’aria con entrambe le mani.
Nella storia post-classica di Penelope, un filone del tutto speciale è quello originato dalle Heroides di Ovidio, con riflessi tanto nelle arti figurative, quanto nella letteratura del Rinascimento[52]: prima tra una serie di mitiche innamorate, anche la regina di Itaca scrive un’accorata lettera al marito. I versi del poeta latino diventano l’occasione per immaginarsi una dama con penna e calamaio, e in abiti moderni (a ennesima conferma del “principio di disgiunzione” di Panofsky). Naturalmente Ovidio non si curava dell’incongruenza della situazione, ma ancor meno se ne preoccupano gli illustratori rinascimentali delle Heroides: non solo ci mostrano una Penelope impegnata nella scrittura, ma convocano addirittura un marinaio incaricato di recapitarne la missiva. Insomma, è come se a Itaca si sapesse benissimo dove si trovava in quel momento Ulisse.
Penelope secondo Primaticcio
Quella che forse è stata la più imponente rivisitazione figurativa dell’Odissea in età moderna – la Galleria d’Ulisse, nel castello di Fontainebleau – offre uno sguardo sorprendentemente nuovo sulla moglie dell’eroe. Le pareti della galleria, lunghe circa 150 metri, raccontavano il poema suddividendolo in cinquantotto episodi distribuiti in due sezioni: sulla parete nord gli episodi delle peripezie dopo la partenza dei Greci da Troia, su quella meridionale le storie dopo l’arrivo di Ulisse a Itaca. La decorazione delle volte e delle pareti, iniziata dal re di Francia Francesco I e conclusa sotto Enrico II, coprì all’incirca due decenni (1541-1560) e fu affidata al bolognese Primaticcio e, in un secondo tempo, al modenese Niccolò dell’Abate. Il vasto complesso, distrutto nel 1739, è ricostruibile grazie a un gruppo di disegni preparatori e, soprattutto, grazie alle incisioni di Theodoor van Thulden, riunite in album pubblicati più volte tra il 1633 e il 1640[53]. Nonostante siano in controparte, queste incisioni sono importanti perché offrono la sequenza esatta degli affreschi perduti, e per le didascalie che dichiarano il soggetto dei diversi episodi (a loro volta corredati da una “spiegazione morale”); un aiuto in questo senso viene anche dal cosiddetto Album Palange, una raccolta dei disegni degli affreschi della stessa galleria, forse di poco posteriori all’opera di Van Thulden[54].
Una volta che i pittori decisero (inaspettatamente) di lasciar da parte la figura di Nausicaa, Penelope divenne la figura femminile di maggior risalto dell’intero ciclo pittorico, tanto più che la sua è una presenza in vistoso crescendo. La prima apparizione è infatti in secondo piano: mentre Atena appare in sogno a Ulisse – ma questa è un’inserzione dei pittori –, lei propone ai pretendenti la gara dell’arco[55]. È defilata anche la seconda figura di Penelope, sullo sfondo della scena in cui le ancelle fedeli scendono nella sala incontro a Ulisse (vestito come un imperatore romano), lo salutano e lo baciano; la moglie invece è nelle sue stanze, intenta al telaio, ormai raggiunta dalla nutrice Euriclea che le annuncerà il ritorno dello sposo. Nell’episodio successivo, quello in cui Ulisse viene lavato e rivestito di chàris per opera di Atena, in secondo piano c’è Penelope, completamente nuda, a sua volta lavata dalle ancelle[56]: anche questa è un’idea di Primaticcio.
Nell’affresco seguente, ecco finalmente il riconoscimento e l’abbraccio tra i due sposi[57]. Entrambi sono al centro dei quattro riquadri successivi, ma un accento speciale è proprio su Penelope: nella scena in cui le serve preparano il letto, ed Eurinome, “l’ancella del talamo”, guida la coppia alla luce di una fiaccola[58], Ulisse sembra donare una nuova fede nuziale alla moglie[59]; di fatto la moglie di Ulisse è già seminuda, annuncio della tonalità erotica dei tre affreschi che seguono. Ormai nessuna traccia di veli, di ritrosia o di vergogna: attraverso la reiterata, giovanile nudità del corpo appare insomma una Penelope del tutto inedita.
A cominciare dal riquadro: mentre da una parte le danze di festa vengono fermate, dall’altra Penelope e Ulisse “si saziarono con l’amore desiderato, godettero ai loro racconti, narrando l’un l’altra”[60]. Infatti, sia nell’affresco perduto, sia nel dipinto di Primaticcio oggi a Toledo (Ohio), i movimenti delle mani dei due sposi sono quelli di chi parla e racconta[61].
Fin qui il percorso delle immagini segue da vicino il filo degli eventi del poema, con le sfasature, le omissioni e le aggiunte imposte dal diverso medium[62]. Ma ora c’è un cambiamento che incide sull’intera atmosfera del racconto: i dubbi sulla vera identità del mendicante che Penelope aveva avuto appena dopo le rivelazioni della nutrice Euriclea, adesso si fanno avanti addirittura dopo l’amore; nel testo omerico l’esitazione della donna è esplicita, qui invece del tutto interiore: Penelope è sveglia perché inquieta, l’eroe dorme.
Ma ecco la svolta nell’affresco successivo: il letto nuziale, che nel poema è lo stratagemma ideato da Penelope per confermare l’identità dello sposo (lo costruì egli stesso, e un viandante qualsiasi non può saperlo), ora diventa il teatro del lieto fine. Scendendo dall’alto come un angelo (le dee hanno tutt’altro modo per presentarsi), Atena rassicura Penelope: quello è proprio suo marito. Nel ciclo di Fontainebleau avviene insomma una vera e propria riscrittura del poema: se Ulisse diviene modello delle qualità ideali del principe, sulla figura di Penelope si proietta tutto lo splendore della vita di corte, ma anche l’ombra della radicale diffidenza che ne regola i rapporti reciproci.
*Questo contributo è apparso, in forma più ampia, nel catalogo della mostra Penelope, a cura di A. Sarchi e C. Franzoni, Electa, Milano 2024 (courtesy dell’Editore).
Note
[1] I, vv. 325-336; lo schema si ripete in XVIII, vv. 209-210.
[2] “Il cantore famoso cantava tra loro, ed essi sedevano / ascoltando in silenzio: cantava degli Achei il ritorno / luttuoso, che gli inflisse da Troia Pallade Atena. / Dalle stanze di sopra ne intese il canto ispirato / la figlia di Icario, la saggia Penelope: / l’alta scala discese della sua camera, / non sola, con lei andavano anche due ancelle. / E quando giunse dai pretendenti, chiara fra le donne, / si fermò vicino a un pilastro del solido tetto, / tenendo davanti alle guance il lucido scialle: / da ciascun lato le era accanto un’ancella fedele. / Piangendo si rivolse poi al divino cantore: […]”.
[3] Lateiner 1995, 126-ss.
[4] XVI, vv. 413-416; XVIII, vv. 209-210. 5 II, v. 342.
[5] II, v. 342.
[6] XVII, vv. 339-341.
[7] XIX, vv. 53-54.
[8] V, vv. 212-213.
[9] V, v. 217.
[10] XVIII, vv. 248-249.
[11] XIX, vv. 124-125.
[12] XVIII, vv. 187-196.
[13] XXI, v. 6: “con la mano robusta”.
[14] II, v. 12 e XVII, v. 63.
[15] VI, v. 237; VIII, v. 19; XXIII, v. 162.
[16] XVIII, 200. Su questo passo e sulle valenze del krèdemnon, vedi Lateiner 1995, 256.
[17] XV, v. 45.
[18] XXI, v. 394.
[19] XXII, v. 473.
[20] Horkheimer, Adorno [1947] 1980, 85.
[21] XVII, v. 542.
[22] XVIII, v. 163. Le interpretazioni di achrèion d’egèlasse sono diverse e in buona misura contrastanti. Rosa Calzecchi Onesti traduce “amaramente sorrise”; Maria Grazia Ciani traduce invece “all’improvviso ella rise”.
[23] Cfr. il commento di Privitera nell’edizione di riferimento, Fondazione Lorenzo Valla 2015, alla pagina 204.
[24] Lateiner 1995, 42.
[25] XVIII, vv. 257-258.
[26] Lateiner 1995, 72.
[27] Brulé 2006, 19-37.
[28] I, v. 334.
[29] V, v. 346.
[30] V, v. 232.
[31] Giovanni Pascoli, Poemi conviviali, nell’edizione Zanichelli, Bologna [1904] 1961, 99.
[32] XVIII, v. 184: “Sola non vado tra gli uomini, perché mi vergogno”.
[33] XVIII, v. 213.
[34] Cairns 2003, 73-94.
[35] Lateiner 1995, 258.
[36] Heath 2008.
[37] Pausania, III, 20, 10.
[38] Pausania, III, 12, 1.
[39] XXI, vv. 1 e sgg.
[40] XXI, vv. 52-54.
[41] XXI, v. 4.
[42] XXI, vv. 13-38.
[43] Lateiner 1995, 197: “The bow, hidden in its shining case, is like Penelope, protected by her shining clothes, veil, and domicile. She and it have been left behind in Ithaka for use only there, a prize indefinitely inaccessible but now at long last to be set out before hungry suitors”.
[44] Ad esempio, negli ovali del Bündner Kunstmuseum di Coira. Sulla pittrice e Penelope, cfr. Mazzocca 2020, 77.
[45] Stamford, Burghley House.
[46]Agamben, Note sul gesto, in Agamben 1996, 48.
[47] Ecco infatti come Laurence Sterne, nel suo Viaggio sentimentale in Francia e Italia, descrive la giovane Maria incontrata fuori Moulines: “Scoprii la povera Maria seduta sotto un pioppo, con un gomito in grembo, e la testa incline su una mano” (Sterne [1768] 2002, 273-275).
[48] Ad esempio, uno degli Adagia di Erasmo (1508), Penelopes telam retexere, cfr. Fiorenza 2011, 229.
[49] Barringer 1994, 151.
[50] Camporeale 1992, nn. 130-139.
[51] Camporeale 1992, n. 126.
[52] Fiorenza 2011.
53 Les travaux d’Ulysse, desseignez par le sieur de Sainct Martin, de la façon qu’ils se voyent dans la maison royalle de Fontaine-Bleau, peints par le sieur Nicolas et gravés en cuivre par Théodore Van-Tulden, avec le sujet et l’explication morale de chaque figure, oeuvre dédiée à Monseigneur de Liancourt, Melchior Tavernier, Paris 1633.
[54] Capodieci 2011, 202-204.
[55] Les travaux…, n. 38. Album Palange: “Penelope, ayant cru reconnoitre son epoux, et voulant s’en assurer sans l’exposer, imagine de proposer à ses courtisans l’essai de l’arc que lui seul pouvait bander. Minerve avertit Ulysse de cette ruse”.
[56] Così legge la scena l’Album Palange, cfr. Capodieci 2011, 219: “Minerve fait prendre un bain à Ulysse, qu’elle cherche à rendre plus agréable, en se chargeant elle même de sa toilette. Penelope reçoit de ses femmes le même service”.
[57] XXIII, vv. 205-240.
[58] XXIII, vv. 289-294.
[59] Questa la didascalia dell’Album Palange: “Ulysse, avant de partager de nouveau avec Penelope la couche nuptiale, lui remet un aneau qu’il portait à l’époque de leur separation”.
[60] XXIII, vv. 300-301.
[61] Giancarlo Fiorenza analizza il quadro di Toledo (Ohio) – una versione in piccolo formato dell’affresco 48 – partendo dall’ipotesi che Ulisse stia accarezzando il mento di Penelope; anche alla luce del riuso della scena fatto da Nicolò dell’Abate è evidente che si tratta di un gesto allusivo al parlare (Fiorenza 2006, 802-803).
[62] Capodieci 2011.
Riferimenti bibliografici
Il testo dell’Odissea consultato e citato è quello in otto volumi a cura di A. Huebeck, S. West, J.B. Hainsworth, A. Hoekstra, J. Russo, M. Fernández- Galiano, nella traduzione di G.A. Privitera con gli aggiornamenti di M. Catilena, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 2015.
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G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino 1996. - Barringer 1994
J.M. Barringer, The Mythological Paintings in the Macellum at Pompeii, “Classical Antiquity”, 13, 2, 1994, 149-166. - Brulé 2006
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D. Cairns, The Meaning of the Veil in Ancient Greek Culture, in L. Llewellyn-Jones, ed., Aphrodite’s Tortoise. The Veiled Woman of Ancient Greece, Swansea 2003. - Camporeale 1992
G. Camporeale, s.v. Odysseus-Uthuze, in LIMC, VI, Zürich und München 1992, 970-983. - Capodieci
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English abstract
The text is an excerpt from Claudio Franzoni’s essay that appeared in the catalog of the exhibition Penelope, held in Rome, Parco archeologico del Colosseo (September 19, 2024 – January 12, 2025), co-curated by the author himself with Alessandra Sarchi. Comparing literacy and visual representations, the author analyzes episodes, places, iconography, accessories, gestures and postures of the figure of Penelope, articulating the sources and the interpretations in paragraphs, including Un and down the room upstairs; The shwal in front od her cheeks; The bow; Other Penelopes, Primaticcio’s Penelope.
keywords | Penelope; Homer; Iconography; Literary Tradition; Gesture.
Per citare questo articolo / To cite this article: C. Franzoni, Immaginare Penelope, “La Rivista di Engramma” n. 217, ottobre 2024.