"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

217 | ottobre 2024

97888948401

Mostrare

Lettura di: Antonella Huber, io mostro conforme/difforme misure di realtà nella pratica espositiva, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024

Angela Vettese

English abstract

Un percorso extravagante, asistematico, continuamente preda di carotaggi nel profondo dei fatti così come di sguardi a volo d’uccello su uno stesso campo storico e teorico: il modo e il significato di fare mostre così come ci si presenta oggi, epoca in cui si è espanso a dismisura, ma anche figlio di un passato fatto di Wunderkammer, di archivi e raccolte scientifiche, di collezioni private e tentativi di mettere in scena l‘opera d’arte come uno dei frutti del sapere. Questo è il focus del libro Io, mostro di Antonella Huber, nata alla scuola bolognese, docente e consulente per numerosi allestimenti. Ha costruito 431 pagine di riflessioni, illustrazioni, citazioni, note e apparati bibliografici, connotate da quel che l’architetto-mentore Corrado Levi definiva “il cangiante” (cfr. la lunga citazione alle pagine 18-19): ciò che cambia senza gradualità, bruscamente, solo spostando il proprio punto di vista. La storia del mostrare ha, per l’autrice, questa duttilità sorprendente, per la quale ha più senso saltare di palo in frasca (cum grano salis) invece che redigere una trattazione didascalica. E nemmeno la pura teoria può essere di grande aiuto, essendo qualcosa che viene dopo le prove e gli errori dell’esporre, e non prima: nonostante il libro si apra con un rimando a Roland Barthes, la vicenda del mostrare si è andata facendo attraverso momenti pratici, apparizioni di nuovi metodi – come la performance di Frank O. Gehry Il corso del coltello, Venezia 1984 – che sono stati il seme di nuove forme museali multiformi – come il Solomon R. Guggenheim Museum, sempre di Gehry, inaugurato a Bilbao nel 1997.

Siamo naturalmente in Occidente e il libro racconta la storia di un canone, quello appunto dell’esporre nell’Ovest del mondo, che sta rapidamente impregnando di sé anche gli altri punti cardinali. Persino il Van Abbe Museum di Eindhoven, così come è stato concepito dal suo direttore Charles Esche dal 2004, cerca esplicitamente di decostruire quel canone e di privarsi dei suoi risvolti inevitabilmente coloniali. Ma asserire che ci sia riuscito è difficile: stavano in fondo costruendo quell’insieme di norme non dette e a cui soggiace una supremazia culturale capitalista persino i pazzi allestimenti di Marcel Duchamp, da quello fatto per l’Exposition International du Surréalisme a Parigi, nel 1938, con manichini travestiti da ciascun artista coinvolto e da sacchi di juta ancorati al soffitto, a quello del 1942, nella sala da ballo della Whitelaw Reid Mansion a New York, intitolato The Mile of Strings, in cui un reticolo di corda lanciato nello spazio come una ragnatela tridimensionale ritardava l’incedere dello spettatore tra le opere. Nei suoi voluti e costanti “ribaltamenti” (p. 215) del buon senso, delle leggi della fisica e delle pratiche correnti, Duchamp proponeva una prima tipologia di critica delle istituzioni a se stesse. Se non che, l’intera Critique Institutionelle che è seguita molto più tardi, nella pratica degli artisti come nel lessico dell’allestimento e dell’architettura museale, non ha fatto che dare nuove parole a un discorso avviato e a suo modo coerente, che si ricollegava con l’idea del meraviglioso, dell’insensato, di ciò che è intenzionalmente incongruente e quindi stupefacente, che resta viva e operante nella storia dell’esibire come un fiume carsico.

Lo suggerisce il titolo del libro, del resto: mostrare è anche creare mostri, come le piastre di pavimento divelte che imponevano una camminata malcerta nel Padiglione tedesco di Hans Haacke (Biennale di Venezia, 1993), di cui si ritrova un’eco nelle facce piatte e metalliche accumulate a terra da Menashe Kadishman nel museo che Daniel Libeskind ha dedicato alla Shoah a Berlino. In entrambi i casi i mostri sono quei pavimenti impercorribili e anche noi stessi, mentre cerchiamo di percorrerli diventando dei goffi performer che vivono e comunicano l’esperienza di una drammatica instabilità; nel caso del museo berlinese, ci macchiamo al contempo, senza probabilmente realizzarlo, della crudeltà di chi cammina sui volti delle vittime.

Non possiamo ascrivere l’afflato critico e rivoluzionario contro il canone al mondo fascista, nel cui seno si svilupparono anzi alcune tra le forme più ribelli e fantasiose di ovuli espositivi. Se ne possono percorrere molti rileggendo il numero di “Casabella” della primavera 1941, dove il direttore Giuseppe Pagano invitava, con il suo editoriale Parliamo un po’ di esposizioni, a guardare “gli edifici provvisori per fiere, esposizioni, mostre: da queste intelligenti baracche il pubblico italiano ebbe modo di conoscere l’architettura moderna” (p. 177). È un peccato che il testo di Antonella Huber non si avventuri ancor di più nel mondo dei padiglioni effimeri, per esempio quelli creati negli ultimi vent’anni su commissione della Serpentine Gallery di Londra, laddove la formula “intelligente baracca” ha espresso tutto il suo potenziale di architettura del possibile e dell’esperimento anche utopico, perché non necessariamente permanente, di momento collettivo dedicato a riunioni, lezioni, condivisioni comunitarie: e ricordiamo i sogni monumentali di Vladimir Tatlin nella prima fase dei soviet.

Sempre riflettendo sui destini dei fabbricati provvisori, il libro di Huber ricorda come da una struttura inizialmente provvisoria, nel 1929, da un museo senza una sede stabile, sia nato il MoMA di New York: quello stesso che nel novembre 2004, dopo quattro anni di ristrutturazione, ha riaperto i battenti occupando quasi un intero block di New York e con altezze da brivido, che provocano momentanee perdite di equilibrio a chi si affacci alle balaustre interne. Nel suo nuovo abito scuro, inquietante ma stabile, il Museum of Modern Art non solo celebra se stesso come centro normativo mondiale per le arti contemporanee, ma ci consegna anche l’idea di un organismo multidisciplinare che, nonostante accolga discipline diverse, riesce a rimanere monolitico, cioè a non essere disorganico com’è accaduto, secondo Lawrence Alloway, alla “multicellulare” Biennale di Venezia.

E in tutto questo allestire, in questo creare percorsi più o meno pericolosi o curiosi, che fine fa il corpo del visitatore? Il canone del museo novecentesco lo trasforma in un performer, come si è già accennato, che talvolta si appiccica con fare voyeuristico al buco di una serratura – tipico quello di Étant Donnés a Philadelphia, progettato ancora una volta da Duchamp negli anni Sessanta – ma anche in un esploratore di spazi bui e cavernosi, come accadde nella galleria di Peggy Guggenheim Art of This Century grazie alle luci, alle ombre, agli spazi curvi, ai corridoi, agli anfratti, alle sedie trasformabili in cavalletto inventate da Friederick Kiesler nel 1942. Queste proposte, così densamente partecipative, anticiparono di decenni l’ansia tipica dell’estetica relazionale degli anni Novanta, in cui il coinvolgimento dello spettatore passa anche per il cibarsi o il dormire.

Ma sarebbe una grande lacuna non rendere omaggio anche al contrario, cioè all’affermarsi progressivo del cubo bianco, in cui il corpo dello spettatore diventa uno spettro muto, pregato di guardare e non toccare. Voluto dagli espressionisti astratti dalla fine degli anni Quaranta, diventò subito la regola più rassicurante per le gallerie d’arte private, quelle i cui spazi piccoli si ingrandivano grazie all’espediente del bianco, del vuoto e del silenzio indotto. E in fondo anche i musei hanno talmente rincorso questo stile, fattosi presto la regola, che tutte le contromosse hanno avuto una vita dura. All’autrice del libro non piace molto il Pompidou di Parigi, per esempio, che forse meriterebbe di essere considerato di più se non altro per il suo carattere seminale. Le garba assai, invece, l’esperimento di Italo Rota per il Palazzo dei Musei di Reggio Emilia, dove viene adottata una logica illogica che deve molto al movimento letterario Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle), così come al coinvolgimento di artigiani, falegnami, altri artefici del mondo della manualità e non di quello del progetto. Eppure, questo museo, come l’Arengario di Milano sempre affidato a Rota, ha dovuto combattere per piacere e sconfiggere il pregiudizio ormai saldo che favorisce i grandi spazi neutri.

È chiaro che Antonella Huber sta dalla parte di Rota e di tutti coloro che hanno osato giocare con allestimenti oscuri, non paratattici, contrari alle stanze en filade che connotarono i primi musei del mondo e che ancora costringono, per esempio, i visitatori del Louvre. Per dirla con l’ultima citazione del libro, il cui onore è lasciato all’artista tedesco Joseph Beuys, occorre perseguire “il metodo che Goethe sviluppa a partire dalle scienze naturali, ossia non si pongono semplicemente due cose una accanto all’altra, ma diverse e si cerca di partire da questi insiemi per stabilire il cammino che va da una cosa all’altra e viceversa, in modo che l’osservazione che va da una cosa all’altra divenga essa stessa creatrice […], un processo di creazione sulla sostanza” (Huber 2024, 408). Perché l’andare in un museo deve anche significare conoscere, mettere in moto meccanismi di associazione inconscia, suscitare la ristrutturazione di un campo cognitivo che non può rimanere se stesso, pena il fallimento della visita. Dal museo si deve uscire diversi, qualsiasi cosa ciò implichi sul piano del progetto e del pensiero che questo sa suscitare.

English abstract

The author reviews Antonella Huber’s book io, mostro (2024), dealing with the multifaceted field of curatorial practice in present time. A volume of more than 400 pages of reflections, illustrations, quotations and apparatus leads the reader through this pliant and iridescent field of practice and theory, invention and reception, which has expanded enormously and continues to grow. After analyzing a wide range of examples of installations, the book’s author focuses on the figure of Italo Rota and his major interventios in Museo del Novecento, Milan and Palazzo dei Musei, Reggio Emilia. The reviewer discusses this choise as a preference for the variety of spaces, the involvement of artisans and the creative observation of artworks rather than for the large neutral spaces of many contemporary exhibition venues. 

keywords | Curatorial Practice; Exhibitions; Antonella Huber.

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Vettese, Mostrare. Recensione di: Antonella Huber, io mostro conforme/difforme misure di realtà nella pratica espositiva, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, “La Rivista di Engramma” n. 217, ottobre 2024.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.217.0020