Maria Lai per figure
Una conversazione con Stefano Scialotti sul suo film-intervista Maria Lai. Assetata di libertà, Dinamolab 2005-2021
a cura di Antonella Sbrilli
English abstract
Il telaio dal titolo Oggetto paesaggio del 1967, la Tela nell’orizzonte del 1979, il libro cucito dal titolo Al volger della spola del 1995 sono alcune opere dell’artista Maria Lai presentate nella mostra sulla figura di Penelope, di cui parla Claudio Franzoni nel suo saggio.
Un omaggio a un’artista, nata a Ulassai nel 1919 e scomparsa nel 2013, che da alcuni decenni si trova al centro di una vasta e matura attenzione. Alle prime monografie degli anni Novanta, hanno fatto seguito mostre e pubblicazioni che la vedono interprete di tendenze attuali e inattuali, con i suoi libri cuciti, i pani, i telai, la pedagogia, la creazione di relazioni. L’accostamento giudizioso e silenzioso con la materia tessile del mito di Penelope fa da liaison con questa conversazione sull’artista sarda, condotta con il regista Stefano Scialotti, autore del film-intervista Maria Lai. Assetata di libertà (Produzione Dinamolab 2005-2021, durata 54’).
Risultato di un incontro e di una lunga frequentazione con le opere dell’artista, il film è visibile dal 15 novembre 2024 al 28 luglio 2025 nella prima retrospettiva americana di Maria Lai, che si tiene presso Magazzino Italian Art a Cold Spring, New York, col titolo Maria Lai. A Journey to America, a cura di Paola Mura[1].
Regista e documentarista romano i cui interessi intersecano vari campi, i diritti umani, l’infanzia e la vecchiaia, la memoria e l’arte, Scialotti ha al suo attivo un nucleo di biografie su artisti contemporanei, fra cui Fabrizio Plessi, Luigi Ontani, María Pagés; video racconti delle Biennali internazionali, fra cui Cuba, San Paolo, la stessa Venezia, in cui emergono aspetti “biografici” delle città ospitanti e percorsi diagonali nei sistemi dell’arte; raccolte di interviste a bambini di varie parti del mondo sui loro sogni onirici. Di recente ha curato una serie di video racconti sulle memorie di persone anziane, dal titolo Timescapes, all’interno di un progetto di terza missione dell’Università Sapienza (Paesaggi di confine 2024).
Nel film su Maria Lai, le riprese di lei e delle opere sono ritmate da una serie di parole chiave che compaiono sullo schermo riportando i concetti più intensi espressi dall’artista, le svolte nel racconto della sua vita, i dettagli tattili e visivi della sua memoria. Abbiamo chiesto al regista Stefano Scialotti di ricostruire l’evoluzione di questo film e il suo contesto.
D: Quando ha avuto inizio il percorso che ha portato alla realizzazione del film?
R: Si è trattato di un incontro imprevisto, avvenuto nell’aprile del 2005, quando Sveva Di Martino, direttrice scientifica del Museo dell’Olio della Sabina di Castelnuovo di Farfa, mi ha chiamato per chiedermi di realizzare – sulla scorta delle mie esperienze – una rapida intervista a Maria Lai sui suoi interventi site specific nel museo. Come sai, Maria ha partecipato al progetto del Museo dell’Olio realizzando il logo in maiolica, un’oliva verde dal contorno aperto con al suo interno un ovale dorato e progettando una serie di interventi ludici, poetici e coinvolgenti, fra cui il Volo del gioco dell’oca e I luoghi dell’arte a portata di mano.
Fui messo però in guardia sul fatto che Maria, non amando le interviste, richiedeva un incontro veloce di pochi minuti di cui lei potesse tirare le fila. Io avevo già visitato il Museo dell’Olio e fatto delle riprese delle opere di Maria e ho dunque accettato, fiducioso che il vincolo temporale dei cinque minuti paventato dalla direttrice fosse superabile nel momento dell’incontro (come infatti è stato), grazie anche alla mia tecnica di nascondere o almeno dissimulare la presenza della telecamera e di cercare di far emergere il più possibile il racconto. Come regista, quello che faccio abita uno spazio intermedio fra il documentario e il film verità: non uso voci fuori campo, ma solo interviste nel presente filmico, sono loro a creare il racconto.
D: Dove si è svolto l’incontro con Maria Lai?
R: Ci siamo incontrati nella sede di Spazi Consonanti, uno studio che opera sul restauro monumentale, il recupero urbano, la museografia, gestito dagli architetti Sveva Di Martino e Mao Benedetti; con loro, fra l’altro, ho collaborato a un video per la mostra Il rito segreto al Colosseo (2005) e a un altro per il Museo del Silenzio, che si trova all’interno del Monastero delle Clarisse Eremite a Fara Sabina. Mi viene in mente che una delle prime frasi di Maria Lai nel film ha per oggetto proprio il silenzio: “Questo era un dato di fatto che io amavo il silenzio e tutti si meravigliavano e mi chiedevano, ma perché non ti amiamo abbastanza? E io dicevo… non lo sapevo perché amavo il silenzio”.
D: Come si è svolta la conversazione?
R: L’incipit è stato una domanda che riguardava specificatamente il Museo dell’Olio. Ma per un felice imprevisto e per quella che vorrei chiamare una istantanea sintonia, la risposta di Maria Lai ha sconfinato da subito su temi più ampi e più intimi, connessi con i suoi primi affacci all’arte, con gli anni giovanili, con gli incontri della sua vita. Una voce in campo, le mani che si muovono, riflessioni, sorrisi, risate.
Qualche domanda della direttrice la riportava sull’origine delle sue opere e dei suoi interventi nel Museo (fra cui l’Albero del poeta, una cui versione è conservata nello studio di Spazi Consonanti). Come si vede nel film, a intervalli, Maria prendeva una pausa per riflettere e guardava verso la camera con intensità. L’ho ascoltata senza interromperla se non per brevi conferme della mia attenzione, lasciando andare il flusso di un parlato in cui prendeva evidenza la sua distanza sincera da certi meccanismi del sistema dell’arte e la sua attitudine profonda verso il giocare. Alla fine l’incontro è durato un paio di ore e le riprese sono diventate il nucleo del film, che ha aspettato tredici anni per svilupparsi.
D: Che cosa è successo nel 2018, e dopo?
R: Nel maggio di quell’anno, venne organizzata a Castelnuovo di Farfa una giornata di festa per ricordare Maria Lai e le sue opere, nel Museo dell’Olio della Sabina. Sveva Di Martino mi chiese di montare un breve filmato incentrato sulle parole che Maria aveva detto in quella conversazione di tanti anni prima. Insieme con la storica dell’arte Marisa Dalai Emiliani, lavorammo al montaggio per un filmato di cinque minuti da proiettare su una parete rugosa di una grotta sotto il Museo dell’Olio, come una sorta di installazione. L’anno successivo, 2019, fui contattato dal museo MAXXI, dove si stava preparando una grande mostra per il centenario della nascita di Maria Lai (Pietromarchi, Lonardelli 2019). Il progetto di realizzare un lungometraggio sulla base dell’intervista del 2005 non andò in porto per motivi di budget, ma – come un’azione parallela musiliana – si decise, insieme con Marisa Dalai Emiliani e Spazi Consonanti di produrre il film in modo indipendente. L’intervista fu amalgamata ad altri documenti video girati alla retrospettiva alla Biennale di Venezia del 2017, alla mostra a Palazzo Pitti del 2018 (Pontiggia 2018), alla Stazione dell’arte di Ulassai e alla stessa mostra del MAXXI del 2019, oltre che nel Museo dell’Olio, da cui tutto era partito (Dalai Emiliani, Di Martino 2019).
D: Siamo arrivati al lungometraggio, di cui si può vedere un trailer a questo link.
R: Sì, il film biografico si dipana come un film verità che ha come filo conduttore le parole e i racconti dell’artista. La forza e la profondità di questi racconti ci hanno spinto all’idea di un documentario dove si sono individuate alcune parole chiave che titolano gli interventi di Maria Lai: Il silenzio, La più grande prova d’amore, Una mano maschile, Le carte, Il museo dell’olio ecc. Le sue parole ci hanno condotto a un editing essenziale senza nessuna copertura con altre immagini. Tra un’intervista e l’altra si vedono alcune opere di Maria Lai che hanno un’assonanza visiva e cronologica con i contenuti del racconto.
Il racconto di Maria Lai
Di seguito si riportano le trascrizioni del parlato di Maria Lai nel film, scandite dalle parole chiave scritte sullo schermo a intervallare i racconti dell’artista.
Il silenzio
Io non mi conosco. Questo era un dato di fatto che io amavo il silenzio e tutti si meravigliavano e mi chiedevano, ma perché non ti amiamo abbastanza? E io dicevo… non lo sapevo perché amavo il silenzio. Non è che io non amassi gli altri, volevo anche stare con gli altri però avevo bisogno del mio spazio solitario. Perché giocavo! Giocavo. Mi inventavo di essere un’altra, mi inventavo storie, soprattutto inventavo storie da vivere, per cui io ho vissuto moltissimo.
La più grande prova d’amore
Io non sapevo nulla di arte da bambina, poi non venivo da una città, venivo da un paesino sperduto. Sono nata in un paese di pastori di capre. L’arte, l’arte era un pretesto per chiedere a mio padre di andare a studiare fuori perché non c’erano scuole d’arte in Sardegna. Lui naturalmente non credeva affatto che io potessi fare arte. Non solo lui, ma nessuno nel mondo di allora pensava che una donna potesse fare arte. E poi forse, cosa terribile per loro, forse non avrei trovato marito. Perché allora si pensava che una donna dovesse avere sempre un uomo a fianco per avere dignità. Se eri sola non avevi diritto di essere rispettata. Quest’uomo poteva essere un padre, un fratello, anche l’amante, ma doveva esserci. Perché nella mia generazione, e poi in un paesino della Sardegna, questo era il destino della donna. Io volevo uscire da questo destino. E poi alla fine mi ha detto: non posso vederti infelice, vai ti passerà. E mi ha dato tutte le possibilità finanziarie per affrontare questa avventura. Perché lui era convinto che io sarei tornata a casa delusa. Mi amava, tutto qua. Questa è la più grande prova d’amore che ho avuto nella vita.
Assetata di libertà
Venendo a Roma ho cominciato a conoscere anche i musei, ho visto per la prima volta i musei che mi incantavano. Piano piano intuivo, ma ci sono arrivata molto lentamente, ho avuto una maturazione lentissima. Sono passata dalla stupidità totale alla coscienza di qualcosa d’importante. Capivo che l’unica strada che potesse portarmi alla libertà, perché questo era il problema, era l’arte. Io ero assetata di libertà. Perché io credo che ci fosse nel mio DNA l’angoscia di chissà quante generazioni di donne che erano rimaste succubi del potere dei padroni. Le donne del mio paese avevano tutte il telaio in casa e già tutto questo mio lavorare con i fili è legato inconsciamente ai telai. Ma c’era in me una forza inspiegabile e difficile da controllare che mi portava a uscire da tutto ciò che mi poteva proteggere.
Quando hai pensato di voler essere un’artista?
Forse mai. Se devo essere sincera non avevo voglia… perché fare arte nella concezione dell’arte era soltanto avere successo. E il successo mi disturbava. Ancora lo penso. Io volevo solo essere lasciata in pace e giocare. Dunque, non è stato che un tentativo, come ogni mia opera è un tentativo di fare arte, che poi non sappiamo se fa goal. Però è sicuramente qualcosa che può servire come stimolo perché altri più competenti lo rifacciano. Questo l’ho sempre messo in bilancio, io dò una spinta, che altri la seguano. Già per me sarebbe meraviglioso sapere che questa cosa crescerà anche quando io non ci sarò. Potrebbe cambiare il mondo la lettura dell’arte.
Una scelta di vita
E poi sono stata a Venezia, allieva di Arturo Martini. Che era durissimo come insegnante, perché lui diceva che gli artisti devono essere forti. Se noi suoi allievi, io ero l’unica donna naturalmente, avessimo resistito al rigore che lui ci imponeva forse avremmo potuto fare arte. E quindi essere artisti significava soprattutto una scelta di vita. E questa era la prima volta che lo sentivo dire, perché a Roma ci insegnavano il mestiere, avevo imparato benissimo anche a lavorare il marmo, ma non mi avevano insegnato cos’era l’arte, a cosa serviva, che scopo aveva fare arte, né la lettura dell’arte.
Il Museo dell’Olio
Con questa richiesta diversa che avete fatto, a me come artista, e cioè non “porta qui le tue opere, facciamo un museo”, ma “noi ti diamo una materia, l’olio, riesci a farne metafora dell’arte?”. Questa è stata una grande spinta. Perché per fare che le cose entrino nella coscienza devono passare per le parole. Se tu riesci con le parole a farne un discorso coerente, entra nella coscienza. Altrimenti la stessa cosa, senza verità, rimane fuori, come un disturbo. Nella mia terra da generazioni si sa che all’albero dell’ulivo servono cinque “s”: sasso, solco, sole, scure, sale. Le stesse cinque “s” servono per l’arte. Il sasso è la concretezza necessaria all’opera d’arte per realizzarsi, perché non è mai un fatto mentale, occorre sempre una materia e mani che lavorano. Poi, il solco è lo scavo nella tradizione, l’arte nasce solo dove ha avuto alle spalle lunghe tradizioni, di artigianato, di tentativi. Il sole perché porta lo sguardo oltre la terra e l’arte ha un rapporto con l’infinito. La scure perché l’artista deve usare con molto rigore la materia. E il sale perché, come l’olio e come l’arte, nasce amaro, nasce dalle amarezze, ma fa dolci i cibi e l’arte fa dolce l’esistenza. E allora le prima carte le ho fatte su questo gioco.
Io sto meglio con i miei dubbi
Perché l’arte è concretezza, questo che dicevamo del sasso, non è un fatto mentale, non è filosofia, non è matematica… anche se adesso la scienza più avanzata si sta avvicinando all’arte, perché sono crollate le certezze. E questo è il rapporto con l’arte, fuori da ogni certezza, l’arte mette dubbi, deve metterli, deve vivere nel dubbio. Tante volte a me dicono “Ah, ti ammiro come sei brava, hai fatto cose bellissime”. E io dico: “Guarda se è vero che lo pensi, non me lo raccontare perché io sto meglio coi miei dubbi.” Non datemi certezze su di me, io ho bisogno dei dubbi, come fatto vitale. L’arte in fondo nutre più della filosofia e della scienza proprio per questo, perché ti dà chiarezze e ti lascia dei nuovi dubbi, sono i dubbi che sono vitali.
Le carte
È perché con le carte è inconscio… il dialogo. Non è come a scuola, che tu fai la domanda, all’interrogazione devi rispondere… no. Lì tu ti abbandoni a uno stato, quasi di… tra la veglia e il sonno. È un’ubriachezza giocare, ed è lì che poi noi captiamo cose nuove della coscienza, quando siamo quasi ubriachi. Le carte si usano con le mani e con le mani si legge l’avvenire… e anche l’orecchio, perché poi tutti leggono poi a voce alta la carta che hanno in mano, e questo entra nel… diventa un riflesso condizionato: “questa frase l’ho già sentita, dunque c’è questo”.
Io ho incominciato con una provocazione che ho avuto al museo. Allora ho cercato di vedere l’arte da altri punti di vista, ho cercato altre metafore. Allora sono nati i luoghi comuni, dove io praticamente ironizzo su tutte le frasi che la gente dice quando va alle mostre “lo sa fare anche un bambino”, “l’arte ma non mi dice nulla”, “cosa rappresenta?” Allora su questi luoghi comuni ho dato tre possibili risposte e c’è il gioco.
E poi i giochi paralleli. Sono partita dalle carte da gioco normali, quelle che hanno i quattro semi, fiori, denari, cuori e picche, e ho fatto corrispondere i quattro elementi della vita umana, che non si possono spiegare, che sono: la vita stessa umana, il gioco, l’amore e l’arte. Il gioco, l’amore, la vita e l’arte come dialoghi, vivere è dialogare, io col mio silenzio dialogavo, non è il niente. Allora, la vita umana dialoga con la morte, col mistero, il gioco dialoga con sé stesso, l’amore è un dialogo con l’altro e l’arte è un dialogo con l’infinito. Solo l’arte è un dialogo con l’infinito.
Il quarto mazzo di carte riguarda l’alfabeto. Dietro alle lettere dell’alfabeto c’è una domanda da farsi davanti all’opera d’arte. E queste domande cominciano con la lettera “a”, e la “a” è la domanda più importante di tutte che purtroppo pochissimi si fanno, ed è l’ubicazione. Se tu pensi che negli anni ’60, la Gioconda al Louvre era sola in una stanza e adesso è come in un mercatino, in una parete immensa piena, senza spazi, per cui non si legge nessuna di quelle opere. Come mai il Louvre ha potuto essere così scorretto, così poco rispettoso dell’arte? Sull’ubicazione c’è da fare un lungo discorso, ma è chiaro, è semplice, perché anche un bambino lo capisce: se io leggo un libro non posso contemporaneamente leggerne altri, vederne altri, se sento musica devo ascoltarla nel silenzio. Invece questo vuoto per l’arte figurativa non è più rispettato. E poi la dimensione dell’opera è un valore poetico, come è un valore poetico la distanza.
Dunque, non è stato che un tentativo, come ogni mia opera è un tentativo di fare arte, che poi non sappiamo se fa goal. Però è sicuramente qualcosa che può servire come stimolo perché altri più competenti lo rifacciano. Questo l’ho sempre messo in bilancio, io dò una spinta, che altri la seguano.
Ho fatto qualcosa, ma questo dovrebbero adesso portarlo avanti altri, altri storici dell’arte dovrebbero fare questo, più competenti di me, perché io chi sono?... sono una persona ignorante, in fondo. Ho solo dimostrato quanto è necessario questo, ecco sono riuscita a convincere tanti che è necessario. Però tra gli artisti mi sono sempre sentita dire “non è affar nostro” e invece io credo che sia affar nostro, perché tutto ciò che facciamo esiste solo se trova i lettori, altrimenti è una vita fasulla, non ha senso, è come se tu vivessi facendo grandi dialoghi col muro.
Già per me sarebbe meraviglioso sapere che questa cosa crescerà anche quando io non ci sarò. Potrebbe cambiare il mondo la lettura dell’arte.
Nota
[1] La mostra Maria Lai. A Journey to America, curata dalla direttrice di Magazzino Paola Mura, presenta un centinaio di opere che provengono sia da istituzioni italiane (fra le altre la Fondazione Maria Lai, il MAN di Nuoro, il Museo di Aggius, i Musei Civici di Cagliari), sia da collezioni private statunitensi e italiane fra cui quelle dello stesso Magazzino Italian Art, co-fondato dall’amico e collezionista di Maria Lai, Giorgio Spanu.
Bibliografia
Fonti
Riferimenti bibliografici
- Dalai Emiliani, Di Martino 2019
M. Dalai Emiliani, S. Di Martino, Maria Lai: all’olio il pane e alla terra il sogno: opere e giochi per il Museo dell’olio della Sabina, Milano 2019. - Pietromarchi, Lonardelli 2019
B. Pietromarchi, L. Lonardelli, Tenendo per mano il sole, catalogo della mostra tenuta a Roma, MAXXI, 19 giugno 2019 – 12 gennaio 2020, Milano 2019. - Pontiggia 2018
E. Pontiggia, a cura di, Maria Lai. Il filo e l’infinito, catalogo della mostra tenuta a Firenze, Palazzo Pitti, 8 marzo – 2 giugno 2018, Livorno 2018.
English abstract
The director Stefano Scialotti recounts the making of his film Maria Lai. Assetata di libertà (Maria Lai. Thirsting for Freedom), based on a 2005 interview with the Italian artist (born in a village in Ogliastra, Sardinia), who is the focus of widespread attention for her research on the potential of thread and weaving both in personal expression and in social relationships. Starting with the Lai’s collaboration on the Sabina Museo dell’olio (Oil Museum) in Castelnuovo di Farfa, where she intervened with peculiar art works and games, the interview expanded to many topics, connected with her vision of art, craftsmanship and creativity. Many years after this interview, the film was completed with footage taken in exhibitions and shown on several occasions. November 2024 through July 2025, the documentary is on display at the exhibition Maria Lai. A Journey to America, curated by Paola Mura, held at Magazzino Italian Art, Cold Spring, New York.
keywords | Maria Lai; Stefano Scialotti; Documentary Film; Interview.
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Sbrilli (a cura di), Maria Lai per figure. Una conversazione con Stefano Scialotti sul suo film-intervista Maria Lai. Assetata di libertà, “La Rivista di Engramma” n. 217, ottobre 2024.