Divagazioni botaniche
Le osservazioni di Alessandro Marcello del Majno sull’ambiente lagunare
Barbara Boifava
English abstract
Introduzione
Le puntuali ʻdivagazioni botanicheʼ scritte dal libero naturalista Alessandro Marcello del Majno (1894-1980) rintracciano nei brevi ma intensi versi pronunciati da Oderisi da Gubbio nell’opera dantesca una modalità di percezione della natura che introduce il valore dell’osservazione fenologica quale strumento principe per la conoscenza biofisica di un ambiente: “Oh vana gloria de l’umane posse! / com' poco verde in su la cima dura / se non è giunta da l’etati grosse!” (Marcello, DB1, 1, Biblioteca Andrighetti Zon Marcello, Fondo Alessandro Marcello del Majno, d’ora in avanti BAZM). Così avviene anche per i magici giardini di Alcina dell’Orlando Furioso:
Come e per quali vie poté l’Ariosto avere notizia di un ambiente quale è quello meravigliosamente descritto nei Giardini di Alcina e che corrisponde al carattere della vegetazione termofila della Sicilia? l’indagarlo è pieno di lusinghe (Marcello del Majno, DB2, 3, BAZM).
Con la medesima sollecitudine Marcello si interessò alla flora di Venezia e a un’attestata “lacuna floristica” veneziana (Marcello 1960) che, a partire da antiche vicende glaciali, ha determinato un’attenuazione del carattere mediterraneo della flora lagunare e l’inserimento di entità montane:
Per conoscere la flora di Venezia bisogna camminare spesso con il naso in su e sfidar commenti e correre l’avventura di passar per strambi perché tanta è ormai la penuria di terra – concessa alla vegetazione spontanea – che le piante sembrano costrette a vivere come vivono qui i colombi sui muri vecchi e sopra i cornicioni delle case o delle chiese o sui campanili per posarsi al suolo appena l’uomo non se ne accorga o magari finga di non accorgersi per ritardar la spesa del diserbo... (Marcello 1952a, 1).
Tra i più importanti esperti di fitofenologia (Battaglia 1984; Gabbrielli 2005, 172-174), Marcello ha indagato le relazioni esistenti tra i fattori climatici e le manifestazioni stagionali di alcuni fenomeni della vita vegetale, in particolare della flora spontanea veneziana, individuando in questo processo un metodo privilegiato per raggiungere la conoscenza dell’ambiente. Nella sua ricerca gli elementi naturali, con particolare attenzione alla flora urbica (Calzavera 1979) e ai giardini veneziani, agiscono come forme di mediazione tra la città di pietra e l’ambiente lagunare favorendo, nella maggior parte dei casi, forme di interazione, di protezione e di sperimentazione. Come messo in evidenza da Filesi et al. (2006) e da Buffa et al. (2007) in virtù degli studi di bioclimatologia di Rivas Martínez et al. (2004), la ʻlacuna floristicaʼ veneziana è ampiamente giustificata dal fatto che il tratto di costa nord – adriatica che va dalla Romagna al Friuli è l’unico tratto costiero del Bacino del Mediterraneo a non essere soggetto ad un clima di tipo mediterraneo ma a rientrare nella regione bioclimatica temperata.
Nell’indagine di un paesaggio urbano come produttore di esperienze estetiche e ambientali, il canone veneziano identifica un’immagine di città minerale nella quale l’elemento naturale entra, a più riprese, in rapporto con l’opera dell’uomo e così si carica di memorie e di significati. A Venezia la vegetazione ʻnaturalizzaʼ la città e, allo stesso tempo, la natura viene ʻurbanizzataʼ da un paesaggio simbolico e rituale sempre profondamente legato a variabili atmosferiche e climatiche (Heynen, Kaika, Swyngedouw 2005). “Questa città ci lascia senza fiato in ogni momento, anche col variare delle condizioni meteorologiche” si legge in Fondamenta degli Incurabili (Brodskij 1991, 100) e, in accordo con il bisogno umano di sopravvivenza, di nutrimento fisiologico e di formazione collettiva, “la selva di Venezia” (Marini 2024) evidenzia l’importanza degli elementi atmosferici nella formazione di spazi a supporto della vita umana. Le variabili atmosferiche e climatiche possono in questo modo orientare il disegno del paesaggio urbano da un “approccio puramente visivo e funzionale a un criterio più sensibile al movimento, più attento agli aspetti invisibili dello spazio” (Benedito 2021, 22).
“Conosciamo noi il nostro ambiente?” (Marcello 1937, 1, BAZM). A partire da questo interrogativo la ricerca empirica condotta da Marcello indaga le componenti di un medium, inteso come ambiente, elemento, veicolo (Peters 2016, 46), che ha permesso la sopravvivenza di un fenomeno singolare quale Venezia identificando in particolare la materia vegetale come espressione viva del suo ambiente biofisico. Risultato di un processo di adattamento avvenuto a partire da un ambiente fluido, Venezia mette in scena un’esperienza di immersione sostenuta da una cornice naturale che consiste in una serie di caratteri percettivi e di segni d’ordine. Al fine di individuare alcuni di questi caratteri e di questi segni, il mio contributo intende indagare due realtà: la città intesa come un archivio botanico, un mosaico di naturalità diffusa, pervasiva e spesso selvatica che racconta la storia di una cultura urbana della natura e che riverbera il paradigma ambientale di una Venezia antropocenica. In seconda istanza, accanto a questo singolare botanical storytelling (Marder 2023), si prospetta la città considerata come un paesaggio urbano che è l’espressione di un ordine naturale, di registri sensoriali e di specifiche pratiche spaziali (Cosgrove 1984).
La flora urbica di Venezia
Nell’ottobre del 1962 si tenne presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia il convegno dal titolo Il problema di Venezia incentrato sulla conservazione e la sopravvivenza della città lagunare alla desolazione economica e al suo isolamento. Tra le numerose relazioni, quella presentata dal botanico ed ecologista Marcello sottolineava il singolare rapporto che a Venezia lega l’uomo all’ambiente naturale, il cui carattere essenziale veniva identificato in un ritmo plurimo e complesso legato alla terra, alle acque e all’aria:
Chi osservasse in questi giorni la parete della chiesa di San Geremia prospiciente il Canal Grande vi vedrebbe al termine della fioritura la campanula piramidale, sulla chiesa di San Vidal in seme giusquiamo bianco a ricordarci le rocce dell’Istria riarse dal sole e dalle quali son forse giunte queste piante con la pietra stessa! In certe calli ombrose, come a San Tomà, vegetano le felci del sottobosco, altre felci sulla chiesa di San Salvador e capelvenere sul ponte dei Barcaroli in Frezzeria come sull’orlo di un pozzo! Presso l’acqua del Canalgrande sino alla Cà d’oro, giunge il critmo marittimo, delle dune e dei Murazzi dove l’alito marino è ben diverso da quello di certi rii nei quali, per turbato deflusso, l’acqua ristagna putrida (Marcello 1964, 101).
Il legame ancestrale, frutto di condizioni geofisiche e di fattori geologici, descritto da Marcello, tra la flora urbica interstiziale, le architetture e gli spazi aperti veneziani compone un mosaico di microclimi che identificano la città come un “botanical field” (Gandy, Jasper 2020) riflesso di un paesaggio singolare. Un’osservazione colta e scientifica del milieu veneziano traspare nella ricerca capillare e appassionata di Marcello sulle piante vascolari indigene o inselvatichite a Venezia per azione antropica, malerbe che ancora oggi si insinuano tra i masegni, le pietre d’Istria e i laterizi di calli, palazzi, chiese, ponti e vere da pozzo. Nel suo scritto La flora urbica di Venezia (Marcello 1974) la natura pare vivificare spazi aperti e rive, fondersi con le forme dell’architettura [Fig. 2], quasi a voler ribadire da un punto di vista scientifico la modalità tassonomica adottata da John Ruskin nella sua ricognizione emotiva sulla natura e sulle pietre di Venezia, traduzione grafica di frammenti ornamentali che rappresentano le molteplici variazioni delle forme naturali nella scultura bizantina (Ottani Cavina 2018). La dettagliata rassegna botanica stilata da Marcello riporta le modalità di crescita di numerose comunità erbacee spontanee in tutta la città, la loro collocazione generale e topografica, i riferimenti bibliografici, le note storiche sul loro impiego nel campo della medicina e le citazioni di autorevoli studiosi (Ruchinger 1818; Naccari 1826; Minio 1928; Béguinot 1941).
È il caso della salicornia trovata da Marcello presso la Sacca dei Furlani alle Fondamenta Nuove, non molto lontano da quello che fu il giardino di piacere appartenuto al pittore Tiziano Vecellio (Krellig 2022): “Tra le fessure di un muro esposto alla bora mi è accaduto di raccogliere una piantina di Salicornia herbacea, che la bora vi aveva portato dalle non prossime barene e ficcato poi tra un mattone e l’altro” (Marcello 1974, 131). Provenienti dal mondo liquido delle barene e delle aree fluviali della valle Padana, trasportate a Venezia dai venti e dai fiumi, queste piante esistono e possono sopravvivere solo grazie all’esistenza e alla sopravvivenza della città stessa, sentinelle preziose che, nel tempo, hanno svolto un ruolo fondamentale nell’interpretazione di un cambiamento climatico in atto, oltre a testimoniare un patrimonio di flora spontanea riflesso della complessità dell’ambiente naturale lagunare [Fig. 1]. Marcello esprime anche la sua convinzione che la loro crescita sia strettamente connessa con la pietra d’Istria impiegata per la costruzione della città marmorizzata:
Strappate dalle cave – le grandi pietre – assieme ai semi ed ai disseminuli delle entità che vissero poveramente splendide tra le loro anguste fessure se le sono portate appresso (come non dirlo liricamente?) quasi con nostalgia.... sfidando le manipolazioni dei tajapiera dei mistri e le spogliazioni dell’acqua meteorica e dilavante – per tenersele accanto nei secoli e farle fiorire su – nel loro stesso ambiente rupestre e montano – ma nel cuore di Venezia! (Marcello 1952a, 8).
Anche grazie alle intuizioni di Marcello (1952a, 1974), Gamper e Bacchetta (2001) hanno potuto descrivere dettagliatamente le comunità vegetali dei muri di Venezia. Come pure delle ricerche di Marcello si sono avvalsi Masin et al. (2010) per la minuziosa raccolta di dati sull’intera flora della provincia di Venezia.
Gli studi di Marcello si traducono in una appassionata ricerca sul campo che, sulle orme degli Itinera botanica di Pier Antonio Micheli (Ragozzini 1993), delle ricognizioni botaniche di Gian Girolamo Zannichelli (Zannichelli 1735) e a partire dalle erborizzazioni di Michelangelo Minio sulla flora urbica veneziana (Minio 1928), trova riscontro nel ricco erbario donato all’Orto Botanico di Padova. Tra le numerose piante si evidenziano esemplari di Hyoscyamus Albus, raccolti sui poggioli di Palazzo Pisani sede del Conservatorio di Venezia [Fig. 3] o sulle mura della Corte d’Appello lungo il rio San Luca, e di Veronica agrestis provenienti dall’isola Campana e dall’isola Fisolo nella laguna sud [Fig. 4], sempre corredati dall’indice fenologico di fioritura che rileva la qualità totale della fioritura di una specie vegetale nel tempo poiché “ogni pianta ha un ritmo di formazione che regola la sua vita vegetativa e questo ritmo è in rapporto alle condizioni ambiente d’origine” (Marcello 1954, 6-7).
La storia fenologica tracciata dal naturalista veneziano prendeva avvio dall’osservazione delle malerbe cresciute sui cosiddetti ʻrovinazziʼ, macerie provenienti dai numerosi edifici demoliti a Venezia a seguito della caduta della Repubblica e del successivo turbamento napoleonico, durante il quale la natura assunse un ruolo determinate nel nuovo assetto della città. Il 4 giugno 1797 un albero simbolo delle nuove libertà dei cittadini venne eretto in piazza San Marco, ritratto da Giuseppe Borsato e testimonianza della festa repubblicana istituita a Venezia con l’arrivo dei francesi [Fig. 5]. In una città dalla radicata e millenaria dedizione alle scienze botaniche, l’emblematico albero della libertà sanciva un atto propiziatorio verso la natura i cui “valori orticoli simbolici venivano sbandierati come il reimpianto delle ʻspecie autoctoneʼ di Venezia” (Dixon Hunt 2009, 138), reminiscenza di quel broglio (brolo) ricoperto d’erba e di alberi che in origine occupava la metà occidentale della platea marciana. La grande piazza in terra battuta fu infatti lastricata in cotto e pietra solo nella seconda metà del XIII secolo, come altri campi veneziani dove in origine “si falciavano abbondanti raccolte di fieno” (Damerini 2022, 152). Come sottolinea Marcello, di questi antichi spazi erbosi usati per raduni cittadini o per il pascolo di animali e scomparsi in epoca più o meno recente rimane spesso traccia nella toponomastica veneziana: nei diversi sestieri i ricorrenti campi, campielli, calli, corti e rami denominati ʻdelle Erbeʼ riportano alla mente, oltre la presenza di luoghi di mercato, anche l’immagine di una natura selvatica pervasiva che ritroviamo nel paesaggio urbano ispirato alla Serenissima e dipinto da Vittore Carpaccio nel ciclo di Sant’Orsola (Zorzi 1988) [Fig. 6]. Lo sguardo di Marcello sulla flora urbica porta all’attenzione il valore di una vegetazione spontanea in quanto documento storico (Lippe 2020) e testimonianza di una vicenda bioclimatica che anticipa la sensibilità contemporanea rispetto alla necessità di una “azione di diversificazione biologica della città” (Bonardi, Marini 2023, 269).
E la flora urbica di Venezia dimostra per qualche calle condizioni ambiente di sottobosco e sono le felci a dircelo – altrove condizioni montane e rupestri per un manipolo di entità che hanno seguito le pietre dalle cave dell’Istria ai nostri monumenti e vi allignano negli anfratti – altre ancora sono sfuggite agli orti dei Semplici o dai giardini e sono le entità ornamentali e domestiche – altre infine ricordano le vicine foreste distrutte come la prossima Selva Fetontea mentre l’uomo ha trovato il modo di far crescere qui prosperose entità mediterranee come il leccio, il lauro e l’oleandro! Perché in questo ambiente l’uomo si presenta proprio come un fattore determinate a modificare le possibilità di vita per questa o quella entità! (Marcello 1952b, 4).
Le ‘erbacce’ rappresentano un differente ordine dell’essere, crescono e prosperano in terreni disturbati dagli esseri umani e nel loro relazionarsi con gli spazi urbani “rappresentano l’avanguardia dell’evoluzione” (Pollon [1991] 2016, 136). Partendo dal presupposto che la flora urbica è strettamente connessa al luogo in cui cresce, qualsiasi cosa essa racconti di quel luogo è “una narrazione fitobiografica” ma è anche la testimonianza di una condizione ambientale complessa e in lento sviluppo (Marder 2023, 200).
L’idea di un giardino in mezzo al mare
Nella ricerca condotta da Marcello sulle caratteristiche bioclimatiche indicate dalla natura, accanto alla rilevazione della flora spontanea ruderale, della vegetazione sommersa e di quella delle barene, assume un valore rilevante lo studio della vegetazione del centro storico a partire da un procedimento di mappatura di alcuni giardini veneziani come azione dinamica che indaga le potenzialità latenti, condotto in collaborazione con alcuni studenti del corso di elementi di architettura e rilievo dei monumenti tenuto dall’architetto Egle Renata Trincanato presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nel 1967 (Marcello, Relazione sulle ricerche in corso, BAZM). La rappresentazione oggettiva e la leggibilità di fenomeni bioclimatici interpretati attraverso la rilevazione botanica di alcuni giardini veneziani, pone le basi per un approccio alternativo che evidenzia l’evoluzione di un insieme di relazioni tra uomo e ambiente a partire da un dialogo interdisciplinare tra scienze umane e scienze naturali (Ingold 2001), dove il giardino viene inteso come paradigma ecologico.
A Venezia il giardino si proietta nel futuro della città recuperando una relazione ancestrale con la dimensione della natura per inserirla negli schemi della ragione architettonica. Nella riflessione sulla qualità di ʻfigurabilitàʼ di un giardino in quanto esistenza di un disegno percepibile e rappresentabile, sottolineata da Egle Renata Trincanato nei suoi densi appunti sui giardini veneziani (Archivio progetti Iuav, Fondo Trincanato, Attività scientifica 4/057, Note sul paesaggio e l’ambiente), la pianta prospettica cinquecentesca della città attribuita a Jacopo deʼ Barbari, “uno dei ritratti più fedeli che sia mai stato fatto di una città”(Trincanato 1971, 4), rappresenta un documento singolare e di grande eloquenza visiva, utile per la conoscenza delle strutture e delle forme di molte “delizie” lagunari [Fig. 7]. Sorprende l’esatta restituzione delle numerose superfici verdi distribuite in particolare lungo i bordi e le direttrici di crescita della città o in corrispondenza degli orti di antichi complessi conventuali e poste in primo piano dal deʼ Barbari, quasi a volere esaltare il valore ineluttabile di questi spazi nella definizione della forma urbis veneziana. Dalle attente osservazioni visive del deʼ Barbari emerge l’immagine vivida di “una Venezia nuova, più marmorea, più solenne, più agghindata – si legge nel libro pubblicato nel 1927 da Gino Damerini e dedicato ai giardini della Serenissima – più artificialmente bella; più maestosa e matronale di quella di prima; nella quale il piacere del verde, del paesaggio arboreo, la nostalgia della campagna vasta e della pianura ombrosa si disciplinano al pari delle strade, delle piazze, delle rive, dei servizi” (Damerini 2022, 40).
Nel ritratto della città rinascimentale spiccano molti dei giardini “sparsi copiosamente con straordinaria vaghezza e delicatura” (Sansovino [1581] 1969, 369] descritti da Francesco Sansovino nella sua Venezia città nobilissima e restituiti, oltre che nella lussureggiante vegetazione di piante nobili e rare, anche attraverso un’antologia di elementi che definiscono l’immagine del giardino veneziano d’origine quali il cortile, il pergolato, le aiuole ortive, le palizzate e le staccionate che ne definiscono i contorni (Zanverdiani 2009). In una città nella quale la natura tende a non modificare nel tempo la sua immagine rispetto a quella mostrata dal de' Barbari, lo sfondo inselvatichito di “un giardino in mezzo al mare” giunge fino a fine Ottocento per alimentare Il Carteggio Aspern (James 1888) e, alcuni anni dopo, il progetto di Frederic Eden per una fitta “foresta salina” sull’isola della Giudecca (Eden 1903) che, come per tutta la struttura formale di Venezia, spicca da un punto di vista privilegiato: l’acqua (Bettini 1978) [Fig. 8]. “Secondo me, questa città riunisce in sé tutti i modelli visibili dell’elemento e di ciò che vi è contenuto” osservava Brodskij (Brodskij 1991, 86). Per riflesso la “selva capovolta” e sommersa su cui poggiano palazzi, campi e calli emerge in superficie per dare forme, nei giardini, alle antiche selve della laguna (Appuhn 2009).
Nelle note a margine della ricerca condotta con Alessandro Marcello sugli aspetti urbanistici e botanici di alcuni giardini veneziani che incarnano la complessità storica, culturale ed ecologica di Venezia (Cunico 1989), Trincanato prese spunto da alcune riflessioni critiche dell’architetto paesaggista Alan Geoffrey Jellicoe sulla corrispondenza tra il giardino rinascimentale veneziano e un ambiente fluido singolare, generatore di forme di natura e di architettura (Jellicoe [1960] 1969, 20), per ripensare l’intera città a partire proprio dal medium lagunare in quanto unità organica assoluta, “offrendo case sane e perfettamente attrezzate, in zone anche compatte ove occorre, ma alternate ai grandi spazi che, da sempre, nella città esistono – i campi – e anche ai numerosi spazi che si devono acquisire” (Trincanato 1969). L’urbanizzazione della natura e la concomitante crescita di una sensibilità urbana verso la natura, non contemplava solo nuovi approcci alla gestione dello spazio urbano, ma si estendeva anche a diversi tipi di interazioni culturali con la natura come fonte di svago e alla sua godibilità “non solo come capacità di guardare da lontano, ma di usufruire fisicamente e si potrebbe dire psichicamente delle aree verdi” (Padoan, Marcello, 1974, 574). Da cui la necessità di verificare la condizione di alcuni rilevanti spazi verdi di Venezia per trarne soluzioni operative.
In fase iniziale, il particolare “valore ambientale” attribuito ad alcuni casi studio, selezionati per le loro dimensioni, la conformazione e le peculiari caratteristiche di evoluzione storica e botanica, orientò l’indagine su due giardini nel sestriere di Castello [Fig. 9]: il giardino della Commenda del Sovrano Ordine Militare di Malta, e il giardino denominato ʻdel Mercanteʼ, attuale giardino dell’hotel Sant’Antonin in Fondamenta dei Furlani. In una seconda fase di indagine Marcello individuò altre tre zone verdi campione tra i sestrieri di Cannaregio e Santa Croce: il giardino di Palazzo Gradenigo in rio Marin, il giardino Venier, oggi parte di parco Savorgnan e il giardino dell’Ospedale Umberto I. “A Venezia i giardini pubblici e quelli privati hanno ancora oggi, come in passato, un grande interesse, sia dal punto di vista urbanistico che da quello sociale” si legge nella Rilevazione botanica dei giardini tipo (Padoan, Marcello, 1974, 574). Uno scrupoloso rilievo della geografia vegetale dei giardini selezionati sollecita uno sguardo inedito su spazi urbani che mettono in scena diverse espressioni e caratteristiche della natura: il giardino ʻdel Mercanteʼ quale esempio di un antico brolo evidenzia la presenza di piante da frutto e da ombra [Fig. 10]; epigono di un antico orto dei semplici, il giardino dell’Ordine dei Cavalieri di Malta testimonia l’introduzione successiva di specie ornamentali; il giardino Gradenigo riflette la tradizione antica di collocare piante da frutto vicine al palazzo; le forme di un parco riconoscibili nel giardino Venier evidenziano un’alternanza tra zone di “ombra discreta” e radure; nel giardino dell’Ospedale Umberto I domina un bastione alberato frangivento verso la laguna nord. Il senso di spazialità che restituiscono questi giardini, anche attraverso il ritmo vegetativo e riproduttivo di una materia vegetale coltivata e introdotta dall’uomo, fa da contrappunto alla testimonianza di diverse condizioni bioclimatiche e di una vicenda meteorologica che riconducono alle audaci affermazioni di Marcello su Venezia in quanto “sopravvivenza di città terramaricola proiettata in pieno secolo XX” (Marcello 1937, 1, BAZM).
Conclusioni
La ricerca su altre forme di esistenza umana a Venezia, o forse di sopravvivenza, si intona con la tensione di Alessandro Marcello a esplorare la natura e viene ribadita, oggi, nella coscienza di un necessario recupero della sua lunga storia di coesistenza con l’ambiente e di un rinnovato rapporto con gli agenti non umani all’interno della laguna (De Capitani 2022, 17). Nella dimensione liquida di Venezia il paesaggio dichiara la sua sostanza culturale e collega la natura all’architettura.
Il ‘problema di Venezia’ e della sua sopravvivenza, messo in discussione sull’isola di San Giorgio nel 1962 “non è solo un problema di economia, di sociologia, di demografia, di climatologia, di oceanografia, esso è evidentemente un problema del pensiero umano” dichiarava Richard Neutra intervenuto nello stesso simposio veneziano (Neutra 1964, 265). l’architetto di origini austriache naturalizzato negli Stati Uniti aveva pubblicato alcuni anni prima il libro dal titolo Survival Through Design (1954) nel quale sottolineava la questione fondamentale della sopravvivenza del ʻcorredo naturale umanoʼ e l’esigenza di costruire un ambiente contemporaneo che potesse soddisfare i bisogni dell’uomo. Il valore di una mentalità biologica ed evolutiva che intona le azioni dell’uomo e l’immaginazione delle nostre fitopolis seguendo le forme e i processi di un “modello vegetale” (Mancuso, 2023, 131), trova conferma nell’ecologia urbana di Venezia, dove la relazione fra tracce botaniche e geografie urbane segna lo sviluppo della città, la costruzione della sua memoria in quanto palinsesto, l’affermazione di un carattere urbano resiliente.
A livello ambientale, un approccio ecologico pone il problema di ripensare attività e strategie di intervento, non più a partire da un’idea di ambiente inteso come riserva di materie prime da sfruttare, ma come un insieme di relazioni in equilibrio instabile, all’interno del quale ogni individuo, vegetale e animale, è incluso e dal quale dipende per la sua stessa sopravvivenza. Lo studio della flora veneziana svolge un ruolo significativo nello sviluppo di un “immaginario ecologico” (Gandy 2005, 63) in cui idee e metafore tratte dalle scienze botaniche e biofisiche sono state utilizzate per comprendere le forme e la funzione di una città in subordine rispetto al proprio ambiente. “Bene sarà che, oltre alla nostra storia, chi intenda operare a Venezia giunga ad una migliore conoscenza del nostro ambiente: ove così non fosse si correrebbe il rischio di turbarlo a segno da farlo irrimediabilmente sparire: ma con lui sparirebbe Venezia, sorta, e vorrei dir generata, dall’ambiente stesso in cui sussiste come creatura viva!” (Marcello 1964, 102).
Fonti d’archivio
- *Tutti i diritti di riproduzione di testi e di immagini appartengono alla Biblioteca Andrighetti Zon Marcello. Si desidera esprimere un sentito ringraziamento ad Alessandro Marcello per la cortese autorizzazione alla consultazione e alla pubblicazione dei documenti oggetto di studio.
- Marcello, DB1
A. Marcello del Majno, Divagazioni botaniche. Su di una osservazione fenologica di Dante, s.d.,Biblioteca Andrighetti Zon Marcello, Fondo Alessandro Marcello del Majno (1894-1980) [BAZM], Venezia. - Marcello, DB2
A. Marcello del Majno, Divagazioni botaniche. I giardini di Alcina nell’Orlando, s.d., BAZM. - Marcello 1937
A. Marcello del Majno, Conosciamo noi il nostro ambiente?, 1937, BAZM. - Marcello, Relazione sulle ricerche in corso
A. Marcello del Majno, Relazione sulle ricerche in corso circa le caratteristiche bioclimatiche indicate dalla vegetazione, s.d., BAZM. - Trincanato 1967
E. Trincanato, Attività scientifica 4/057, Note sul paesaggio e l’ambiente, 1967, Archivio progetti Iuav, Fondo Trincanato, Venezia.
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English abstract
The relationship between botanical traces, urban geographies, and architectural components marks the development of Venice, the construction of its memory as a palimpsest, and the establishment of a resilient urban canon. In Venice the vegetation naturalizes the city and nature is in turn urbanized by a symbolic and ritualized landscape. This paper argues that the analysis of the dynamics of this exchange can transform the design of the urban landscape from a purely visual and functional approach to another approach, more attentive to the less visible aspects of space. What stories do gardens, open spaces, ʻurban floraʼ of Venice tell? What do they say about the city, its past and, perhaps more importantly, its future? Through a novel interdisciplinary approach and starting from the observations of the naturalist Alessandro Marcello del Majno, this essay shifts the focus from an urban culture of nature to a culture of urban nature that reverberates the environmental paradigm of a Venetian Anthropocene.
keywords | Venice; urban flora; urban nature; lagoon environment; Alessandro Marcello del Majno.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Barbara Boifava, Divagazioni botaniche. Le osservazioni di Alessandro Marcello del Majno sull’ambiente lagunare, “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.