"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

220 | gennaio 2025

97888948401

L’incanto “dal vero”

Atmosfere veneziane del primo cinema

Marco Bertozzi

English abstract

1 | Piero Marelli, Santa Lucia, 1910, fotogramma dal film.

I. Carezze oculari

Venezia di notte (Cines, 1914) è un prezioso “dal vero” sulla città lagunare. Parto da questo film, conservato alla Cineteca Nazionale di Roma, per attraversare alcuni paesaggi veneziani alle origini del cinema[1]. Stupiscono subito le didascalie rosso fuoco che rimandano a evocazioni letterarie, con espressioni in stile “sull’argentea distesa delle acque sussurranti riflettono i secolari palagi che furon dimora di dogi e patrizi”. Poi le immagini, in bilico fra teatralità della città in scena e affinamento dello sguardo vedutista: inquadrano paesaggi scelti con cura e colorati con varie tecniche. Oltre ai rossi delle didascalie, ai verdi delle acque, ai seppiati degli edifici, sorprendente è la fusione compositiva tra Venezia e la sua messa in forma filmica: le dolci panoramiche dai sotopòrteghi, i naturali spleetscreen dalle finestre tripartite, le geometrie ad effetto variabile intraviste delle bugne delle vetrate rendono memorabili la scia dell’acqua sul canale e le architetture che vi s’affacciano. Il tutto nobilitato dall’utilizzo di mascherini - a volta, a cuore, a ovale, a bifora – per esaltare processi di focalizzazione patemica che sembrano richiamare la felicità degli italici sensi: sia a livello internazionale, per virtuali cine grand-tour, sia a livello interno, in quel linguaggio comprensibile ad abitanti/spettatori, in gran parte analfabeti, di un paese appena unificato e in cerca di un laico cemento identitario. Una generale soddisfazione dell’occhio in cui il paesaggio si sgancia dalla sfera dell’arte e delle lusinghe dell’autore per ritrovare un bacino di condivisione, un tessuto noto, non consumabile come merce, dove essere narrati. Con una patologia in agguato: la patina del tempo formata dalla dissoluzione dei sali d’argento, dal colore che scompare lasciando aloni debordanti dalle immagini, rivela l’ombra di una presenza, la mirabile città veneziana, ma, congiuntamente, l’impronta di una perdita, la progressiva disgregazione della sua immagine. Ora i fotogrammi decomposti del film sembrano uscire dall’atelier di un artista di pitture atmosferiche, in uno stile segnato da campiture evanescenti, bolle, rigature palpitanti una struggente indecidibilità. Ecco la nascita di un orizzonte iconico dotato di un nuovo, finalmente riconosciuto, valore: in cui, paradossalmente, l’idea dei “dal vero” quali documentari frutto di mera tecnica riproduttiva svanisce grazie all’atto di morte del cinema stesso.

Come in Santa Lucia (1910), le cui suggestioni urbane sono amplificate dall’originale attraversamento della laguna in barca, alternando travelogue a inquadrature fisse, in una visione non banale della città [Fig. 1][2]. Scene veneziane si alternano a sequenze girate nelle isole: ecco Chioggia, Pellestrina, Burano vista dalla Fondamenta della Pescheria, il Ponte di Santa Maria all’Isola di Torcello… Paesaggi incastonati nell’enormità del quadro, impreziositi dall’uso di vivaci cromatismi, penetrati grazie a panoramiche, travelling, lievi recadrage. Incontrare oggi questo film sembra condurci a un’esperienza che si offre quale orizzonte trascendente, in un’autonomia riflessiva capace di scollare potentemente il visibile dal visto. Santa Lucia è un’immersione filmica talmente intensa che sembra quasi farci udire le sonorità lagunari, lo sciabordio delle acque mosse dai travelling, la risacca dei canali osservati dai ponti, il vociare dei pescatori al lavoro, tra nasse e reti distese sulle fondamenta. Un’illusione uditiva ben evidenziata da Mario Ponzo, psicologo e studioso dei processi percettivi, quando nel 1910 scriveva: “al cadere di acque, al movimento di potenti macchine, allo scorrere delle ruote di una vettura sul selciato, non è insolito che si associ l'immagine acustica riprodotta degli stessi rumori [...] parecchie volte mi accadde pure di sentire lo scroscio lontano dell'acqua di torrenti alpini e di cascate, e di riconoscere poi come causa di ciò il rumore del ventilatore o quello prodotto dal proiettore cinematografico” (Ponzo 1910-1911, 943-945).

Oggi, in anni in cui il termine immersività sembra collocarsi in mondi segnati dal digitale o dall’intelligenza artificiale, i primi tempi del cinema riemergono come un tratto congiuntamente archeologico e immersivo. Tra musicazioni e colorazioni, imbonitori vicini allo schermo e rimontaggi effettuati dai primi esercenti-proiezionisti, il testo-spettacolo di quelle proiezioni affiora ben al di là dalla profusione di effetti di realtà garantiti dal dispositivo macchinico. Pensare Venezia attraverso questi “dal vero” significa allargare le pratiche media-archeologiche per uscire dai sentieri consolidati del lavoro cinetecario, evitando al contempo i rischi del nostalgismo e dell’estetizzazione della memoria (Parikka 2019). Una prospettiva in cui la sensuale potenza di questi film accompagna interazioni che traggono un rinnovato pathos dalla carezza oculare della presenza acquatica. Un bagno di sensazioni, una sorgente emozionale che diventa vivida riflessione su una città e un ambiente unici al mondo.

Lo vediamo sin da subito, in quell’atto primigenio costituito da ciò che una certa storiografia ha ritenuto essere il primo travelling del cinema (Bertozzi 2001). Al celebre Panorama du Grand Canal pris d’un bateau (veduta Lumière n. 295) seguono un centinaio di vedute riprese in movimento ma, probabilmente, l’operatore Alexandre Promio non ne fu il precursore[3]: due settimane prima, a Lione, è già in programma Mâcon: panorama pris d’un train (n. 160), in cui i paesaggi allagati dalle inondazioni che colpiscono la Francia nel 1896 sono osservati da un treno in marcia, ripresi da un operatore sconosciuto. Tornando a Venezia, l’idea di Promio è che “se la camera immobile permette di riprodurre oggetti mobili, potremmo rigirare la preposizione e cercare di riprodurre oggetti immobili con l’aiuto del cinema mobile” (Promio 1925, 197). Nella veduta Lumière il Canal Grande è ripreso da un traghetto in navigazione, inscrivendo la sequenza di edifici sull’acqua in un percorso del vedere, dinamico e con strumento ottico, comparabile al Prospectus Magni Canalis Venetiarum del Canaletto. Il Cinématographe consente quella visione panoramatica che il vedutista veneziano otteneva accostando e rielaborando i celebri “scaraboti” ottenuti alla camera oscura[4]: medesimo procedimento di cattura dell’immagine - in entrambi i casi di camera oscura si tratta - diversa la modalità d’impressione del supporto – manuale in un caso, foto-chimico nell’altro - suggestive le analogie sulla temporalità della restituzione/fruizione. Sia l’esperienza di Canaletto che il panorama di Promio richiedono il movimento: ma se nel primo caso risulta coinvolto il punto di vista dell’osservatore - per cui è l’occhio a spostarsi, investendo successive sequenze spazio-temporali abbraccianti nuove porzioni dell’incisione panoramatica - nel panorama cinematografico è la veduta stessa a ‘movimentare’ la cortina architettonica sul Canal Grande. Anche Gian Piero Brunetta ricorda: “Promio vede Venezia con lo stesso sguardo e dagli stessi punti di vista dei pittori e fotografi che lo hanno preceduto. Sarà solo nel momento in cui monta su un vaporetto, su una gondola, che l’occhio della macchina da presa sembra acquistare nuovi poteri e invitare alla scoperta di dimensioni sconosciute della città” (Brunetta 2002).

Evocazioni a cui tende la restituzione che nel 1995, anno del centenario del Cinématographe Lumière, la rete France 2 compone, associando alla messa in onda del film un nuovo soundscape. All’interno del programma Un film Lumière par jour, trasmesso quotidianamente prima del telegiornale serale per mostrare 365 diverse vedute Lumière, la nuova edizione del panorama veneziano gode di un sonoro aggiunto, estremamente rarefatto, con lievi perturbazioni uditive che sembrano evocare sia la lontananza storica della veduta che il flusso/sciabordio dell’acqua. Mentre osserviamo la cortina degli edifici posti sul Canal grande, il passaggio di un battello e di alcuni gondolieri, irrompe la voce over di un moderno tele-imbonitore: “Il film Lumière di oggi è il 295, Venise: Panorama du grand canal pris d’un bateau. Alexandre Promio, operatore Lumière passeggiava in battello a Venezia e guardava le rive scorrere davanti a lui. Ebbe allora l’idea di riprodurre questo effetto al cinematografo. E girò, prontamente, una bobina che inviò a Lione, con la preghiera di dirgli ciò che Louis Lumière pensasse di questa prova. E la risposta fu favorevole. Quel giorno, era nel 1896, fu senza dubbio realizzata la prima carrellata”.

Il racconto di una storia mitologica si coniuga all’attrazione per l’antico. Nella traduzione transmediale, dal cinema alla televisione, si perde l’enormità dello schermo e il fascino del buio in sala, ma persiste un’esperienza che si produce come entità sottilmente invasiva, invitando a smarrirci tra le storiche facciate e quel vibrante generatore atmosferico che è l’elemento acquatico.

II. Forme instabili

Grazie alla modalità panoramatica, la compenetrazione fra visione filmica e spazio urbano diviene molteplice: come se questi film ampliassero il tributo alla natura narcisistica di una città mirabile, che si specchia e si riverbera in una immagine al tempo stesso identica e cangiante[5]. O, ancora, come se il contenuto dei “dal vero” veneziani non riguardasse più palazzi, statue, finestre, marmi, fondamenta, quanto il rifrangersi di questi: una urbs disciolta nel gioco d’illusioni, di forme instabili, di ritmi acquatici e di maree propagate dal fascio fotoforo del cinema. Ciò che, per interposta espressione artistica, possiamo osservare nei ricordi veneziani di Goethe: “Quando, attraversando la laguna nel fulgore del sole, vidi spiccare sui profili delle gondole l’agile guizzo variopinto dei gondolieri intenti al remo, quando vidi le loro figure disegnarsi nell’aria azzurra sulla superficie verde chiara, vidi il più bello, più vivo quadro di scuola veneziana. La luce solare abbagliante esaltava le macchie colorate, e le parti in ombra erano così luminose che a loro volta potevano valere quasi come luci. Lo stesso era a dirsi dei riflessi dell’acqua color verde mare. Tutto era dipinto chiaro su chiaro, e l’onda schiumosa e gli scintillii che vi balenavano erano gl’indispensabili tocchi di finitura” (Goethe [1813] 1993, 93).

L’attrazione per l’acqua al cinema fa parte di quello stupore per il sensibile ben descritto dai primi recensori cinematografici, attratti, congiuntamente, dalle fronde degli alberi mossi dal vento, dalla schiuma della birra in un boccale o, appunto, dal movimento delle onde increspate del mare. Ma mentre una veduta come Barque sortant du port (n. 9 del catalogo Lumière) affascina per il periglioso incedere di un piccolo natante in balia del moto ondoso, nei “dal vero” veneziani è l’unione tra l’elemento naturale e l’unicità di quello architettonico a rendere stupefacenti le immagini. Una sorta di coesistenza spettrale in cui l’acqua e la cortina degli edifici diventano al tempo stesso concrete e astratte, materiali e immateriali (D’Aloia 2013, 15-17). Diventano ‘rovina’, come la pellicola che oggi le rappresenta, in un rincorrersi metaforico di dissolvimento, distruzione, morte che inquadra analoghe patologie. Ciò che George Simmel, proprio in quegli anni, descrive per l’idea di rovina - “La misteriosa armonia, per la quale l'opera umana diviene più bella grazie ad un'azione chimico-meccanica e il prodotto di una volontà grazie a un processo libero e involontario si trasforma in qualcosa di nuovo, spesso più bello e con una sua unità: ecco il fascino fantastico e impalpabile della patina” (Simmel [1907] 2006, 73) - sembra adattarsi alla perfezione al processo di decadimento in atto nella pellicola deteriorata, laddove anch’essa fornisce un fascino che pare derivare direttamente dalla natura. La mediazione compiuta dalla pellicola in dissoluzione ci consegna perturbanti oggetti plastici, forme del tempo smaterializzate dalla perdita dell’emulsione ai sali d’argento e abitate da evanescenze e disgregazioni progressive. Una sfida a una fenomenologia dell’invisibile, un contributo a quegli orizzonti dell’esperienza artistica che sembrano eccedere le forme note della rappresentazione. Campiture affettive nelle quali lo sguardo incrocia sgranate texture della memoria involontaria.

La lentezza contemplativa dei “dal vero” invita a perdersi in orizzonti di strenua vaghezza, nello spostamento dal discorso sul cinema (ermeneutica, semiotica) alla sua percezione, in un coinvolgimento corporeo ed emozionale che sembra rientrare nel quadro di una "estetica ecologica" (Böhme 2010). Un cinema che lavora su una messa in scena ambientale, indirizzata a influenzare i nostri stati d'animo, con atmosfere che ci vengono incontro prima e al di là di qualsiasi interpretazione specifica. Il tono affettivo, le qualità emotive irradiate da questi film, emergono dal carattere fortemente meteorologico di opere in cui l’acqua, il cielo, le nuvole, il vento generano un percorso emozionale inserito in modalità sovratemporali. Caratteri amplificati dall’uso del colore, dei mascherini, degli effetti spleet-screen, capaci di respingere il dogma dell’autonomia assoluta del soggetto verso il carattere semi-trascendente di un’idea atmosferica (Griffero 2017).

Come se il farsi nuvola di questi “dal vero” scandisse un ritmo trasformativo in grado di mettere alla prova il nostro discernimento. Il fatto che l’immagine di Venezia – come la nuvola – cambi continuamente sotto i nostri occhi evoca alcune considerazioni di François Jullien in La grande image n’a pas de forme (Jullien 2003). Siamo nei quartieri di una turbolenza segnica che diviene suscettibile di accogliere, proprio perché instabile, qualsiasi forma. Jullien parla della pittura cinese, della logica respiratoria di forme che si sfaldano nei loro vapori, in perenne modificazione atmosferica. Lontani delle imperanti mitologie dell’alta definizione, dei proclami del tutto a fuoco, del nitido, del ben definito, nel cinema ‘decaduto’ viviamo pienamente le tensioni transitorie della materia, la sua esplosione in onde, in bolle rugose, in incontrollabili puntinii luminosi, in cui fondamentale diviene il rapporto con il tempo grande scultore: un tempo che, come nelle estetiche del rovinismo, procura quel sublime danno alla materia primigenia, disgregandola, per introdurci nei paesaggi della melanconia. La forza propulsiva dell’imperfezione sottrae queste immagini a una storia lineare del cinema o a una semplice prospettiva documentale e le getta in un felice anacronismo, nella condizione di materiali elettivi per una riflessione senza pregiudizi sul loro destino: ripensare al rapporto fra il tempo e le immagini significa inaugurare l’era in cui questi ‘testimoni’ della città possono essere percepiti al di là della loro documentalità, quali vivide espressioni artistiche. E non più, o non solo, quali patologie di una materia in via di dissoluzione.

III. Periferie iconiche e risarcimenti storiografici

Ci stiamo allontanando dal postulato spontaneista, dal mito della oggettività delle riprese dal vero. La vie même prise sur le vif (la vita stessa presa dal vivo, quasi un manifesto di poetica più volte ribadito da Louis Lumière) garantita dalla mirabile sequenza sul Canal grande resta intenzione tecnica dell’operatore, e spirito pragmatico dell’intera impresa Lumière. Ma condivisa la prevalenza di una modalità mostrativa, è importante sottrarsi all’idea del ‘visibile ingenuo’, da quello che Remo Bodei chiamava il “dogma dell’immacolata percezione” (Bodei 1989, 637), per ammettere che ogni immagine scelta e inquadrata consente di organizzare l’esperienza del vedere in un processo di aspettualizzazione di mondi possibili e di modalità logico-consequenziali. Per questo quel primo “panorama” Lumière ha qualcosa di sensazionale, stimola fisiologicamente lo spettatore, va al di là della semplice contemplazione prevista dalla pittura. Se per Tom Gunning si tratta di una prospettiva che realizza il desiderio di penetrare il paesaggio, di inseguire l'orizzonte nella profondità di un'immagine in continua evoluzione (Gunning 2010, 57), un aspetto fantasmatico si aggiunge nella specificità di questo panorama: Venezia, il Canal Grande, la concrezione immaginifica di secoli di storia della rappresentazione diviene allora un Giano bifronte, l’essere mentalità prima ancora di costituire una realtà. Lo vediamo anche nelle cine-meraviglie della Mutoscope and Biograph Company. Con la Biograph, una camera ingombrante ma molto sensibile, brevettata nel 1896, vengono realizzate alcune tra le più seducenti vedute acquatiche veneziane di quegli anni, come Panorama of the Grand Canal, Venice: Passing the Vegetable Market (1898), Bridge of Sighs (1898), Boys BathingVenice (1898), Venice, Harbour scene with gondolas (1898). Si tratta di brevi sequenze filmiche che rimandano a una concrezione immaginifica internazionale, in cui il paesaggio veneziano sembra scoperto soprattutto da chi non lo abita, da chi lo attraversa come seducente unità spirituale in grado di scolpire una vera e propria bildung. Una concrezione in cui la presenza vibrante dell’acqua, in quel rapporto fondante con l’architettura, esprime pienamente il carattere generativo dello spazio ripreso al cinema. E ci restituisce un’emozione primigenia, legata a un’urbs sui cui si posarono sia i primi sguardi consapevoli dei suoi abitanti, sia le memorabili rappresentazioni di artisti stregati dalla sua unicità.

D’altronde, la concretezza della città sembra svanire in un percorso stratificato e senza tempo, laddove immagini della pittura e del precinema definiscono le tappe di una iconosfera sommersa dal proprio mito. Ecco sguardi pittorici che dissolvono l’ipotesi mimetica-topografica: dalla Venezia di William Turner (San Giorgio Maggiore dalla Dogana, 1819; Venezia. La foce del Canal Grande, 1840), a quella di Claude Monet (Il Canal Grande, 1908; Palazzo da Mula, 1908), sino alla geometrica e policromatica visione di Paul Klee (Lagunenstadt, 1932). E, congiuntamente, in una prospettiva archeologico mediale, da esperienze e dispositivi precinematografici capaci di esaltare la città nella sua dimensione più sottile, atmosferica, emozionale (Brunetta 1997). Penso alle meravigliose fotografie all’albumina di Carlo Ponti, con soggetti quali il Ponte di Rialto o la Serenata sul Canal Grande: si tratta di vedute osservabili al Megaletoscopio, una scatola-ingranditrice in legno sviluppo dell’Aletoscopio, concepito due anni prima, progettata da lui stesso e brevettata nel 1862[6]. La specializzazione dell’ottico e fotografo veneziano è proprio l’architettura. Compone album intitolati Ricordo di Venezia da vendere ai turisti in laguna: una ventina di vedute urbane, a volte scelte dai clienti stessi prima di venire rilegate, montate su cartoncini, spesso decorati. Con, sul retro, qualche indicazione sui soggetti fotografati, il nome del monumento o della piazza, una succinta storia. O alle fotografie dello scenografo Pietro Bertoja, sperimentatore di invenzioni tecniche e di innovazioni illuminotecniche e pittoriche. Con uno stile fortemente espressivo, Bertoja attraversa iconosfere capaci di smaterializzare la fisicità dell’urbano e diluire la consistenza dell’architettura veneziana per trasformarla in visioni oniriche. Fondamentale per la sua concezione pittorica è la maestria nel governare la luce, nonché il compore relazioni tra pieni e vuoti ricreati attraverso macchie di inchiostro e di colore indefinite (Biggi 2013).

Si tratta di esperienze in cui il referente documentale sembra sfuggire al controllo del supposto ‘copista cinematografico’ - sia esso Promio, Marelli, i fotografi appena citati o l’ignoto operatore di Venezia di notte - per esaltare quella forza evocativa ben indicata da Sandro Bernardi a proposito del vedutismo del cinema delle origini, quando sostiene che ciò che ci appare in queste immagini “non è il mondo ma, utilizzando il magnifico verso che gli dedicò Dino Campana, ‘il panorama scheletrico del mondo’; è una serie di forme, di sagome, di figure che ci sfuggono nel momento in cui appaiono” (Bernardi 2002, 37-46).

Emerge una riflessione generale sull’evoluzione del sistema di rappresentazione dei paesaggi veneziani che, oltre ad attestare l’importanza estetica di questi film, ne esige una collocazione storico-teorica scevra dalle dimenticanze sino a qui imputabili alla Grande storia del cinema. Associare la mimesis dei “dal vero” all’attestazione della naïvetè cinematografica ha sempre gettato queste opere in una sorta di sottoscala del “vero” cinema. Eppure Antoine Compagnon ricorda come si possa tradurre il termine mimesis “con ‘imitazione’ o con ‘rappresentazione’ (la scelta di una traduzione o dell’altra è di per sé un’opzione teorica), ‘verosimile’, ‘finzione’, ‘illusione’, o anche ‘menzogna’, e naturalmente ‘realismo’, ‘referente’ o ‘referenza’, ‘descrizione’. Non faccio altro che enumerarli, per dare un’idea di quanto siano grandi le difficoltà” (Compagnon 2000, 101). È un problema che torna, ed echeggiava sin dalle note considerazione di Charles Baudelaire sui pittori di paesaggio, accusati di non comporre poeticamente le ‘parole’ della natura ma di rappresentarle in quanto tali: “ne viene un vizio gravissimo, il vizio della banalità, che è più specificatamente proprio di quei pittori più vicini, per il genere di pittura, alla natura esteriore, come i paesaggisti, i quali di solito si ascrivono a gloria di non mostrare la propria personalità. Ma a forza di contemplare, essi dimenticano di sentire e di pensare” (Baudelaire [1859] 1981, 227). Parole riferite agli espositori al Salon del 1859: accuse che sembrano accomunare certi pittori dell’Ottocento ai documentaristi del secolo successivo o, almeno, all’idea che di loro si sono fatti alcuni: quella di noiosi copisti, legati a un sapere passivo, inscritti nel solerte tran-tran del cine-mimetismo.

Spesso le ricognizioni storiografiche su Venezia nel cinema si sono concentrate sul cinema sonoro, sul cinema di finzione, o tutt’al più, sugli splendidi documentari di Francesco Pasinetti. La revisioni a cui ci obbliga la non fiction dei primi tempi del cinema - che si tratti di vedute, dal vero, reportage di viaggio, home movies - investe relazioni fra diversi livelli di sguardi, divenendo un punto di vista privilegiato sull’atto del guardare inteso come momento sentimentale e conoscitivo. L’idea che l’esuberanza, la complessità, la sovradeterminazione, l’anacronismo di queste immagini ci stia costringendo a ragionare in termini diversi dalla storia basata su alcune fissità da manuale, conferma la necessità di allargare l’orizzonte cinematografico a questi film, inserendoli, tra l’altro, in un più estensivo ambito di cultura visuale. Un rovesciamento gerarchico in cui ciò che era considerato periferia iconica diviene centro di nuove definizioni di senso, per cui gli oggetti elettivi non sono più film intesi unicamente come testi narrativi. Dunque una certa lotta del senso contro un altro senso, di un senso incerto contro un senso configurato: per uscire dal mito della narrazione lineare del testo filmico, smussare l’orizzonte scientifico di alcuni approcci storico-interpretativi, e rendere più poroso il confine tra prospettiva narratologica e quella, considerata troppo impalpabile, del mito e dell’immaginario. Ciò che da qualche anno, avvicinandoci in barca allo schermo del Cinema galleggiante issato in Laguna, appare evidente. Un sentimento di fusione panica riprende il sopravvento: “Cinema naturale” direbbe Gianni Celati (Celati 2001), immerso in quella biosfera che accoglie la struggente vicinanza dell’aleatorio e del contingente.

Note

[1] La più completa classificazione dei “dal vero” è in Bernardini 2002. Per una più vasta rivalutazione della non-fiction alle origini del cinema si vedano Gunning 1995; Blom 2001; Agostini, Mazzei 2014. Mi permetto anche di rinviare a Bertozzi 2022, 295-315 (tr. it. Bertozzi 2022, 252-268).

[2] Santa Lucia appare anche nella terza visione de Le bellezze d’Italia. Trittico di Visioni Pittoresche (1910). Alcune sequenze sono state poi utilizzate da Peter Del Peut nel found footage film Lyrical nitrate (1990). Interamente rieditato, con musicazione aggiunta, il film fa inoltre parte della raccolta Exotic Europe. Journeys into Early Cinema (curata dal Nederland Filmmuseum e altre cineteche, 2000).

[3] In merito all’attrazione del travelling acquatico da parte degli operatori Lumière ricordo le 8 vedute Panoramas des rives du Nil, girate nel 1897 in Egitto (dalla 386 alla 393); le architetture scrutate sul lungo Senna nei Panoramas des Rives de la Seine, I, II, III, IV (nn. 684, 685, 686, 687); il Panorama du port a Barcellona (n. 787, girata tra il 1896 e il 1897) o il campionario stilistico presente all’Expo parigina del 1900 nella serie La Rue des Nations I, II, III (nn. 1163, 1164, 1165) dove, da un battello sulla Senna, si osservano i palazzi nazionali di Grecia, Svezia, Monaco, Spagna, Germania, Norvegia, Belgio, Gran Bretagna, Ungheria, Bosnia Erzegovina, Austria, Stati Uniti, Turchia e Italia

[4] Il rapporto tra l’opera di Canaletto e la camera oscura è stato oggetto di diversi studi, tendenzialmente protesi alla verifica scientifico-topografica del procedimento canalettiano. Si vedano Corboz 1974; Corboz 1985; Gioseffi 1959; Puppi 1968, 87-88; Pignatti 1970, 307-ss.; Perissa Torrini 2012.

[5] Per una più vasta disamina su Venezia e il cinema ricordo: Brunetta, Faccioli 2010; Brunetta 2007; Ciacci 2005; Giuliani 2003; Ellero 1983.

[6] Il nome pare essere una variante delle cosiddette “megalografie”, già citate due secoli prima da Pierre Le Lorrain, Abbé de Vallemont, 1693. Il Ponte di Rialto è uno dei topoi del vedutismo veneziano: ricordo il Prospectus Pontis Rivoalti, et Carcerum Venetiarum della produzione Remondini di Bassano, assai simile alla Vue du Pont de Rialto et de la Prison de Venise, edita a Parigi dalla stamperia Huquier, entrambe conservate alla collezione Seitz, Augsburg. Si veda anche Zotti Minici 1988.

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    T. Griffero, Atmosferologia, Estetica degli spazi emozionali, Udine-Milano 2017.
  • Gunning 1995
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  • Gunning 2010
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  • Jullien 2003
    F. Jullien, La grande image n’a pas de forme. Ou du non-objet par la peinture, Paris 2003.
  • Ponzo 1910-1911
    M. Ponzo, Di alcune osservazioni psicologiche fatte durante rappresentazioni cinematografiche, “Atti della Reale Accademia delle scienze di Torino pubblicati dagli accademici segretari delle due classi”, XLVI, Torino 1910-1911.
  • Parikka 2019
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  • Perissa Torrini 2012
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  • Puppi 1968
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  • Simmel [1907] 2006
    G. Simmel, Le rovine, in Id., Saggi sul paesaggio [Philosophie des Geldes, 1907] a cura di M. Sassatelli, Roma 2006.
  • Zotti Minici
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English abstract

The essay explores the early Venetian cinematic representations, situating them within a broader historical framework. It proposes a narrative capable of transcending the notions of "veduta" and "dal vero" as mere documentary acts, pushing beyond the reality effects ensured by mechanical devices. Reflecting on Venice through these early films expands media-archaeological practices, moving away from the established paths of traditional film archive work and the historical reductionism to which these early documentaries were relegated. The "atmospheric" revision demanded by Venetian non-fiction from the early days of cinema becomes a privileged perspective on the act of viewing as an sentimental moment. Thinking beyond a history based on fixed textbook principles confirms the need to broaden the cinematic horizon to include these films: an ecological perspective and a hierarchical inversion, where what was once considered an iconic periphery becomes central to new definitions of meaning within a broader field of visual culture.

keywords | Venice; Cinema archaeology; Landscape painting; Early films.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Marco Bertozzi, L’incanto “dal vero”. Atmosfere veneziane del primo cinema, “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.