"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

220 | gennaio 2025

97888948401

Intrecci arborei

L’infrastruttura del legno e la laguna di Venezia

Richard Grusin

English abstract

1 | Scavo che porta alla luce la palificata di fondazione, Reale Fotografia Giacomelli (s.d.)

Wood Wide Web

Ultimamente, gli alberi sono nell’aria. La deforestazione è riconosciuta in larga misura come una delle principali cause del cambiamento climatico. Gli scrittori contemporanei pubblicano romanzi lunghi e travolgenti sull’umanità da una prospettiva arborea. E gli artisti creano progetti che drammatizzano le implicazioni ecologiche della deforestazione, o operano insieme agli alberi quali agenti artistici e media. Ma l’interesse scientifico, letterario e artistico per gli alberi non è un fenomeno nuovo. Gli alberi occupano un posto particolarmente interessante nell’immaginario umano, non solo per l’ampia distribuzione delle foreste nella maggior parte delle biosfere del pianeta, ma anche per l’individualità che li distingue da molte altre piante. Diverse popolazioni indigene hanno complesse leggende, tradizioni e pratiche in cui gli alberi sono considerati come persone non umane. Dall’epoca classica in poi, miti e storie di persone che si trasformano in alberi o viceversa hanno ispirato numerose opere di letteratura e arti visive. Gli alberi sono stati a lungo un importante oggetto di studio per la storia naturale. E l’importanza del disboscamento come industria estrattiva cruciale per il capitalismo e il colonialismo ha generato lo sviluppo della moderna silvicoltura e della conservazione delle foreste come modo per massimizzare la produzione di legname da un lato, e dall’altro per proteggere, se non preservare, le foreste dall’inarrestabile devastazione futura.

A partire dalla fine degli anni Novanta, durante la prima esplosione dell’entusiasmo per Internet in Occidente, il concetto di wood wide web ha iniziato a essere adottato da botanici, dendrologi e biologi a partire dalle ricerche di Suzanne Simard e altri i quali hanno dimostrato che gli alberi, attraverso le loro radici, scambiano reciprocamente sostanze nutritive con i funghi micorrizici. I redattori della rivista “Nature” hanno coniato l’espressione wood wide web per la copertina del numero del 7 agosto 1997, che riportava un articolo sulle prime ricerche di Simard, “The Ties that Bind”. L’autore della storia di copertina, Sir David Read, riportava le recenti scoperte sperimentali di Simard e dei suoi collaboratori. È interessante notare, tuttavia, che l’espressione wood wide web non compare né nel pezzo di Read, né in quello di Simard. Tuttavia, l’espressione ha continuato a circolare: a partire dal 2012 il suo utilizzo ha iniziato a moltiplicarsi in modo significativo, continuando ad aumentare negli ultimi 10 anni.

In questo saggio vorrei sviluppare il mio precedente lavoro sulla mediazione radicale o non umana (Grusin 2015) per interrogare il concetto di comunicazione arborea sottinteso nella metafora del wood wide web. In particolare, svilupperò i concetti di “mediazione arborea” e di “intreccio arboreo” come modo per pensare al ruolo degli alberi e delle foreste nel plasmare il futuro degli esseri umani e dei non umani nell’Antropocene, in particolar modo in relazione ai problemi vitali della deforestazione, del cambiamento climatico e della biodiversità. Questi concetti ci invitano a imparare dagli alberi e dalle foreste i modo attraverso cui indebolire il concetto di eccezionalismo umano, che separerebbe l’umano dal non umano o dal più-che-umano. Inizierò con la domanda su cosa hanno in comune gli alberi e le piante, successivamente descriverò alcune operazioni di intreccio arboreo e di mediazione arborea per esplorare la specificità degli alberi nel mondo vegetale in generale. Concluderò il contributo riprendendo la questione delle infrastrutture arboree, con uno sguardo al ruolo invisibile degli alberi e del legno nella costruzione e nella sopravvivenza della città di Venezia.

"Le piante sono i veri mediatori"

Natasha Myers descrive quella che chiama “la svolta vegetale”, come “una recente svolta nell’attenzione alle affascinanti vite delle piante da parte di filosofi, antropologi, scrittori di divulgazione scientifica e dei loro pubblici ampiamente distribuiti e mediati elettronicamente” (Myers 2015, 40). Così come gli alberi e le reti micorriziche che li collegano, anche le piante sono state interpretate come se condividessero affinità con l’infrastruttura modulare distribuita di Internet. Parlando di come le piante comunicano, il neurobotanico italiano Stefano Mancuso e la giornalista Alessandra Viola sostengono che

malgrado le somiglianze, l’architettura generale delle vie di comunicazione all’interno di una pianta è del tutto differente da quella che caratterizza il corpo di un animale. Mentre gli animali sono dotati di un cervello centrale verso il quale tutti i segnali sono diretti, le piante – in virtù della loro costruzione modulare e reiterata – dispongono di molteplici 'centri di elaborazione dati' che consentono loro una gestione dei segnali molto diversa (Mancuso, Viola 2013, 79).

Contrapponendo la funzione delle radici di una pianta al cervello delle forme superiori di animali, Mancuso e Viola sostengono che “ogni apice, infatti, è un vero e proprio ‘centro di elaborazione dati’; non lavora da solo, ma è in rete con i molti milioni di altri che costituiscono l’apparato radicale di una pianta” (Mancuso e Viola 2015, 120). Oltre a essere coinvolti in reti micorriziche sotterranee, le piante e gli alberi producono l’ossigeno che gli animali respirano, e senza il quale non esisterebbe la vita animale o umana sulla Terra così come la conosciamo. Mancuso e Viola scrivono che dalle piante

[…] è dipesa la nostra esistenza sulla Terra (senza la fotosintesi non si sarebbe mai creato l’ossigeno che ha reso possibile la vita degli animali sul Pianeta) e dipende ancora oggi la nostra sopravvivenza (sono alla base della catena alimentare), senza contare che esse sono anche all’origine delle fonti energetiche (i combustibili fossili) che da millenni sostengono la nostra civilizzazione (Mancuso, Viola 2013, 8).

Emettendo come sottoprodotto della fotosintesi l’ossigeno di cui gli animali hanno bisogno per vivere, le piante rendono possibile la vita animale sulla terra. Se tutte le specie animali dovessero scomparire, la vita delle piante continuerebbe senza grandi cambiamenti; ma se tutte le piante dovessero scomparire, gli animali (ad eccezione degli organismi multicellulari anaerobici) le seguirebbero presto nell’estinzione.

Se gli animali umani e non umani dipendono dalla vita vegetale per la loro esistenza, questa dipendenza non è reciproca, ma asimmetrica. Il respiro di tutti gli animali, umani e non, si mescola sempre con l’atmosfera, che circola attraverso i corpi degli animali per consentire loro di vivere. Il respiro è ontogenetico. Il respiro è una forma di mediazione radicale: non si frappone tra gli esseri viventi e il mondo, ma contribuisce a generare il medium atmosferico che rende possibile la vita terrestre. Nel processo di respirazione, i nostri corpi viventi producono sempre miscele che poi cambiano, o rimediano, l’atmosfera, l’ambiente o il medium in un ciclo continuo. Quando gli esseri viventi smettono di mediare e rimediare l’atmosfera, non sono più in grado di vivere.

Ma l’atmosfera non è l’unico medium ontogenetico in cui vivono le piante. In un’appassionante opera sulla “e-co-affettività”, Marjolein Oele propone la “coesistenza intrecciata” del suolo come modello per un nuovo “noi”, una forma di “e-co-affettività” collettiva tra entità umane, non umane e più che umane. Non diversamente dall’atmosfera o dal respiro, scrive Oele,

[…] pensare alla funzione materiale e ontogenetica del suolo è di fondamentale importanza per reimmaginare un ‘noi’ che partecipi a un nuovo intreccio affettivo, dove intreccio, seguendo Stengers, indica ‘coesistenza intrecciata’, cioè l’emergere di costellazioni che non devono essere colte come un sistema di funzionalità formato da parti e interi, ma piuttosto come assemblaggi dovuti al ‘bricolage’, cioè alla costruzione o alla creazione a partire da una gamma diversificata di cose disponibili (Oele 2020, 150).

Oele descrive il suolo come “una superficie di confine attiva e ontogenetica, come 'un processo in sé, in cui un sistema di strati cruciali per la vita sulla Terra cresce da sottili particelle di roccia” (Oele 2020, 150). Il suolo, tuttavia, non è costituito solo da particelle di roccia, ma è ulteriormente legato all’atmosfera e al respiro, in quanto “il funzionamento del suolo dipende per circa il 50% dai pori del suolo: i luoghi interstiziali, per lo più invisibili, che formano il suo tessuto connettivo” (Oele 2020, 151). Sebbene questi pori possano sembrare vuoti, non lo sono, ma “sono riempiti di aria o di acqua, o di entrambe, a seconda del contenuto di umidità del suolo e delle condizioni delle piogge e dell’irrigazione. Le radici e gli organismi del suolo, sia la macroflora che la microflora e la fauna, occupano questi pori” (Osman 2013, 56-57). Come il medium atmosfera, anche il medium suolo è soggetto al degrado umano e tecnico. Ma ciò che si rivela cruciale sia per l’atmosfera che per il suolo come forme di mediazione radicale è che nessuno dei due deve essere colto come un “sistema di funzionalità di parti e interi”, ma piuttosto come assemblaggi dovuti al “bricolage”, assemblaggi che includono ciò che Oele chiama “coesistenza intrecciata” con umani e non umani. E come vedremo nella sezione seguente, parte della specificità degli alberi rispetto alle piante è proprio il loro funzionamento come assemblaggi attraverso processi di intreccio arboreo.

Intreccio arboreo

Quasi tutto ciò che è vero per le piante è vero anche per gli alberi, anche se non è sempre vero il contrario. Gli alberi hanno una struttura distribuita come tutte le piante. Gli alberi condividono il rapporto immediato delle piante con il mondo, traendo il loro nutrimento dalla “realtà nelle sue componenti più elementari: rocce, acqua, aria, luce” (Coccia [2016] 2018, 18). E come le piante, gli alberi condividono una intimità con il respiro e con il suolo. Ma gli studiosi delle piante spesso si muovono tra la discussione delle piante in generale e quella degli alberi in particolare senza affrontare esplicitamente la questione della specificità degli alberi. Nel cercare di articolare ciò che distingue gli alberi dalle piante in generale, non cerco di riprodurre la logica dell’eccezionalismo umano per gli alberi. La specificità arborea non è la stessa cosa dell’eccezionalismo arboreo. Non c’è una frattura ontologica tra alberi, piante, funghi o altri organismi, né tra atmosfera e suolo. A differenza dei primati, dei rettili o degli aracnidi, per esempio, che sono tutti geneticamente ed evolutivamente correlati, non esiste un legame filogenetico tra gli alberi. Le diverse specie di alberi si sono evolute da diversi “rami” di quello che chiamiamo albero evolutivo, una metafora che è stata efficacemente esplorata altrove. Suggerire che esistono qualità specifiche dell’arboricoltura che distinguono gli alberi da altre forme di piante non significa negare che gli alberi siano piante, ma insistere sul fatto che possiedono quelle che potremmo definire, seguendo Charles Sanders Peirce, tendenze a formare abitudini simili. Sebbene le diverse specie di alberi sviluppino abitudini diverse, in questa sezione mi concentrerò su tre abitudini condivise da tutti gli alberi: la formazione del legno, l’abitudine a “diventare con gli altri” – per prendere in prestito un’espressione di Donna Haraway (Haraway 2008) – e la durata di vita insolitamente lunga, compresa la vita dopo la morte.

La capacità degli alberi di fornire il legno non solo gioca un ruolo importante nella co-evoluzione degli esseri umani e degli alberi, ma è fondamentale sia per la loro durata di vita relativamente lunga, sia per la loro “coesistenza intrecciata” con entità organiche e inorganiche. È interessante notare che, a differenza della maggior parte delle piante, il legno degli alberi morti continua a interagire con innumerevoli altre specie anche dopo la morte dell’albero, spesso per molti più anni di quanto non facesse quando era parte di alberi vivi. In un libro affascinante intitolato Dead Wood: The Afterlife of Trees, Ellen Wohl, studiosa delle forme e dei processi fluviali, traccia sia le vite che la vita dopo la morte di tre diversi alberi fluviali del Nord America: un peccio di Englemann, un cedro rosso del Pacifico e un pioppo balsamico. Wohl mostra come questi alberi si impegnino in ciascuna delle tre abitudini che ho fin qui delineato (Wohl 2022).

Uno dei modi in cui Wohl descrive ciò che io intendo come “intreccio arboreo” (arboreal entanglement) è attraverso la dimostrazione di come alcuni endofiti ed epifiti aiutino a mantenere in vita i pecci di Engelmann fissando l’azoto di cui hanno bisogno per vivere. Sebbene sia vero che le reti micorriziche del bosco forniscono al peccio l’azoto in cambio di carbonio, l’azoto deve essere convertito in composti utilizzabili dall’albero che “diventa con” i batteri endofiti e i licheni epifiti. In uno scambio mutualistico, una specie di batteri endofiti preleva i nutrienti dagli aghi dell’abete rosso in cui vivono e allo stesso tempo “stimola la crescita della pianta e aiuta a proteggersi dalle malattie [...] migliorando l’acquisizione di azoto da parte della pianta” (Wohl 2022, 28). Wohl contrappone questo processo mutualistico di rimediazione endofitico, particolarmente prezioso quando l’abete è ancora giovane, a un’altra operazione di fissazione dell’azoto che diventa più evidente con la maturità degli alberi. l’autrice descrive il modo attraverso cui gli epifiti, così come i licheni, raccolgano umidità e sostanze nutritive dall’ambiente del peccio di Englemann, anche se, a differenza dei batteri endofiti, gli epifiti vivono sull’albero ma non al suo interno, e non traggono nutrimento direttamente dagli alberi stessi. Entrambi gli organismi, tuttavia, contribuiscono a mantenere in vita il peccio fissando l’azoto che gli alberi acquisiscono dalle reti ifali presenti nel terreno. Una volta smesso di pensare agli alberi come a singoli organismi autonomi, “sistemi di funzionalità di parti e di interi”, diventa sempre più difficile stabilire con certezza il confine tra dove inizia e dove finisce un albero. Forse potremmo addirittura dire che i batteri endofiti e i licheni epifiti che fissano l’azoto di cui l’abete Engelmann ha bisogno per vivere sono essi stessi parti dell’albero inteso come assemblaggio arboreo, proprio come le foglie, la corteccia, il durame o le radici.

Considerando la vita del “legno morto” come un capitolo cruciale della biografia di un albero, Wohl sfida anche i confini tra quando la vita di un albero inizia e quando finisce. Michael Marder ha problematizzato l’idea di lunga data secondo cui le radici segnano i punti di origine della vita di un albero, spiegando, invece, come i semi funzionino sempre come centri, siti in cui radici e germogli emergono insieme, collegando i media del suolo e dell’atmosfera nella crescita bidirezionale del seme.

Ma la radice di un albero è ben lontana dall’essere la sua origine; come in tutte le altre piante, non è che un estremo nella polarizzazione di un germoglio, di un seme o di una ghianda che cresce contemporaneamente verso l’alto e verso il basso quando viene piantata nel terreno. Qualsiasi cosa assomigli all’origine in una pianta è sempre una variazione sul, del e dal centro – l’estensione del centro in ogni direzione, sia verticalmente che lateralmente (Marder 2016, 137).

Allo stesso modo, le descrizioni di Wohl di ciò che accade agli alberi dopo la loro trasformazione in legno morto ci permettono di vedere come, anche dopo la loro morte, gli alberi continuino a “diventare con” gli altri in modi molto simile a quando sono ancora vivi. Questa indistinzione tra legno morto e albero vivo esiste già durante la vita matura dell’albero, poiché il durame del tronco e dei rami principali muore man mano che l’albero cresce, trasformandosi in elemento infrastrutturale dell’albero vivo. Oele descrive come

il legno morto che rinforza la robusta struttura di un albero […] esprime una disposizione orientata al futuro, ovvero che riflette il sostegno della crescita attuale e futura, e contemporaneamente contiene nel suo legno morto una memorizzazione materiale diretta del suo passato attraverso la formazione di anelli per ogni anno di vita dell’albero (Oele 2020, 39-40).

Wohl descrive tre fasi della vita dopo la morte dell’albero, ognuna delle quali dimostra come il legno morto del peccio, così come l’albero vivo, diventi un nuovo medium per la coesistenza intrecciata di assemblaggi multispecie. Il ceppo, “la fase successiva dell’esistenza [dell’albero]”, è la parte di un albero che rimane in piedi dopo la sua morte. Come quando era in vita, il ceppo del peccio ospita una varietà di organismi: i funghi creano la marcescenza disgregando i tessuti legnosi dell’albero; gli uccelli che nidificano nelle cavità costruiscono i nidi allargando piccole chiazze di legno decomposto; altri uccelli si nutrono di insetti che a loro volta si nutrono di legno in decomposizione e in alcuni casi, come nel caso delle formiche carpentiere, costruiscono nidi nel ceppo per le loro colonie. “Con l’aggiunta di batteri, funghi e diversi invertebrati ai suoi tessuti”, scrive l’autrice, “il ceppo contiene una consistente parte di biomassa vivente, anche se in forma diversa rispetto a quando l’albero era vivo. Anche i nutrienti trasportati dalle piogge e dallo scioglimento delle nevi si accumulano sul ceppo” (Wohl 2022, 45). Sebbene la biomassa di un ceppo assuma forme diverse rispetto a quando l’albero era vivo, è importante per i nostri scopi riconoscere che il legno morto del ceppo è legato a molti organismi viventi dagli stessi processi di mediazione non umana che operano nel peccio di Engelmann vivo. Non diversamente da un albero vivente, il ceppo esiste come un assemblaggio multispecie composto da diversi nutrienti e organismi viventi a disposizione.

Allo stesso modo, Wohl descrive come i “detriti legnosi grezzi”, grandi pezzi di legno abbattuto come i rami e i tronchi caduti che si trovano su ogni suolo forestale, partecipino alla creazione di assemblaggi di più specie. Concentrandosi principalmente sul tronco caduto del peccio, il cui deterioramento in “una massa amorfa e omogenea” può durare fino a ottocento anni, molto più a lungo della vita della maggior parte degli alberi, l’autrice descrive l’intenso divenire del tronco insieme ad altre specie fino alla traformazione in suolo: “i coleotteri e le termiti scavano una massa di piccole gallerie all’interno del legno. Lungo le gallerie crescono batteri e funghi. Le collembole e gli acari brucatori seguono le loro fonti di cibo nelle gallerie. I funghi crescono sui corpi di coloro che muoiono nelle gallerie” (Wohl 2022, 52). Questo intreccio di gallerie dissolve il legno, consentendo alle piante di crescere dal tronco in disfacimento attraverso “l’associazione con i funghi [micorrizici] nel tessuto dell’albero in decomposizione”. “In sostanza” – conclude Wohl – “gli insetti, i batteri e i funghi iniziano a rendere l’albero caduto sufficientemente poroso da consentire il passaggio di piante e animali, aria, acqua e sostanze nutritive tra l’albero abbattuto e l’ambiente circostante” (Wohl 2022, 52). La trasformazione in suolo dei detriti legnosi grezzi dimostra come, secoli dopo la loro morte, gli alberi continuino a partecipare agli stessi processi di nutrizione e scarto, crescita e decomposizione, a cui partecipavano quando erano vivi. Se tali processi sono essenziali per la vita dell’albero, la loro continuazione per secoli dopo la morte del peccio rende difficile delimitare un confine netto tra vita e morte nell’assemblaggio multispecie che chiamiamo albero.

Infrastruttura arborea e Venezia

La capacità degli alberi di formare il legno, che fornisce le materie prime per le abitazioni umane e altri artefatti sociali e tecnici, è stata fondamentale per l’uomo fin dai tempi più remoti. Il fascino degli umani per gli alberi deriva in parte dalla loro onnipresenza nella nostra vita quotidiana, dall’importanza vitale del legno nel fornire materiali per le abitazioni umane e per altre infrastrutture sociali e tecniche. Come scrive la dendroclimatologa Valerie Trouet:

I numerosi resti lignei archeologici e storici – edifici, pozzi, manufatti, carbone vegetale, ceppaie – riflettono solo una piccola parte dei numerosi modi in cui ci siamo serviti di questa impareggiabile risorsa naturale. Il legno ci ha dato armi con cui cacciare e combattere, ma anche strumenti, mobili, attrezzature sportive, la stampa xilografica e la carta, e ha perfino reso possibile la parola scritta così come la state vedendo in questo libro. Il legno era la principale fonte di energia nelle case e nelle industrie fino all’avvento della Rivoluzione industriale e all’enorme diffusione dei combustibili fossili. Non è un’esagerazione dire che la civiltà umana che conosciamo oggi è fondata sugli alberi (Trouet [2020] 2022, 237).

Roland Ennos fa un ragionamento simile nel suo libro The Age of Wood, che racconta l’interazione dell’uomo con gli alberi e il legno a partire dai primati pre-umani (Ennos 2021). Un recentissimo studio pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences (Leder et al. 2024) ha dimostrato che il Pleistocene avrebbe potuto essere denominato come “età del legno” tanto quanto il suo più comunemente accettato appellativo di “età della pietra”.

Non solo il legno ha costituito la maggior parte delle infrastrutture umane nel corso della nostra storia, ma gli esseri umani sono legati agli alberi in modi che non sempre riconosciamo pienamente. Ennos si basa su recenti lavori di antropologia e scienze cognitive per mostrare come alcune delle caratteristiche evolutive chiave che distinguono gli esseri umani dalle altre specie – lo sviluppo della vista prospettica rispetto all’olfatto, la complessa percezione della profondità e l’abilità prensile di piedi e mani – si siano sviluppate da primati arboricoli. In quest’ottica, forse non è esagerato pensare alla dipendenza dell’uomo dal legno come a un esempio di co-evoluzione dell’uomo e degli alberi, intesa sulla falsariga delle affermazioni di Gilbert Simondon (e di altri) sulla co-evoluzione dell’uomo e della tecnologia. Seguendo Simondon, potremmo dire che gli alberi e il legno sono le prime tecnologie umane e che l’individuazione degli esseri umani emerge dall’essere preindividuale dei primati arboricoli.

Oppure, nel caso di Venezia, potremmo dire che l’individuazione della città stessa è emersa dall’essere preindividuale degli alberi. Non è infatti noto, credo, a chi non è di Venezia, che la città è costruita su un’infrastruttura di legno. Poiché le isole poggiano su un fondo costituito principalmente da fango e limo su uno strato di argilla, costruire una base solida su cui edificare una città poneva un serio problema architettonico e ingegneristico. La soluzione trovata dai veneziani già in epoca medievale prevedeva l’utilizzo di oltre 1 milione di tronchi d’albero (anche se alcune fonti parlano di un numero inferiore, e altre invece di 10 milioni di pali). Questi tronchi venivano legati insieme in zattere e trasportati dalla corrente del fiume o portati su barche provenienti dalle foreste settentrionali della Slovenia, Montenegro e Croazia. Gli alberi erano di specie come la quercia, l’ontano, il pino silvestre e il larice, selezionati per la loro durata e resistenza all’acqua. Gli alberi venivano tagliati in lunghi pali di circa 25 metri di lunghezza, che poi venivano puliti e conficcati fino a 7,5 metri nello strato di argilla sottostante il sottosuolo di fango e limo. Su questi pali si posava un substrato di legno, quercia, pino e betulla, e in seguito grandi pezzi di pietra, su cui sono stati costruiti gli edifici di Venezia.

Data la propensione del legno morto a marcire e a trasformarsi in terra, ci si potrebbe chiedere come questi tronchi d’albero riescano a sostenere la città dopo molti secoli. La risposta è la pietrificazione. Poiché i pali di legno sono stati spinti così in profondità sott’acqua, sono stati privati dell’ossigeno, un elemento chiave necessario per il processo di decomposizione. In questo ambiente povero di ossigeno, il legno ha subito un processo di mineralizzazione, trasformandosi di fatto in pietra, che ha permesso a queste fondamenta di durare per secoli. Il segreto della longevità di questo materiale consiste proprio nel fatto che è completamente conservato nel fango anaerobico. Non essendo a contatto con l’ossigeno, i microrganismi che colpiscono il legno, come batteri e funghi, non possono sopravvivere. I più antichi di questi tronchi risalgono a un migliaio di anni fa, preservati dal fango e dai suoi organismi dureranno altri mille anni (Skinner, Vianello 2022).

I supporti lignei sommersi nella laguna veneziana non sono dunque stati soggetti agli intrecci arborei che avrebbero potuto formarsi attraverso i processi di assemblaggio e bricolage a cui la maggior parte degli alberi è sottoposta durante la vita e dopo la morte. Il legno ha invece subito un processo di mineralizzazione, un’altra forma di assemblaggio molto diversa, trasformandosi infine in pietra piuttosto che decomporsi in terra.

Questa ingegnosa, e forse casuale, collaborazione ingegneristica con il legno, l’acqua di mare e il substrato argilloso della laguna (il caranto), ha creato sotto i nostri piedi una base che per la maggior parte resiste ancora oggi. Venezia può sembrare galleggiare sull’acqua o essere costruita sul terreno delle sue isole, ma in realtà è sostenuta da una foresta pietrificata di antichi tronchi d’albero. Queste fondamenta devono essere preservate nell’attuale era del cambiamento climatico e dell’innalzamento del livello del mare se si vuole proteggere il ricco patrimonio architettonico di Venezia, proprio come Simondon descrive la necessità di mantenere tutte le tecnologie nella loro continua co-evoluzione con l’uomo. Pensando alle fondamenta di Venezia, mi chiedo se esse possano fornire un esempio di co-evoluzione di uomini, alberi e tecnologia, da cui oggi potremmo trarre una lezione. Come gli alberi, le nostre infrastrutture tecnologiche non sono altro dalla natura umana o non umana, ma sono parte di essa, crescono insieme all’uomo come il tronco di legno di un albero cresce infrastrutturalmente per sostenere l’albero vivente. Che cosa può significare considerare la co-evoluzione dell’uomo e della tecnologia come una derivazione o un intreccio della co-evoluzione dell’uomo e degli alberi?

Nel corso di questo secolo, i tecnologi attenti ai dati hanno cercato di progettare nuovi modi di co-evolvere tecnicamente con gli alberi e le foreste. Attraverso la “datafication delle foreste”, hanno iniziato ad affrontare i problemi della deforestazione in progetti eco-tecnici che trasformerebbero l’idea del wood wide web in quello che chiamano “un Internet degli alberi”. Collegando gli alberi a delle reti tecnoscientifiche tramite codici QR, dati satellitari e apprendimento automatico, questi progetti trasformerebbero gli alberi in tecnologie di mediazione per contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico. I droni guidati dal GPS hanno iniziato a essere impiegati per piantare alberi lasciando cadere semi più velocemente di quanto l’uomo possa fare, e in luoghi che l’uomo non è in grado di raggiungere facilmente; i “tecno-entusiasti” sostengono di poter piantare 100.000 “alberi” in un giorno.

Sebbene si tratti di progetti suggestivi, ho alcune domande su queste connessioni di tecnologie arboree. Non diversamente dalla metafora del wood wide web, che impone modelli umani di reti tecniche sulle reti arboree di mediazione degli alberi, la materializzazione degli alberi come ciò che Jennifer Gabrys chiama “tecnologie di governance planetaria” (Gabrys 2013) sembrerebbe aggirare o ignorare il riconoscimento che gli alberi e le foreste sono già tecnologie per la gestione dell’ambiente, che le foreste sono già intelligenti, senza bisogno di essere dotate di sensori o codici QR o mappate digitalmente da droni o altre tecnologie di rilevamento in rete. Sia come metafora che come materializzazione tecnica, il wood wide web, l’internet degli alberi o il rimboschimento con i droni rischiano di subordinare l’intreccio arboreo al fine di strumentalizzare gli alberi e le foreste per il benessere economico, politico e sociale dell’umanità.

Voglio invece suggerire che, se vogliamo impegnarci in una reingegnerizzazione su larga scala delle nostre foreste, sarebbe utile adottare una prospettiva arborea per considerare ciò che potremmo imparare dagli alberi. Abbiamo visto come gli alberi vivi e il legno morto si associano in assemblaggi multispecie che continuano ben oltre la vita di un albero. L’intreccio arboreo del legno morto è quasi diametralmente opposto all’obsolescenza programmata delle nostre tecnologie elettroniche, sia per quanto riguarda la loro creazione, sia per quanto riguarda la loro vita utile o la loro vita successiva come rifiuti. A differenza degli alberi, che continuano a generare e sostenere nuove vite anche dopo la loro morte, le nostre tecnologie mediatiche in rete consumano più energia organica e inorganica di quanta ne producano. E dopo la loro morte, le nostre tecnologie mediali non contribuiscono alla prosperità reciproca di esseri umani e non umani, ma si accumulano come rifiuti elettronici inutili e tossici, ciò che Gabrys ha chiamato “spazzatura digitale”.

Forse, sul modello della pietrificazione delle fondamenta di Venezia, potremmo anche imparare dagli alberi qualcosa di simile alla lentezza della temporalità arborea, ovvero una visione più a lungo termine rispetto agli sforzi neoliberali e capitalistici di massimizzare il profitto e la produttività economica nel più breve tempo possibile. Lavorare sul modello di una temporalità arborea potrebbe incoraggiarci a trovare modi per rendere le nostre tecnologie digitali responsabili delle loro interrelazioni con entità organiche e inorganiche in ambiti quali l’estrazione di minerali rari, l’osceno consumo di energia da parte dei centri dati e la vita dopo la morte di questi materiali. Nell’imparare dagli alberi potremmo anche prendere spunto dalla loro relativa immobilità, che li ha portati a sviluppare strategie collaborative per sopravvivere alla loro fissità nel luogo, al loro radicamento nell’ambiente. Piuttosto che spostarci verso la prossima frontiera di fronte a un disastro ecologico o economico, come gli esseri umani hanno fatto per millenni, forse dovremmo seguire i nostri antenati arboricoli e accettare la nostra responsabilità per il pianeta su cui viviamo “restando con i problemi”, come esorta Donna Haraway, o esplorando “la possibilità di vita nelle rovine capitaliste”, come implora Anna Tsing. In altre parole, pensando a noi stessi come alberi invece che pensare gli alberi attraverso il modello umano, accettando il nostro legame arboreo con gli assemblaggi di più specie e la nostra co-evoluzione con la tecnologia, potremmo iniziare a considerare nuovi modi di relazionarci con il mondo non umano o più-che-umano, non come separato da noi, ma intrecciato a noi. Nonostante i sogni tecnoculturali di colonizzare lo spazio, per ora gli esseri umani sono radicati alla Terra proprio come gli alberi tra i quali viviamo. Nel prossimo futuro, nel bene e nel male, la vita umana su questo pianeta rimarrà – credo – arborealmente intrecciata. Per trovare modelli di prosperità reciproca e di benessere multispecifico, non potremmo fare niente di meglio che guardare agli alberi.

Nota alla traduzione

Il testo di Rchard Grusin è una traduzione del saggio Arboreal entanglements. Infrastructural wood and the Venetian lagoon, a cura di Simona Arillotta e Camilla Pietrabissa. Anche le citazioni da testi in inglese sono stati tradotti dalle curatrici di Engramma 220.

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    D. Leder, J. Lehmann, A. Milks, T. Koddenberg, M. Sietz, M. Vogel, U. Böhner, T. Terberger, The wooden artifacts from Schöningen’s Spear Horizon and their place in human evolution, “Proceedings of the National Academy of Science, U.S.A.” (2024)
  • Skinner, Vianello 2022
    J. Skinner, A. Vianello, Il legno nello spazio urbano di Venezia, in C. Baldacci, S. Bassi, L. De Capitani, P. D. Omodeo, a cura di, Venezia e l’Antropocene. Una guida ecocritica, Venezia 2022.
  • Trouet [2020] 2022
    V. Trouet, Gli anelli della vita. La storia del mondo scritta dagli alberi [Tree Story. The History of the World Written in Rings, Baltimore 2020], trad. B. Bertola, Torino 2022.
  • Wohl 2022
    E. Wohl, Dead Wood: The Afterlife of Trees, Vancouver 2022.
English abstract

Starting from the concept of radical mediation, this essay explores the idea of arboreal communication underlying the metaphor of the Wood Wide Web, a term that began to circulate in the late 1990s based on the research of Suzanne Simard. In the second section, the essay develops the concepts of arboreal mediation and arboreal entanglement to understand how trees and forests shape the future of both human and non-human beings. In the final section, the essay focuses on the arboreal infrastructure that has supported and ensured the survival of the city of Venice over centuries.

keywords | Venice; radical mediation; arboreal mediation; arboreal entanglements; Wood Wide Web

Per citare questo articolo / To cite this article: R. Grusin, Intrecci arborei. L’infrastruttura del legno e la laguna di Venezia, “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.