“Venezia è una linea. Una storia di alluvioni evitate”
Elementi per un film – Elemental come film
Carmelo Marabello
English abstract
ll sistema MOSE consiste in 4 barriere costituite da 78 paratoie mobili tra loro indipendenti in grado di separare temporaneamente
la laguna dal mare e di difendere Venezia dagli eventi di marea eccezionali.
Le barriere sono collocate alle bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia,
ovvero nei tre varchi del cordone litoraneo attraverso i quali la marea si propaga dal mare Adriatico in laguna.
mosevenezia.eu
Non dire di me che ho rinunciato
alle imprese dei padri e che ho fuggito il mare,
le torri che abbiamo edificato
e le lampade che abbiamo acceso
per chiudermi nella mia stanza
e giocare con la carta come un bambino.
Dì’ invece: nel pomeriggio del tempo
un figlio vigoroso ha spolverato le mani
dalla sabbia di granito, e guardando lontano
lungo la costa mugghiante le sue piramidi
e gli alti monumenti catturare il sole che muore,
sorriso gonfio di gioia, e a questo compito infantile
ha dedicato, davanti al fuoco, le ore della sera.
Robert Louis Stevenson
Soglia
Come si vive e si lavora a Venezia al tempo del MOSE, il sistema di dighe mobili di difesa dalle acque alte? Come trascorre il tempo di un viaggio, di un’esperienza turistica chi raggiunge questa città adesso protetta da una tecnologia in parte invisibile, la cui emergenza ha per cittadini e turisti la forma di un’app che segnala la possibile cronologia di attivazione delle barriere mobili? Un sistema di paratie mobili a scomparsa ripara, infatti, la città: un sistema di macchine e macchinari immersi e invisibili destinati a sollevarsi quando necessario, secondo misure e valutazioni, algoritmi e decisioni, modelli e sistemi di previsioni satellitari capaci di intercettare il futuro di venti e maree. Il ventre tecnologico della laguna opera silenzioso e quasi invisibile: dalla control room dell’Arsenale di Venezia occhi umani e telecamere di sorveglianza, diagrammi e calcoli, attestano ogni giorno la potenza dei modelli. Il Giona della Bibbia che nel ventre della balena reimpara a pregare prima di ritornare dagli abissi, qui assume le forme di un sacerdote scienziato, un tecno-profeta: questi non prega, verifica, eventualmente agisce, digitando comandi. La geografia volontaria della laguna, la storia artificiale di Venezia come città di acqua e terre emerse e edificate per scelta e necessità politica qui è declinata nel presente del mutamento climatico, come forma di mitigazione e protezione temporanea: il MOSE protegge la città e, come ha detto l’idrologo Andrea Rinaldo in occasione dello Stockholm Water Prize, guadagna tempo di fronte a un futuro particolarmente incerto e complesso visto il sollevamento delle acque dell’Adriatico, sulla scena di una laguna destinata, forse, a diventare lago.
Il MOSE, eventualmente, è una vista per chi in vaporetto attraversa alcune parti della laguna, dove alcune delle sue propaggini fisiche appaiono come emergenze. Solo lo sguardo sagittale e la memoria dei dati e delle immagini mediali dei sollevamenti raccontano e rendono visibili la sua struttura e la sua azione: se sollevate le paratie gialle compongono un ordine temporaneo e stabile, segnato dalla calma della laguna al di qua dei cassoni mobili gialli finalmente emersi, mentre le onde e i flutti, nel mare aperto, si infrangono e schiumano. Così il livello uguale dei mari, la calma aristotelica, descritta nel libro V della Metafisica, è tecno-performata dal MOSE nel sistema lagunare. Se la calma è allora il livello delle acque e del loro moto, la città ferve tranquilla, agitata intanto dai suoi traffici di corpi e merci, turisti e sguardi, trasporti di cose e dati, polveri e inquinanti, panorami ruskiniani e traiettorie del consumo.
Prima linea
Venezia è una linea. Una storia di alluvioni evitate è un film-saggio diretto da Ila Bêka, esito di un seminario con Marco Ionardi, Raven Gio Masi, Giorgia Ortalli, Francesca Pinton, Francesco Zanatta, Pier Zanichelli tenutosi nel 2023 a Venezia, nell’ambito del workshop Wave. Come interrogare il tempo urbano al tempo del MOSE, come ridefinire l’esperienza urbana alla luce della protezione mobile della diga? Che cosa è il MOSE per chi trascorre in città il suo tempo? Per chi legge gli avvisi di attivazione sui suoi device, naturalizzando medialmente l’acqua alta come una misura in centimetri e il MOSE come un farmaco di una terapia altamente tecnologica capace, come nei medical drama o più correttamente nei disaster movie, di affrontare il rischio del possibile disagio o della relativa catastrofe? Tuttavia, se la metafora farmacologica è utilizzabile, il pharmakon si presenta – insegnano gli antichi – come medicina e come veleno. Come ci ricorda Derrida la scrittura stessa, infatti, non è la memoria viva, è anch’essa estranea alla vera scienza, all’anamnesi nel suo movimento propriamente psichico, alla verità nel suo processo di presentazione, alla dialettica, al dibattito, alla sfera possibile del dialogo come verità parziale tuttavia viva e pubblica.
Fuori dalla città le acque pericolose rimangono confinate: l’ingegneria, come la scrittura per Derrida, produce l’impossibilità della reminiscenza come consapevolezza del processo: filmare le acque calme è mancare al tempo, assumerlo come eterno presente, come tempo risolto dal logos del montaggio e dell’ingegneria, riducendo il doppio fronte – le acque calme all’interno, i marosi nel mare aperto separato dalla laguna – a semplice risoluzione ottica dell’emergenza, esperienza estetica e mediale, assolvendosi da una riflessione sulla lunga durata dei fenomeni geologici e climatici, anestetizzando il nostro presente dove tuttavia ci tocca vivere. Le alluvioni evitate, infatti, non esistono: nessuno le traccia, nessuno ne simula i danni, nessuno le racconta. La terapia necessaria allontana la città dalle domande sul suo futuro: il capro espiatorio ha qui la forma futura di un algoritmo, o di una cerniera arrugginita nel sistema di sollevamento: due diverse e relative invisibilità. L’elementale lagunare si presenta come un fuoricampo: il fuoricampo Invisibile ma agente che lo schermo-medium – il MOSE – proietta sul reale definendone le condizioni stesse di esperienza, rimuovendo la memoria dei corpi immersi nell’acqua dei passanti, le passerelle come punti di sollievo e rilievo sulle fondamenta e per le calli principali, il soundscape della città sommersa parzialmente dall’acqua, la diversa immanenza anfibia dei gesti e dei passi nella città allagata.
Linee d’inciampo
Una volta, a Venezia, dopo le inondazioni, qualcuno lasciava un segno sui muri: un graffito, un numero, un’incisione [Fig. 1]. Lasciava così una memoria fisica, digitale – perché digitata – di un evento. Queste linee sono destinate per lo più alla scomparsa, vanno via via scomparendo: le facciate vengono intonacate, gli agenti atmosferici cancellano le tracce. Accade poi che attori e autori di questa storia minima di tracce scompaiano, lascino la città, ad esempio, alcune volte anche la vita. Queste linee, talvolta, diventano marmi, segnaletica pubblica della storia più o meno recente, targhe, iscrizioni, pietre di inciampo ad altezza di occhi. Tuttavia non basta coglierle di sfuggita: sono linee da leggere e bisogna avere la pazienza di scoprirle. Queste linee sono una piccola messa in forma puntuale: l’incisione sulla pietra. E tuttavia si offrono come un filo da ritessere ingoldianamente attraverso l’algoritmo lento e complicato della memoria collettiva, della memoria di chi ne ricorda il senso, la condizione effettiva di vissuto che le ha generate, la tragedia ad esempio dell’‘acqua granda’ del 1966, o la più recente memoria pubblica e mediale del 12 novembre del 2019.
Le linee di inciampo dispongono infatti la trama orizzontale che segnala l’orizzonte definito della marea, la linea mobile dell’acqua alta. Storia rarefatta e lapidaria di misure. Storia sintetica e lineare, storia come quota delle acque, da interrogare. Documenti silenziosi da riattivare. Filmare. Nello spazio analogico del cinema sarebbero divenute impressioni su pellicola, nello spazio digitale diventano invece una nuvola di dati e pixel. La necessità di riattivarle produce tuttavia un campo di tensione: il campo della memoria pubblica, la presentificazione di questa, la tensione tra Storia e storie, l’esperienza mediale come continua elicitazione di chi ha vissuto ma anche come agency e orientamento di chi ricerca. Come ripensare quindi Venezia al tempo del MOSE, come filmare e immaginare Venezia al tempo del MOSE, di alluvioni evitate e, per questo, oggetto di una derealizzazione collettiva? Come filmare una città che, come un inconscio gotico collettivo, si presenta e ripresenta per lo più come un catalogo di icone ruskiniane o come atto di reificazione spaziale nel merchandising del cinema hollywoodiano? Come filmare una città storicamente prodottasi come società dello spettacolo – ben prima di Guy Debord – dove il capitale si è fatto spettacolo e dove lo spettacolo si è pensato come merce? Come filmare la relazione tra artificiale e elemental che Venezia assume e ri-assume di continuo, nello spazio-tempo della sua esistenza. Da queste domande il seminario e il film hanno preso le mosse, da qui Venezia è una linea si presenta come forma semplice – didattica – del figurale: il fuoricampo, l’esterno, l’invisibile, sono le figure di una trasgressione continua nel reale, la messa in gioco dei codici abituali con cui Venezia si fa immagine ed è mediata da immagini.
Filmare l’impossibile
Dal centro storico di Venezia il MOSE è invisibile, è uno schermo e un muro possibile, tuttavia capace di difendere la città. Il MOSE è messaggio, un medium situato tra acqua e isole, una traccia su un’app per gli abitanti della città, per i turisti più consapevoli: l’avviso di un sollevamento, l’assicurazione di una difesa. C’è un esterno atmosferico – vento, pressioni, maree, correnti – capace di offendere il quotidiano di Venezia: all’evento possibile, previsto e prevedibile, osservato da satelliti, analisi di dati, schermi di una control room, computer, la risposta tecno-scientifica si produce tramite l’epifania meccanica di una barriera metallica gialla, appunto la diga mobile. Diga che la città, gli abitanti della città, vedono, di fatto, attraverso le immagini che la rete consegna, che le tv producono, che i droni filmano, mentre l’occhio nudo dal centro storico non coglie nulla di ciò, l’occhio dei veneziani, così come quello dei turisti. Venezia è stata l’unica città gotica dotata di un basso muro d’acqua capace di difenderla per secoli. Invece che torri scattanti e mura possenti, Venezia è vissuta accanto a un muro sottile di acqua, barene, secche: la bassa profondità del mare e della laguna hanno segnato la sua esistenza. Tuttavia la laguna stessa altro non è che il prodotto naturale più ‘artificiale’ del paesaggio storico italiano, un concorso di azioni e di progetti, di eventi naturali e umani. Il MOSE emerge da questa storia come l’ultimo, in ordine di tempo, di questi tentativi. Un muro mobile atto a difendere la città storica, le sue isole, Chioggia, dalle onde di marea, mentre il livello del mare sale ed è destinato a salire nei prossimi decenni. Mentre la città e la sua laguna vedono mutare il senso di un’esistenza già fragile e complessa, segnata da trasformazioni profonde del tessuto sociale e delle forme di vita e lavoro. Il MOSE scherma la città, muro mobile sommerso, mura comunque invisibili dalla città storica. Raccontare questa percezione mancata, questa visione assente, è stato il senso del workshop e del progetto-film. Se le inondazioni, infatti, restavano nella memoria degli abitanti come tracce che sui muri indicavano la misura stessa del livello delle acque, cicatrici, ferite saline, trame di erosioni, oggi le alluvioni evitate sono destinate a rimanere vive nel limbo digitale degli annunci di sollevamento del MOSE stesso, nel lavoro di esperti di modelli, nella traccia delle decisioni di chi interviene in difesa di Venezia, nel puro confronto di numeri, dichiarazioni, costi economici e responsabilità dichiarate e non. Il MOSE resta assente. Nessuno in città ricorda le alluvioni evitate, mentre il sollevamento del MOSE diventa un’abitudine.
Così, Venezia è una linea si muove come una sorta di etnografia della percezione: interroga e intervista i passanti, gli abitanti, i turisti, raccogliendo stupore e dubbi, mis-conoscenza da parte dei turisti, sottovalutazione da parte degli abitanti. La macchina MOSE, così come la complessa ‘macchina laguna’ il cui nome è Venezia – interazione di tecnologie e processi fisici – è stata infatti, per così dire, ‘naturalizzata’, risolta come una prassi senza autori, qualcosa formata e firmata da una mano invisibile, come la metafora ben nota del pensiero economico. E del resto, invisibili, in un certo senso, sono persino le donne e gli uomini che lavorano al MOSE stesso, così come invisibile è l’esito di ciascun sollevamento: se l’acqua dilaga per la città è il dramma, la fatica, il disagio. Se invece la città, grazie al MOSE, è praticabile, la natura dei passi e degli sguardi si orienta nelle abitudini e nei tragitti: la vita ordinaria trascorre. Filmare il MOSE è quindi filmare l’invisibile, in un certo senso. Se questo è vero tuttavia un film deve inventare comunque un visibile, raccontarlo, far sì che divenga oggetto, parola, al limite il fantasma di una possibilità. Nel prodursi del film una serie di cartelli e manifesti viene affissa in alcuni punti della città: descrivono graficamente le alluvioni mancate, presentando dati, misure. Artefatti di elicitazione, cartelli animati dalle parole degli studenti, diventano oggetto di perplessità, incredulità da parte di chi li legge. Il MOSE invisibile, l’alluvione evitata, diventano sguardi, accenni di dialogo, farmaci vivi di una terapia sociale e culturale possibile fatta di gesti consapevoli, di parole di cura. Se la memoria dell’alluvione del 2019 si ripresenta in Venezia è una linea attraverso il riuso di materiali provenienti dal film Homo Urbanus Venetianus della serie Homo Urbanus di Beka e Lemoine in quanto controcampo e indice della vita della città prima dell’avviamento del MOSE, la memoria del futuro possibile, come riserva da esplorare, prende la forma utopica di un progetto mediale: uno schermo sul Canal Grande.
Utopia schermica: o del senso dei luoghi
Uno schermo virtuale, insieme con altri schermi disseminati per la città abita, nel film, il Canal Grande: tra i palazzi comunali, civici, uno schermo illumina la città, la informa attraverso un istogramma, una rete di linee, rammemora una cronologia di alluvioni evitate, aggiornate via via, nel segno e nella cifra, delle future evitazioni. Destinate a diventare quindi una traccia visibile, una memoria pubblica digitale. Nel gesto del film immaginare uno schermo digitale, foto-produrlo nel montaggio, si configura come un gesto di arte civica, di comunicazione, il cui senso è il racconto semplificato della storia delle alluvioni evitate, il racconto delle linee delle prossime future inondazioni da cui il MOSE difenderà Venezia e chi la vive e abita.
Uno schermo sul Canal Grande, altri schermi per la città, sono schermi di protezione, dispositivi – direbbe Francesco Casetti – da inventare e tracciare, costruire, per ricordare, avvisare, raccontare il lavoro del MOSE producendolo come avvertenza, invitando chi guarda a produrre una domanda sul senso stesso della città lagunare. Come una torre rivolta alla città lo schermo si presenta come un dispositivo, un quadro che suscita l’invisibile, come un totem capace di raccontare i lignaggi delle maree, la genealogia delle ricorrenze. Tuttavia se il cinema fattosi schermo protegge, attraverso le storie, lo spettatore dagli eventi istruendo sull’uso figurato e figurale della vita – mediata da immagini di corpi, che siano attori o semplici viventi dinanzi alla camera – lo schermo civico sarebbe piuttosto un’invenzione poetica elementare, segnata dall’idea di una memoria pubblica necessaria, sia per il presente che per il futuro, una memoria nel segno del diagramma. Venezia è una linea immagina lo schermo come clausola del racconto: sono i corpi e i gesti, le parole di chi intervista e di chi è intervistato, il campo mobile degli sguardi orientati dalla dimensione elemental della città, la memoria visibile dell’alluvione a produrre il senso e la possibilità stessa dello schermo. Se lo schermo allora può proteggerci è perché un film, delle volte, inventa e produce uno spazio da immaginare, progetta domande sulle forme del vivere, sul ‘possibile’ della vita reale, ingaggiandoci mentre ci intrattiene. Venezia è una linea, in fondo, è lo spazio di una domanda diretta, esercitata per giorni nell’incontro con la città, con i suoi abitanti, residenti, temporanei, turisti –un’etnografia elementare che interroga il presente continuo in cui siamo al crocevia di elemental media e storia naturale/artificiale dei luoghi in cui viviamo e di cui raccontiamo. Venezia è una linea è, in fondo, il progetto di un farmaco-schermo, una terapia per la sindrome di Giona che segna ormai la citta. Vomitato dalla balena, Giorna, dopo tre giorni di preghiera nel ventre del cetaceo, rinviene alla sua vita furtura di profeta minore mondato e quasi immacolato. Il MOSE piuttusto sembra mondare la città stessa dal suo avvenire, la depura dal tempo, la allontana dal futuro concreto di un destino di rovina sommersa da quel mondo alla rovescia che Juri Ancarani immaginava nel suo film Atlantide.
Il saggio qui presentato è una versione ampliata e rivista di un precedente intervento di Carmelo Marabello, Venezia è una linea. Una storia di alluvioni evitate, in L’era del Mose, a cura di F. Bergamo, P. Costa, et all., Venezia 2024, 200-205.
Riferimenti bibliografici
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A. Rinaldo, Il governo dell'acqua: ambiente naturale e ambiente costruito, Venezia 2009.
English abstract
The article reflects on the MOSE system, a series of mobile barriers protecting Venice, which redefines the relationship between technology, the city, and the lagoon environment. By drawing together cinema practice, collective memory, and climate change, the article explores MOSE as a pharmakon: a technological solution and a media device, invisible in daily life but essential to preventing floods. The combination of film narrative and urban ethnography offer a way to examine the city's experience in the era of artificial protection.
keywords | Venice; MOSE; historicity; preservation; film ethnography.
Per citare questo articolo / To cite this article: Carmelo Marabello, Elementi per un film – l’elemental come film. Venezia è una linea. Una storia di alluvioni evitate, “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.