Incoscio, schermo, macchia
Considerazioni attorno aVenetian Blind di Michael Snow
Filippo Perfetti
English abstract
Perché qui tu sei l'ultima cosa che t’interessa vedere.
Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili
Una fotografia fa da copertina al catalogo del padiglione Canada per la Biennale di Venezia del 1970. È una fotografia dalle riprese di ←→ (1968-1969) di Michael Snow – l’unico artista chiamato ad allestire il padiglione. Nella fotografia si vedono, a partire dal primo piano, la macchina da presa su cavalletto utilizzata per il film, l’aula della Fairleigh Dickinson University in cui è ambientato, due finestre strette e lunghe, dietro al vetro di quella più a sinistra un uomo sfocato e bianco nella sovraesposizione alla luce, alle sue spalle il giardino, gli alberi e qualche edificio, con cui si confonde nel bianco che già, fra loro, li complica. L’uomo è Snow. Appare in una posizione che è al contempo centrale – per la posizione nella fotografia e per essere l’elemento in cui indubbiamente incorre l’attenzione dello sguardo – e secondaria. Minore per via dei suoi tratti smarcati dai bordi del proprio profilo, dove la figura ha perso la propria riconoscibilità nella sfocatura. Un altro elemento da osservare è la cornice che circoscrive e sottolinea la figura sfocata: la finestra, con la tapparella un poco abbassata, da cui compare. La finestra, che mette in risalto la figura, costituisce anche un primo diaframma tra chi guarda e Snow, è il punto di cesura che unisce l’interno più scuro all’esterno illuminato, ovvero dove si passa da una esposizione minore alla luminosità a cui la macchina fotografica pare tarata per effettuare lo scatto, e di là a una seconda opposta, che non può corrispondere ai parametri della prima messa a fuoco della macchina fotografica, ed è questo il motivo a cui si deve la sfocatura lattiginosa della figura. Occupando la parte al centro sinistra della fotografia, la figura trova un doppio opposto nella macchina da presa che è il secondo elemento presente: la quale bilancia la figura bianca esterna con la sua silhouette nera sul centro destra e un poco più in basso, in diagonale con la prima, in corrispondenza della seconda metà della finestra con Snow. Anche questa disposizione crea un rapporto tra fondo e primo piano, e un certo equilibrio nella fotografia che determina la complessiva riuscita dell’immagine.
Il catalogo con la fotografia è presentato nel giugno del 1970, quando il giorno 24 ai Giardini si inaugura la Biennale. La sua fotografia, nella struttura e nel rapporto degli elementi che la informano, può aiutare a leggere un’opera che non è nella esposizione, ma è realizzata da Snow a Venezia proprio nei giorni della apertura. Venetian Blind – questo è il titolo – è una serie fotografica della cui realizzazione si ha un reportage pressoché completo grazie al documentario Snow in Venice (1970) di Don Owen per la televisione canadese CBC. Il documentario fa comprendere non solo l’opera in quanto tale, nella forma che poi sarà, ma prima di tutto l’azione con cui Snow realizza le fotografie: in risalto è l’acuta attenzione con cui sollecita l’aleatorietà nello scatto fotografico, i significati impliciti alla serie e quanto si può ragionare a partire da essa. Nella prima metà del reportage di Owen si vede il vernissage della mostra, Snow che intrattiene gli avventori, il panorama umano che assiste alla esposizione assieme alle opere esposte. Un indizio è lasciato da Snow su quanto pensa di realizzare: “This eye-thing, I wanna do”. Un occhio chiuso e un occhio aperto, prima uno e poi l’altro, e Snow sibillino che in primo piano dichiara il gioco: qualcosa che ha che fare con gli occhi – nulla di inedito rispetto a quanto Snow già aveva fatto. Qualche minuto dopo, una donna cammina accanto al suo uomo sotto ai portici di Piazza San Marco – una scena da repertorio delle vacanze, se non fosse che lei è Joyce Wieland e lui suo marito, lo stesso Snow. Scendono al centro della piazza, davanti alla Basilica, e Snow è intento in quella che oggi sarebbe un’azione altrettanto banale della stessa passeggiata della coppia: prende la sua macchina per Polaroid, dà le spalle alla chiesa e si fa uno scatto, il volto in primo piano, mentre Wieland lo assiste per trovare la messa in quadro voluta. Si chiamerebbe ‘selfie’, se non si fosse nel 1970, quando questo termine non voleva dire nulla; potrebbe sembrare una sciocchezza bambina, se non fosse che da quel momento in poi del reportage vedremo Snow, Wieland e troupe in giro per i luoghi più famosi e riconoscibili della città, a ripetere lo stesso scatto fatto in Piazza San Marco. E se non fosse che di queste fotografie dal Polaroid di partenza furono stampate delle serie (ne esistono tre copie) in formato maggiore (da 8,5 x 10,8 cm a 27,9 x 40,4 cm) composte in una griglia quattro per sei che forma un muro, con i profili delle cornici a dividere ortogonalmente le fotografie. E l’interesesse sta soprattutto su quanto da quella serie si può trarre, consci dell’intenzione riflessiva tipica delle opere di Snow che si rintraccia nei suoi film, nelle sue opere plastiche e su vari supporti, e nelle stesse fotografie capaci di concedere una “sosta teorica” (Bisaccia 1997, 133) – una spaziatura del tempo dove poter pensare.
C’è così la possibilità di ragionare sul rapporto tra Snow e gli apparati di cattura e sulla stessa invenzione di dispositivi di visione o copertura. Inoltre, è da tenere in considerazione come Venezia, per la sua peculiare struttura di assemblage urbano, ha determinato un rapporto tra le sue parti che non solo può predisporre canoni di rappresentazione e di visione ma che ha anche un suo precipuo ritmato una gerarchizzazione orizzontale del tessuto cittadino, che ben si intravede nella sequenza di Snow. Ovvero, si può ragionare su come Venetian Blind conduca a un’evidenza dell’antimonumentalità di Venezia che non annulla la sua riconoscibilità iconica ma è proprio quanto la caratterizza visivamente attraverso una stereotipia della rappresentazione. E quella stessa stereotipia è anche frutto dell’esperienza obbligata di muoversi secondo itinerari insieme obbligati e paradigmatici nell’attraversare Venezia e nel vederla (si veda Pietrabissa 2025 in questo numero di Engramma) – percorsi che ne qualificano la percezione e pongono il suo visitatore al pari del suo abitante in un’inevitabile relazione col suo spazio, che è un vivere nel tempo della città.
Inconscio fotografico
Le fotografie di Venetian Blind sono realizzate attraverso una Polaroid Land Camera 250 (Funk 2018, 13), una macchina fotografica con ristrette possibilità di intervento sulla regolazione dell’ottica, e ovviamente – cararatteristica tipica del Polaroid – non impressiona la fotografia su negativo ma su positivo diretto. Questo significa che per Snow c’era una limitata possibilità di intervento sul mezzo tecnico, che arriva quasi ad annullarsi per la scelta di portarsi davanti all’obiettivo, e a ciò si aggiunge l’assenza di intervento in fase di postproduzione. Nella scelta di utilizzare una macchina con funzioni elementari si rispecchia una tipica preferenza di Snow, che è quella di utilizzare le caratteristiche intrinseche dell’apparato con cui sceglie di lavorare (il caso più celebre è lo zoom di Wavelength, 1967), a cui si unisce quella di affidare parte della composizione a qualcosa che va oltre il suo intervento diretto, lasciando che ci sia un tratto di aleatorietà nelle opere. Si tratta sia di realizzare opere con qualcosa di difficilmente controllabile, come nel caso di Venetian Blind, oppure di lasciare un margine di incompletezza nell’opera da far colmare al caso, o da far completare a chi la osserva, partecipando così attualmente alla composizione dell’opera. Il documentario di Owen ci mostra il metodo di Snow all’opera: da una parte fotografie fatte quasi alla cieca, dall’altra un continuo confronto con Wieland sul modo in cui le fotografie stavano venendo. Si vede Snow chiedere se si trova al centro dell’inquadratura, devolvendo il suo sguardo nell’obiettivo all’occhio di Wieland: è lei che guarda e dà il via libera allo scatto di Snow. C’è il controllo sul Polaroid appena sviluppato, con il commento e la valutazione dello scatto e la ripetizione qualora nella fotografia non si fosse ottenuto quanto voluto. C’è allora una ricerca studiata che parte dell’ideazione di Snow – come dichiarato a inizio del reportage – e passa dalla scelta dello strumento, dalla scelta dei luoghi nella città, dalla posa e dall’intervento durante lo scatto di Snow che muove la testa verso l’alto e verso il basso, o verso destra e verso sinistra, per accentuare l’effetto di sfocatura voluto. Snow da una parte sa quanto sta facendo, che la macchina da presa ha bisogno di una distanza minima di 106 cm dal soggetto per la messa a fuoco (Funk 2018, 13) – una misura che non poteva ottenere soltanto con la lunghezza delle sue braccia – e accentuando l’effetto sfocato attraverso il movimento; ma sa anche di voler lasciare all’opera del caso – di un caso calcolato e previsto – la realizzazione finale. Si tratta di un’operazione che si può leggere anche attraverso alcuni scritti di un altro fotografo attivo nello stesso periodo, Franco Vaccari. Nel padiglione centrale alla Biennale del 1972, Vaccari ha a disposizione una stanza in cui realizza Esposizione in tempo reale n. 4. Lascia su queste pareti una traccia del tuo passaggio, dove chiede ai visitatori di utilizzare una cabina per fototessere per scattarsi una fotografia e poi appenderla alle pareti della stanza. In questa sua opera trovava una applicazione la teoria a cui ha poi dedicherà diversi interventi, quella dell’“inconscio tecnologico”. Sulla scia dell’“inconscio ottico” prospettato da Walter Benjamin, per Vaccari “la struttura della macchina è analoga alla struttura dell’inconscio, è priva di profondità ed è estranea ai flussi che l’attraversano” (Vaccari [1979] 2011, 5), indi per cui:
L’immagine fotografica ha quindi sempre un senso anche e forse soprattutto in assenza di un soggetto cosciente. Il che equivale a dire che non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui (Vaccari [1979] 2011, 11).
Per Vaccari, non è allora importante che il fotografo sappia vedere, ma piuttosto che sappia pensare lo scatto, che abbia lui stesso coscienza di quanto la macchina autonomamente può realizzare. Per Snow, come per Vaccari, la fotografia a sviluppo istantaneo, l’autoscatto o comunque una fotografia realizzata stando davanti all’obiettivo piuttosto che dietro di esso, fa intervenire l’implicito interno al medium fotografico togliendo importanza all’autore e al soggetto dello scatto. “L’inconscio fotografico agisce là dove non si può dire ‘io sono’” (Vaccari [1979] 2011, 14), ovvero è al di là delle due soggettività di autore e contenuto, di soggetti e oggetti, e ciononostante non agisce in senso neutralizzante, annichilendo il ruolo del fotografo o del contenuto della immagine, infatti si può riconoscere:
Il valore decongestionante e liberatorio del concetto di inconscio tecnologico che, invece di rappresentare una minaccia di spossessione e di dissolvimento dell’identità, può rappresentare il punto di partenza per la costruzione effettiva di un margine possibile di libertà; esso permetterà l’affacciarsi alla coscienza di un salutare sospetto sull’innocenza del nostro rapporto con gli strumenti e ridimensionerà il senso del nostro intervento (Vaccari [1979] 2011, 45).
Analogalmente, come per l’intervento di Vaccari, anche in Venetian Blind appare come la rinuncia da parte di Snow di un controllo totale sul mezzo sia in realtà una coscienza precisa di quelli che sono i limiti e i connotati intrinsechi alla macchina Polaroid – di come in ogni scatto operi un ineludibile fattore di controllo esercitato da parte della macchina che si utilizza. Quanto è di propria responsabilità, è il grado di coscienza che si ha sul mezzo e sul portato che il mezzo stesso induce nell’immagine al di là della nostra volontà. Nel far combaciare la possibilità tecnica della macchina con la volontà di Snow di ottenere una fotografia con un elemento in primo piano sfocato consiste il raggiungimento di quel “margine possibile di libertà” intravisto da Vaccari. “Il dissolvimento dell’identità” già presente nella sfocatura del volto è ulteriormente minacciato dal prevalere del mezzo sul fotografo, ma di fatto coincide con l’emersione della intenzionalità del fotografo di voler realizzare proprio quel tipo di fotografia. Qualche mese dopo, Snow continuerà su questa strada con il delegare alla macchina da presa, in quel caso una 16mm, l’inquadratura e la cattura, ascrivendo a sé il ruolo poietico di primum movens del film, con La Région Centrale (1970-1971): “I only looked in the camera once. The film was made by planning and by the machinery itself” (Snow in Cornwell 1980, 105).
Schermi e cornici
C’è una questione in Venetian Blind sottointesa alla visione e alla visibilità che evidentemente è già insita nel titolo. Come spesso accade con Snow, i titoli sono duchampianamente organici all’opera: il gioco tra ‘blind’ che può essere inteso sia come ‘cieco’ sia come ‘tapparella’ (nell’abbinamento con l’aggettivo ‘Venetian’, ‘blind’ diventa la veneziana), ma può anche far comparire l’immagine di un ‘cieco veneziano’. In questa ambiguità coesistono sia la questione della limitazione della visione che quella di schermo come elemento centrale nell’opera.
Nel 1968, l’amico e collega di Snow Hollis Frampton aveva realizzato un cortometraggio in 16mm dedicato a quella che oggi si chiamerebbe installazione e allora semplicemente era una scultura – Blind – intitolandolo Snowblind. Nel film si vede Blind, formata da quattro pareti in fila una dietro l’altra di grigliato metallico lucido, ciascuna composta con un differente schema di intreccio della griglia: o in modo ortogonale, oppure obliquo, con le barre ondulate oppure dritte, più o meno fitte. Le griglie, prese singolarmente, definiscono cornici di tipo differente da cui è possibile vedere attraverso. Tuttavia, messe in asse fra loro, le quattro griglie vanno a sommarsi occludendo la visione e portando così all'accecamento. Una somma di spazi vuoti diversamente distribuiti, a cui si accompagna una somma dei profili che li definiscono, non va a dare un ampliamento ma una sottrazione dello spazio di visione. È quanto mostra Frampton, utilizzando come manichino per il film lo stesso Snow che a volte si vede dietro a una prima griglia, a volte dietro un’altra, a volte con più griglie tra lui e la macchina da presa – e l’effetto è la scomparsa. Il cambio di messa a fuoco, lo zoom, oppure il passaggio di una luce che illumina e si riflette sulla griglia, esasperano il dispositivo ottico dell’opera, portando a evidenza alle volte la griglia in primo piano, alle volte quelle successive, e nel cambio della distanza focale il sommarsi e poi il distinguersi delle griglie fra loro. Già in Blind è allora riscontrabile l’alternanza di messa a fuoco di Snow sul soggetto e l’oggetto schermo. Schermi che accecano, che nascono con le proprietà di cornici, e che mantengono allo stesso tempo la qualità indicale della seconda pur nell’annullamento del referente in quanto prevale la funzione di schermo. Sulla stessa linea, proseguono le opere Sight e First to Last, entrambe del 1967, entrambe esposte nel padiglione canadese. La prima è una parete composta da un lato fatto di alluminio lucido, e dall’altro di un lato scuro tagliato da linee che proseguono quella che è una apertura stretta e sottile nella parte centrale inferiore – così è localizzabile attraverso le linee che sezionano la parete – da cui si può vedere attraverso. Una apertura, quindi, che ha una funzione sia di schermo che di cornice o di cannocchiale per la visione. Così è anche First to Last, una parete sempre di alluminio, con due aperture con un prisma all’interno, una in verticale a metà altezza, l’altra orizzontale posta nella parte superiore. Come sappiamo da Snow direttamente:
La fenditura più alta ha un rivestimento più smorto, senza molto riflesso, cosicché spingete lo sguardo in alto attraverso quella fessura e vedete proprio quella fetta di cielo; ma nell’altra apertura percepite solo riflessi che vanno e vengono. Questa scultura è interiore ma si alimenta di quanto accade esternamente. Le sue possibilità creative sono dovute alle sue stesse limitazioni. L’arte è spesso limitazione, una messa a fuoco su altre cose (Snow 1970, 19).
In questo passaggio è esplicito come la funzione di schermo e di cornice necessitino di un elemento esterno che si offra come soggetto da far vedere o da nascondere. Nel passaggio tra la resa dell’evidenza e la resa dell’occultamento c’è la possibilità per l’opera d’arte, come accade in First to Last, o per il medium come nelle fotografie di Venetian Blind, di fungere da schermo del fondo. Oppure di fare del fondo la cornice dell’elemento in primo piano. E l’elemento in primo piano è per Venetian Blind sempre Snow, che è interno alla dimensione della rappresentazione ma è anche l’elemento di intervento esterno allo scenario di fondo. In questo senso Snow è nel suo essere sfocato ciò che permette una messa a fuoco su di sé come elemento esterno; ma egli stesso è anche una limitazione alla visione che permette un rapporto con l’esterno che gli è alle spalle. Anche lo schermo, in questo modo, ha un rapporto indicale con l’elemento dietro di sé – come già nella locuzione ‘dietro di sé’ la preposizione ‘di’ sottintende.
Una operazione giocata sulla presenza nello spazio, con il suo portato di elemento estraneo e quasi conturbante, è la serie delle Walking Women che nei primi anni Sessanta Snow inserisce, dissemina, in mezzo a città, gallerie d’arte e film (New York Eye and Ear Control, 1964). Una silhouette gradiva di una donna qualsiasi, che nella sua bidimensionalità e per il materiale riflettente di cui è spesso fatta, appare come elemento massimamente estraneo, ma anche quanto al soggetto elemento oltremodo banale, rispetto a un panorama cittadino. Eppure, nel gioco di variazioni sulla serie, in cui ovviamente l’aspetto reiterativo accresce l’efficacia, emerge, come poi sarà in Venetian Blind, il gioco che Snow attua nei confronti del contesto attraverso un elemento di disturbo. Le decine di donne in cammino come strane apparizioni assumono quell’aspetto di objet trouvé alla rovescia desiderato da Snow, il quale voleva “collocare nella realtà quotidiana qualcosa che potesse essere trovato casualmente” (Snow in Bisaccia 1995, 149). L’inserimento del casuale in un ambiente dato, del quotidiano, genera un rapporto di inclusione/esclusione dell’elemento, percepito contemporaneamente come adeguato, ovvio per il contesto, ma anche notevole, elemento di disturbo che, nella sua manifestazione, nel suo essere a fuoco, risulta perturbante e anomalo. In Venetian Blind, Snow assume in prima persona il ruolo delle sue silhouette, facendo egli stesso la parte di qualcuno che casualmente compare tra Venezia e la macchina da presa, e lo fa attraversando lo scenario cittadino nei suoi luoghi più rappresentativi, cioè più banali, in modo tale da lasciare nella registrazione fotografica la traccia di un qualcosa che risulta insieme tanto casuale quanto non ignorabile. L’artista arriva così al punto da assumere su di sé il ruolo di avvenimento della fotografia, e insieme di tratto distintivo dell’opera che produce scarto rispetto all’elemento dato per acquisito, perché già conosciuto, già visto. È la stessa modalità già presente nelle Walking Women che funge come una prima schermatura del panorama, il punto saliente raccoglie su di sé lo sguardo a discapito di quanto lo attornia.
Soggetto e macchia
La posizione di Snow è assimilabile a quella di una palpebra, che protegge e oscura dalla visione, che è soglia tra occhio e mondo, e che collabora, svolgendo la sua funzione di diaframma, all’atto del vedere esercitato dall’occhio. In Snow si può trovare spesso una attenzione per la riduzione della visibilità del soggetto. Così è in fotografie e film dove i contorni e quindi la riconoscibilità degli elementi sfumano divenendo una macchia indistinta. Ad esempio, nell’unico film realizzato assieme a Wieland, Dripping Water (1968), fatto da una sola ripresa fissa di circa dieci minuti su piatti bianchi dentro un lavandino bianco con il solo gocciolio dell’acqua che forma uno specchio trasparente. Il risultato è una lieve confusione degli oggetti immobili marcati nei volumi solo da tenui ombre più scure. Così accade in ←→ e nel corto Standard Time (1967), dove, in entrambi, la rapidità dei movimenti della macchina da presa è utilizzata per creare una immagine sfocata. È il tentativo di introdurre nella visione di cose e situazioni quotidiane (un lavandino con piatti sporchi; un’aula universitaria; l’interno di una camera da letto) un modo differente di percepire e le cose e le situazioni, fino ad arrivare al punto di perderle e ritrovarle altrimenti. Nella serie fotografica Plus Tard (1977), il ritardo nella messa a fuoco porta a una rappresentazione della National Gallery of Canada di Ottawa che fa da soggetto alle fotografie in maniera del tutto difforme rispetto ai canoni di rappresentazione degli spazi e delle opere presenti. Foto scentrate, immagini poco o nulla affatto nitide, per giocare ancora una volta sullo scambio tra aspettativa della visione consueta, quotidiana, e la modalità alternativa di rappresentazione che il mezzo tecnico apre. Per riprendere una dichiarazione di Snow:
To continue the depth of what has been called “art” with photography requires not nobler subjects but a making-available to the spectator of the equally amazing transformations through which a subject goes to become the photograph (Snow 1999, 113).
Il punto decisivo, per Snow, non è l’eccezionalità del soggetto ma il passaggio e la trasfigurazione che attraverso il medium si compie. È nel passaggio, nella mediazione tecnica, che il reale può assumere un connotato artistico al di là di una valutazione estetica. Authorization (1969), anch’essa presente nel padiglione canadese, offre un caso di questo tipo: in cui il processo di realizzazione è catturato della serie fotografica che va a comporre l’opera facendola accedere – dandole l’autorizzazione, secondo il gioco di parole voluto dall’autore – alla dimensione dell’opera d’arte. Sopra uno specchio delle dimensioni di un piccolo quadro, sono apposti al centro quattro scatti fotografici che riprendono quattro momenti successivi in cui Snow, davanti allo specchio, man mano scatta una fotografia, la attacca sul piano metallico, ne scatta un’altra, fino a creare un rettangolo con quattro fotografie, e infine una quinta che riprende le quattro appese che viene apposta in alto a sinistra sullo specchio, come registrazione finale del compimento del processo. Non vi è attenzione particolare per il soggetto, ma è il processo di trasformazione tramite la fotografia il punto saliente che viene registrato e posto a tema. Terzo elemento in gioco, tra soggetto e medium, è lo spettatore a cui l’immagine è offerta, “making-available”.
Authorization permette a chi la osserva di mettersi dal punto di vista di Snow nel momento in cui scatta le fotografie, l’occhio dello spettatore prende il posto che prima era della macchina fotografica. È un meccanismo studiato da Snow e diviene l’oggetto di riflessione su di lui per Hubert Damisch, il quale può dire che:
Si le travail de Snow a quelque chose de commun avec la pratique d’un Marcel Duchamp, c’est dans la mesure où il va à l’encontre de la pente ordinaire qui est celle de l’art à réduire les “ voyeurs ” à la condition de simples spectateurs pour les inviter, voire les astreindre à y regarder à deux fois avant de découvrir de quoi il retourne” (Damisch [1999] 2001, 81).
Costringere l’osservatore a guardare due volte: è in questo che consiste la “sosta teorica” che produce il portato di significato delle opere di Snow. Damisch muove queste considerazioni a partire da una fotografia di Snow messa in copertina a The Collected Writings of Michael Snow, dove, nel risguardo, è riportata la didascalia della fotografia: “The artist’s right hand writing; photo taken by his left hand, 1991” (Snow 1994, s.p.). Una mano che scrive e l’altra – la sinistra – che fissa il momento della scrittura per mezzo della macchina fotografica. Una macchina fotografica che Snow rivolge verso di sé, e in questo modo permette – ancora una volta – di lasciare il posto dietro l’obiettivo allo spettatore. La riflessione aperta dalla fotografia, come nota Damisch, è allora doppia: sia sul soggetto-oggetto che sulla fotografia in quanto tale, doppia come due sono le volte che occorrono per vederla: “L’attention se portant, dans un premier temps, sur sa composante physique, pour se concentrer dans un second temps sur sa dimension critique” (Damisch [1999] 2001, 81).
Venetian Blind offre lo stesso punto di vista della fotografia di Snow a se stesso mentre scrive, e di Authorization, ma fa qualcosa di ulteriore attraverso la dimensione della rappresentazione del panorama che è interna allo scatto. Seppure Venezia sia accidentale – “It could have been done in some other place that had particular monumental locations which I could obstruct by my presence” (Snow in Funk 2018, 35) – la rappresentazione del panorama è un tema decisivo. Il film realizzato da Snow in quello stesso anno, La Région Centrale, aiuta a comprendere come costruisca la rappresentazione del panorama tramite il medium e il punto di vista dato allo spettatore. Nel film, un dispositivo di invenzione di Snow automatizza la ripresa in un luogo che è il gemello, opposto e complementare, di Venezia: la tundra canadese priva di ogni traccia di intervento umano. Come visto per ←→ e per Standard Time, Snow attua una astrazione del panorama per via della tecnica di ripresa, con una serie di movimenti rapidissimi e simultanei sulle tre coordinate spaziali tali per cui – coniugati alla durata delle tre ore del film – la percezione del paesaggio sia quasi totalmente offuscata rispetto al grado di esperienza nella visione del film dello spettatore: “That is, optically one has a sense of the topography of the place, but one is never located in it” (Cornwell 1980, 118-119). Piuttosto, lo spettatore si trova anche questa volta dalla parte della macchina da presa:
Con La Région Centrale volevo veramente costruire un fenomeno che esistesse di fronte allo spettatore, cosicché ognuno potesse scegliere, in un certo senso, se diventarne parte o meno (Snow 1972, 8).
La macchina da presa prende il ruolo sia di soggetto agente ma anche di soggetto rappresentato tale da dare “[To] the camera an equal role in the film to what is being photographed” (Snow in Cornwell 1980, 119). Sebbene il luogo di ripresa mantenga sempre un grado di riconoscibilità (Cornwell 1980, 121) c’è una sensazione di inafferrabilità del soggetto ripreso per cui diventa percepibile una distanza da esso e al contempo un senso di estraneità anche rispetto al medium che riprende. Chiosa Cornwell: “One can interpret these formal devices as a means of assuming, respecting and finally preserving the distance between man and things” (Cornwell 1980, 121). A questo si aggiunge la presenza nel film di alcune sequenze con una grande X che occupa lo schermo, la quale assume a sua volta una dimensione riflessiva su quanto si sta osservando: “The X is a reflexive tool, recollecting the perceiver’s awareness as the shadow [della cinepresa a inizio del film] recalls the process of film production” (Cornwell 1980, 122). La X funge da soglia e da limite della visione:
The X causes a closure, the flat surface blocking admission into the potentials of imaginary deep illusionistic screen space. It brings the perceivers back into themselves and away from the camera. The camera is not the surrogate for man (Cornwell 1980, 122).
La X non solo pone una distanza rispetto alla visione del panorama – che viene oscurato – ma separa da una immedesimazione diretta con il dispositivo di ripresa che rimane un’alterità rispetto all’osservatore, che tuttavia è chiamato ad assumerne il punto di vista. Questi elementi in gioco in La Région Centrale sono gli stessi che Venetian Blind porta in sé, dove Snow in primo piano sfocato funziona come soglia che media la percezione del paesaggio veneziano. Come nota Luca Acquarelli in un discorso che chiama in causa Venetian Blind per trattare de La Région centrale: “Si le spectateur est appelé à s’immerger dans le paysage du fond, il en est empêché par la sollicitation du visage du premier plan” (Acquarelli 2016, 193).
La posizione di Snow impone una distanza che viene accentuata sia dal punto di vista formale – la differenza della messa a fuoco tra i piani accentua la distanza spaziale – che sotto l’aspetto interpretativo della visione del panorama. È quanto Damisch riconosce come una delle caratteristiche di Snow: “L’attention est mobilisée plus longtemps qu’il n’est d’usage, avec tous les effets de seuil qui s’ensuivent et qui n’impliquent pas qu’on y voie mieux, mais qu’on y regarde autrement” (Damisch [1999] 2001, 84-85). Una visione alterata e altra rispetto ai canoni condivisi della rappresentazione è quanto Snow riesce a provocare per tramite di una macchina fotografica come si è visto fortemente automatizzata nel suo funzionamento – e questa scelta, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, aumenta il grado di riflessività. Per riprendere nuovamente Vaccari:
Tutti gli elementi accidentali vengono banditi a favore di composizioni stereotipate in accordo con il sistema simbolico tradizionale. Ma tanto più ci si sovrappone all’azione dell’inconscio tecnologico tanto più determinanti risultano gli inconsci che operano alle spalle del soggetto e, in modo particolare, l’inconscio sociale (Vaccari [1979] 2011, 29).
Lo stereotipo della rappresentazione delle città d’arte, lo stereotipo del rullino con le fotografie vacanziere sono gli inconsci sociali che assecondano l’inconscio tecnologico in gioco tramite la macchina fotografica. Tuttavia, esasperando quest’ultimo si riesce a creare un disturbo negli stessi stereotipi:
La fotografia, quella a sviluppo istantaneo, è uno strumento particolarmente adatto allo scopo; l’immagine che essa ci fornisce, strutturata in modo autonomo dal mezzo, fornisce l’occasione per un distacco da quanto accade e offre quindi la possibilità di un giudizio, mentre, contemporaneamente, esalta la coscienza del nostro esserci; essa ci permette di uscire dai nostri limiti percettivi al punto di oggettivarci a noi stessi, portando a un grado più elevato di complessità l’effetto tipico dello specchio (Vaccari [1979] 2011, 70).
Nel limite del mezzo tecnico e grazie al cliché della rappresentazione, si apre la possibilità di una considerazione di secondo livello sul portato intrinseco di quelle fotografie. L’intervento di Snow che impalla le fotografie, prosegue nel sottolineare gli stereotipi della rappresentazione e della visione, introducendo un disturbo non solo nella fotografia di paesaggio ma anche in quella del ritratto e dell’autoritratto. Anche questo è un modo per portare a “un grado più elevato di complessità l’effetto tipico dello specchio”. Il tutto, unito con il panorama veneziano sul fondo e sempre a fuoco, per Antonio Bisaccia pone “l’autoritratto in un’area di depistamento del soggetto che innesca dei meccanismi di indimostrabilità del tema” (Bisaccia 1995, 134). E per Acquarelli, nel rapporto tra soggetto e fondo si delineano “deux espaces, deux temps entrent en tension dans la même image” (Acquerelli 2016, 193). Nella sfasatura focale tra i piani, si intensifica il rapporto fra di essi, instaurando rapporti non solo spaziali, ma anche di tempo e quindi di identità dei soggetti coinvolti, in cui l’elemento in ritardo rispetto alla messa a fuoco rivela in negativo – non è la stessa cosa, non è nel suo tempo, non è nel suo spazio, pur essendo nello stesso momento e luogo – la propria soggettività rispetto al panorama veneziano, che, allora, si rende esso stesso identificabile a sua volta rispetto all’altro in termini negativi. Come intuiva e faceva notare Gilles Deleuze, è così che nella differenza entra la soggettività: “Il primo momento materiale della soggettività: essa è sottrattiva, sottrae dalla cosa ciò che non le interessa” (Deleuze [1983] 2017, 81) – o, nel caso qui in esame, quanto è messo fuori fuoco, quanto è esterna a sé, al suo tempo di risoluzione.
Da come appare Snow nella fotografia si apprezza la reversibilità del punto di vista che passa dal ‘soggetto che scatta’ all’‘osservatore che vede’ la fotografia come se vedesse in macchina. Il soggetto in primo piano viene subordinato rispetto alla messa a fuoco sul fondo – Snow cerca “the kind of ghostliness of myself in relationship to these monuments” (Snow in Funk 2018, 33-34). Un aspetto spettrale – come già si presentava nella fotografia di copertina al catalogo del padiglione – che certo lo accomuna ai ritratti con gli occhi chiusi di Andy Warhol (vedi Funk 2018, 3) ma ancor di più rimanda alle origini della fotografia. Snow come cadavere – “Ahhh, like a drowned” dice lui stesso guardando una fotografia appena sviluppata (Owen 1970) – pare la riemergenza di Hippolyte Bayard negli scatti in cui si rappresenta come defunto. Al contrario di quanto si potrebbe pensare – a una anticipazione della pratica del selfie – la serie di Snow è un retrocedere alle origini del medium fotografico: è andare dalla parte di Bayard, l’inventore del positivo diretto che con la fotografia Polaroid ritorna in auge: Bayard è lo sconfitto che subisce uno scacco e soccombe a Daguerre, da qui i suoi scatti funerei, da “annegato”, come scrive di sé: “Le gouvernement, qui avait beaucoup trop donné à M. Daguerre, a dit ne pouvoir rien faire pour M. Bayard et le malheureux s'est noyé” (Bayard 1840).
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L’aspetto di Snow, i tratti fisiognomici che ne determinano la sua soggettività di individuo, vengono ridotti fino all’annullamento, un processo amplificato dalla dimensione seriale dell’opera: “L’autoritratto è, per Alain Sayag, dissimulato attraverso il gioco (doppio) della riduzione/ripetizione. C’è nella ripetitività del gesto dello scatto una sua affermazione e una sua negazione” (Bisaccia 1995, 133). La subordinazione della accuratezza della rappresentazione del primo piano rispetto al piano di fondo è però il punto in cui si instaura la relazione fra i piani che fa emergere il ruolo di cesura dello schermo interno alla rappresentazione. Resta anche l’aspetto relazionale dello schermo rispetto all’ambiente nella misura in cui pone un davanti e dietro di sé che lega la sua posizione all’interno del contesto della rappresentazione fotografica andando a creare un paesaggio che integra lo schermo (vedi Casetti [2023] 2023, 24) come sua soglia di accesso.
Le differenti funzioni e posizioni che erano distribuite tra più elementi nella fotografia di copertina del catalogo appaiono confuse nella figura di Snow: che si mostra oggetto secondario, ultimo sul piano della attenzione nella composizione fotografica. Opposto è il caso della serie Michael Snow in Venice realizzata nel 1999, dove Snow è sempre davanti ai monumenti veneziani, la sua testa fa capolino nella metà inferiore del quadro, ma è attentamente dosata e messa a fuoco: “They’re really opposite to Venetian Blind in the sense that before I took them I chose what I thought might be an interesting juxtaposition between the buildings forms and my head” (Snow in Funk 2018, 77). Al contempo, Snow è il punto di cesura e passaggio tra i piani, come lo era la finestra nella prima fotografia; è quindi lo schermo che oscura e al contempo incornicia il panorama; l’elemento che per la sua posizione ispessisce il piano della rappresentazione.
Venetian Blind nella sua composizione a parete, in cui si reiterano i processi registrati per la singola fotografia, appare come monito anticipatorio sui tempi, ancor più precoce di quello che sarebbe l’anticipo sulla pratica del selfie, ovvero come messa in crisi di quella che è la iper-rappresentazione delle città d’arte; la sovraesposizione del sé; la disponibilità della riproduzione fotografica nella sua forma immediata e omologata rispetto ai canoni della rappresentazione.
C’è infatti un ultimo aspetto che concerne una relazione con la città di Venezia molto più forte rispetto al carattere accidentale suggerito da Snow. Quel che la sequenza a parete degli scatti di Snow riesce a fare è minare il carattere di una erronea lettura romantica della città di Venezia che vuole la città destinata a un’ammirazione distaccata e in una condizione di atrofizzata stabilità della sua essenza stereotipata. Opposta è invece la specificità di Venezia come forma aperta e in divenire. Sergio Bettini, in Idea di Venezia, ammonisce contro un “equivoco romantico” che ha portato al “luogo comune che considera Venezia [...] come una forma conclusa; come un museo, si dice, che può essere oggetto soltanto di ammirata contemplazione, non di immediata partecipazione” (Bettini [1954] 2020a, 41). Al centro è invece al centro la questione del tempo – identificabile in Bettini come atto di presenza dello spettatore, del suo esserci, o del visitatore/abitante in questo caso – che genera e pone in divenire il farsi dell’opera. I due tempi, di fondo e figura in primo piano, così come sono rintracciati da Acquarelli “en tension dans la même image”, prendono la dimensione di una durata nella partecipazione di chi osserva Venetian Blind. Come si trattasse di un tempo vissuto nella città.
C’è allora un qualcosa di importante che la composizione installativa dell’opera restituisce e riguarda il modo in cui è fatta la città di Venezia. La messa in un secondo piano ancora riconoscibile degli edifici e dei luoghi identificativi della città, nella loro presentazione semi-occlusa e simultanea nella composizione delle fotografie a parete, fanno vedere come in Venezia “il primum figurativo non è […] il singolo edificio, ma la città intera” (Bettini [1954] 2020b, 61). Non c’è la monumentalità classica che si impone nella sua fissità, ma una costruzione organica dello spazio che innerva nella sua costruzione la presenza di chi la attraversa, dato che “una forma, evidentemente, non si apre, se non quando si muove: cioè quando nel suo spazio inserisce il tempo” (Bettini [1954] 2020a, 45). In questo modo, la forma predispone per la propria visione la partecipazione a uno spazio, a un luogo; e Snow, attraverso la sequenza di fotografie restituisce lo spazio di una città dove “lo spazio non vi è sentito come forma chiusa, ma come continuum che si svolge nel tempo” (Bettini [1954] 2020b, 62-63).
I Polaroid di Snow danno traccia di questa prevalenza del tessuto urbanistico sul singolo edificio; e il mutare dell’incidenza della luce nelle fotografie, che segna il passare delle ore durante la giornata dedicata agli scatti, è traccia della dinamica del tempo vissuto da Snow nella città. La stessa esperienza si riverifica nell’atto di visione di chi guarda Venetian Blind che aggiunge all’opera, e al muoversi di Snow nella città con la macchina fotografica, la sua propria temporalità. L’effetto di implicazione attiva nell’opera, di partecipazione alla visione della città, al tempo della città, alla sua esistenza, grazie a una ridefinizione in diminuendo della soggettività del luogo, dell’oggetto, e dello stesso autore, in totale controtendena – e controbilanciamento – rispetto a quelli che sono i cliché della rappresentazione della città d’arte.
La macchia bianca di Snow nelle fotografie di Venetian Blind è come l’insorgere nel nostro occhio di una maculopatia – non è un mero biografismo ricordare che la cecità del padre è determinante nella formazione poetica di Snow: “Most influenced I was through my father who went blind when I was in my teens (a result of an accidental explosion that happened to him when I was 5)” (Snow in Funk 2018, 38). In quella macchia è il punto in cui si pone il rapporto tra chi guarda e la figura della città, di Venezia, la quale sa farsi immagine nel nostro occhio al di là di quanto è visibile.
Riferimenti bibliografici
- Acquarelli 2016
L. Acquarelli, La Région centrale. Exténuation d'un paysage et spectateur-chair, in Le temp suspendu, a c. di G. Careri, B. Rüdiger, Lyon 2016, 188-201. - Bayard 1840
H. Bayard, Le cadavre du Monsieur que vous voyez ci-derrière est celui de M. Bayard…, 1840. - Bisaccia 1995
A. Bisaccia, Effetto Snow. Teoria e prassi della comunicazione artistica in Michael Snow, Genova 1995. - Bettini [1954] 2020a
S. Bettini, Idea di Venezia [Venezia 1954], in Id. Tempo e forma, Macerata 2020, 39-52. - Bettini [1954] 2020b
S. Bettini, Venezia e Wright [“Metron”, a. IX nn. 49-50 (1945), 18-20], in Id. Tempo e forma, Macerata 2020, 53-73 - Casetti [2023] 2023
F. Casetti, Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione [Screening Fears. On Protective Media, Princeton 2023], tr. it. di A. Pezzotta, Milano 2023. - Cornwell 1980
R. Cornwell, Snow Seen. The Films and Photographs of Michael Snow, Toronto 1980. - Damisch [1999] 2001
H. Damisch, Concert. Portrait de l’artiste en Michael Snow [Paris 1999], in Id., La Dénivelée. À l’épreuve de la photographie, Paris 2001, 73-88. - Deleuze [1983] 2017
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2 [L’image-temps. Cinéma 2, Paris 1983], trad. di L. Rampello, Torino 2017. - Funk 2018
S. Funk, Snow, Blind in Venice. Die fotografische Arbeit Venetian Blind des Künstlers Michael Snow zwischen Selbstporträt, Selfie und Konzeptkunst, tesi di laurea magistrale, Staatliche Hochschule für Gestaltung Karlsruhe, A.A. 2017/2018, relatori M. Bruhn, B. Kuon. - Pietrabissa 2025
C. Pietrabissa, Navigare in immagine. Archeologie nautiche da Canaletto a Guy Debord, “La rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025. - Snow 1970
M. Snow, Michael Snow/Canada (catalogo del padiglione Canada alla XXXV Biennale d’arte di Venezia, 24 giugno - 31 ottobre 1970), Ottawa 1970. - Snow 1972
M. Snow, Personale di Michael Snow, “Quaderno informativo” n. 40, Pesaro 1972. - Snow 1994
M. Snow, The Michael Snow Project. The Collected Writings of Michael Snow, Waterloo 1994. - Snow 1999
M. Snow, Notes on the Whys and Hows of my Photographic Works, in Id. Michael Snow. Panoramique. Oeuvres photographiques & films. Photographic works & films 1962-1999, Paris 1999. - Stoichita [1993] 1998
V.I. Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte, artefici, artefici nella pittura europea [L’instauration du tableau, Paris 1993], tr. it. di B. Sforza, Milano 1998. - Vaccari [1979] 2011
F. Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico [Modena 1979], Torino 2011. -
Filmografia
- Frampton 1968
H. Frampton, Snowblind, b/n, muto, 5’30’’, 16mm, 1968. - Owen 1970
D. Owen, Snow in Venice, colore, sonoro, 16mm, 29’, 1970. - Snow 1968-1969
M. Snow, ←→, colore, sonoro, 16mm, 52’, 1968-1969. - Snow 1970-1971
M. Snow, La Région centrale, colore, sonoro, 16mm, 190’, 1970-1971. - Snow, Wieland 1968
M. Snow, J. Wieland, Dripping Water, b/n, sonoro, 16mm, 10’, 1968.
English abstract
The article explores the conceptual, technical, and artistic nuances of Venetian Blind (1970), a photographic series by Michael Snow, created during the opening of Venice Biennale. Using a Polaroid Land Camera 250, Snow embraces the limitations of the medium, aligning with his broader artistic ethos of integrating chance and automation into his works. Venetian Blind juxtaposes Snow’s blurred self-portraits in the foreground with the iconic Venetian cityscape in the background, employing deliberate defocus to challenge conventional representation. The work engages themes of perception, the unconscious, and the interplay between subject and medium, reflecting on the artist’s presence as both disruptor and integrator within the visual field. Venetian Blind redefines the spectator’s relationship to the depicted space, merging temporal and spatial dimensions into a reflective visual experience.
keywords | Michael Snow; Biennale 1970; Blind; Polaroid; self-portrait; Venice.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: F. Perfetti, Incoscio, schermo, macchia. Considerazioni attorno aVenetian Blind di Michael Snow, “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.