“©Tutti i diritti riservati”. Proprio tutti?
Per un diritto costituente
Peppe Nanni
English abstract
Chiamo partizione (partage) del sensibile quel sistema di evidenze sensibili
che rendono contemporaneaneamente visibile l’esistenza di qualcosa di comune
e le divisioni che, su tale comune, definiscono dei posti e delle rispettive parti. […]
Alla base della politica c’è dunque un’‘estetica’. […] È una suddivisione dei tempi e degli spazi,
del visibile e dell’invisibile, della parola e del semplice rumore a definire contemporaneamente
il luogo e la posta in gioco della politica in quanto forma di esperienza. La politica ha per oggetto
ciò che può essere visto o ciò che può essere detto, chi abbia la competenza per vedere e la qualità per dire;
la politica ha per oggetto la proprietà degli spazi e i possibili del tempo.
Jacques Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica
La recinzione del Web
Partiamo da un paradosso, solo apparente. Come è possibile che governi, ministeri e altri enti pubblici si sentano in dovere di aprire degli account su social network, tutti rigorosamente di proprietà di multinazionali private, accettando i regolamenti da queste imposti, quando, al contrario, almeno secondo una logica minimamente politica, dovrebbero essere i privati a chiedere ospitalità su strutture informatiche normate e gestite dalla mano pubblica? Il fatto che – in un clima di generale assuefazione – nessuno trovi sorprendente e scandalosamente pericolosa questa situazione deve indurre a qualche riflessione. E a comprendere che l’alternativa binaria tra sfera statale e sfera del privato non spiega nulla, perché è completamente fittizia: quindi discettare di copyright (e magari di brevetti) accettando la vigente cornice giuridica è un esercizio inutile. Siamo di fronte a un fenomeno di (indebita) appropriazione originaria 2.0 dello spazio virtuale (e ormai anche dello spazio siderale) da parte di una ristretta oligarchia, che agisce con la complicità o almeno con la benevola tolleranza delle entità statuali.
Era già accaduto e l’Inghilterra ha costituito un caso esemplare. Dapprima Tommaso Moro, nel suo Utopia, aveva denunciato la sistematica spoliazione dei contadini, quando i grandi proprietari hanno iniziato a recintare (“enclosures”) i campi comuni, da cui i villaggi, per consolidata consuetudine, traevano sostentamento, per adibirli invece a pascolo esclusivo delle loro greggi. La legislazione monarchica ha seguito e ha progressivamente garantito questi atti di banditismo oligarchico – o mafioso, nella versione italiana – dimostrando che in realtà la considerazione di un fatto come giuridico oppure antigiuridico sia semplicemente una decisione politica. Sarà poi Marx, nel noto capitolo XXIV del terzo libro del Capitale, a descrivere minuziosamente questo fondamentale episodio di “accumulazione originaria” con il quale, togliendo violentemente ai produttori la proprietà dei mezzi di produzione, si sono gettate le basi patrimoniali del moderno assetto capitalista – o stalinista, nella versione russa – fornendogli allo stesso tempo la necessaria massa di manodopera sradicata, da impiegare nel nascente ambiente di fabbrica. È da notare che la prima legislazione sul diritto d’autore venga promulgata in Inghilterra e affidi ai ‘patentati’ anche compiti di censura politica. La santificazione dell’individualismo proprietario e la consacrazione del sovranismo di Stato – ancora oggi il Re inglese si fregia del titolo di “proprietario eminente” – di matrice hobbesiana hanno formato la struttura portante del potere costituito, occultando la natura predatoria del gesto fondativo, mentre nella stessa cortina di oblio sprofondava anche il ricordo del general intellect, il terzo genus di modello politico, partecipato dall’intelligenza collettiva nel gestire i beni comuni:
Dopo la violentissima epopea delle enclosures, i modelli rimasero per sempre due, ossia quello dello Stato sovrano e quello della proprietà privata. Con la morte dell’intelletto generale, questi due modelli ancora oggi esauriscono il campo della possibilità e sono presentati come contrapposti dalla dominante retorica della modernità: per il liberalismo costituzionale lo stato rappresenta il pubblico, mentre la proprietà, paradigma del privato è fondativa del “mercato”. Le due nozioni dominanti, Stato e proprietà privata, colonizzano interamente l’immaginario, esaurendo rispettivamente l’ambito del pubblico e quello del privato in una sorta di gioco a somma zero: più mercato e meno Stato o più Stato e meno mercato sono le sole alternative politiche che esauriscono le opzioni dei programmi rispettivamente della destra e della sinistra parlamentari (Mattei 2011, 34).
È tipico delle procedure amministrative e di governance, a cui si riduce spesso la pratica del diritto e della politica, obliare, nascondere e comunque non far emergere la visione presupposta che è sempre una decisione ideologica. In questo senso, il fatto che uno spazio di libertà virtuale – come già nel caso della recinzione delle campagne inglesi – venga oggi requisito da pochissimi soggetti oligopolisti – come Google o Amazon e le loro ‘sorelle’, tanto per fare dei nomi – in concerto con le agenzie di intelligence, di sfruttamento del lavoro intellettuale e di sorveglianza governativa della popolazione, autorizza a riproporre un’antica domanda: il ladro è chi mette in atto pratiche trasgressive o il furto è quello di chi si impadronisce di questo spazio comune? Non sembra che si possa rispondere senza fuoriuscire dallo schema diadico proprietà privata o Stato. E non sembra neppure – lo ha notato Ugo Mattei – che si pongano il problema i molti giuristi liberali, sempre ossessionati da improbabili espropri proletari ma ciechi di fronte a gravissime lesioni della proprietà, quando questa è pubblica, come nel caso del Web.
Certamente, l’accesso alle informazioni era una questione rilevante già prima dell’avvento di internet, tuttavia, il modo in cui esse vengono ora prodotte, conservate e diffuse pone diversi interrogativi e determina il sovrapporsi di nuovi interessi, spesso contrastanti. Man mano che la conoscenza ha acquisito maggior rilievo dal punto di vista sociale, politico ed economico sono aumentate le tensioni per esercitare un controllo sulla stessa e la fervida adesione alle logiche del mercato, quale meccanismo in grado di contemperare costi e benefici del singolo e della collettività, ha fatto sì che la proprietà intellettuale si imponesse come modello egemonico, identificativo del rapporto tra beni e persone. Così, le stesse tecnologie che consentono la più ampia fruizione del sapere sono state ripensate dalle imprese commerciali e utilizzate al fine di circoscrivere l’accesso a risorse precedentemente nella disponibilità comune [...]. Occorre inoltre considerare come la dimensione globale della rete, la difficoltà di esercitare un controllo effettivo sulla e nella stessa e la dematerializzazione dei contenuti che vi circolano abbiano contribuito a determinare una profonda disarticolazione di due concetti fondamentali della tradizione giuridica occidentale, quello di sovranità e quello di proprietà. Si tratta di due capisaldi della modernità, in ragione dei quali, sin dal Code civil francese, gli ordinamenti giuridici europei sono stati organizzati secondo il binomio pubblico-privato: “Au citoyen appartient la propriété, et au souverain l’empire” (Contu 2017).
Già argomentando de iure condito, nel quadro della dottrina giuridica dominante, le zoppicanti giustificazioni efficientiste poste a fondamento dell’illimitata proprietà privata dei patrimoni materiali deperibili – che sarebbero in ipotesi meglio tutelati dall’interesse egoistico dell’homo oeconomicus, cardine dell’antropologia possessiva liberale – non reggono per quanto riguarda i beni immateriali, per di più frutto dell’interazione relazionale tra una pluralità di soggetti e non certo opera esclusiva di un individuo isolato, beni intangibili il cui valore paradossalmente cresce proprio con la massima diffusione.
Ma la sfida del mondo virtuale non merita di essere immiserita nel quadro asfittico della dialettica delle “norme senza enormità” del potere costituto. Si tratta di inventare quello che ancora non c’è, di mostrare il suo aspetto energetico, trasformativo, inquietante e di non accettare il quadro dell’esistente, i confini esistenti, i paletti di esclusione esistenti. Appunto la differenza tra un diritto come quello vigente che si limita a produrre divieti e sbarramenti e una concezione espansiva dei diritti come proliferazione della potenza disponibile a favore dell’intero corpo sociale.
Il diritto costituente
Per strappare il pensiero giuridico contemporaneo alla sua funzione di corollario di un potere costituito e ossificato, per sollecitare le forme del diritto a eccedersi in senso creativo e a contaminarsi su frontiere metagiuridiche, Antonio Negri ha progettato – con grande scandalo dell’accademia – un dispositivo teorico e pratico di dichiarata intenzione conflittuale: il potere costituente (Negri 1992; alla sua portata speculativa Engramma ha dedicato il numero 221 Antonio Negri e i classici: Assennato, Centanni, Masiero 2025). Riporto qui invece una sua ulteriore definizione del potere costituente, formulata in un’intervista rilasciata poco prima di morire:
Ogni potere definitivo, costituente, è frutto di una lotta: di una lotta che è sempre aperta e di una lotta che deve demolire lo stato e la sovranità, così come posta, per lasciare aperta una respirazione della società. Un potere che quando la democrazia sarà realizzata, quando si arriverà a realizzare effettivamente la democrazia, che non è mai stata realizzata finora, quando non ci sarà più rappresentanza, per esempio, dovrà essere un potere che si media continuamente in maniera diretta nella società, attraverso potenze produttive, attraverso potenze amministrative, attraverso capacità che vengono tolte alla subordinazione dallo Stato e divengono invece così potenze costituenti: processi costituenti continui (Raunig, Negri 2023).
Il pensiero giuridico può indirizzarsi in una direzione diversa – di propulsione, di indirizzo, di capacità di apertura per garantire zone di esperimento: non semplicemente registrare, con patologico ritardo, i cambiamenti – una modalità tecnicamente reazionaria, cioè capace solo di reagire alla spontaneità sociale – ma incentivare l’espansione dei diritti, anziché moltiplicare i divieti. La lotta tra potere costituente e potere costituto riprende l’opposizione spinoziana tra potenza a disposizione di tutti e potestas degli apparati statali e della prepotenza oligarchica. E però occorre risvegliare la fame di questa potenza, un desiderio diffuso e intellettualmente nutrito che va a risalire per li rami fino alla mnemotecnica di Giordano Bruno, della quale internet è una discendenza genealogica. Tra quello splendore, quella capacità immaginativa condivisa e contagiosa di stampo rinascimentale e la rassegnazione al semplice funzionalismo informatico (dove i cd “contenuti” sono un neutro optional ornamentale), si giocano le due modernità possibili, irriducibilmente opposte.
Prendiamo allora la rincorsa, per ricapitolare alcuni presupposti che hanno dischiuso la promessa di Internet come luogo irradiante della libera creatività umana.
Prefigurazioni di Internet: Bruno, Warburg, Jünger
Fulgor ille. Il vincolo magico esaltato da Bruno come intelaiatura di voluti legami (reversibili, pericolosi, olimpicamente plurali) ha introdotto una iniezione di luce nel corpo sociale imbalsamato dalla muffa del conformismo. Il tempo a cavallo tra Novecento e nuovo millennio oscilla, nella ripresa della lotta radicale e rizomatica tra due genealogie del Moderno: opposizione politica, carnale, tra una globalizzazione formalmente acquietata nella rassicurazione psicologica, dove innovazione è un modo di dire conservazione di un eterno presente, privo di Figure conturbanti oppure, contra, uso immaginativo dell’esattezza tecnica come leva di esuberanza esistenziale, partecipazione attivistica e produttiva da parte dell’intera cittadinanza. Qui e solo qui, per un momento, la tecnica mostra la sua radice non (solo) tecnica, che si declina anche in estetiche contrapposte. Il conflitto è politica militante, è magia neorinascimentale, Machiavelli e Bruno cercavano disperatamente un’immagine risolutiva, contro distruttori di Immagini: iconoclastia della Riforma protestante come sfondo ascetico – teologico dell’accumulazione originaria del capitalismo, Logos deprivato di immagini e colori, discorso che non ricorda la propria provenienza topografica dall’enigma e dal Labirinto della filosofia aurorale. Legge senza Icone.
Aby Warburg respira l’aria mossa dal superamento dell’oleografia ottocentesca. La relazione mobile e precaria delle immagini warburghiane spezza in effigie l’ordine politico statuale, il sequestro dell’immaginazione individuale e collettiva operata dalla rudimentale macchina hobbesiana, con le sue relazioni necessitate e statiche tra le parti: il monopolio dell’attività, appannaggio esclusivo del Sovrano e la deferente passività dei sudditi, stregati dal bagliore accecante della scena regale (che si prolunga fino a noi, in Italia per esempio nella tintinnante retorica del cerimoniale quirinalizio). Insieme, l’esperimento di Warburg restituisce il substrato ‘daimonico’ della potenza, urtando la sedata tranquillità piccolo borghese della commedia sociale in stile Belle époque. La rete dei rimandi mnestici si autoalimenta per l’effetto di reciproco e mobilitante incantamento tra le immagini, le Tavole acquisiscono tridimensionalità. Il costruttivismo delle Tavole – come libera e rigorosa attività – decontestualizza e spaesa i significa(n)ti dal radicamento unilaterale nello spazio addomesticato dell’inerzia. Nasce una grammatica dell’imprevisto e viene restituita la stessa portata di sconvolgimento della perspectiva albertiana. Con il Bilderatlas, Warburg dà “la parola alle immagini”. Atlante e nuovo canone dell’immaginario esibiscono un sistema nervoso dionisiaco e inquieto, spaziature, intervalli che scandiscono tanto soluzioni di continuità quanto sotterranei arrischi strutturali. La “scienza senza nome” si annuncia come una tagliente dichiarazione di guerra, rivolta anche anche a se stessi – indisciplinata fuoriuscita di trincea sul fronte del sapere. È un nomos paradossale, che ritraccia confini continuamente ma solo per suggerire continui sconfinamenti, propiziati dalla scintilla di attrito, dallo sfregamento energetico contro le linee che devono essere attraversate, contro le solide resistenze che attestano la durezza geometrica dell’impresa. Si deve inventare un metodo di sconnessione epistemologica, imaginatio e logos portati a riflettere in tempo reale sull’azione che provocano e da cui ricevono – come conferma d’intensità e verificabile misura d’energia – continua modificazione. Niente di effimero ma cristalli d’attimo che non ristanno.
Ernst Jünger ha abitato lo scorrere di un secolo come osservatore partecipante. Ha colto la potenza in movimento della retrovia industriale come perno del dilagare di eventi devastanti nella Grande Guerra. Accompagnata dalla pubblicazione coeva di una serie di spiazzanti raccolte fotografiche, la Mobilmachtung, la mobilitazione totale, è da lui spiegata per la prima volta in una conferenza tenuta allo stato maggiore dell’esercito tedesco nel 1930: non è l’elzeviro di un filatelico ma la rilevazione in chiave strategica e nel linguaggio del mito del risveglio di energie elementari (sul punto rimando a Nanni 2015, e all’intero numero 127 di Engramma Figli di Marte. Warburg, Jünger, Brecht 2015). Ecco perché arriva poi, nei suoi romanzi del Secondo dopoguerra, a descrivere dettagliatamente il Luminar, una macchina sorprendentemente identica ai computer attuali. Preceduta, nel testo del romanzo Heliopolis, dalla descrizione dei fonofori, che, simili ai telefoni cellulari, definiscono funzioni sociali e di comando nei rispettivi possessori (Jünger [1949] 1972), anche l’anticipazione del Web in Eumeswil viene situata a cavallo tra indagine storico culturale e frequentazione dei luoghi del potere (Jünger [1977] 1980). Non a caso Internet nascerà come sistema di collegamento militare; il processo di straordinaria appropriazione democratica che ne sancisce lo sviluppo, trova contrasto nei crescenti ostacoli normativi al suo esercizio, nonché nella vantata diffidenza conservatrice di quanti giacciono inariditi nell’Ade della imaginatio. Jünger può fornire anticipazioni profetiche perché, lo notava Ferruccio Masini, guarda alle cose con sguardo stereoscopico (Masini 1981, 142-148): le sente, perché conosce il dolore e la meraviglia, ma insieme il distacco; scruta la struttura elementare delle cose, quindi ne vede l’esatta misura, e le intime scale di contrasto, il ritmo tragico e la consequenzialità tecnica – lontano mille miglia dal tipo del romanziere romantico, e invece consonante con le intuizioni di Warburg, con la stessa attitudine a considerare le immagini, la stessa attenzione a soffermarsi sui dettagli e a presagire l’enorme dispiegamento di possibilità che il percorso di questa via autorizza a sperare.
La Rete si pone come Princeps, nuovo inizio, se l’insieme di condizioni necessarie saranno poste in modo da rendere incatturabile dal potere costituito la potenza dell’Evento. In modo da fratturare la crosta del linguaggio abituale, dell’afasia cinica, del vampirismo senza anima che digerisce il nucleo sovversivo dell’alterità, quando questa ingaggia battaglia senza unire rigore a velocità, esattezza a profondità, persistenza a sorpresa. Invece, il gioco di rifrazione vibrazionale tra i nodi elastici della ragnatela – concepita come campo energetico privo di fondamento archetipico, cioè non affidato al ricatto autoritario di nessuna sostanzialità istituita – moltiplica l’energia del cuore avventuroso di questo Logos eracliteo: “I confini dell’anima, per quanto tu possa camminare, pur percorrendo intera la via, non potresti mai trovarli: così profondo è il suo logos” (DK 22 B 45). La raggiunta massa critica consente potenzialmente alla Rete di concentrarsi nella distensione e quindi strutturare in modo inedito le sue combinazioni molecolari tra parole e immagini: ogni punto è presidiato dalla potenza pluriversa dell’insieme. Un nuovo sistema nervoso viene articolandosi sul sentire estetico politico, passione arteriata lungo le propaggini della tecnica, puntellando il disvelarsi di una tendenza epocale che si dimostra geometricamente opposta e distinta rispetto alla miseria del clichè abituale di appiattimento, alienazione, impotenza. Alimentata dal serbatoio immaginativo che la sua compatta insistenza produce, la forza irradiante di un desiderio condiviso disegna – può disegnare, può farlo ancora oggi – i contorni di un’altra Modernità.
“How the internet became commercial”
Dunque, gli inizi del Web avevano autorizzato la speranza di una grande trasformazione. Ma la tecnologia, che in sé non è mai neutra, può essere usata o come chiave di sovvertimento, o come chiave di ulteriore stringimento delle viti della società del controllo. In assenza di una forte iniziativa, rischia sempre di seguire la seconda strada. È mancata, fino a ora, la condensazione di una soggettività politica e culturale in grado di interpretare Internet, con sufficiente energia, come un momento di rottura e non come generica “innovazione” assorbita nella piatta continuità sociale. Naturale quindi la riduzione di questa possibilità all’interno di schemi già dati, in un paradigma di continuità. Lo riconosce, per esempio, il risvolto di copertina di un libro compilato da un docente di Business Administration, con un’ironia che temo involontaria.
In meno di un decennio, Internet è passato dall’essere una serie di reti vagamente connesse utilizzate dalle università e dai militari al potente motore commerciale che è oggi. Questo libro descrive quante delle innovazioni chiave che hanno reso possibile questo è venuto da imprenditori e iconoclasti che erano al di fuori del mainstream e di come la commercializzazione di Internet non fosse affatto una conclusione scontata all’inizio. Shane Greenstein traccia l’evoluzione di Internet dalla proprietà del governo alla privatizzazione e all’Internet commerciale che conosciamo oggi. Questa è una storia di innovazione dai margini. Greenstein mostra come i fornitori di servizi tradizionali che erano stati tradizionalmente leader nell’economia del vecchio mercato siano stati minacciati dalle innovazioni degli estranei del settore che hanno visto opportunità economiche dove altri no – e come queste aziende tradizionali non avevano altra scelta che innovarsi. Nuovi modelli sono stati provati: alcuni ci sono riusciti, alcuni falliti. I mercati commerciali hanno trasformato le innovazioni in prodotti e servizi di valore man mano che Internet si evolveva in quei mercati […]. How Internet Became Commercial dimostra come, senza alcuna autorità centrale, un’interazione unica e vibrante tra governo e industria privata abbia trasformato Internet (quarta di copertina da Greestein 2015, corsivo di chi scrive, traduzione di chi scrive).
Di fronte “all’interazione vibrante tra governo e industria privata”, di fronte al potere costituito, che si innova per perpetuare antichi assetti, un difetto di immaginazione politica ha fino a oggi impedito di concepire un’iniziativa costituente e rivoluzionaria di pari intensità. E il pirata?
La doppia natura del pirata
Il pirata può essere il primo complice della neutralizzazione operata dal diritto, quando agisce per interesse personale ma anche la sua prima critica vivente, quando mostra che il Re è nudo, evidenziando contraddizioni sistemiche, assurdità delle proibizioni, vulnerabilità degli apparati governativi. Fino a qualche anno fa, rientrava nella categoria anche l’iniziativa di disubbidienza civile che un Partito Radicale – oggi irriconoscibile – metteva in atto, con le violazioni etiche del diritto esistente. E, risalendo nel tempo, si allineano gli episodi di vera pirateria avvenuti durante l’esperienza di Fiume tra il 1919 e il 1920, quando gli stessi sindacati portuali di Ancona segnalavano ai Legionari ribelli di Fiume, che era sotto embargo, i carichi dei bastimenti da abbordare – senza danneggiare persone – per prelevare il necessario a rifornire la città-esperimento di quello che aveva bisogno, fermando i navigli di passaggio.
Abbiamo davanti esperienze relativamente recenti di pirateria che non sono servite a gonfiare il tesoro di singoli individui, ma rivestono una valenza politica esemplare. Il termine pirateria si presta in maniera elastica a sollecitare diverse dimensioni di trasformazione del diritto in un senso o nell’altro: conta quella particolare intenzione trasgressiva utile a manifestare la fragilità dell’esistente, la sua trasformabilità secondo linee nette di radicale rottura. Come una bussola di orientamento consapevole, la vera trasgressione ha la funzione di esplorare la geografia politica ai bordi dell’esistente e ai margini del giuridicamente normato per romperli, per ampliarli, per terremotarli.
Il disegno conservatore teso a replicare in una propaggine virtuale le rinsecchite istituzioni dominanti non riesce più a contenere la nuova circolazione energetica del Mondo immateriale nelle categorie della toponomastica catastale, nella quadrettatura piana che a malapena ha cartografato il suolo terrestre. Anche le parole congiurano per la trasformazione: autore, identità, diritto, proprietà ribollono di una stessa risignificazione semantica che le inquieta, nell’attesa di una nuova universalità di senso che solo un intenso desiderio politico potrà inaugurare.
Il bando per imbarcarsi è aperto.
Riferimenti bibliografici
- Assennato, Centanni, Masiero 2025
M. Assennato, M. Centanni, R. Masiero, Antonio Negri e i classici, “La Rivista di Engramma” 221 (febbraio 2025). - Contu 2017
E. Contu, The dark side of the moon. Internet, ricerca scientifica e la sfida degli open commons, “Questione Giustizia” 2, 2017. - Figli di Marte. Warburg, Jünger, Brecht 2015
Seminario Mnemosyne, a cura di, Figli di Marte. Warburg, Jünger, Brecht, “La Rivista di Engramma” 127 (maggio/giugno 2015). - Greenstein 2016
S. Greenstein, How the Internet Became Commercial, Princeton 2016. - Jünger [1949] 1972
E. Jünger, Heliopolis [Heliopolis. Rückblick auf eine Stadt, Tübingen 1949], Milano 1972. - Jünger [1977] 1980
E. Jünger, Eumeswil, [Eumeswil, Stuttgart 1977], Milano 1980. - Masini 1981
F. Masini, Gli schiavi di Efesto. L'avventura degli scrittori tedeschi del Novecento, Roma 1981. - Mattei 2011
U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari 2011. - Nanni 2015
Nanni 2015, L’inchiostro fosforescente di Jünger, Warburg e Brecht, “La Rivista di Engramma” 12 (maggio-giugno 2015), 289-305. - Negri 1992
A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Milano 1992. - Rancière [2000] 2016
J. Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica [Le partage du sensible : Esthétique et politique, Paris 2000], Roma 2016. - Raunig, Negri 2023
G. Raunig, Conversazione con Toni Negri, parte 1, “transversal audio”, marzo 2023.
English abstract
The starting point of this article is an apparent paradox: why do governments and public bodies feel obliged to use social media owned by private companies and to follow their rules, when according to basic political logic it should be private individuals who use these platforms? This situation is surprising and dangerous, and shows that the public/private divide explains nothing. In fact, discussing copyright while accepting the current legal framework is a pointless exercise: the fact is that a small oligarchy is appropriating virtual space, with the complicity or benevolent tolerance of state bodies. To remedy this, we need to liberate contemporary legal thought from its role as a corollary of established power and encourage legal forms to move in a metajuridical territory, with openness and experimentation. We should not simply register changes, but promote the extension of rights and prevent social spontaneity from being limited by prohibitions. This echoes Spinoza’s opposition between the Power and the potestas in the State apparatus. The pioneering thought of Giordano Bruno, Aby Warburg and Ernst Jünger and their imaginatio as a prefiguratio of our actuality could be a reference for opening up all the potentials of the Internet.
keywords | Enclosures; Expropriated Rights; Constituent Power; Web; Copyright.
Per citare questo articolo / To cite this article: Peppe Nanni, “©Tutti i diritti riservati”. Proprio tutti? Per un diritto costituente, “La Rivista di Engramma” n. 222, marzo 2025.