Qualche appunto sui gesti del Medioevo
Recensione a Chiara Frugoni La voce delle immagini, Einaudi, Torino 2010
Claudio Franzoni
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Per quanto presentato con understatement dall’autrice – un “vagabondaggio in un ideale museo di iconografia medievale” – il libro di Chiara Frugoni La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo offre una vasta serie di osservazioni e puntualizzazioni sull’argomento, pur non proponendo affatto un approccio sistematico (“questo non è un manuale di iconografia medievale”). Mentre i capitoli III-VI si soffermano sulle immagini di Cristo e della Vergine, sulle raffigurazioni degli angeli, sulla “rappresentazione del diverso”, sui mezzi per rendere lo spazio e su alcune convenzioni simboliche (aureola, nimbo e signum viventis), i primi due capitoli trattano aspetti rilevanti della comunicazione non verbale nel Medioevo: i “gesti del potere e del suo contrario”, le espressioni del dolore e i “gesti della parola”. Come in tutto il resto del libro, anche in questa sezione si parte dalle immagini per allargare lo sguardo sulla storia, coinvolgendo continuamente, e con sapienza, documenti, iscrizioni e testi, proseguendo quanto già affrontato ne La grammatica dei gesti. Le Sacre Scritture per forza lasciavano in secondo piano (o addirittura omettevano) dettagli con cui, invece, il pittore o il miniatore medievale dovevano fare i conti: come erano andate effettivamente le cose e come si erano comportati concretamente i protagonisti dei racconti sacri si chiede Henry Mottu? Del resto anche gli esegeti delle Scritture si ponevano domande simili; un esempio citato proprio nelle prime pagine del libro, è il passo di Sant’Ambrogio che prende in esame la posizione della Vergine sotto la Croce: “Leggo nel Vangelo che essa stava eretta, non vi leggo che piangesse”.
Davanti alle immagini lo studioso moderno dovrà allora capire quale atteggiamento l’artista medievale intendesse raffigurare, mettendolo in rapporto col testo a cui si riferisce e verificando in che modo l’immagine abbia eventualmente compiuto uno scarto rispetto ad esso introducendo altri elementi di significato. Si tratta di un’operazione tutt’altro che ovvia nel suo imporre un andirivieni continuo tra piano iconografico, piano testuale e, non ultimo, piano della competenza corporale dello studioso stesso: entra in gioco, infatti, anche l’esperienza (o meno) che di quel determinato movimento ha il soggetto chiamato a interpretare oggi un’immagine antica. È un caso che, già dagli anni ’30 del Novecento, le riflessioni di Panofsky sui livelli diversi dell’interpretazione iconografica siano partite da un’esperienza quotidianamente verificabile, dall’esempio cioè di due uomini che si incontrano e si salutano col cappello?
Gli esempi di letture del tutto convincenti sono numerosi. In una miniatura del XII secolo, Abisag accanto a Davide – osserva Chiara Frugoni – non tiene le braccia conserte, come a uno sguardo rapido potrebbe sembrare, ma incrociate sul petto nel “tipico gesto dell’umiltà”, quello appropriato nella vicenda descritta dalla Bibbia; infatti è quello stesso atteggiamento che viene adottato a volte per la Vergine annunciata. Michael Baxandall aveva scoperto che proprio questo atteggiamento – presente anche nell’Annunciazione che Beato Angelico dipinse in San Marco – veniva espressamente connesso all’humiliatione; fra Roberto Caracciolo da Lecce descrive così la “profunda humiltà” della Vergine alle parole dell’angelo: “et poi levando li occhi al cielo stringendo le mani con le braze in croce fece quella desiderata conclusione da Dio, da li angeli, dalli sancti padri. Sia facto in mi secondo la tua parola”.
Un altro esempio di lettura convincente è senz’altro quello di una miniatura del 1225 circa con l’Incoronazione di Davide: il re si porta una gamba sull’altro ginocchio, tenendo quasi ad angolo l’uno rispetto all’altra, e così “mostra la consapevolezza del suo potere”; ma non è la posizione delle gambe in sé che lo conferma, quanto la concomitante posizione delle braccia puntate in basso a innalzare il petto (mentre riceve la corona sul capo). Accavallare le gambe, in altri contesti, ha infatti valenze del tutto diverse e non necessariamente positive. La miniatura con Davide fa venire in mente un passo di Erasmo da Rotterdam ne De civilitate morum puerilium: “Era costume dei vecchi re di sedersi con il piede destro appoggiato sulla coscia sinistra; ci si è trovato da ridire”. Come si deduce da altre sue notazioni analoghe, l’umanista rinascimentale si basava molto probabilmente su “vecchi dipinti”; in altre parole, Erasmo cade in un tranello insidioso anche per gli interpreti moderni, ricavare cioè una pratica comportamentale da una immagine, forzandone così il senso: non erano tanto i “vecchi re” che accavallavano le gambe come gesto rituale, quanto gli artisti che li dipingevano così nel tentativo di rendere visivamente il loro potere, che consisteva anche nella libertà di atteggiare a piacimento il proprio corpo.
Per tornare alla miniatura di Davide incoronato, il senso del suo atteggiamento non deriva tanto da singoli segmenti gestuali, ma dalla loro relazione, poiché nelle immagini – come nella vita quotidiana – cogliamo sempre i significati all’interno di sequenze che richiedono il movimento del corpo nella sua interezza. Per questo non è affatto detto che il puntare le braccia sulle ginocchia che abbiamo visto in Davide abbia la medesima valenza nel peccatore in piedi nei rilievi di Gisleberto ad Autun, nel quale Chiara Frugoni riconosce invece “il gesto della boria altezzosa di chi è pieno di sé”.
Del resto ci sono altre situazioni in cui la gestualità medievale ci si presenta in modo ambiguo. In un capitello di Vézelay l’Amalecita condannato a morte si afferra alla veste del boia: “implora un’inutile clemenza” oppure si aggrappa disperato mentre viene colpito? In altre parole, si tratta di un dettaglio narrativo inserito dallo scultore o del tentativo di una resa drammatica dell’esecuzione capitale?
In altri casi, invece, ad essere poco convincenti sono gli accostamenti tra immagini diverse nella sottintesa ipotesi che si abbia a che fare con identiche movenze; si tratta, a volte, di affinità di superficie, come tra la figura di Panfilo in una miniatura dell’Andria di Terenzio e la statua di età romana di un prigioniero dace; non basta la parziale analogia della posizione delle braccia per riconoscere un medesimo atteggiamento, tanto più che una figura si sta muovendo, l’altra è ferma sulle gambe. Certamente non regge il parallelo tra il braccio cadente dell’Egiziano ucciso da Mosè su un capitello di Vézelay e quello che nell’arte classica compare, tra gli altri esempi, sui sarcofagi di Meleagro: se si guarda al piano artistico non c’è alcuna parentela (oltretutto l’Egiziano è in piedi, Meleagro supino), se invece si prende in considerazione l’ambito dei movimenti del corpo si deve semplicemente constatare che, in entrambi i casi, un arto senza vita cade abbandonato verso terra.
Entra così in campo, come è normale quando si affronta la resa della gestualità nell’arte figurativa, quella che già Gombrich chiamava “la dibattutissima questione del rapporto tra i gesti che vediamo rappresentati nelle opere d’arte e quelli che si compiono nella vita reale”. La questione era stata sollevata, in tutt’altro modo, da José Ortega y Gasset, parlando del Martirio di san Maurizio di El Greco: “In questo quadro, come in tutti quelli italiani, le figure fanno gesti che non capiamo subito. Non sono infatti quelli che si fanno nelle situazioni ordinarie della vita. Vuol dire che non sono reali?”.
Il problema si presenta, tra i vari esempi, nella Cappella degli Scrovegni, tanto nel Compianto di Cristo, quanto nella Strage degli Innocenti, che Chiara Frugoni esamina all’interno del capitolo dal titolo Il linguaggio del dolore, i gesti della parola; le braccia spalancate all’indietro di san Giovanni nella prima scena, e quelle di una madre nella seconda, da tempo sono ritenute derivazioni dai sarcofagi di età romana col mito di Meleagro.
La foto di uno di essi, opportunamente rovesciata per permettere un confronto diretto con i due affreschi di Giotto, è senz’altro convincente, ma, al tempo stesso, conferma quanto sia complesso e delicato l’approccio all’argomento. In che cosa esattamente Giotto è debitore verso l’antico? Non certo di quel movimento disperato in sè – presente anche nell’anonimo Compianto che la studiosa presenta accanto a quello di Padova e testimoniato nel planctus della Cattedrale di Cividale, dove un’affranta Maddalena grida brachijs extensis – ma, diciamo così, dell’inquadratura con cui il santo viene descritto; e infatti anche due angeli, al di sopra del Compianto, e altri due nella Crocifissione nella stessa cappella, allargano in modo analogo le braccia. In maniera simile, appunto, ma secondo punti di vista differenti: in questo consiste l’intervento del pittore. In altre parole, Giotto può aver visto un sarcofago di Meleagro, ma da quella scena in cui si piange l’eroe non ha desunto tanto un gesto, quanto un modo per rappresentarlo. Una straordinaria foto di Dmitri Baltermants mostra un eccidio nazista in un villaggio in Crimea nel 1942: una donna ha riconosciuto tra i morti un familiare e gli si avvicina chinandosi e aprendo le braccia in un compianto solitario. Giotto ha visto senz’altro immagini antiche, ma anche il pianto di persone reali.
Sempre nel Compianto della Cappella degli Scrovegni la figura maschile all’estremità destra, Nicodemo, tiene “le braccia allungate e le mani intrecciate” nel gesto che “segnala la pensosa sollecitudine di un sofferto autocontrollo”; questa postura rimanderebbe “ad un altro archetipo classico”, quello celebre della statua di Demostene. Ammettiamo anche che l’originale greco avesse le mani intrecciate – il che non è certo – ma c’è realmente necessità di pensare a un ‘archetipo’ antico? Nel Presepe di Greccio ad Assisi lo stesso atteggiamento è descritto una volta con le mani intrecciate, un’altra con la variante della mano che stringe l’altro polso. I pittori non potevano, in altre parole, desumere dalla loro personale esperienza queste posture? In questo secondo caso, è talmente semplice il punto di vista scelto dal pittore che sembra inutile richiamare l’esempio classico, se non come conferma della persistenza di questa forma gestuale.
Quanto alla relazione tra opere d’arte e vita reale nel Compianto degli Scrovegni, Ernesto de Martino aveva una certezza: che l’affresco di Giotto rappresentasse un aspetto e una testimonianza delle “sopravvivenze medievali dell’antico lamento funebre”, uno dei momenti in cui si coglie il conflitto tra questa persistente “cittadella del paganesimo” e la rasserenante visione cristiana delle morte. La stessa impaginazione dell’“atlante figurato del pianto” di Morte e pianto rituale, porta in primo piano le sopravvivenze di questi riti nell’Italia meridionale del pieno Novecento, per mostrare solo in un secondo tempo le forme del lamento in Egitto, in Grecia e poi nel Medioevo; incontriamo così, in un montaggio deliberatamente anacronistico, prima il “discorso individuale al morto” che a Castelsaraceno (Lucania) una figlia fa “a capo della bara”, poi quello dipinto su un vaso attico del V sec. a. C., poi alcuni esempi medievali e, tra questi, il ‘discorso’ visibile anche nel Compianto di Giotto; come in altre scene di lamenti, del resto, anche in quello di Padova si osserva la netta distinzione tra la prossimità al defunto delle figure femminili e il relativo distacco di quelle maschili, guardando ad esempio il compianto con “discorso”, che compare su un manoscritto dell’XI secolo (Bibl. Vat. Gr. 1156, fol. 194v) presentato da Henry Maguire.
Ma c’è un’altra osservazione di de Martino che merita una riflessione: “le forme più acute della crisi, come lo strapparsi i capelli e l’ululato, sono attribuite alla disperata ridda degli angeli, il che ricorda stranamente la ridda di figurine immerse nel planctus che sorvolano il cadavere nel lecito attico del n. 53”. Si ripresenta in forma inaspettata il problema del rapporto con eventuali modelli classici, ma qui, a differenza dei casi precedenti, possiamo muoverci su basi più sicure. Se non si può escludere che esemplari di ceramica greca siano arrivati in mano a pittori medievali come ipotizza Gombrich, va escluso che Giotto abbia visto un esemplare con questa esatta iconografia, del resto piuttosto rara. In entrambi i casi, dunque, osserviamo un lamento funebre in basso, figure che replicano o amplificano la pronunciata gestualità degli uomini sopra di essi, in aria. Come è potuto accadere che a distanza di secoli e in contesti culturali enormemente lontani si ripropongano, quasi identici, contenuti e impaginazione? Accantonata l’ipotesi di un transito di iconografie, non resta che spiegare l’analogia con il manifestarsi di una struttura profonda, quella stessa che è alla radice della dinamica gestuale: il nesso imitazione-ripetizione.
Tanto rispetto agli antichi – Aristotele prima di tutto – quanto ai moderni come Marcel Mauss e Marcel Jousse, che pure avevano colto il ruolo fondamentale dei processi mimetici nell’apprendimento e nell’esecuzione gestuale, abbiamo oggi il vantaggio di conoscere anche la funzione dei neuroni-specchio. Insomma, siamo portati a imitare le tecniche e ad apprendere le potenzialità discorsive del corpo sin dall’infanzia, ma quando ci troviamo dinanzi al corpo sconvolto dalle emozioni è impossibile sottrarci a un sympathein, che a livello corporeo tende a tradursi in una replica delle forme gestuali e mimiche che vediamo. Eidola e angeli, in questo caso, più che mediatori tra la sfera divina e quella umana, sono la proiezione visiva del funzionamento del gesto, basato appunto sul possibile ri-fare i movimenti degli altri, sulla loro ri-produzione.
Del resto, La voce delle immagini offre più volte la possibilità di osservare questo meccanismo gestuale, per così dire, in azione. Chiara Frugoni fa brillantemente notare che nella scena dei tre viandanti verso Emmaus nella Maestà di Duccio, uno di essi indica la città per invitare il pellegrino-Cristo a fermarsi; il movimento del braccio che indica e invita, viene puntualmente ripetuto da Gesù, cosa che non avrebbe alcun senso nella vita reale, ma entro l’immagine sì: corpi che – per così dire – si specchiano l’uno nell’altro significano di per sé adesione a un medesimo sentire.
Le mani – ai cui movimenti la studiosa dedica una delle sezioni più riuscite del volume – sono al centro anche della miniatura duecentesca in cui Cristo affida la missione a Pietro e a Paolo; anche qui l’assenso di Pietro e Paolo viene traslato in forme corporee tanto che gli apostoli ripetono esattamente il movimento autorevole della mano di Cristo. Infine, nella stessa Bibbia moralizzata della prima metà del XIII secolo, è letteralmente speculare il movimento compiuto da un gruppo di Ebrei e da Mosè, che intima loro di non mangiare carne di lupo, di leone o di maiale; ha ragione la studiosa ad affermare che così essi dimostrano “il loro rifiuto a cibarsi di questi animali” ed è veramente notevole che, invece di compiere un segno di assenso, essi replichino il gesto di un ordine e di un comando.
Se questa lettura è giusta, le miniature appena descritte non descrivono affatto gesti reali, eppure – paradossalmente – portano alla luce un aspetto basilare del comportamento gestuale: l’acquisizione delle “tecniche del corpo” (per usare una celebre formula di Mauss) e delle forme espressive avviene tramite l'imitazione e la ripetizione (sul tema rimando al mio Memoria corporale, in Engramma 84, ottobre 2010). Come si vede, le immagini – e ovviamente non solo quelle medievali – hanno molto da dire sul gesto, ma c’è da chiedersi se usarle come semplici illustrazioni di pratiche gestuali non equivalga a fraintenderle e, forse, a ridurne il valore. Le immagini, infatti, hanno propri codici e propri meccanismi; lo stesso vale per gesti, movenze e posture. Movimenti e atteggiamenti del corpo hanno una loro durata, la tradizione iconografica ha i suoi ritmi. Affrontare le relazioni tra i due ambiti – questione tanto complessa quanto promettente – dovrebbe tradursi (per ogni epoca) in questa duplice domanda: che ruolo giocano le immagini nella storia della gestualità e quale parte svolgono le concezioni del corpo nella storia delle immagini?
Bibliografia di riferimento
- Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento [1974], Einaudi, Torino 1978
- Gottfried Biedermann, Vom Wandel antiker Gesten im Mittelalter, in “Pantheon”, 45, 1987, pp. 21-27
- Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Einaudi, Torino 1958
- Ernst H. Gombrich, Il gesto ritualizzato e l’espressione nell’arte [1966], in L’immagine e l’occhio. Altri studi sulla psicologia delle rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino 1985
- Ernst H. Gombrich, Bonaventura Berlinghieri’s palmettes, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes” 39, 1976, pp. 234-6.
- Claudio Franzoni, Tirannia dello sguardo. Corpo, gesto, espressione nell’arte greca, Einaudi, Torino 2006
- Claudio Franzoni, Persistenze iconografiche e persistenze gestuali. Una traccia, in La forza del Bello (Atti del convegno, Mantova 2008), a c. di Mara Pasetti, Ca Gioiosa, Mantova 2009, pp. 49-51
- Chiara Frugoni, La grammatica dei gesti. Qualche riflessione, in Comunicare e significare nell’Alto Medioevo “Atti Settimane CISAM”, 52, 2004, v. II, pp. 895-936
- Henry Maguire, The Depiction of Sorrow in Middle Byzantine Art, in “Dumbarton Oaks Papers”, 31, 1977, pp. 123-174
- Henry Mottu, Il gesto e la Parola, Qiqajon, Magnano 2007
- José Ortega y Gasset, Lo spettatore, a c. di Carlo Bo, Guanda, Parma 1984
- Erwin Panofsky, Zum Problem der Beschreibung und Inhaltsdeutung von Werken der Bildenden Kunst, in “Logos” 21, 1932, pp. 103–119
- Giacomo Rizzolatti, Lisa Vozza, Nella mente degli altri: neuroni specchio e comportamento sociale, Zanichelli, Bologna 2008
Engish abstract
Some notes on the gesture of the Middle Ages. Review of Chiara Frugoni La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Einaudi, Torino 2010
“This is not a medieval iconography handbook”: with a deliberately unsystematic approach, in her latest La voce delle immagini Chiara Frugoni leads a truly fascinating journey into the vast realm which lies at the crossroads of art, gestures, religion, ritual and non-verbal communication in medieval Europe. Starting from a specific image (a painting, a sculpture, an illuminated manuscript), Frugoni creates a dialogue between iconographic and written sources, which helps broaden and deepen the reader’s understanding of the complexity of the cultural horizon which underlies the medieval imagery. But, as Claudio Franzoni points out in his review, it is precisely this dialogue, as presented by the author, that arises new questions – and in some cases might suggest different answers.