English abstract
Tra cosmologia privata e atlante culturale: Hanne Darboven e Gerhard Richter *
Cristina Baldacci
Hanne Darboven (Monaco di Baviera, 1941 – Amburgo, 2009) e Gerhard Richter (Dresda, 1932) sono autori di due monumentali progetti archivistici ordinati secondo la forma dell'atlante di immagini, dove l'osservatore è invitato a viaggiare nel tempo e nello spazio con uno sguardo tra il contemplativo e l'attivo alla ricerca di corrispondenze tra elementi a volte anche molto eterogenei e non subito facili da decifrare. Tuttavia, l'uso di fotografie amatoriali, da un lato, e quello di immagini readymade, spesso corredate da un personalissimo tipo di scrittura astratta, dall'altro, rendono l’Atlas di Richter e la Kulturgeschichte 1880-1983 di Darboven opere universalmente leggibili.
Come rappresentazioni di una realtà condivisa, entrambe mantengono un giusto grado di oggettività, nonostante siano anche "atlanti delle emozioni" [BRUNO 2006] che esprimono, più o meno velatamente e con maggiore o minore consapevolezza a seconda delle circostanze, l'ego del loro ideatore.
La loro duplice valenza come portatori di esperienze private e come tramiti della storia collettiva le allontana dal modello delle "Große Erzählungen" [BISMARCK 2002], ovvero da narrazioni che rimangono chiuse in se stesse e che rinunciano al confronto con il passato negando quel processo conoscitivo e di significazione che è il motore della memoria culturale, e le rende spazi di interazione analoghi all'idea foucaultiana di eterotopia, dove il vicino dialoga con il lontano e il visibile con il sommerso, senza alcuna scala di valore o di durata.
Darboven e Richter condividono una stessa consapevolezza, del tutto postmoderna: riuscire a raffigurare il mondo, e dunque anche la storia, nella sua totalità è un'utopia. Non per questo, però, si danno per vinti nell’affrontare un’impresa, che, per mole e vastità, è paragonabile a quella di Sisifo. La forza e bellezza poetica di entrambi i progetti sta proprio nella smisurata alacrità dei due artisti, che persiste giorno dopo giorno con dedizione e fermezza, nonostante tutto.
Kulturgeschichte 1880-1983 è un'opera che Darboven ha portato a termine in soli tre anni, dal 1980 al 1983. All'incrocio tra un atlante visivo, un codice miniato-enciclopedia e una Wunderkammer, essa raccoglie centinaia di fotografie, testi, calcoli numerici, disposti a collage su mille e cinquecento novanta fogli, e diciannove oggetti, più simili a ninnoli votivi o a chincaglierie kitsch che a vere e proprie sculture. Questa collezione non è organizzata né come un rigoroso inventario, né come un accumulo caotico di bric-à-brac, ma piuttosto come un montaggio che segue una serrata disposizione a griglia e oscilla di continuo tra contenuto 'pop' e struttura minimalista; figurazione e astrazione; informazione e finzione; ragione e sentimento; esistenza individuale (quasi una mitologia) e storia collettiva; memoria e oblio.
Soltanto attraverso il titolo riusciamo a dedurre che l'opera riguarda la "storia culturale" di un intero secolo, più i tre anni che l'autrice ha trascorso a tessere la sua trama, con un'operosità degna di una Penelope della scrittura [BALDACCI 2011]. Questa trascrizione del tempo non è lineare: è una cartografia fatta di frammenti linguistico-visivi e di oggetti-relitto, che sono stati prelevati dal loro contesto originale per essere inseriti in una nuova dimensione spaziale, dove sussistono corrispondenze e distanze tematico-formali, rotture temporali e molteplici significati.
Per Darboven il recupero del passato non riguarda soltanto gesta eroiche, personaggi illustri e oggetti preziosi, ma anche azioni, uomini e prodotti meno nobili, dove fare confluire, quasi come se volesse ricreare una geografia di sé stessa, il proprio percorso come donna e artista. È per questo che non deve destare stupore il fatto che nella Kulturgeschichte la statua del cancelliere Bismarck trovi posto accanto a un fantoccio vestito da panettiere; che le immagini alludenti alla Seconda Guerra Mondiale facciano da contraltare a una serie di fotografie scattate durante l'inaugurazione di una personale dell'artista al Musée d’Art Moderne di Parigi nel 1986; che riproduzioni di celebri opere d'avanguardia prese dal catalogo della Collezione Ludwig di Colonia siano accostate a illustrazioni e cartoline folcloristiche che Darboven ha gelosamente conservato come cimeli personali.
Nella Kulturgeschichte l'ordine gerarchico è abolito: ogni cosa, bella o brutta, rilevante o insensata, fonte di gioia o di dolore, parte della cultura alta o di quella bassa, concorre a rispecchiare una determinata civiltà, quella moderno-contemporanea, e l'infinitamente piccolo si carica di un'inaspettata qualità estetico-concettuale. L'accostamento di elementi tanto diversi tra loro è possibile grazie al montaggio, che, come noto, permette soltanto una ricostruzione frammentaria della realtà. La struttura a griglia diventa allora una strategia estetica indispensabile, oltre che per tenere insieme le tracce del reale, per cancellare le diversità e avere una visione uniforme sulle cose. La metafora dell'atlante è in questo caso quanto mai appropriata, dato che ci troviamo di fronte a un procedimento conoscitivo e figurato paragonabile alla consuetudine di ridurre la Terra, nella sua ampiezza e diversità, a una rappresentazione grafica su una superficie piana.
Così come nel Rinascimento la prospettiva era stata usata come forma simbolica per illustrare il mondo [PANOFSKY [1927] 1961], nel XX secolo la griglia diventa un metodo per presentare la realtà senza bisogno di descriverla. Essa, oltretutto, permette massima oggettività e anti-illusionismo. Come annotato da Rosalind Krauss in un celebre saggio del 1979, "la griglia si presentava come matrice di conoscenza. Nella sua essenza astratta, la griglia esprimeva una delle leggi fondamentali della conoscenza – la separazione del campo percettivo da quello del mondo 'reale'" [KRAUSS 1979].
Krauss sottolinea un altro fondamentale aspetto: come conformazione visiva che rifiuta apertamente ogni tipo di narrazione o lettura sequenziale, la griglia finisce per avere un andamento "schizofrenico", che si esprime nella contrapposizione tra "centrifugo" e "centripeto". Centrifugo perché, presentandosi come una piccola parte che è stata arbitrariamente prelevata da un tutto più grande, l'opera proietta lo sguardo dello spettatore verso l'esterno, verso la realtà che esiste al di là di quel particolare insieme di frammenti. Il movimento centripeto crea l'effetto contrario: la griglia separa tutto ciò che contiene da ciò che le sta attorno e misura lo spazio soltanto in relazione a se stessa. Diventa, perciò, un modello ripetitivo, il cui contenuto non è altro che una tautologia.
Nella Kulturgeschichte la griglia è così prorompente da produrre quasi uno shock visivo. Da lontano, si presenta come un mosaico fatto di tante tesserine colorate e multiformi. L'occhio non riesce a distinguere i dettagli ed è costretto a scorrere in lungo e in largo la scacchiera senza trovare un punto preciso su cui soffermarsi. Da vicino, lo sguardo scruta con curiosità ogni più piccolo particolare. Cerca correlazioni e richiami che lo aiutino a decifrare questa sibillina "storia culturale", che da particolare diventa universale e viceversa, permettendoci di scorgervi anche lo spazio immaginario o astratto della nostra esistenza.
Possiamo dunque guardare alla Kulturgeschichte come a un'opera aperta, a un sistema rizomatico con cui l'artista tenta di mettere in relazione una memoria intima fatta di gesti rituali e ripetitivi con la grande storia; di riattualizzare il legame, iniziato in epoca moderna, tra arte e storia culturale; di elaborare un modello estetico in grado di ripensare e mostrare, attraverso il montaggio, il processo conoscitivo nell’epoca del bombardamento mediatico delle informazioni.
La Kulturgeschichte è dunque una stanza della memoria "schizofrenica" dove il passato non viene né raccontato, né rappresentato, bensì rievocato in modo a volte sbiadito e distaccato, a volte soggettivo e particolareggiato, a volte metaforico e universale. In essa la storia dell’arte entra a pieno titolo nel flusso culturale, così come aveva insegnato Aby Warburg con il suo Bilderatlas; esempio che Darboven ha certamente tenuto in considerazione, vista anche la loro comune provenienza amburghese.
La Kulturgeschichte ha per Darboven lo stesso doppio significato che il Bilderatlas ha avuto per Warburg, poiché racchiude in un insieme spazio-temporale riferimenti alla cultura, alla società e alla storia, dal tardo Ottocento al pieno Novecento, e testimonianze di un vissuto privato, diventando simile a "uno specchio di Narciso" [AGAMBEN 1984]. In questo modo, si pone al confine tra un dispositivo didattico che genera conoscenza e un Bildungsroman, per usare una metafora letteraria. Essa si definisce dunque come opera-manifesto della sua autrice, il cui desiderio è principalmente quello di ritagliarsi un posto nella storia di tutti i giorni, ma soprattutto nella storia dell’arte.
Anche l'Atlas di Gerhard Richter può essere considerato un’opera-manifesto. Questo secondo "atlante" si snoda in una costellazione onnivora di fotografie, schizzi e collage, che l'artista tedesco cominciò a catalogare già a partire dalla metà degli anni Sessanta, mosso da un "desiderio di ordine e visione d'insieme" [KOLDEHOFF 1999]. Le immagini sono disposte a griglia su pannelli di cartoncino bianco e seguono un ordine tematico-cronologico, ma non sono soggette, similmente a quanto accade nella Kulturgeschichte di Darboven, ad alcuna gerarchia estetica. Il loro numero è tuttora inafferrabile e inarrestabile: Atlas è un work in progress che cresce di pari passo con la ricerca dell'artista. Ad oggi si contano circa ottocento tavole su cui sono state sistemate quasi ottomila immagini.
La raccolta contiene di tutto: vecchie fotografie in bianco e nero trovate negli album di famiglia; ritagli di riviste tedesche come "Stern", "Bunte Illustrierte", "Quick", "Revue"; istantanee scattate dall'artista durante i suoi numerosi viaggi o nel suo studio; illustrazioni prese da libri e enciclopedie; disegni, progetti, collage e sperimentazioni varie. Quella di Richter è una necessità pratica: in Atlas egli colleziona, una per una, tranne rare eccezioni, le immagini che ha usato come modelli iconografici per i suoi dipinti.
Atlas assomiglia perciò a uno Skizzenbuch, a un album che, invece di contenere i disegni con cui gli artisti del passato rappresentavano e interpretavano il mondo, accoglie riproduzioni meccaniche e oggettive di ciò che della realtà Richter vuol ricordare. Tuttavia, sarebbe riduttivo considerarlo soltanto un archivio di readymade. L'artista vi ha raccolto soprattutto fotografie amatoriali, immagini pure e dirette, prive di ogni artisticità. Come sottolinea lui stesso, esse non chiedono altro che "raccontare un avvenimento" [OBRIST 2003]. Questi souvenir compongono un atlante della memoria, una mappa di impressioni, stimoli e esperienze visive, che nascono come individuali, ma che, grazie al loro carattere anonimo e quotidiano, diventano tramiti della storia culturale di una data epoca e società.
Atlas ha dunque due volti [BALDACCI 2004]: può essere guardato come un'autobiografia che offre all'osservatore la possibilità di conoscere sia la vita e il percorso cognitivo di Richter, sia la genesi e l'evoluzione del suo lavoro ; e può essere interpretato come una sorta di romanzo storico, dove immagini comuni, come il lampadario di ottone a corona, il soldato in uniforme, la mamma con in braccio il suo bambino, i paesaggi di montagna, mare e città, le bottiglie e le mele appoggiate su un tavolo, e tanto altro ancora, compongono un dizionario della storia collettiva della percezione.
In Atlas fotografie storiche come quelle dei campi di concentramento, dei "48 uomini illustri" della cultura moderna e della brigata rossa Baader-Meinhof sono metafore che inducono a riflettere su quanto possa essere ingannevole la visione della realtà, soprattutto in un paese, come la Germania del dopoguerra, che ha sofferto di una profonda crisi della memoria collettiva. Questo spiega perché Richter abbia manipolato e sfocato a tal punto le fotografie dell’Olocausto e quelle della banda terrorista degli anni Settanta da renderle pressoché illeggibili.
Quando si scorrono le pagine di Atlas, che, come la Kulturgeschichte di Darboven, è stato ridotto anche in forma di libro-catalogo, ci si accorge di un'altra particolarità. La classificazione delle immagini in ritratti, paesaggi, vedute cittadine, dettagli di pennellate (astrazione), nature morte, soggetti storici, segue la divisione dei generi pittorici. Nelle sue opere su tela, che prendono a modello queste immagini, Richter è impegnato in una rilettura in chiave contemporanea della tradizione: Atlas diventa così anche una sorta di manuale enciclopedico che ripercorre la storia dell'arte.
Quando invece sono allestite nei musei, le due opere invadono lo spazio con centinaia e centinaia di pannelli colmi di immagini che tempestano di pungoli visivi l'osservatore. I riferimenti a persone, fatti, luoghi e oggetti non sono sempre espliciti, né comprensibili. Come in ogni archivio, la storia non è subito a portata di mano. Non è detto che i documenti, in quanto tracce lacunose di una realtà più estesa, riescano a dare un'idea complessiva del passato. Così come, prima di imparare a leggere le caratteristiche geografiche e di individuare le coordinate di un dato territorio o paese sul mappamondo, dobbiamo mettere in relazione la parte che ci interessa conoscere con il tutto. In ogni caso, sappiamo che, per quanto precisa possa essere, ogni rappresentazione, addirittura in ambito meccanico o digitale, è sempre non interamente fedele al reale perché frutto di un particolare punto di vista o momento.
Ecco perché, come testimonianze di un processo artistico, i due "atlanti" di Darboven e Richter sono prima di tutto Weltanschauungen (visioni del mondo) o anche Weltbeschreibungen (cosmografie) dei loro autori.
Bibliografia
- ADLER 2009
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C. Baldacci, Hanne Darboven. La Penelope della scrittura astratta, in «Art e Dossier», 276, aprile 2011, pp. 28-33 - BISMARCK 2002
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Hanne Darboven, Kulturgeschichte 1880-1983, Köln – Ostfildern 2002 - ELGER 2002
D. Elger, Gerhard Richter, Köln 2002 - JUSSEN 2000
Hanne Darboven. Schreibzeit, a cura di B. Jussen, Köln 2000 - KOLDEHOFF 1999
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A. Mengoni, Rivelare l'archivio: su Onkel Rudi di Gerhard Richter, in Diafano. Vedere attraverso, a cura di C. Casarin e E. Ogliotti, Treviso 2012 - OBRIST 2003
Gerhard Richter. La pratica quotidiana della pittura, a cura di H.-U. Obrist, Milano 2003 - PANOFSKY [1927] 1961
E. Panofsky, La prospettiva come 'forma simbolica', Milano 1961 - PIGNATTI 2011
L. Pignatti, Mind the Map. Mappe, diagrammi e dispositivi cartografici, Milano 2011 - RICHTER 1997
G. Richter, Atlas der Fotos, Collagen und Skizzen, Lenbachhaus, München, a cura di H. Friedel e U. Wilmes, Köln 1997 - RICHTER 2006
G. Richter, Atlas, a cura di H. Friedel, Köln 2006 - SOMAINI 2011
A. Somaini, Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Torino 2011
Note
*Punto di partenza per questo testo sono due ricerche accademiche condotte da chi scrive: Ripensare l’archivio nell’arte contemporanea. Marcel Broodthaers, Hanne Darboven, Hans Haacke, Tesi di Dottorato in Storia dell'architettura e della città, Scienze delle arti, Restauro (PHD ARS - Scuola di Studi Avanzati in Venezia), Università Cà Foscari Venezia, relatore A. Vettese, a.a. 2010-2011; e 'Mein Wunsch nach Ordnung und Übersicht': l''Atlas' di Gerhard Richter, Tesi di Laurea in Lettere Moderne (con indirizzo in Storia dell’arte contemporanea), Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Milano, relatore A. Negri, a.a. 2003-2004.
English abstract
Hanne Darboven and Gerhard Richter are authors of two monumental archival projects, Kulturgeschichte 1880-1983 (1980-83) and Atlas (1962-today). Ordered according to the form of the atlas of images, they both evoke the notion of heterotopia given by Michel Foucault, and become spaces where what is distant dialogues with what is close, where the visible relates to the invisible or unnoticed, with virtually no scale of value or duration. The viewer is therefore invited to travel through space and time with a look which is both contemplative and active, in search of correspondences among elements sometimes very heterogeneous and not immediately easy to disclose. However, the use of amateur photographs, on the one hand, and that of readymade images – often accompanied by a personal type of abstract writing –, on the other, make Richter's Atlas and Darboven's Kulturgeschichte two universally legible works, where the evidence of the private living of the two artists is part of a broader historical and cultural memory, that of the 20th Century. As Postmodern artists, Darboven and Richter are aware that being able to depict the world, and consequently also the story in its entirety, is a utopia, but they do not give up: they both deal with an enterprise which is comparable, in size and breadth, to that of Sisyphus. The power and poetic beauty of the two projects eventually lies in their authors' huge alacrity, which persists, with dedication and determination, day after day, despite everything else.
keywords | Hanne Darboven; Gerhard Richter; Kulturgeschichte; Atlas; Foucault; heterotopia; Space; Time; Images; Photograph.
Per citare questo articolo / To cite this article: C. Baldacci, Tra cosmologia privata e atlante culturale: Hanne Darboven e Gerhard Richter, “La Rivista di Engramma” n. 100, settembre-ottobre 2012, pp. 27-32 | PDF