"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

107 | giugno 2013

9788898260522

Il Laocoonte perduto di Sofocle: una ricostruzione per fragmenta testuali e iconografici

(con una digressione sulle fonti mitografiche e letterarie su Laocoonte, precedenti e posteriori alla tragedia sofoclea)

Monica Centanni, Chiara Licitra, Marilena Nuzzi, Alessandra Pedersoli

English abstract

Del Laocoonte di Sofocle ci sono pervenuti sette frammenti da cui è impossibile ricavare una ricostruzione della trama dell’opera. Dall’analisi incrociata dei versi superstiti e delle fonti iconografiche ricollegabili al dramma sofocleo cerchiamo di ricostruire qualche elemento della trama e alcune scene della tragedia perduta.

I. Fragmenta testuali

L’analisi che qui proponiamo tiene conto delle proposte di lettura dei frammenti e di ricostruzione della trama del dramma perduto avanzate da Terzaghi 1956, Cadoni 1978, Sutton 1984, 68-69, Scafoglio 2006, e contenute nei commenti ai frammenti in Radt 1985, 330-334; un aggiornamento sulla questione è ora in Sommerstein 2012. Il punto di riferimento fondamentale sul tema, e non solo sotto il profilo archeologico, resta però ancora la minuziosa e intelligente analisi delle fonti letterarie e mitografiche proposta da Robert 1881, 193-212.

I frammenti 376 e 377 Radt, che consistono di una sola parola (Fr. 376= 369a Phot. Berol. 136, 28 ἀνηλόκισμαι; Fr. 377= Hsch. Κ 1369 Latte καταρράκτηςde aquila dictum), risultano di scarsa utilità per la ricostruzione.

I.1 Fr. 370 Radt (Harpocr. VIII, 8 Dind, ad voc.)
Il frammento 370 Radt è in trimetri giambici. I due versi sono citati dal grammatico Arpocrazione (II sec. d. C.) nel Lessico dei dieci oratori (8, 8), come passo utile a spiegare cosa sia l’ἀγυιεὺς, l’altare che si trova vicino alle porte, costituito da una colonna terminante con una punta.

εἶεν δ' ἂν οἱ παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς λεγόμενοι ἀγυιεῖς οἱ πρὸ τῶν οἰκιῶν βωμοί,
ὡς Σοφοκλῆς μετάγων τὰ Ἀθηναίων ἔθη εἰς Τροίαν φησί·
λάμπει δ᾽ἀγυιεὺς βωμὸς ἀτμίζων πυρὶ
σμύρνης σταλαγμούς, βαρβάρους εὐοσμίας.

Gli altari davanti le case dagli Attici erano chiamati ἀγυιεῖς.
Così dice Sofocle, trasferendo le usanze di Atene a Troia:
Risplende l’altare protettore delle strade che con il fuoco fumiga
gocce di mirra, barbare fragranze.

Considerato che lo stesso contesto di citazione conferma che un ἀγυιεὺς βωμός è un altare posto presso la soglia di una casa, il distico sofocleo fa riferimento a un sacrificio fatto dinanzi a un’abitazione. Difficile identificare il personaggio a cui possono essere attribuiti questi versi: sulla base dell’interpretazione del termine βαρβάρους sono state avanzate diverse proposte. Terzaghi ritiene che questi versi siano pronunciati da un ἄγγελος greco, in quanto βαρβάρους avrebbe un’accezione negativa e un Troiano non avrebbe mai parlato di sé in questi termini (Terzaghi 1956, 557). È da notare tuttavia che l’aggettivo βάρβαρος non è sempre usato in senso spregiativo. Ad esempio, il termine ricorre con un significato autoidentificativo, in Aesch., Pers. vv. 186-187:

πάτραν δ᾽ ἔναιον ἡ μὲν Ἑλλάδα
κλήρῳ λαχοῦσα γαῖαν, ἡ δὲ βάρβαρον.

A una di abitare la terra dei suoi padri, la Grecia,
era toccato in sorte, all’altra un paese straniero.

I versi sono pronunciati dalla Regina nel primo episodio del dramma eschileo, durante il racconto al coro del suo terribile sogno, a proposito delle terre abitate da Hellas e Persia. La Regina usa il termine in una accezione oggettiva, in riferimento alla sua stessa patria. Quindi βάρβαρος come ‘orientale’, ‘altro rispetto al greco’, e non come ‘barbaro’, tanto più che la Regina definisce le due giovani “congiunte della stessa stirpe” (κασιγνήτα γένους ταὐτοῦ). Con la stessa valenza il termine ricorre ancora in Persiani al verso 255, in riferimento a στρατός, e al verso 337, in riferimento a στράτευμα.

Il confronto con l’accezione eschilea consente di leggere il termine in una accezione neutra, nel senso di ‘orientale’; per altro Cadoni sottolinea come l’aggettivo βάρβαρος si riferisca propriamente alle fragranze orientali bruciate sull’altare (Cadoni 1978, 50). I versi saranno da riferirsi probabilmente al prologo, e il sacrificio sul ἀγυιεὺς βωμός sarà da interpretarsi come un ringraziamento per la presunta partenza dei Greci (Pearson 1917, 40-41). Il brano, per altro, potrebbe inserirsi in qualsiasi situazione e in qualsiasi fase dello sviluppo drammatico: forse nel prologo, nella rhesis di un Messo, o in una descrizione di sacrifici comunque celebrati a Troia, ma che potevano essere evocati in qualsiasi punto del dramma.

In conclusione: l’ἀγυιεὺς βωμός è un altare posto presso un edificio – palazzo o casa – e lo è in particolare in questo caso, come è garantito dal contesto di citazione: pare escluso quindi che la locuzione possa riferirsi a un altare alzato nel campo acheo. Quindi la presenza del termine ἀγυιεὺς, in concorso (e non in contraddizione) con l’aggettivo βαρβάρους riferito alle fragranze bruciate sull’altare, induce a collocare la scena del sacrificio a Troia e a ipotizzare che il rito fosse compiuto da un sacerdote troiano. Un’ultima notazione: secondo Polluce l’ἀγυιεὺς βωμός, collocato di solito “davanti alla porta”, faceva parte dei μέρη θεάτρου, gli elementi scenografici (Pollux, Onom. IV, 123: ἐπὶ δὲ τῆς σκηνῆς καὶ ἀγυιεὺς ἔκειτο βωμὸς ὁ πρὸ τῶν θυρῶν).

I.2 Fr 374 Radt (Stob., Flor. ΧΧΙΧ, 38), Fr 375 Radt (Stob. Flor. ΧΧΙΧ, 37)

πόνου μεταλλαχθέντος οἱ πόνοι γλυκεῖς
μόχθου γὰρ οὐδεὶς τοῦ παρελθόντος λόγος

Quando il malanno è passato le sofferenze (sono) dolci.
Infatti, passato il malanno, non se ne fa parola alcuna.

Dobbiamo la conservazione di questi due frammenti alla loro menzione nel Florilegium di Giovanni Stobeo: lo scrittore bizantino li riporta, citandoli in ordine inverso rispetto alla numerazione Radt, nel capitolo dedicato all’etica, nella sezione Περὶ φιλοπονίας καί μελέτης καί ὅτι ἀσύμφορον τό ὀκνεῖν (“Sull’amore per la fatica e sulla pratica, e sul perché è inutile indugiare”), come pertinenti a Σοφοκλέους Λαοκόωντος. Dato il tono gnomico e confermativo delle due sentenze, i due versi potrebbero essere le due battute di una sticomitia: due personaggi, dialogando a botta e risposta, si rallegrano dello scampato pericolo. Nella ricostruzione proposta da Cadoni le battute sono state collocate immediatamente dopo il Fr. 370, ipotizzando che si possano attribuire a Troiani in festa per la supposta partenza dei Greci, e dunque per la presunta conclusione della guerra. Questa interpretazione pare più convincente rispetto a quella proposta da Terzaghi, il quale, ancora sulla base di una presunta accezione negativa del termine βάρβαρος nel frammento precedente, ambienta tutta la scena in campo greco, per cui mette la sticomitia in bocca a Greci, collocandola dopo il racconto del Messo (Fr 373).

I.3 Fr 372 Radt (Serv., in Verg. Aen. II, 204)

horum sane draconum [sc. qui Laocoontem petierunt] nomina Sophocles in Laocoonte dicit.

Certamente Sofocle nel Laocoonte menziona i nomi di questi serpenti [si intende quelli che assalirono Laocoonte].

Nel suo Commentario all’Eneide, Servio, commentando l’episodio di Laocoonte in Aen. II, 212-224), riferisce che nella tragedia di Sofocle erano riportati i nomi dei due serpenti: Servio cita come sua fonte i Nostoi di Lisimaco (II o I sec. a.C.). Dallo scholium di Tzetzes ad Lycophr. Alex. 344 apprendiamo che secondo una tradizione mitografica i nomi dei dragoni erano Πόρκις e Χαρίβοια.

I.3bis Σ ad Lycophr. Alex., 344

Πόρκις καὶ Χαρίβοια ὀνόματα δρακόντων, οἳ πλεύσαντες ἐκ τῶν Καλυδνῶν νήσων ἦλθον εἰς Τροίαν καὶ διέφθειραν τοὺς παῖδας Λαοκόωντος ἐν τῷ τοῦ Θυμβραίου Ἀπόλλωνος νεῷ.

Porkis e Chariboia sono i nomi dei serpenti, che andando per mare dalle isole Calidne giunsero a Troia e uccisero i figli di Laocoonte nel tempio di Apollo Timbreo.

I.4 Fr 371 Radt (Σ Ve. ad Ar., Ran. 665)

Questa la situazione scenica in cui lo scoliasta cita i versi παρὰ τὰ Σοφοκλέους ἐκ Λαοκόωντος: Dioniso, travestito da Eracle, in compagnia del servo Xantia scende giù nell’Ade per riportare in vita Euripide. Arriva dinnanzi alla casa di Plutone e bussa alla porta. Eaco lo riconosce: ha incontrato Eracle in una katabasis precedente e intende fargliela pagare perché in quell’occasione l’eroe si è portato via Cerbero (sulla possibilità che il riferimento di Aristofane non riguardi, genericamente, il mito dell’ultima impresa di Eracle, ma sia un vero gioco metateatrale, in riferimento al Piritoo di Crizia, v. Centanni 1997, 159-183). Dioniso capisce che la situazione per lui si mette male e per questo ordina a Xantia di fingersi Eracle, e gli passa gli attibuti identificativi del personaggio, pelle di leone e clava. Xantia si rivela molto furbo: giura di non essere mai venuto nell’Ade, né di aver rubato niente; anzi, volendo accreditare la sua identità e dar prova di onestà, propone a Eaco di mettere alla prova il suo servo (ovvero Dioniso), torturandolo. Ma Dioniso-servo afferma di essere immortale. Allora Eaco, di fronte a questo gioco delle parti, decide di picchiare entrambi con il fine di capire chi è veramente il dio. Percossi, i due negano di provare dolore, anzi Dioniso tra un colpo e l’altro recita un giambo di Ipponatte e i versi dal Laocoonte di Sofocle:

Πόσειδον, ὃς Αἰγαίου νέμεις
πρῶνας ἢ γλαυκᾶς μέδεις
εὐανέμου λίμνας ἐφ᾽ ὑψη-
λαῖς σπιλάδεσσι †στομάτων†.

Poseidone, che regni sui promontori dell’Egeo
e domini sulle acque azzurre
del ben ventilato mare sulle alte
rocce †degli stretti†.

Si tratta di una preghiera in metro lirico rivolta a Poseidone ed è probabile che si tratti di un’invocazione del Coro. Il testo presenta diversi problemi che non descriviamo qui essendo ininfluenti sulla ricostruzione drammaturgica. Inseguendo tenacemente la sua ipotesi di una collocazione dell’azione in campo greco (in relazione, come si è visto, all’accezione negativa attribuita al termine βαρβάρους del Fr. 370), Terzaghi supponeva che il coro fosse composto da Greci (o al più da Troiani fatti schiavi), che pregano il dio affinché li aiuti nell’impresa. Al contrario, pare più verosimile che questo brano corale sia da attribuire ai Troiani che invocheranno Poseidone a scopo apotropaico, per placarlo: in tal caso la preghiera sarebbe da collocare dopo la morte dei Laocoontidi e dunque verso la fine della tragedia.

I.5. Fr 373 Radt (=Dion. Hal., Ant. Rom. I, 48, 2)

Il frammento è riportato da Dionigi di Alicarnasso. Dionigi, nel narrare la leggenda della fondazione di Roma da parte di Enea, menziona la versione di Sofocle e cita 6 versi della tragedia (anche questo frammento presenta vari problemi testuali che non tratteremo in questa sede).

Σοφοκλῆς μὲν ὁ τραγῳδοποιὸς ἐν Λαοκόωντι δράματι μελλούσης ἁλίσκεσθαι τῆς πόλεως πεποίηκε τὸν Αἰνείαν ἀνασκευαζόμενον εἰς τὴν Ἴδην, κελευσθέντα ὑπὸ τοῦ πατρὸς Ἀγχίσου κατὰ τὴν μνήμην ὧν Ἀφροδίτη ἐπέσκηψε καὶ ἀπὸ τῶν νεωστὶ γενομένων περὶ τοὺς Λαοκοωντίδας σημείων τὸν μέλλοντα ὄλεθρον τῆς πόλεως συντεκμηραμένου. Ἔχει δὲ αὐτῷ τὰ ἰαμβεῖα ἐν ἀγγέλου προσώπῳ λεγόμενα ὧδε·

νῦν δ᾽ἐν πύλαισιν Αἰνεας ὁ τῆς θεοῦ
πάρεστ᾽, ἐπ᾽ὤμων πατέρ᾽ ἔχων κεραυνίου
νώτου καταστάζοντα βύσσινον φάρος,
κύκλῳ δὲ πᾶσαν οἰκετῶν παμπληθίαν·
συνοπάζεται δὲ πλῆθός οἱ πόσον δοκεῖς,
οἳ τῆσδ᾽ ἐρῶσι τῆς ἀποικίας Φρυγῶν.

Il tragediografo Sofocle nel dramma Laocoonte, mentre la città stava per essere presa, ha rappresentato Enea che si rifugia sull’Ida, consigliato dal padre Anchise che, ricordando quanto Afrodite aveva raccomandato e i presagi accaduti da poco alla stirpe di Laocoonte, preconizzava l’imminente rovina della città. Il messaggero recita questi versi giambici:


“Ora è alle porte Enea, il figlio della dea,
e porta sulle spalle il padre colpito dal fulmine,
con la ferita che gocciola sul mantello di bisso,
in cerchio sta tutta la schiera dei servi;
una moltitudine li accompagna, tanti ne puoi immaginare,
quanti dei Frigi desiderano abbandonare la città”.

II contesto della pagina di Dionigi in cui è inserita la citazione dal dramma sofocleo è il seguente: Enea fa rifugiare i suoi sul monte Ida, in attesa di tornare alle proprie case. Ma presto gli Achei attaccano anche il monte, finché non vengono a patti con Enea e i rifugiati: gli Achei si sarebbero presi le piazzeforti e avrebbero permesso a Enea e ai suoi di salvarsi prendendo la via del mare. E così i Troiani, capeggiati da Enea, decidono di fare: si dirigono, come prima tappa, verso la punta della penisola calcidica chiamata Pallene, occupata da una popolazione tracia detta Crusea. Secondo Dionigi tra le molte versioni di questo episodio è questo il resoconto più credibile.

Tornando al frammento della tragedia, lo storico afferma chiaramente che Sofocle colloca la fuga di Enea sull’Ida poco prima della presa della città (μελλούσης ἁλίσκεσθαι τῆς πόλεως) e dopo la punizione dei Laocoontidi (ἀπὸ τῶν νεωστὶ γενομένων περὶ τοὺς Λαοκοωντίδας σημείων), che era suonata come un monito per Anchise dell’imminente rovina di Troia. Il frammento riportato da Dionigi va con molta probabilità collocato verso la fine del dramma, ma non è chiaro a chi fossero rivolte le parole del Messo (a questo riguardo, ancora Terzaghi – costretto dalla sua stessa ipotesi di partenza all’ambientazione del dramma in campo acheo – suppone che si tratti di un Nunzio greco che riferisce di quanto accade ai profughi troiani).

II. Ipotesi di una ricostruzione delle scene, della trama, delle personae dramatis secondo i frammenti testuali

II.1 Scene del dramma, in base ai frammenti testuali

L’analisi dei cinque frammenti più consistenti che la tradizione ci ha conservato come pertinenti al Laocoonte ci induce a ricomporre parzialmente trama secondo un ordine diverso rispetto alla numerazione proposta nell’edizione Radt. Secondo la sequenza da noi proposta si potrebbero ricostruire quattro scene del perduto dramma sofocleo:

Dai Frr 370, 374, 375: la presunta partenza dei Greci, cui segue la gioia dei Troiani in città: si celebrano sacrifici con l’invito a non pensare più alle sofferenze passate.
Dal Fr 372 e dallo scolio ad Lycophr. 347): il teras dei serpenti marini, Porkis e Chariboia, che uccidono i/l figli/o di Laocoonte.
Dal Fr 371: una preghiera del Coro a Poseidone.
Dal Fr 373: prima della caduta di Troia, la partenza di Enea con Anchise e i Troiani fuggiaschi, dopo la trattativa del monte Ida, con il lasciapassare degli Achei.

La sequenza drammaturgica così ricostruita consente di collocare il soggetto del dramma sofocleo nell’ultima fase della presa di Troia: dalla falsa partenza dei Greci alla fuga di Enea – fuga che, giusta Dionigi, doveva avvenire prima della caduta di Troia.

II.2 personae dramatis e trama

Possiamo dare per certa la presenza di Laocoonte come personaggio che dà il nome alla tragedia, ma sulla base dei frammenti testuali non è possibile ricostruire il suo ruolo. Stando alla testimonianza di Dionigi i presagi nel dramma ruotavano περὶ τοὺς Λαοκοωντίδας, da cui si può inferire che nella tragedia sofoclea vittime dell’ira divina erano ‘i figli di Laocoonte’, una versione del mito seguita poi da pseudo-Apollodoro e Quinto di Smirne. Da notare inoltre che, sempre dalla preziosa testimonianza di Dionigi, possiamo ricavare il dato che per il suo dramma Sofocle avrebbe adottato la versione secondo cui (a differenza di quanto avviene ad esempio nella celeberrima versione virgiliana) Enea con molti altri ‘Frigi’ avrebbe lasciato Troia e si sarebbe rifugiato sul monte Ida, prima dell’incendio e della rovina della città, proprio a causa del teras dei serpenti (ἐπι δὲ τῷ τέρατι δυσφορήσαντες οἱ περὶ τὸν Αἰνείαν ὑπεξῆλθον εἰς τὴν Ἴδην).

III. Digressione: le altre versioni del mito

Presentiamo una rassegna commentata delle fonti greche e latine sul mito di Laocoonte che in qualche misura possono risultare utili per la ricostruzione della trama del perduto dramma sofocleo (una prima versione di questa rassegna è in Aa.Vv. Laocoonte 2006). 

III.1 Arct., Iliou Persis EGF, p. 49 (= Proclo, Chrest. 92, 246)

τραπέντες δὲ εἰς εὐφροσύνην εὐωχοῦνται ὡς ἀπηλλαγμένοι τοῦ πολέμου. ἐν αὐτῷ δὲ τούτῳ δύο δράκοντες ἐπιφανέντες τόν τε Λαοκόωντα καὶ τόν ἕτερον τῶν παίδων διαφθείρουσιν. ἐπι δὲ τῷ τέρατι δυσφορήσαντες οἱ περὶ τὸν Αἰνείαν ὑπεξῆλθον εἰς τὴν Ἴδην.

Dandosi alla gioia, (i Troiani) festeggiano come se la guerra fosse finita; nel frattempo essendo apparsi due serpenti uccidono Laocoonte e uno dei figli. Dinanzi al prodigio, Enea e i suoi, spaventati, si ritirarono sull’Ida.

Arctino (VII sec. a.C.) nell’Iliou Persis colloca l’episodio di Laocoonte nella fase immediatamente successiva alla falsa partenza dei Greci. Mentre i Troiani si danno alla gioia e festeggiano credendo che la guerra sia finita (τραπέντες δὲ εἰς εὐφροσύνην εὐωχοῦνται ὡς ἀπηλλαγμένοι τοῦ πολέμου), due serpenti marini uccidono Laocoonte e uno dei figli (τόν τε Λαοκόωντα καὶ τόν ἕτερον τῶν παίδων διαφθείρουσιν). L’evento spaventa Enea, che si rifugia con i suoi sul monte Ida.

III.2 Bacch., apud Serv., in Verg. Aen. II 201

Sane Bacchylides de Laocoonte et uxore eius vel de serpentibus a Calydnis insulis venientibus atque in homines conversis dicit.

Tratta Bacchilide di Laocoonte e di sua moglie e inoltre dei serpenti che vengono dall’isola Calidna e che furono mutati in uomini. 

Stando alla testimonianza di Servio, Bacchilide, in un poema per noi perduto, menziona anche la moglie del sacerdote (de Laocoonte et uxore) e specifica che, dopo il prodigio, i due serpenti furono mutati in uomini (in homines conversis dicit). Secondo parte della critica i nomi propri Porkis e Chariboia, menzionati nello scolio ad Lycophr. Alex., 344 sono da collegare in qualche modo a questa metamorfosi.

III.3 Euph., apud Serv., in Verg. Aen. II 201

Laocoon ut Euphorion dicit post adventum Graecorum sacerdos Neptuni lapidibus occisus est, quia non sacrificiis eorum vetavit adventum. Postea abscedentibus Graecis, cum vellent sacrificare Neptuno, Laocoon Thymbraei Apollinis sacerdos sorte ductus est, ut solet fieri cum deest sacerdos certus. Hic piaculum commiserat ante simulacrum numinis cum Antiopa sua uxore coeundo, et ob hoc inmissis draconibus cum suis filiis interemptus est. Historia quidem hoc habet: sed poeta interpretatur ad Troianorum excusationem, qui hoc ignorantes decepti sunt. Alii dicunt quod post contemptum semel a Laomedonte Neptunum certus eius sacerdos apud Troiam non fuit: unde putatur Neptunus etiam inimicus fuisse Troianis, et quod illi meruerint, in sacerdote monstrare, quod ipse alibi ostendit dicens “cuperem cum vetere ab imo structa meis manibus periurae moenia Troiae”. Quod autem ad arcem ierunt serpentes, id est ad templum Minervae, aut [quod] et ipsa inimica Troianis fuit, aut signum fuit periturae civitatis.

Come dice Euforione, Laocoonte, sacerdote di Nettuno, dopo l’arrivo dei Greci fu lapidato perché non impedì il loro arrivo con sacrifici. In seguito, essendo partiti i Greci, volendo sacrificare a Nettuno Laocoonte, sacerdote di Apollo Timbreo, fu scelto a sorte, com’è uso fare quando manca il sacerdote ufficiale. Questi aveva commesso un sacrilegio, unendosi con sua moglie Antiopa dinanzi alla statua del dio, e per questo, mandati i serpenti marini, fu ucciso con i suoi figli. La storia include questo dettaglio: ma il poeta la interpreta per giustificare i Troiani che furono tratti in inganno perché ignoravano questo dettaglio [il sacrilegio di Laocoonte]. Altri dicono che dopo aver subito una volta l’offesa da Laomedonte [antico re di Troia] non ci fu mai a Troia un sacerdote ufficiale di Nettuno: perciò si presume che Nettuno fosse avverso ai Troiani e che abbia manifestato nel (l’uccisione del) sacerdote (scil.: Laocoonte) ciò che si erano meritati, come dimostra il dio stesso dicendo “cuperem cum vetere ab imo structa meis manibus periurae moenia Troiae” (Aen. V, 810-811). Il fatto poi che i serpenti si diressero verso la rocca, ovvero presso il tempio di Minerva, o in quanto anche la dea era avversa ai Troiani, o in quanto era un segno dell’imminente rovina della città.

Secondo Euforione Laocoonte, sacerdote di Apollo Timbreo, dopo la falsa partenza degli Achei sarebbe stato chiamato a sostituire il sacerdote di Nettuno/Poseidone ucciso dai Troiani dieci anni prima, al momento dello sbarco dei Greci. Ma i Troiani erano ignari del fatto che Laocoonte si era reso colpevole di hybris contro Apollo, poiché aveva compiuto un atto sacrilego unendosi alla moglie davanti il simulacro del dio (hic piaculum commiserat ante simulacrum numinis cum Antiopa sua uxore coeundo): Apollo avrebbe così punito il suo sacerdote, inviandogli contro i due serpenti a uccidere lui e i suoi figli (ob hoc inmissis draconibus cum suis filiis interemptus est). Questa dell’erudito poeta di Calcide è una fra le diverse motivazioni presenti nelle fonti mitografiche citate da Servio che propone una scheda ragionata delle varanti (ma sul prestigio e l’autorevolezza presso Servio di Euforione “garante di una tradizione mitica ufficiale”, si vedano le preziose annotazioni di Canetta 2011, in particolare 295-296): altri (alii) confermerebbero invece la versione virgiliana, secondo cui l’episodio dei serpenti sarebbe stato la vendetta di Nettuno per un antico sacrilegio commesso in precedenza dal re di Troia, Laomedonte.

III.4 ps. Apoll-, Epit. V, 16-19

Ἡμέρας δὲ γενομένης ἔρημον οἱ Τρῶες τὸ τῶν Ἑλλήνων στρατόπεδον θεασάμενοι καὶ νομίσαντες αὐτοὺς πεφευγέναι, περιχαρέντες εἷλκον τὸν ἵππον καὶ παρὰ τοῖς Πριάμου βασιλείοις στήσαντες ἐβουλεύοντο τί χρὴ ποιεῖν. Κασάνδρας δὲ λεγούσης ἔνοπλον ἐν αὐτῷ δύναμιν εἶναι, καὶ προσέτι Λαοκόωντος τοῦ μάντεως, τοῖς μὲν ἐδόκει κατακαίειν, τοῖς δὲ κατὰ βαράθρων ἀφιέναι˙ δόξαν δὲ τοῖς πολλοῖς ἵνα αὐτὸν ἐάσωσι θεῖον ἀνάθημα, τραπέντες ἐπὶ θυσίαν εὐωχοῦντο. Ἀπόλλων δὲ αὐτοῖς σημεῖον ἐπιπέμπει˙ δύο γὰρ δράκοντες διανηξάμενοι διὰ τὴς θαλάσσης ἐκ τῶν πλησίον νήσων τοὺς Λαοκόωντος υἱοὺς κατεσθίουσιν.

Fatto giorno, avendo i Troiani visto che era deserto il campo dei Greci, credendo che se ne fossero andati, pieni di gioia trascinavano il cavallo in città e lo collocavano presso la reggia di Priamo, consigliandosi sul da farsi. Cassandra diceva che era pieno di guerrieri in armi, e oltre a lei anche l’indovino Laocoonte; allora alcuni volevano bruciarlo, altri gettarlo giù da un dirupo; ma molti credevano che fosse un’offerta votiva divina, e si misero a fare un sacrificio. Fu allora che Apollo mandò loro un segno: due serpenti venuti fuori dal mare dalle isole vicine divorano i figli di Laocoonte. 

La versione che propone l’autore dell’Epitome del testo di Apollodoro è molto vicina a quella che sarà la versione di Virgilio. Il mitografo è la prima fonte, fra quelle conservate, che introduce la variante secondo cui i Troiani ricevono un doppio avvertimento, da parte sia di Cassandra sia di Laocoonte, mentre il cavallo è già dentro le mura. Nel testo Laocoonte è presentato come ‘indovino’ anziché come sacerdote (Λαοκόωντος τοῦ μάντεως); è altresì introdotto il tema della discussione fra le fazioni dei Troiani che propongono diverse soluzioni (τοῖς μὲν ἐδόκει κατακαίειν, τοῖς δὲ κατὰ βαράθρων ἀφιέναι), fino alla decisione maggioritaria di considerarlo un dono votivo (δόξαν δὲ τοῖς πολλοῖς ἵνα αὐτὸν ἐάσωσι θεῖον ἀνάθημα) e quindi di compiere il sacrificio (τραπέντες ἐπὶ θυσίαν εὐωχοῦντο). Poiché Laocoonte si oppone alla decisione dei concittadini, i serpenti marini lo puniscono uccidendo i suoi figli (δύο γὰρ δράκοντες […] τοὺς Λαοκόωντος υἱοὺς κατεσθίουσιν).

III.5 Hyg., Fab. CXXXV

Laocoon Acoetis filius Anchisae frater Apollinis sacerdos contra voluntatem Apollinis cum uxorem duxisset atque liberos procreasset, sorte ductus ut sacrum faceret Neptuno ad litus. Apollo occasione data a Tenedo per fluctus maris dracones misit duos qui filios eius Antiphantem et Thymbraeum necarent, quibus Laocoon cum auxilium ferre vellet ipsum quoque nexum necaverunt. Quod Phryges idcirco factum putarunt quod Laocoon hastam in equum Troianum miserit. 

Laocoonte, figlio di Acete e fratello di Anchise, sacerdote di Apollo, essendosi unito alla moglie e avendo generato figli contro la volontà di Apollo, fu scelto in sorte per sacrificare a Nettuno sulla spiaggia. Apollo, colta l’occasione, mandò due serpenti da Tenedo attraverso i flutti del mare, che uccidessero i suoi figli Antifante e Timbreo; e Laocoonte andando in loro soccorso, fu avvinghiato insieme a quelli e fu ucciso. I Troiani ritennero che causa di questo fosse il fatto che Laocoonte aveva scagliato l’asta contro il cavallo troiano.

Secondo il mitografo, Laocoonte è sacerdote di Apollo (come in Euforione), ma è anche presentato come fratello di Anchise. Ancora come nella versione riportata da Servio, il sacerdote si era macchiato di hybris unendosi con la moglie e procreando dei figli: quindi, a differenza della versione di Euforione, secondo Igino il sacrilegio non sarebbe consistito nell’unione sessuale avvenuta nel tempio del dio, ma nel fatto che Laocoonte aveva procreato contro la volontà di Apollo (contra voluntatem Apollinis cum uxorem duxisset atque liberos procreasset). Apollo approfitta dell’occasione del sacrificio sulla spiaggia al dio Nettuno (occasione data), per punire il suo sacerdote che non aveva rispettato il divieto: per ciò manda i due serpenti marini a uccidere i figli (dracones misit duos qui filios eius Antiphantem et Thymbraeum necarent). Notevole è che Igino chiarisca che la colpa di Laocoonte è del tutto slegata dalla storia del cavallo: sono i Troiani che, non conoscendo la colpa di Laocoonte e quindi la ragione della punizione divina (come già Euforione apud Servio: poeta interpretatur ad Troianorum excusationem, qui hoc ignorantes decepti sunt) attribuiscono la punizione all’opposizione di Laocoonte all’entrata del cavallo in città, che in Igino diventa, come in Virgilio, il colpo di asta contro il cavallo di legno. 

III.6 Verg., Aen. II, 212-227

[…] illi agmine certo
Laocoonta petunt; et primum parva duorum
corpora natorum serpens amplexus uterque
implicat et miseros morsu depascitur artus;
post ipsum auxilio subeuntem ac tela ferentem
corripiunt spirisque ligant ingentibus; et iam
bis medium amplexi, bis collo squamea circum
terga dati superant capite et cervicibus altis.
Ille simul manibus tendit divellere nodos
perfusus sanie uittas atroque veneno,
clamores simul horrendos ad sidera tollit:
qualis mugitus, fugit cum saucius aram
taurus et incertam excussit cervice securim.
At gemini lapsu delubra ad summa dracones
effugiunt saevaeque petunt Tritonidis arcem
sub pedibus deae clipeique sub orbe teguntur.

[…] Quelli sicuri si indirizzano all’attacco,
puntando su Laocoonte; dapprima i piccoli corpi
dei due figli entrambi i serpenti avvinghiando,
stritolano e attaccano a morsi le misere membra;
poi lui stesso che accorre in aiuto con in mano l’asta
afferrano nelle spire immense; e già
due volte si avvolgono intorno alla sua vita, due volte circondatogli il collo
con il dorso di scaglie, gli incombono sul capo rizzando sopra di lui alte le teste.
Subito lui tenta con le mani di sciogliere le spire,
e le bende sono tutte macchiate di bava e di nero veleno
e intanto alza alle stelle terribili grida: come muggiti,
quando un toro ferito sfugge l’altare e scuote dal capo la scure incerta.
Allora i due serpenti si ritirano strisciando, verso i templi in alto
nella rocca della fiera Tritonide,
e ai piedi della dea, sotto lo scudo, si acquattano.

La versione del mito che Virgilio propone nell’Eneide è la più nota e fortunata, anche dal punto di vista iconografico: l’episodio di Laocoonte è all’interno del II libro del poema, nel corso del racconto che, su invito di Didone, Enea propone della fine di Troia. Rispetto al passo citato sopra, Virgilio presenta Laocoonte già prima, quando dopo la visione dei Troiani del dono votivo e la discussione sul suo significato e la sua destinazione in preda a febbrile agitazione, si avventa giù dalla rocca di Ilio (Laocoon ardens summa decurrit ab arce, Aen. II, 41) ad ammonire i Troiani e scaglia contro il ventre del cavallo di legno la sua asta, senza riuscire, nonostante l’evidenza dell’effetto sonoro che la lancia percuotendo la cavità vuota restituisce (uteroque recusso/ insonuere cavae gemitumque dedere cavernae, Aen. II 52-53) a provare agli accecati concittadini la vera natura dell’ordigno. Coerentemente con le altre fonti mitografiche, ma senza indulgere alle spiegazioni che ricaviamo proprio dal commento di Servio a questi versi, Virgilio presenta Laocoonte come “tratto a sorte come sacerdote di Nettuno” (Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos, Aen. II 201). La riduzione a un accenno della storia del sorteggio e l’omissione del ruolo di Laocoonte come sacerdote di Apollo, consente al poeta di superare la contraddizione mitografica di un intervento del dio di Delfi, schierato al fianco dei Troiani, che risulterà decisivo per la disfatta della città. Ciò che interessa a Virgilio è un altro aspetto del mito: l’enfasi data all’episodio nell’Eneide, ha il senso di presentare Laocoonte come una vittima sacrificale, la cui morte provocherà bensì la caduta di Troia, ma con essa anche l’avvio delle vicende che porteranno alla rinascita di Troia in Roma. Va da sé che nel poema che ha al centro la figura di Enea, Virgilio è costretto a imporre al mito di Laocoonte una significativa modifica: rispetto alla versione del mito ricostruibile dal frammento del Laocoonte di Sofocle riportato da Dionigi di Alicarnasso e da Euforione apud Servio, l’Enea di Virgilio, non si sottrae con la fuga sull’Ida all’ultima fase della distruzione di Troia, spaventato dal segno divino della morte di Laocoonte. Enea è in città durante la terribile notte della catastrofe ed è preavvertito in sogno di quanto sta per accadere dal fantasma di Ettore (Aen. II, 268-sgg.) che lo incita a fuggire dalla città ormai perduta, lasciando al nemico le mura di Troia, ma portando altrove i Penati e il fuoco sacro di Vesta:

‘Heu fuge, nate dea, teque his – ait – eripe flammis.
Hostis habet muros, ruit alto a culmine Troia.
sat patriae Priamoque datum: si Pergama dextra
defendi possent, etiam hac defensa fuissent.
Sacra suosque tibi commendat Troia penatis;
hos cape fatorum comites, his moenia quaere
magna pererrato statues quae denique ponto’.
Sic ait et manibus vittas Vestamque potentem
aeternumque adytis effert penetralibus ignem.
Verg., Aen. II, 289-297

Ma neppure dopo il monito e la promessa di Ettore, Enea si dà alla fuga; anzi, alla vista della città ormai preda degli Achei, nell’esaltazione eroica dell’ultima battaglia, sembra dimenticare il preciso mandato del fantasma comparsogli in sogno (furor iraque mentem praecipitat/ pulchrumque mori succurrit in armis, Aen. II, 316-317). Enea perciò partecipa attivamente alla resistenza (Aen. II, 318-ss.): in prima fila è lui stesso a esortare i compagni e i concittadini a resistere fino alla morte (moriamur et in media arma ruamus/una salus victis nullam sperare salutem, Aen. II, 353-357). Neppure l’apparizione di Venere convince l’eroe a desistere dall’inutile prova di valore: Enea non cede, ma rilancia l’ultima strenua e disperata difesa della città, finché non arriverà il segnale del tuono e del fulmine divino a convincere Anchise, e a seguire lo stesso Enea, a fuggire dalla città ormai perduta, indicando la via (Aen. II, 692-704). In sostanza, nella costruzione del profilo eroico del suo protagonista, Virgilio deve espungere la fuga preventiva di Enea dalla città e il debito che, nelle versioni mitografiche attestate da Sofocle e da Euforione, lega la salvezza di “Enea e dei suoi” allo spavento suscitato dalla morte di Laocoonte. È quel che ci segnala lo stesso Servio in una annotazione preziosa, commentando così l’inizio dell’episodio dei serpenti:

Et notandum, quia ut supra diximus agi, ne videatur vel Troia cessisse viribus, vel Aeneas voluntate fugisse.
Serv. ad Aen. II, 199.

In questo senso è significativo anche che Virgilio, pur dando rilievo poetico eccezionale all’episodio della morte del sacerdote, obliteri il dettaglio della stretta parentela che lega Laocoonte a Enea, mediante Anchise fratello dello stesso Laocoonte.

III.7 Petr., Satyricon 89, vv. 18-52

[…] Namque Neptuno sacer
crinem solutus omne Laocoon replet
clamore vulgus. Mox reducta cuspide
uterum notavit, fata sed tardant manus,
ictusque resilit et dolis addit fidem.
Iterum tamen confirmat invalidam manum
altaque bipenni latera pertemptat. Fremit
captiva pubes intus, et dum murmurat,
roborea moles spirat alieno metu.
Ibat iuventus capta, dum Troiam capit,
bellumque totum fraude ducebat nova.
Ecce alia monstra […]
Respicimus: angues orbibus geminis ferunt
ad saxa fluctus, tumida quorum pectora
rates ut altae lateribus spumas agunt.
[…]
Stupuere mentes. Infulis stabant sacri
Phrygioque cultu gemina nati pignora
Lauconte. Quos repente tergoribus ligant
angues corusci. Parvulas illi manus
ad ora referunt, neuter auxilio sibi,
uterque fratri; transtulit pietas vices
morsque ipsa miseros mutuo perdit metu.
Accumulat ecce liberum funus parens,
infirmus auxiliator. Invadunt virum
iam morte pasti membraque ad terram trahunt.
Iacet sacerdos inter aras victima
terramque plangit. […]

[...] Il sacerdote di Nettuno
Laocoonte, coi capelli scarmigliati, urla
in tra la folla. Poi, con lancia in resta,
il ventre saggia, ma il fato rallenta la mano,
il colpo rimbalza e l’inganno vieppiù accredita.
Riprova e con l’ascia nella debole mano
i fianchi offende.
Chiusi dentro fremono i guerrieri e fremono
pur le assi di legno dell’altrui affanno.
Presi là dentro i giovin guerrieri a prendere Troia
vanno, a chiuder la lunga guerra con l’ultimo inganno.
Ma ecco altri prodigi!
Vediamo due serpi che si torcono
contro gli scogli, disnodandosi,
tra i flutti ergendo entrambi il petto
alzando alte, al flianchi, onde di schiuma.
[…]
Stupefatti restiamo. Tra i sacri paramenti
in abiti frigi stavano i gemelli
di Laocoonte. Ed ecco! le serpi corrusche
li avvinghiano, e quelli porgono
le piccole mani alle fauci, null’altro ausilio
se non l’uno nell’altro avendo: tremano l’un per l’altro
e l’un per l’altro, con mutuo terrore, alla morte cedono.
Ed ecco il padre aggiungersi alla morte dei figli,
inefficace aiuto. Sull’uomo si avventano,
pur sazi di morte, e lo abbattono a terra.
Non la vittima ma il sacerdote giace tra le are
e preme la terra.

Eumolpo, che dichiara di voler descrivere e spiegare a suon di versi il soggetto di una tabula quae Troiae halosin ostendit, si esibisce in una ekphrasis del dipinto, che risulta una parafrasi dai toni altisonanti e retorici del testo virgiliano.

III.8 Quint. Smyrn., Posthomerica XII, 444-457; 472-480

Λαοκόων δ᾽ἔτ᾽ ἔμιμνεν ἐποτρύνων ἑτάροισιν
ἵππον ἀμαλδῦναι μαλερῷ πυρί˙ τοὶ δέ οἱ οὔτι
πείθοντ᾽, ἀθανάτων γὰρ ὑποτρομέεσκον ὁμοκλήν.
τῷ δ᾽ ἔπι κύντερον ἄλλο θεὰ μεγάθυμος Ἀθήνη
δυστήνοις τεκέεσσιν ἐμήδετο Λαοκόωντος.
δὴ γάρ που πέλεν ἄντρον ὑπὸ στυφελώδεϊ πέτρῃ
ἠερόεν, θνητοῖσιν ἀνέμβατον, ᾧ ἔνι θῆρες
σμερδαλέοι ναίεσκον ἔτ᾽ οὐλομένοιο γενέθλης
Τυφῶνος νήσοιο κατὰ πτύχας, ἥν τε Καλύδνην 
λαοὶ ἐπικλείουσιν ἔσω ἁλὸς ἀντία Τροίης.
ἔνθεν ἀναστήσασα βίην καλέεσκε δρακόντων
ἐς Τροίην˙ οἱ δ᾽ αἶψα θεῆς ὕπο κινηθέντες
νῆσον ὅλην ἐτίναξαν˙ ἐπεσμαράγησε δὲ πόντος
νισσομένων, καὶ κῦμα διΐστατο˙ […]
[…] ἔλειπτο δὲ μοῦνος ἄπωθεν
Λαοκόων ἅμα παισί˙ πέδησε γὰρ οὐλομένη Κὴρ
καὶ θεός. οἱ δὲ οἱ υἷας ὑποτρομέοντας ὄλεθρον
ἀμφοτέρους ὀλοῇσιν ἀνηρείψαντο γένυσσι
πατρὶ φίλῳ ὀρέγοντας ἑὰς χέρας˙ οὐδ᾽ ὅ γ᾽ἀμύνειν
ἔσθενεν˙ ἀμφὶ δὲ Τρῶες ἀπόπροθεν εἰσορόωντες
κλαῖον ὑπὸ κραδίῃσι τεθηπότες˙ οἱ δ᾽ ἄρ᾽ Ἀθήνης
προφρονέως τελέσαντες ἀπεχθέα Τρωσὶν ἐφετμὴν
ἄμφω ἀϊστώθησαν ὑπὸ χθόνα […].

Ma Laocoonte ancora insiste nell’esortare i compagni
a distruggere col fuoco violento il cavallo; ma quelli non
gli obbediscono perché temono la ritorsione degli dei immortali.
Un altro più grave male, intanto, la dea, la magnanima Atena,
medita contro i poveri figli di Laocoonte.
C’era un antro lì vicino sotto un’aspra roccia,
oscuro, non frequentato da uomini, nel quale fiere
orrende ancora abitano della stirpe rovinosa
di Tifone, tra i recessi dell’isola che Calidna
le genti chiamano nel mare davanti a Troia.
Di qui [la dea] si alza e eccita a gran voce la violenza dei serpenti
contro Troia; e quelli subito, mossi dalla dea,
fanno tremare l’isola intera: risuona il mare,
mentre essi si affrettano e i flutti si aprono.
[…]
Rimane solo in disparte
Laocoonte insieme ai suoi figli; la Chera funesta
e la dea lo tengono bloccato. Ed ecco che quelli
si avvinghiano con le funeste fauci ai due figli,
che tendono le braccia verso il loro padre; ma questo non sa come aiutarli,
non può. I Troiani assistono da lontano
e piangono atterriti nel cuore. E i serpenti,
compiuto l’odioso ordine di Atena contro i Troiani,
entrambi spariscono sotto terra.

Nel poema di Quinto di Smirne, la punizione contro Laocoonte che proponeva ai Troiani di bruciare il cavallo è opera di Atena: la dea compare sull’isola Calidna (cfr. Bacchilide III.2) per scatenare i mostri marini contro i Troiani. In questa versione muoiono soltanto i figli di Laocoonte, il quale per suo conto non è presentato come sacerdote, e non ha alcuna responsabilità se non quella di aver messo giustamente in guardia i suoi concittadini dal dono funesto degli Achei.

Nella recente letteratura critica (Bruno 2011; Cadario 2011), la disamina delle fonti mitografiche sulla storia di Laocoonte ha messo in ordine le diverse accezioni mitiche ed evidenziato le divergenze più significative nella tradizione, con particolare attenzione alle ragioni dell’assalto dei serpenti. Nella tradizione greco-ellenistica (Bacchilide, probabilmente Sofocle, Euforione, Nicandro) prevale l’idea della colpevolezza del sacerdote troiano, e si insiste sul sacrilegio compiuto presso l’altare del dio; nella tradizione romana (in primis Virgilio, poi Petronio) emerge l’accezione opposta: Laocoonte vittima innocente, punito perché oppostosi all’ingresso del cavallo a Troia. Come è stato suggerito, la scelta di questa versione poteva essere dovuto a ragioni di “opportunità 'politica' in età augustea”: escludere Apollo dal racconto mitico perché troppo coinvolto nella fine del sacerdote e allo stesso tempo ricordare il sacrificio tra i diversi presagi che portarono alla caduta di Ilio e alla salvezza di Enea (Cadario 2011, 15).

IV. Fragmenta iconografici

L’iconografia di Laocoonte, prima della nuova fase di fortuna che consegue alla versione virgiliana, è molto rarefatta. Le più antiche rappresentazioni di Laocoonte si trovano su due vasi apuli, datati tra il terzo quarto del V e il primo del IV secolo. I due vasi sono attribuiti l’uno al ‘Pittore di Pisticci’, l’altro al ‘Pittore dell’Ilioupersis’ (sui due artisti si veda una breve scheda in Stenico 1965, Stenico 1961 e in Denoyelle, Iozzo 2009).

Entrambi gli artisti fanno riferimento alla prima officina apula (425 a.C. ca) ed è assai probabile che il centro di questa produzione protoapula sia stata Taranto. All’interno dell’officina si identificano generalmente due gruppi: A (protolucano) e B (protoapulo). Del gruppo A appartiene il ‘Pittore di Pisticci’, forse un attico immigrato in Lucania, oppure educato presso la bottega di Polignoto di Taso (o un artista a lui molto vicino). La sua produzione, di gusto squisitamente attico, si circoscrive attorno al 440-430 a.C.; la sua produzione, la prima a figure rosse, è costituita da vasi a cratere e a campana. Solitamente sul lato A il ‘Pittore di Pisticci’ rappresenta scene di inseguimento o partenze di guerrieri; sul lato B ricorre spesso il motivo dei tre giovani ammantati.

Al gruppo B è riconducibile la personalità del ‘Pittore di Sisifo’ (425-400 a.C.), che prende il nome dal cratere di Monaco, datato al 420 a.C., che meglio rappresenta il suo stile. Da questa sua produzione trae origine la corrente monumentale della ceramografia apula che ha in repertorio soprattutto vasi di grandi dimensioni (crateri a volute, anfore e loutrophoroi); a questa appartiene anche il ‘Pittore dell’Ilioupersis’ attivo soprattutto nel primo quarto del IV secolo a.C. Questo stile monumentale si caratterizza per le teste piuttosto grandi, curve leggermente in avanti, anatomia corretta e volti piacevoli, visti di prospetto e di tre quarti; il disegno del panneggio scorrevole, ampio ed elaborato, e risente dell’eco della scultura.

Storia di Laocoonte: cratere a campana lucano attribuito al Pittore di Pisticci, ca 430 a.C. Basilea, Antikenmuseum-Sammlung Ludwig LU 70

Da sinistra a destra: una statua del dio Apollo (identificabile dagli attributi, dal piedistallo e per la posa), di profilo, come kouros, con due serpenti avvinghiati sulle gambe e sulle spalle; ai piedi della statua i resti dilaniati di un giovinetto: un brandello di busto con la testa attaccata, un braccio, un polpaccio con il piede. A seguire: una donna con atteggiamento impetuoso incede verso la statua, brandendo una scure impugnata con entrambe le mani alzate sopra la testa. Ancora a seguire: due figure maschili. Il personaggio subito dietro la donna, barbato, con la mano sinistra trattiene il peplo sul busto nudo, e porta la mano destra, alla testa: rispetto alla violenta dinamicità e alla foga del personaggio femminile, il suo atteggiamento, che pure nel codice posturale è segno inequivoco di disperazione e dolore, è più contenuto e composto. La seconda figura maschile, completamente nuda, con gli stessi attribuiti della statua, è identificabile con lo stesso dio Apollo in forma di “dio vivente” (De Cesare 1997, 94). Il dio sarebbe dunque presente nella raffigurazione sia come statua di culto, che come attore del dramma, o comunque come personificazione della divinità a cui il tempio è dedicato. L’immagine di culto rappresenta Apollo Thymbraios (Lambrinoudakis 1984, 217), reso di profilo, secondo il canone del kouros, su una base, con un ramo di alloro nella sinistra e un arco nella destra e all’estremità opposta, il dio vivente è proposto con gli stessi attributi mentre assiste immobile alla violenza dell’azione contro il suo àgalma. Apollo, anche se posto sullo stesso piano dei personaggi umani, si contraddistingue per un atteggiamento di distaccata fermezza. Sul vaso di Basilea si rimanda alla Bibliografia specifica.

Fin dalla prima pubblicazione del reperto (Sechan 1926, 161), la scena è stata messa in connessione con il Laocoonte di Sofocle, anche sulla base del confronto con i frammenti Jatta, di cui al paragrafo seguente. Il personaggio maschile immediatamente dietro la donna sarebbe identificabile con Laocoonte; la scena è interpretabile come il momento in cui Antiopa, moglie di Laocoonte (il nome è citato da Euforione), si scaglia contro la statua del dio Apollo responsabile della morte del/i figlio/i.

Storia di Laocoonte: cratere (fr.) attribuito a un artista vicino al Pittore dell’Ilioupersis, da Ceglie del Campo, ca 375 a.C. Ruvo di Puglia, Museo Jatta

Da sinistra a destra: una figura femminile con chitone dorico tiene un arco nella mano sinistra; dalla posa e dagli attributi è identificabile come Artemide. Accanto, una figura maschile, frontale: nuda, con il lembo di un mantello appoggiato al braccio destro, un altro lembo trattenuto con la mano sinistra; grazie all’arbusto di alloro impugnato nella mano destra è identificabile con il dio Apollo in persona. Al centro della scena, una figura maschile in piedi, di profilo, su un basamento, è avvinta da due serpenti. A terra, accanto a un tripode sono gli arti inferiori di un corpo umano (due polpacci con i piedi attaccati: pare di riconoscere un piede destro e un piede sinistro). A destra, oltre un tripode, una donna incede con atteggiamento irruente, vestita con un peplo molto panneggiato ma trasparente sul busto, levando le braccia in alto. Dietro la donna si intravede il frammento di un altro elemento. Sul vaso Jatta si rimanda alla Bibliografia specifica.

Risulta molto interessante recuperare la lettura della scena così come fu presentata al momento della sua prima pubblicazione. Si tratta, come si vedrà, di una lettura tanto intelligente e aggiornata rispetto alla letteratura critica del tempo, quanto errata per quanto riguarda l’identificazione della figura di profilo e il gesto della figura femminile: intelligenza ed errore, intrecciati nella stessa lettura, ci propongono una notevole lezione metodologica riguardo alla cautela da adottare nelle ricostruzioni di scene frammentarie, in assenza di riscontri iconografici omogenei.

Michele Jatta, che rinvenne i cinque frammenti presso una tomba in località Ceglie del Campo vicino Bari, nel contributo del 1899 in cui pubblicava per la prima volta il reperto, propose la connessione della scena rappresentata con il testo della tragedia sofoclea, basandosi soprattutto sulla ricostruzione del Laocoonte di Robert 1881 e sulle fonti mitografiche chiamate in causa in Bild und Lied.

Jatta, che non poteva disporre del confronto con il vaso di Basilea (pubblicato molti decenni dopo), interpreta così la scena. L’ambiente è il santuario di Apollo Timbreo, semantizzato dal tripode e dalle presenze di Apollo e Artemide, riconoscibili dagli attributi. Al centro “sopra un gradino forse di un altare” uno dei figli di Laocoonte, “nella mano sostiene una coppa, nella sinistra un oggetto che non si può più decifrare”. “L’atteggiamento del giovinetto è freddo, quasi statuario”; “come una statua, diritto, immobile”, scrive Jatta: il giovane apparirebbe dunque impietrito per la paura, poiché è avvinto dai due serpenti che stanno per divorarlo e che già hanno sbranato il fratello, i cui resti si trovano ai piedi del basamento (Jatta 1888, 196, 200).

Notevole è la lettura dell’immagine compiuta sul reperto frammentario il quale, senza il raffronto con la scena rappresentata sul vaso di Basilea, risultava essere allora un unicum iconografico (Jatta 1888, 200). Jatta cerca nella scena entrambi i figli di Laocoonte e, vedendo correttamente che i resti umani appartengono a un solo corpo, identifica la figura stante di profilo (nella mano della quale non è leggibile l’attributo dell’arco) come uno dei due figli, anziché come la statua del dio. In altre parole– condizionato dalla versione prevalente che unisce nella stessa sorte i ‘Laocoontidi’ (la versione virgiliana, ma non solo: vedi anche Euforione, pseudo-Apollodoro, Igino, Quinto di Smirne), l’archeologo collezionista descrive la statua di Apollo come “uno dei figli di Laocoonte” e spiega la sua impassibilità con il fatto che il giovane sarebbe stato impietrito dal terrore, pur ammettendo che “è certamente un problema per chi interpreta […] la spiegazione dell’immobilità del giovinetto” (Jatta 1888, 200).

A destra del tripode il personaggio femminile è identificato con Antiopa che si slancia “in preda alla disperazione verso i figli” (Jatta 1888, 196). Nel ricostruirel’intera scena, Jatta ipotizza (felicemente) che fosse rappresentato pure Laocoonte, e lo colloca giustamente “appresso alla donna”: ben vede pertanto che, nella versione del mito raffigurata su questo vaso, il sacerdote non è coinvolto nell’aggressione dei serpenti. La mancanza del confronto con il vaso di Basilea non permette però a Jatta di riconoscere nel piccolo frammento curvilineo, a sinistra rispetto alla linea di frattura, una parte del ginocchio di Laocoonte, rappresentato nell’atto di incedere dietro ad Antiopa. Comunque sia, il fatto che il sacerdote non sia vittima dell’aggressione dei serpenti è considerato da Jatta come una conferma che l’immagine è collegabile alla versione del mito riportata dallo scolio a Licofrone e nell’epitome dello pseudo-Apollodoro.

Quanto alla stessa Antiopa, Jatta vede che “la madre dei fanciulli […] accorre verso i figli, con le mani sui capelli, solito atteggiamento di dolore e disperazione” (Jatta 1888, 196): nel vaso di Basilea si vedrà che c'è bensì un personaggio in scena che porta una mano alla testa, ma si tratta di Laocoonte e il gesto di disperazione è da attribuire al sacerdote, non ad Antiopa. In realtà nel vaso Jatta la donna alzava bensì le braccia, ma per impugnare l’arma con cui aggredire la statua del dio, come si evince chiaramente dal confronto tra la figura e la posa della figura femminile con quella del vaso di Basilea, perfettamente sovrapponibile, in cui la donna brandisce alta sul capo l’ascia bipenne contro Apollo.

La postura della donna, con la sua gestualità ricca di pathos, è tipica nelle scene di aggressione femminile: la stessa posa assume Clitemnestra che uccide Cassandra, come nella kylix attribuita al Pittore di Marlay (V sec. a.C., Berlino); o ancora Clitemnestra che accorre in difesa di Egisto, avventandosi con la doppia ascia in mano contro Oreste, nel cratere a calice di fabbrica ateniese, attribuito al pittore di Dokimasia (500-450, Boston); o in una oinochoe apula conservata a Bari (fine IV sec. a.C.). E non sarà casuale che in tutte queste raffigurazioni di aggressione, la figura femminile impugni un’ascia bipenne: se l’arma impugnata dall’Antiopa del Laocoonte, dato che la scena si svolge nel tempio di Apollo, fa pensare a un oggetto rituale, l’ascia di Clitemnestra sarà invece forse da considerarsi come un’arma impropria, un oggetto domestico, il primo capitatole sotto mano e che ha potuto afferrare, mentre assale Cassandra, o si scaglia contro Oreste in difesa di Egisto.

da sinistra a destra:
Morte di Egisto: cratere a calice attico attribuito al Pittore della Dokimasia, ca 480 a.C. Boston, Museum of Fine Arts 63.1246;
Morte di Cassandra, kylix attica attribuita al Pittore di Marlay, da Spina, ca 450 a.C. Ferrara, Museo Archeologico Nazionale 2482 (T 264 VT);
Clitemnestra interviene contro Oreste, in difesa di Egisto, oinochoe apula attribuita al Pittore del Vento, da Canosa, ca 320 a.C. Paris, Musée du Louvre K 320.

La presenza della statua del dio è stata letta come una prova de “l’influsso di scenografie teatrali”, che “doveva giocare un ruolo importante nell’inserimento di idoli nell’ambito di scene drammatiche” (De Cesare 1997, 215). La doppia presenza di Apollo, come figura accanto al suo agalma, non porta però necessariamente a sposare l’ipotesi di una presenza scenica del dio, ma potrebbe essere ascrivibile alla convenzione, di cui esistono svariati esempi, che porta l’artista a evidenziare l’ambito di un tempio o di un santuario non solo mediante la presenza di attributi propri della divinità (in questo caso l’alloro, il tripode), ma anche con la raffigurazione della stessa divinità a cui il luogo sacro è dedicato (v. il saggio di Giulia Bordignon in questo numero di Engramma).

A sostegno di una possibile fonte teatrale può essere però invocata la dinamicità della rappresentazione: i due pittori rappresentano la medesima scena, cogliendo l’azione in fieri, nella fase di massima punta patetica che coincide con l’atto di Antiopa che si scaglia furente contro il simulacro del dio assassino del/i suo/i figlio/i.

V. Una nuova ricostruzione del Laocoonte di Sofocle

Nei due reperti vascolari conservati a Basilea e a Ruvo di Puglia vediamo raffigurato un episodio che non risulta presente in nessuna versione del mito, né letteraria, né iconografica. Lo schema iconografico che ispira entrambi i vasi (cronologicamente e geograficamente distanti) era evidentemente consolidato, e doveva dipendere da un’opera letteraria che doveva aver avuto una certa risonanza. Per tutti gli elementi qui analizzati e, soprattutto, per la mancanza di altre opere letterarie importanti candidabili come fonte di riferimento, è più che plausibile l’ipotesi secondo cui entrambi gli artisti, sia il pittore del vaso di Basilea (la cui cronologia è molto vicina alla data di rappresentazione del Laocoonte, che viene posta intorno agli anni ’40 del V secolo a.C.), sia il pittore del vaso Jatta, avrebbero raffigurato un episodio della vicenda di Laocoonte secondo la versione tragica della perduta tragedia sofoclea. L’ipotesi di una influenza, forte ma cronologicamente poco durevole, della versione teatrale del mito parrebbe avvalorata dal fatto che, a parte i due casi analizzati, questa iconografia risulta del tutto isolata.

Proprio alla luce di queste considerazioni derivanti dall’analisi dei reperti vascolari è forse possibile integrare la ricostruzione della parte centrale del perduto dramma di Sofocle: la sezione più importante ma di cui possediamo meno tracce, sulla quale la critica prudentemente depone le armi (v. per tutti Sutton 1984, 68: “The central episode of the play and the appearance of the protagonist is undocumented in evidence”). È plausibile ipotizzare sia l’intervento sulla scena di Antiopa, moglie di Laocoonte (ricordiamo che un suo ruolo è confermato da Bacchilide, la fonte cronologicamente più vicina a Sofocle) sia, di conseguenza, proporre la ricostruzione di una nuova scena del dramma: subito dopo il τέρας dei Laocoontidi, Antiopa sconvolta si scaglia contro il dio con la scure in mano, mentre Laocoonte si dispera, forse non solo per la morte dei/l figli/o ma anche per l’atto di empietà che la moglie compie contro Apollo.

A questo punto, incrociando i dati derivanti da tutte le fonti utili, proponiamo una nuova sequenza drammaturgica e una trama della tragedia così integrata:

Scena I – Dai Fr 370, 374, 375: la presunta partenza dei Greci, cui segue la gioia dei Troiani: si celebrano sacrifici in città, con l’invito a non pensare più alle sofferenze passate.
Scena II – Dal Fr 372: il τέρας dei serpenti marini, chiamati per nome nella tragedia, che avanzano dal mare, dalle isole Calidne.
Scena III – Dalle due fonti iconografiche tra loro coerenti (il cratere di Basilea del Pittore di Pisticci e i frammenti attribuiti a un artista vicino al Pittore dell’Ilioupersis): l’aggressione avviene nel tempio di Apollo Timbreo; dopo aver ucciso un figlio di Laocoonte, i serpenti si avvinghiano intorno alla statua del dio; Antiopa sconvolta si scaglia contro la statua del dio con la scure in mano, mentre Laocoonte si dispera.
Scena IV – Dal Fr 371: una preghiera del coro a Poseidone, probabilmente a scopo apotropaico. Intimoriti dalla morte dei Laocoontidi, i Troiani levano una preghiera al dio per placare la sua ira.
Scena V – Dal Fr 373: Il messaggero riferisce la partenza di Enea con Anchise e i Troiani fuggiaschi dalla città di Troia verso il monte Ida.

L’inserimento della nuova scena con Antiopa all’interno della sequenza è rilevante perché proietta una nuova luce sulla versione del mito adottata dal tragediografo. Sulla base dei dati ricavabili dai soli frammenti testuali, avremmo potuto evincere che la versione di Sofocle poteva essere vicina a quella proposta da Arctino, una versione nella quale, essendo il focus del racconto concentrato sulla presa di Troia, non ci è dato sapere se fosse presa in considerazione una colpa pregressa di Laocoonte. Ma, grazie al concorso dei dati ricavabili dai due reperti vascolari, è possibile proporre una nuova lettura che conferma un collegamento tra la coppia Laocoonte/Antiopa, il luogo dell’assassinio (già in Arctino: il tempio di Apollo) e la colpa – così come testimoniata da Euforione e da Igino: in particolare l’attiva partecipazione alla scena di Antiopa lascia intendere che il dio Apollo, mandando i serpenti contro uno o due figli di Laocoonte, non avesse voluto punire solo il sacerdote ma, propriamente, la sua progenie.

Una questione si pone sul numero dei figli di Laocoonte aggrediti e uccisi dai serpenti: se lo scolio a Licofrone in cui compaiono i nomi dei serpenti fa riferimento all’uccisione di τοὺς παῖδας Λαοκόωντος (e questa, che è la più antica versione del mito, coincide con la più recente di Quinto di Smirne), i serpenti marini avrebbero ucciso invece un solo figlio di Laocoonte con il padre giusta Arctino, ovvero Laocoonte e i 2 figli giusta Euforione, Igino, Virgilio. Per quanto riguarda il dramma perduto, se dobbiamo prestar fede a quanto ricaviamo dalle due immagini, e se i due vasi sono veramente collegabili a una scena della tragedia, nella versione di Sofocle l’aggressione dei serpenti sarebbe stata rivolta contro un solo figlio di Laocoonte.

L’aggressione dei serpenti marini è comunque una punizione contro Antiopa e Laocoonte per la loro colpa di aver generato, contravvenendo al dettato del dio. Fondamentale è la testimonianza di Euforione apud Servio, confermata poi anche da Igino, che riporta quale fosse la colpa originaria di Laocoonte: essersi unito con la moglie Antiopa al cospetto della statua del dio (Hic piaculum commiserat ante simulacrum numinis cum Antiopa sua uxore coeundo). L’unione sessuale nel tempio, dissacrante e superba, avrebbe provocato la punizione divina, che non colpisce direttamente i due genitori, ma ricade direttamente su quella progenie che non doveva nascere. È plausibile ipotizzare che Euforione abbia riportato proprio la variante del mito proposta da Sofocle. Sarebbe dunque questa – l’interdetto della generazione che Laocoonte e Antiopa avrebbero violato – l’innovazione sofoclea, lo scarto rispetto alle precedenti interpretazioni della storia del sacerdote troiano.

Nella versione tragica di Sofocle la storia di Laocoonte era certamente collegata alla presa di Troia, come già in Arctino; e, come in Bacchilide, nella vicenda era coinvolta la moglie del sacerdote Antiopa. Con tutta probabilità Laocoonte, giusta Euforione, era sacerdote di Apollo ma era stato sorteggiato dai Troiani per il sacrificio di ringraziamento, mancando il sacerdote di Poseidone (a suo tempo lapidato dai Troiani). Per altro Igino ci riporta il prezioso dettaglio genealogico secondo cui Laocoonte sarebbe stato imparentato con Enea, in quanto fratello di Anchise: e forse fu proprio quella parentela che diede a Virgilio l’innesco per la nuova versione, epurata e semplificata, dell’antico nucleo mitografico. Il poeta augusteo, nel cantare le gesta del progenitore di Roma, muta la versione, attestata ampiamente prima dell’Eneide, di una fuga di Enea dalla città prima della caduta di Troia. Ed è certo per sventare il sospetto, largamente confortato dalla tradizione, di una fuga preventiva di Enea (ne videatur […] Aeneas voluntate fugisse, nota Serv. ad Aen. II, 199) che l’Enea virgiliano, nel raccontare a Didone le ultime ore di Troia, dà risalto al prodigio di Laocoonte, ma omette di ricordare la sua stretta parentela con lui ed, evidentemente per contrastare una precedente, robusta, tradizione mitografica, torna ossessivamente sulla propria renitenza ad abbandonare la città e insiste sulla propria strenua resistenza, pur oramai priva di una qualsiasi efficacia e senso se non testimoniale, nonostante l’incitazione del fantasma di Ettore e della madre Venere a salvare in altro modo Troia: portando via il fuoco di Vesta per rifondarla altrove (sul tema del 'tradimento di Enea' v. Scafoglio 2006 e Canetta 2011, Scafoglio 2013).

Tornando alla tragedia perduta, dalla ricostruzione che abbiamo proposto, incrociando i frammenti testuali e iconografici, il mythos adottato da Sofocle per la sua versione drammatica risulterebbe illuminato di un senso preciso, ovvero: un interdetto divino che proibisce la generazione; una violazione per atto di hybris; la punizione divina contro il frutto della colpa che provoca la reazione della madre e colpisce con la disperazione (non con la morte) il padre. Innegabile che si tratti di un tema pienamente sofocleo e, in questo senso, già Robert 1881, 196 appuntava: “Apollo hat dem Laokoon verboten, sich zu vermählen – ein aus Laiossage bekanntes Motiv” (la connessione tra la vicenda mitografica di Laocoonte e quella di Laio era già segnalata in Welcker 1849, 324).

E se fu Sofocle il primo a collegare la vicenda di Laocoonte con quella di Enea (così Robert 1881, 192-ss.), nella tragedia, pur essendo confermato il nesso tra il prodigio dei serpenti e la fuga dell’eroe, la vicenda di Enea doveva essere trattata come un episodio secondario, e tutto sommato marginale rispetto alla vicenda tragica concentrata sul protagonista. Quel collegamento sarà invece sviluppato nella nuova (vincente) variante mitografica imposta da Virgilio, che farà di Laocoonte senza troppe spiegazioni il sacerdote di Nettuno (seppure, piuttosto oscuramente, ductus [] sorte: Aen. II 201) e cancellerà ogni sua colpa e qualsiasi sospetto di fuga o di viltà, posponendo la fuga di Enea alla presa di Troia (sulla “sospensione” e la reticenza di Virgilio sul punto, vedi le importanti notazioni di Canetta 2011, 294-295; sull’episodio di Laocoonte in Virgilio, v. anche Zintzen 1979, Scafoglio 2013).

Nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, collezione costituitasi attorno al nucleo della raccolta di Carl Jacobsen alla fine dell’Ottocento, è conservato un lacerto musivo in vermicolato raffigurante la fuga di Enea e dei suoi congiunti dopo la morte di Laocoonte: con ogni probabilità si tratta della prima testimonianza iconografica della tradizione pre-virgiliana sulla caduta di Troia. Il lacerto musivo, datato al II sec. a.C. si baserebbe quindi sulla tradizione greca (in particolare su Sofocle) e pre-romana, probabilmente raccolta da Nevio, secondo la quale la morte del sacerdote sarebbe stata letta come cattivo presagio per i Troiani sull’esito della guerra (Strocka 2011).

Ma se nel racconto di Virgilio il personaggio di Laocoonte – e soprattutto la sua morte innocente – funziona come vittima sacrificale per la sopravvivenza di Troia in Roma, quattrocento anni prima, a Sofocle interessava cogliere dal mito uno spunto affatto diverso: sia pure nella cornice epica delle vicende finali della presa di Troia, Sofocle sceglieva di fare tragedia ponendo l’accento sulla vicenda e sul personaggio di Laocoonte, e costruiva così una storia che aveva al centro il tema dell’interdetto della generazione, della violazione e della conseguente punizione del protagonista. Intorno a questo tema – come ben sappiamo tutto nelle sue corde – Sofocle con tutta probabilità costruì la tragedia del suo Laocoonte.

Riferimenti bibliografici

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English abstract

The content of this paper is a new proposal of reconstruction of Laocoon, the lost tragedy by Sophocles, The bind of the scanty surviving fragments, compared with other mythological sources, allows us to restore a possible plot of the tragedy. The Sophoclean drama probably did not revolve around the death of the priest of Troy, as in the Vergilian version, but around the death of his sons: Laocoon, in the tragical version, married and had sons instead of the divine inhibition and so he and his wife were punished by Apollo.

keywords | Sophocles’ Laocoon; Aeneas; mythological sources.

Per citare questo articolo: Il Laocoonte perduto di Sofocle: una ricostruzione per fragmenta testuali e iconografici (con una digressione sulle fonti mitografiche e letterarie su Laocoonte, precedenti e posteriori alla tragedia sofoclea), a cura di M. Centanni, C. Licitra, M. Nuzzi e A. Pedersoli, “La Rivista di Engramma” n. 107, giugno 2013, pp. 79-106 | PDF