Personificazioni di concetti astratti nelle rappresentazioni teatrali e nelle raffigurazioni vascolari: alcuni esempi
Giulia Bordignon
English abstract
La luce del sole colorata vibrava sopra i dipinti medievali e le figure intagliate su muri e soffitti. C'era tutto quello che una fervida immaginazione poteva desiderare: angeli, santi, dragoni, profeti, diavoli, creature umane. […] La mia intenzione è sempre stata ‘dipingere’ nello stesso modo del pittore di quella chiesa medievale, con lo stesso interesse obiettivo, con la stessa tenerezza e gioia. La risata degli esseri umani, il loro pianto, l'ululato della paura, i giochi, la sofferenza, il loro terrore della piaga, del giorno del Giudizio universale,della stella il cui nome è Assenzio. La nostra paura può essere di generi diversi, ma le parole per descriverla sono sempre le stesse... e i nostri quesiti universali permangono. La nostra domanda rimane.
Ingmar Bergman, a proposito dell’ispirazione per Il settimo sigillo, in Immagini, 1992
Conformatio est cum aliqua quae non adest persona confingitur quasi adsit, aut cum res muta aut informis fit eloquens, et forma ei et oratio adtribuitur ad dignitatem adcommodata aut actio quaedam [...]. Haec conformatio licet in plures res, in mutas atque inanimas transferatur. Proficit plurimum in amplificationis partibus et commiseratione.
La personificazione consiste nel rappresentare un personaggio assente come presente, o nel far diventare eloquente una cosa muta o priva di forma, e attribuirle forma, linguaggio o azione adatti al suo carattere […]. La personificazione può essere applicata a diverse cose, mute e inanimate. È utilissima nelle parti enfatiche e nella commiserazione.
Rhetorica ad Herennium IV, LIII, 66
“Qui, ai confini del mondo siamo giunti, qui, nella Scizia lontana, in un inumano deserto” (“Χθονὸς μὲν ἐς τηλουρὸν ἥκομεν πέδον, Σκύθην ἐς οἷμον, ἄβροτον εἰς ἐρημίαν”: Aesch. Pr., 1-2). Il Prometeo incatenato eschileo si apre con le parole e con la presenza in scena di due personificazioni, il Potere e la Violenza di Zeus, i carcerieri che trattengono il titano mentre Efesto lo inchioda alla roccia nella waste land in cui il dramma è ambientato. La presenza di personificazioni di concetti astratti come vere e proprie personae dramatis, attori che agiscono concretamente in scena, è attestata per diversi testi tragici: in Eschilo possiamo considerare personificazioni della Furia del genos materno le Erinni; in Euripide agiscono in scena Thanatos – il demone della Morte sconfitto da Eracle in Alcesti – e Lyssa, la Follia di cui invece lo stesso eroe è vittima nel dramma che da lui prende il nome. Anche nei testi comici di Aristofane, oltre a Demos (Popolo/Demo) allegorico protagonista dei Cavalieri, vediamo fisicamente in scena alcune personificazioni: Diallage (Riconciliazione, in Lisistrata) e Eirene (Pace, nell’omonimo dramma) presentate come iconiche personae mutae. Anche la testimonianza di Polluce – tarda ma preziosa per la ricostruzione della drammaturgia antica – elenca la presenza di diverse personificazioni nelle performances, di cui tuttavia non abbiamo ulteriori attestazioni (“Potamos, Horos, Dike, Hybris, Peitho, Horai, Apate, Methe, Oknos, Polis, Phthonos, Erinyes, Mousai”: Pollux Onom. IV, 141-143).
Oltre a comparire come attori in scena, le personificazioni agiscono però nel dramma antico anche a un altro livello: seppure non concretamente presenti, esse accompagnano con la loro efficacia icastica lo svolgimento dell’azione drammatica che si concreta nella sceneggiatura dialogica delle tragedie (sul tema v. Cerri 2012); a titolo di esempio, possiamo citare Pothos, Peitho e Harmonia nel corteggio di Afrodite evocato in chiusura delle Supplici di Eschilo (“Come compagni accanto alla madre stanno Desiderio e colei che non ha mai subito un rifiuto, la seducente Persuasione; e in dono ha anche la dote di Armonia”: “μετάκοινοι δὲ φίλᾷ ματρὶ πάρεισιν/ Πόθος ᾇ τ᾽ οὐδὲν ἄπαρνον/ τελέθει θέλκτορι Πειθοῖ./ δέδοται δ᾽ Ἁρμονίᾳ μοῖρ᾽ Ἀφροδίτας” Aesch. Supp., 1038-1041), o ancora Peitho evocata da Atena alla fine di Eumenidi come persuasione politica, capace di convertire le Erinni da demoni della vendetta privata a forze divine favorevoli all’intera polis (Aesch. Eum., 885, 970).
La figuralità, la componente estetico-visiva della forma antropomorfa conferita ai concetti, è la caratteristica costitutiva del procedimento retorico della personificazione: questo strumento espressivo trova dunque fortuna non solo da un punto di vista teoretico e testuale come un modo per ‘pensare per immagini’, ma è anche ab origine un vocabolo del linguaggio figurativo, proprio in forza della sua ἐνάργεια. Il duplice registro – insieme concettuale ed estetico-figurativo – delle personificazioni è ben esemplificato dal passo di una orazione dello pseudo Demostene in cui l’accusato è retoricamente descritto come affiancato “da quei compagni che i pittori raffigurano con i dannati nell’Ade: Maledizione (Ara), Ingiuria (Blasphemia), Livore (Phthonos), Sedizione (Stasis), Contesa (Neikos)” (μεθ᾽ ὧν δ᾽ οἱ ζωγράφοι τοὺς ἀσεβεῖς ἐν Ἅιδου γράφουσιν, μετὰ τούτων, μετ᾽ ἀρᾶς καὶ βλασφημίας καὶ φθόνου καὶ στάσεως καὶ νείκους, περιέρχεται, Ps. Dem. In Aristog., 25, 52).
Nell’arte figurativa le personificazioni sono presenti fin dalle testimonianze più arcaiche (come nell’Arca di Cipselo descritta da Pausania V 17.5-19.10), e trovano ampia diffusione nelle raffigurazioni vascolari, fino a giungere ad articolati insiemi di personaggi che creano scene allegoriche complesse, come nel caso del celebre epinetron del pittore di Eretria, in cui compaiono, in funzione di celebrazione nuziale che indica il passaggio della donna da parthenos a nymphe, figure esemplari di spose del mito (Armonia, Teti e Alcesti), insieme ad Afrodite e personificazioni diverse, a tasso variabile e differenziato di consistenza teoretica, di presenza cultuale e di profilazione iconografica, come Eros, Peitho, Kore, Hebe, Himeros (sull’epinetron di Eretria v. da ultimo Kousser 2004).
La presenza di personificazioni sia a teatro, sia nei vasi, ha condotto in alcuni casi gli studiosi a riconoscere in pitture vascolari ‘a soggetto teatrale’ (definizione, questa, in sé scabrosa e di difficile argomentazione: sul tema v., in Engramma, il saggio metodologico Aa. Vv. Pots&Plays 2012) la raffigurazione di personae allegoriche attinenti al dramma cui la scena vascolare farebbe riferimento, o addirittura a supportare l’idea di una vera e propria ‘illustrazione’ di momenti performativi di drammi perduti, in alcuni casi totalmente privi di conforti testuali. Si tratta evidentemente di un approccio di tipo logocentrico, che ha come punto di prospettiva l’aspetto drammaturgico-teatrale anziché quello iconografico-formale della rappresentazione. Qui di seguito prenderemo brevemente in considerazione alcuni esempi di raffigurazioni vascolari che sono state poste in relazione con il teatro e che, nel cast dei personaggi raffigurati, presentano una o più personificazioni attestate tra le personae dramatis dei testi tragici che ci sono pervenuti (Bia e Kratos, Thanatos, Lyssa, e, con una qualità di presenza molto più alta, non solo per il conteggio numerico delle apparizioni, le Erinni): si tratta di una selezione che non ha pretesa di esaustività, ma che può risultare utile proprio nel dare la misura della problematicità dei rapporti tra testi, performances e immagini, considerandola dall’angolazione liminare dell’impiego di concetti per figuras.
Per quanto riguarda Bia e Kratos, aguzzini del Prometeo eschileo, l’unica testimonianza vascolare in cui compare con certezza la persona muta di Bia, per la presenza del nome iscritto, è uno skyphos conservato a Basilea: si tratta di un vaso in condizioni molto frammentarie, in cui le figure delle personificazioni non sono conservate.
La parte della scena che ci è giunta è riferibile tuttavia non al supplizio di Prometeo, ma a quello di Issione: l’iscrizione con il nome di Bia è collocata infatti accanto alla mano di un personaggio (perduto) che regge la ruota per l’esemplare tortura divina voluta da Zeus (raffigurato nel vaso accanto a Era e a Efesto). Questo slittamento iconografico – la presenza di Bia nel mito di Issione anziché in quello di Prometeo – ha portato alcune letture critiche non solo a ricondurre il frammento a una perduta tragedia di Eschilo intitolata proprio Ixion, ma anche a riconoscere Bia in figure di generiche Furie-Erinni (prive di iscrizione) in altri vasi con la punizione di Issione (Simon 1986, ma cfr. Sorvinou-Inwood 2003, 466 ss.). La convenzione iconografica del soggetto di Prometeo legato alla roccia vede di norma la raffigurazione, accanto al dannato, dell’aquila di Zeus oppure di Eracle nell’atto di liberare il titano, e non già di Bia e Kratos protagonisti della prima parte del mythos eschileo: questo tuttavia non giustifica, se non in chiave totalmente congetturale, la trasposizione della presenza dei due emissari divini a una ‘illustrazione’ o a una connessione con il perduto dramma eschileo, dal momento che le scene vascolari con il mito di Issione nulla concedono – da un punto di vista di possibili ‘segnali’ teatrali in pittura – al riconoscimento di aspetti performativi (sulla questione dei “signals” drammaturgici si veda Taplin 2007, 37 ss. e cfr. in Engramma il saggio metodologico Aa. Vv. Pots&Plays 2012).
In un kantharos conservato a Londra, ancora a Issione, figura paradigmatica di trasgressore punito, si lega forse non casualmente una rappresentazione peculiare di Thanatos, personificazione della Morte, che è personaggio teatrale in Alcesti di Euripide. Il vaso presenta nei due lati due diverse scene: da una parte Issione condotto al cospetto di Era da due ‘carcerieri’, chiaramente riconoscibili in Ares e Hermes per gli attributi iconografici, mentre Atena reca innanzi la ruota del supplizio; dall’altra una scena di difficile interpretazione, in cui Thanatos alato e barbato (o quantomeno una figura che risponde alla tradizione iconografica relativa a questa personificazione) conduce via da dietro un altare un giovane defunto, mentre una seconda figura maschile barbata si protende in atto di difesa con un ginocchio puntato, una mano alla spada e l’altra che regge un oggetto di incerta identificazione, mentre un serpente si avvolge al suo corpo e lo morde all’altezza della clavicola. Questa seconda scena – anziché essere legata al mito di Issione sul primo lato del kantharos – è stata messa in rapporto con la lotta tra Eracle e Thanatos nell’Alcesti di Euripide (ma nel vaso la figura trasportata dal demone è certamente maschile) o ancora con il perduto Laocoonte di Sofocle (sulla tragedia sofoclea si veda, in questo numero di Engramma, il saggio di Monica Centanni, Chiara Licitra, Marilena Nuzzi, Alessandra Pedersoli, Il Laocoonte perduto di Sofocle, con una rassegna delle fonti letterarie e mitografiche), ma di nuovo non troviamo nella raffigurazione appigli che giustifichino una connessione con un testo tragico, se non per il fatto che l’azione nella sua interezza costituisce un vero e proprio hapax (sugli hapax dromena come criterio di relazione tra teatro e raffigurazioni vascolari si veda ancora il saggio metodologico Aa. Vv. Pots&Plays 2012): risulta tuttavia molto difficile proporre per questa scena un'ipotesi relativa al riconoscimento di uno specifico dramma di riferimento o anche semplicemente di una variante mitica. Possiamo notare qui, per incidens, che un episodio come quello trattato dal dramma euripideo su Alcesti – Eracle che sconfigge Morte e riporta in vita la protagonista – che si sarebbe rivelato adatto a una rappresentazione nel contesto di un corredo funebre per la sua valenza soteriologica, abbia in realtà una scarsa fortuna nell'iconografia vascolare; il personaggio di Alcesti sembra proposto più come figura di moglie e madre esemplare che come personaggio-simbolo del riscatto dalla morte, e ciò parrebbe confermare l'ipotesi che, anche nel repertorio funerario, la scelta della figura mitica di riferimento da parte del committente e dell'artista parrebbe inseguire una generica consentaneità di profilo etico e/o patetico con la figura eroica presa a modello, piuttosto che la valenza salvifica del significato del mito.
Nella rappresentazione di Thanatos in un cratere conservato a New York del pittore di Sarpedonte, se da un lato viene ripresa la tradizione iconografica convenzionale della coppia dei demoni della Morte e del Sonno che trasportano il cadavere dell’eroe (Bazant 1994), il raggruppamento dei tre personaggi in alto a destra risulta tuttavia atipico, e per la postura delle figure (raffigurate in volo e non posate sul terreno come nelle raffigurazioni consuete del soggetto mitico), e per l’inserimento del gruppo in un contesto, per così dire ‘scenico’, del tutto inusuale (una figura regale in abiti orientali che attende, insieme ad altri personaggi, l’arrivo del gruppo funebre dinnanzi a un fondale architettonico). Appare più giustificato, in questo caso, il riferimento a una scena teatrale, tanto che Taplin propone di riconoscervi un richiamo al perduto dramma di Eschilo Europa o I Carii (Taplin 2007, 72 ss.), i cui frammenti riportano proprio una rhesis della protagonista in angoscia per la sorte del figlio Sarpedonte (TrGF 99 Radt), sebbene la comparsa di Hypnos e Thanatos in scena non sia attestata nei brani pervenuti.
La “briciola dal banchetto di Omero” del trasporto funebre dell’eroe di Iliade XVI sembrerebbe comunque dare materia al testo drammatico eschileo, e di qui all’innovazione iconografica della scena raffigurata in questo vaso. Taplin richiama per il gruppo di Thanatos, Hypnos e Sarpedonte l’impiego della mechane teatrale, ma senza giustificare appieno questo riferimento, se non facendo ricorso a motivazioni esterne alla rappresentazione, ovvero al raffronto con due vasi del pittore di Policoro: il primo che presenta di nuovo il trasporto aereo di Sarpedonte nel contesto di una non facilmente interpretabile scena di uccisione di una Amazzone; il secondo con la fuga di Medea al di sopra dell’impotente Giasone. Quest’ultimo vaso è caratterizzato, secondo Taplin, da una forte connotazione teatrale, e dunque del tutto probabile è per lo studioso il richiamo all’impiego della mechane sulla scena, che è esteso per analogia anche alla raffigurazione vascolare del cratere di New York. Più economico tuttavia ci sembra poter giustificare l’aspetto di una vera e propria illustrazione vascolare di un elemento performativo – l’uso della macchina teatrale per l’‘effetto speciale’ del volo – mediante una motivazione interna alla raffigurazione stessa, ovvero in riferimento allo strappo formale rispetto alla tradizione iconografica dell’allegorico gruppo funebre, solitamente rappresentato mentre procede a terra e non mentre si libra nell’aria: l’invenzione iconografica potrebbe certo attribuirsi totalmente alla creatività del pittore, non dettata da un ‘ricordo’ teatrale, ma il contesto così peculiare degli altri dettagli della scena e dei suoi segnali drammaturgici pare deporre in favore di questa ipotesi.
Ancora a un dramma perduto di Eschilo, Toxotides, è stato collegato un vaso conservato a Boston con la rappresentazione di Lyssa, la Follia, personaggio che compare in scena in Eracle di Euripide. Per questa raffigurazione vascolare, che rappresenta Lyssa mentre aizza i cani contro Atteone alla presenza di Zeus e di Artemide, il richiamo a Eschilo è stato giustificato mediante il soggetto trattato dal dramma, relativo al mito del cacciatore, e dall’iscrizione posta alla sommità della scena che collega il vaso a Euaion, uno dei figli di Eschilo noto dalle fonti anche come tragikos (Trendall, Webster 1971, 62-64). Questi elementi tuttavia non sono sufficienti a suffragare, da un punto di vista figurativo, un legame diretto della rappresentazione vascolare con una rappresentazione teatrale, se non prendendo in considerazione l’aspetto cinegetico che caratterizza la personificazione di Lyssa nei testi teatrali, non tanto però nella produzione eschilea, quanto in Baccanti e in Eracle di Euripide. Nel cratere di Boston la figura di Lyssa, dotata di nome inscritto, è in effetti delineata mediante elementi caratteristici – l’aspetto di avvenente cacciatrice che reca una piccola testa di cane come copricapo – ma lo scatenarsi della ferocia dei cani contro il padrone rientra però appieno nella convenzione iconografica di questa vicenda mitica, senza implicazioni di tipo drammaturgico. Non sarà superfluo notare, comunque, che il vaso in questione è un cratere di produzione attica del V secolo: il richiamo al dramma eschileo farebbe dunque rientrare il pezzo nel ristrettissimo corpus di vasi della madrepatria cui viene riconosciuta una attinenza teatrale.
Nell’Eracle di Euripide Lyssa è peraltro precisamente descritta come una Gorgone (Νυκτὸς Γοργὼν ἑκατογκεφάλοις/ ὄφεων ἰαχήμασι Λύσσα μαρμαρωπός, 882-883), analogamente alle Erinni di Eschilo. I demoni della follia e della furia vendicatrice condividono in effetti una sfera semantica, una time comune, che ne fa confondere i tratti anche da un punto di vista figurativo e ne rende difficile una precisa identificazione in ambito iconografico, a meno della presenza del nome iscritto. Nella produzione sud italica di IV secolo, moltissimi sono casi di sovrapponibilità di queste personificazioni, che nelle letture critiche spesso vengono identificate con un nome preciso soprattutto mediante il contesto della scena mitica di appartenenza: la figura demonica di cacciatrice alata che accompagna solitamente la follia di Penteo, di Licurgo, oppure dei cani di Atteone o dei cavalli di Enomao, viene dunque di norma riconosciuta come Lyssa, anche in mancanza di iscrizione (Kossatz-Deissman 1992).
Certamente il tipo figurativo dell’Erinni comincia ad avere diffusione e fortuna in ambito vascolare solo dopo Eumenidi di Eschilo: la personificazione del demone ha cioè, con tutta probabilità, una ‘nascita’ iconografica legata all’impatto del dramma eschileo sull’immaginario sociale (Sarian 1986). Da qui, tuttavia, la personificazione subisce un processo di adattamento culturale e formale che la rende un ‘vocabolo’ prettamente iconografico, totalmente svincolato da connessioni con il teatro ma impiegato dagli artisti come efficace formula di visualizzazione pittorica della Stimmung della scena mitica rappresentata, tanto da poter prestare le proprie fattezze anche ad altri analoghi concetti raffigurati in forma umana (Lyssa o Poina), secondo una serie di varianti nell’uso dei dettagli iconografici (la presenza delle ali o dei serpenti tra i capelli; il costume da cacciatrice/viaggiatrice più o meno elaborato; gli attributi della torcia, della frusta, delle lance; la stessa postura del corpo) che andrebbero indagati con occhio ‘tassonomico’ analizzando caso per caso ciascuna occorrenza, anche in relazione agli ambiti di produzione dei vasi oltre che in relazione con la storia iconografica dei miti in cui queste personificazioni compaiono: azzardato risulta dunque proporre la presenza di queste figure nelle rappresentazioni vascolari come segnale di un collegamento teatrale, a meno che esse non risultino inserite in un contesto che si possa riconoscere come ‘drammaturgico’ anche per altre vie.
È questo il caso, ad esempio, della caratterizzazione delle Erinni raffigurate come demoni dormienti nei vasi con il mythos di Oreste conservati al Louvre e a San Pietroburgo, attribuiti rispettivamente al pittore delle Eumenidi e al pittore di Konnakis (sul quale v., in questo numero di Engramma, il contributo di Ludovico Rebaudo): il dettaglio posturale del sonno risponde con precisione all’invenzione drammaturgica eschilea, e mette certamente in rapporto le raffigurazioni vascolari con l’ambito teatrale. Ma ancora a proposito della sovrapponibilità semantica e della interscambiabilità nell’uso di queste personificazioni della furia e della follia, possiamo prendere in esame come ultimo esempio la figura di Mania che compare (con nome inscritto) in un cratere conservato a Madrid, in una scena che appare strettamente connessa all’episodio della follia di Eracle dall’omonima tragedia euripidea, in cui il demone che causa le allucinazioni dell’eroe è sostituto pressoché sinonimico di Lyssa. La scena presenta una forte connotazione teatrale (per l’impianto architettonico, i costumi, l’unicità dell’azione rispetto alla tradizione iconografica delle vicende mitiche dell’eroe), corroborata anche dal fatto che il vaso è firmato da Assteas, artista al cui corpus sono assegnati diversi vasi a ‘ispirazione’ drammaturgica.
Taplin giustamente sottolinea come nella raffigurazione vi siano diversi elementi che la allontanano dal testo di Euripide (i personaggi di Iolao, Alcmena e della stessa Mania che non sono presenti nella tragedia; l’uccisione di uno dei figli mediante il fuoco e non mediante le armi da parte dell’eroe; la fuga di Megara), e allo stesso tempo riconosce la paternità euripidea dell’invenzione della follia omicida di Eracle, soggetto del vaso (Taplin 2007, 143 ss.). Emerge qui, dunque – come osservazione conclusiva che in effetti precede e sottende per intero il tema di ricerca Pots&Plays – un insieme di questioni relative al rapporto complesso dell’interdipendenza tra varianti – mitiche, drammaturgico-performative e figurative – nel passaggio tra il mondo attico di V secolo e il mondo coloniale di IV secolo: si tratta di un nodo ermeneutico problematico e complesso al cui studio, come annunciato nelle premesse, questo contributo intende fornire un primo saggio di casi esemplificativi.
Cratere a calice di Assteas, ca 350 a.C. –
Madrid, Museo Arqueológico Nacional 11094 (L369)
English abstract
This paper considers some examples of vascular depictions that have been connected by scholarly research with Greek drama and that in the 'cast' of the characters depicted show one or more personifications attested among the dramatis personae of extant ancient tragedies (Bia and Kratos, Thanatos, Lyssa, Erinyes): this selection of case-studies can be useful in reflecting about the problematic nature of the relationship between texts, performances and images, considering it from the liminal standpoint of the use of personified concepts.
keywords | Greek drama; vascular painting; personified concepts
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Per citare questo articolo: Personificazioni di concetti astratti nelle rappresentazioni teatrali e nelle raffigurazioni vascolari: alcuni esempi, a cura di G. Bordignon, “La Rivista di Engramma” n. 107, giugno 2013, pp. 14-26 | PDF dell’articolo