NEWS | ottobre 2001
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Redazione di Engramma | 9.11.2001. “Cultura occidentale” nell‘eco di guerra
Sei mesi fa venivano demoliti dalla furia iconoclasta dei Talebani i due Buddha monumentali di Bamiyam, opere nate dall’incrocio dello spirito della religiosità orientale con lo stile plastico ellenistico: si imponeva allora l’urgenza di mettere in luce la brutalità di quella violenza contro le immagini.
Oggi preme una nuova urgenza. Dalla distruzione degli ultimi due ‘idoli pagani’ sopravvissuti nel loro suolo, gli integralisti islamici sono passati a rivendicare l’atto terroristico dell’11 settembre 2001, messo in scena con grande spettacolarità contro due costruzioni-simbolo del potere dell’Occidente, due figure geometriche eminenti nel profilo del nostro orizzonte culturale: la distruzione delle Twin Towers di New York, l’attacco al Pentagono di Washington.
Un confine è stato travalicato, un limite violato. Ed è di frontiere e di confini che urge parlare. Accanto al dolore e all’angoscia, dal rimbalzare continuo e sferzante di voci da tutto il mondo, emerge visibilmente una radicale crisi d’identità e, nel contempo, una vociferata esigenza di riconoscimento identitario.
‘Occidente’, ‘tradizione occidentale’, ‘cultura occidentale’ sono il tema teorico e il refrain retorico intorno a cui tenta di organizzarsi la sintassi dell’identità nel tempo della guerra (che è per definizione messa in crisi dell’identità e sua prova di consistenza). Ma cos’è ‘Occidente’?
Oggi nel tempo della catastrofe, della violazione dello ‘spazio inviolato’ si dice che “niente sarà più come prima”. Se scrostiamo l’intento retorico-propagandistico, rimane vero che, da molto tempo, niente è più come prima. Ma le catastrofi sono sempre un momento di trasformazione; occorre raccogliere l’occasione, e liberare la Tradizione Occidentale dall’oblio del suo Essere: meglio dall’oblio della sua invenzione del Divenire.
Qualcuno invoca terapie psichiatriche di massa per adulti egoisti, benestanti e paurosamente infantilizzati, e – dall’altra parte – qualcuno coltiva in forme terroristicamente superstiziose il rancore/nostalgia per l’esaurimento creativo della propria civiltà. Ma dietro i Beni e i Mali assoluti, dietro le loro favole indiscrete e primitive, si agitano grandi trasformazioni ancora indecifrabili, che meritano adeguata accoglienza: Occidente si dà soltanto per figura e per scrittura di un’inquietudine geologica e vitale che scuote la tellurica immobilità di una certa concezione orientale dell’Essere, che si vuole sempre uguale a se stesso, afflitto dalla paranoia dell’Ordine immutabile.
Tutta nel segno della complessità sta la capacità di corrispondere adeguatamente alla sfida che si sta profilando, rielaborando il repertorio di tracce, cicatrici, imprese, che connotano il segno peculiare della ‘cultura occidentale’.
La temperie si fa incandescente di ragionamenti e di passioni tenute sopite da cinquant’anni di pace: prepotenti nel lessico del dibattito culturale, riappaiono coppie oppositive elementari come ‘noi’ e ‘gli altri’, amico/nemico, civile/barbaro. Ma non c’è polemos, insegna il linguaggio tragico, che non riveli al fondo un grumo di stasis, di conflitto intestino irriducibile al gioco facilitato dell’identità/alterità. Il nemico, al di fuori di ogni schema retorico bellicista, non si mostra se non come “figura del mio problema”.
Per citare questo articolo / To cite this article: Redazione di Engramma, 9.11.2001. “Cultura occidentale” nell‘eco di guerra, “La Rivista di Engramma” n. 11, ottobre 2001, pp. 49-50 | PDF
Lorenzo Bonoldi | Una nuova biografia su Isabella d’Este. Recensione a: Daniela Pizzagalli, La signora del Rinascimento. Vita e Splendori di Isabella d‘Este alla corte di Mantova, Rizzoli, Milano 2001
“Finch’io viva dopo morte”: questo è il primo motto di Isabella d’Este di cui si conservi memoria. Lo scopo dell’illustrissima marchesa di Mantova è lo stesso che da sempre ha animato i grandi della storia: ottenere la fama della gloria, l’unico bene in grado di garantire l’immortalità. E pare che Isabella ci sia riuscita, perlomeno a vedere le numerosissime pubblicazioni a lei dedicate. L’ultima è una preziosa biografia, interamente costruita su documenti d’archivio e divisa cronologicamente anno per anno: La Signora del Rinascimento di Daniela Pizzagalli. Il libro si presenta pregevole sotto vari aspetti: letto consequenzialmente offre un fedele spaccato dell’età aurea e del declino del Rinascimento, la puntuale ripartizione cronologica invece, lo rende uno strumento di ricerca utile e prezioso per chi si occupi di studi isabelliani. Un bel passo in avanti rispetto a Rinascimento Privato di Maria Bellonci, che, pur avendo avuto il merito di rendere nota al grande pubblico la figura di Isabella, conserva un tono prettamente romanzesco: è infatti interamente costruito per artificiosi flashback e infarcito di lettere di un personaggio (l’anglico Robert de la Pole) del tutto immaginario. Il rigore dello studio di Daniela Pizzagalli, invece, consegna agli studiosi un testo prezioso, al punto che in futuro nessuno potrà scrivere di Isabella d’Este senza citarlo in bibliografia. Le uniche obiezioni, peraltro ascrivibili esclusivamente a scelte editoriali, sono per una bibliografia un po’ troppo stringata e per l’immagine in copertina. Ci sono sempre forti dubbi sull’identificazione della dama ritratta da Tiziano, e la fantasiosa ipotesi, condivisa anche dall’autrice, secondo cui il motivo ornamentale ricamato sulle maniche del vestito sia davvero la “fantasia dei vinci” creata per le principesse d’Este da Niccolò da Correggio (il cui utilizzo, fra l’altro, è documentato solo da parte di Beatrice), è fortemente improbabile; il nome della dama ritratta, come risulta da un documento del 1659, potrebbe essere invece quello di Caterina Cornaro, regina di Cipro.
Per citare questo articolo / To cite this article: L. Bonoldi, Una nuova biografia su Isabella d’Este. Recensione a: Daniela Pizzagalli, La signora del Rinascimento. Vita e Splendori di Isabella d‘Este alla corte di Mantova, Rizzoli, Milano 2001, “La Rivista di Engramma” n. 11, ottobre 2001, p. 51 | PDF
Sara Agnoletto | Picasso e la tradizione mediterranea. Presentazione della mostra: “Picasso sotto il sole di Mitra”, Martigny, Fondazione Gianadda, 29 giugno / 4 novembre 2001
La mostra, interessante e particolare, celebra Picasso rintracciando all’interno della sua produzione l’affiorare di tematiche simboliche e iconografiche vicine al culto del dio Mitra, attestato a Martigny dal recente ritrovamento di un suo santuario. Attraverso l’avvicendamento sincronico di opere cretesi, fenicie, greco-romane, celtiche e iberiche, e opere scelte del celebre artista spagnolo, il percorso espositivo evoca l’esistenza di un’unica cultura mediterranea antica e profonda, all’interno della quale si inserisce anche la produzione di Picasso, sua manifestazione moderna. Le opere di Picasso sono disposte cronologicamente dai suoi primi disegni fino alle opere degli anni cinquanta: ciò permette di seguire come “una tematica venuta dall’alta antichità è indossata ed esplorata dalla più celebre figura dell’arte moderna” (Philippe Mathonnet, Sous le soleil, le toro bravo qui ruait dans les brancards, dal supplemento culturale di “Le Temps”, sabato 30 giugno 2001). Al centro dell’esposizione è il Toro. Sacrificato e divinizzato dagli antichi, riportato alla luce dai surrealisti, il toro di Mitra appare precocemente nell’immaginario di Picasso, inizialmente ancora legato e carico delle connotazioni rituali proprie della corrida. Dagli anni trenta poi, nell’immaginario simbolico dell’artista compare ricorrente e ossessiva la figura del Minotauro, sorta di demone cannibale e di divinità protettrice. La rappresentazione del toro diventa predominante, fino a quando, smessi gli abiti propri del culto mitraico, l’animale s’insinua fin dentro la simbologia cristiana, in cui il toro sgozzato durante il rito sacrificale è sostituito dal figlio crocifisso di Dio. Tutt’intorno a questo nucleo principale la riflessione si arricchisce di altre iconografie e altri simbolismi, multipli prolungamenti del tema principale, ulteriori fili tesi a rivelare la trama di una tradizione di cui Picasso fu un geniale interprete e che in questa mostra riemerge come chiave di lettura della sua opera.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Agnoletto, Picasso e la tradizione mediterranea. Presentazione della mostra: “Picasso sotto il sole di Mitra”, Martigny, Fondazione Gianadda, 29 giugno / 4 novembre 2001, “La Rivista di Engramma” n. 11, ottobre 2001, p. 52 | PDF
Carlo Corsato | Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Presentazione della mostra: “Futurismo 1909-1944”, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 7 luglio/22 ottobre 2001, catalogo a cura di Enrico Crispolti, Futurismo 1909-1944. Arte, architettura, spettacolo, grafica, letteratura, Milano 2001
Si conclude il 22 ottobre una mostra che propone il Futurismo in tutti i suoi aspetti, dalla pittura al cinema e alla grafica, dall’architettura alla moda e al teatro, in un arco cronologico che per la prima volta riconosce la vitalità del movimento fino alla II guerra mondiale (cfr. nel catalogo il saggio di Claudia Salaris, Aspetti e figure salienti nel percorso della letteratura e visualizzazione poetica del futurismo fra il 1909 e il 1944). Il Futurismo è sicuramente il fenomeno culturale che è stato in grado di animare gran parte della prima metà del Novecento, in grado di rispondere al Surrealismo. Sia sul piano artistico che politico-culturale, Marinetti e ‘compagni’ introdussero in Italia i temi principali delle avanguardie contemporanee (cfr. nel catalogo il saggio di Christoph Hoch, SCRABRRRRAANG! Sul programma e l’estetica letteraria del futurismo nel contesto europeo). Dal dinamismo al colore dirompente, dalla necessità di un nuovo sguardo sulle cose alla ricerca di un linguaggio adeguato al ritmo accelerato del tempo; così nel Manifesto tecnico della Pittura Futurista dell’8 marzo 1910: “Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza dell’immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono”. Una rivoluzione estetica che si proponeva di contagiare tutte le arti e le espressioni culturali fino ai dettagli della vita quotidiana. Nel rapporto con l’opera d’arte si auspica una interrelazione di ruoli tra artista, spettatore e opera stessa: “I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a noi. Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro”. I recensori del Manifesto del febbraio-marzo 1909 (cfr. il saggio di Nico Stringa, ‘... l‘amato fecondo Manifesto’: cenni sulla diffusione del futurismo in Italia nel febbraio del 1909) minimizzano e spesso ironizzano sul ‘proclama’ marinettiano. Una delle prime critiche mosse al Futurismo fu quella di essere una deriva estrema del modernismo. È innegabile che i Futuristi proclamarono ripetutamente di volersi disfare di un passato ingombrante, polveroso, la cui chiesa più rigida è il museo; certo se la presero con le accademie e l’idolatria dell’antico: “NOI COMBATTIAMO: 1. Contro il patinume e la velatura da falsi antichi; 2. Contro l’arcaismo superficiale ed elementare a base di tinte piatte che riduce la pittura ad una impotente sintesi infantile e grottesca”. Scrive Boccioni nel Manifesto tecnico della scultura: “Nella scultura di ogni paese domina l’imitazione cieca e balorda delle formule ereditate dal passato, imitazione che viene incoraggiata dalla doppia vigliaccheria della tradizione e della facilità. Nei paesi latini abbiamo il peso obbrobrioso della Grecia e di Michelangelo”. Tuttavia, al di là degli attacchi contro il passatismo, il Futurismo ha un forte senso del tempo. Il tempo ha un valore e nella manipolazione di Marinetti diventa un imbuto, attraverso il quale non più tutto il passato può passare: il presente non è un’eredità degradata ma l’unica dimensione che dà prospettiva e senso alla tradizione; l’“oggi” non è più uno “ieri” rispetto a un “domani”, bensì solo istante-avvenire. Il Futurismo taglia i ponti con quello squilibrio verso il Passato tipico della cultura contemporanea, e per contrastarlo perde a sua volta l’equilibrio verso il Futuro. Si apre così la porta a una pittura che non sia più realismo – che si addice ormai meglio alla fotografia – bensì arte dell’avvenire. Lo stile futurista attecchisce nel campo della grafica e della pubblicità adeguandosi alle richieste del nuovo mercato. Con tutti i suoi provocatori estremismi, il Futurismo ci ha lasciato irrisolta la necessità di capire il presente attraverso formule che vanno tradite: nel doppio senso di tramandate, ma – se ormai inadatte – mutate, riaggiornate, perché il futuro non può essere la speranza che tutto rimanga com’è.
This essay delves into the complexities of Western identity in the wake of significant historical events such as the destruction of the Bamiyan Buddhas and the 9/11 attacks. The author argues that these events have precipitated a profound crisis of identity, forcing a re-examination of Western culture and its relationship to the rest of the world. By analyzing the concept of "the West," the essay explores how this identity has been constructed and challenged over time. It further examines the role of tradition and its relationship to innovation in shaping Western culture. The author concludes that a comprehensive understanding of Western identity requires a nuanced appreciation of its historical, cultural, and philosophical complexities.
keywords | Western identity, 9/11, Bamiyan Buddhas, terrorism, globalization, postcolonialism, Orientalism, philosophy of history, cultural studies.
Per citare questo articolo / To cite this article: C. Corsato, Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Presentazione della mostra: “Futurismo 1909-1944”, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 7 luglio/22 ottobre 2001, “La Rivista di Engramma” n. 11, ottobre 2001, pp. 53-54 | PDF