Le pietre e il popolo
Fenomenologia della prostituzione del patrimonio storico e artistico della nazione italiana
Tomaso Montanari
English abstract, followed by the complet translation of the chapter "Leonardo Black" from the book
Da “Firenze diminuita” a Firenze prostituita
“A una rivista come Paragone, nata e cresciuta a Firenze in clima di liberi studi sull'arte e sul suo buono o cattivo governo, non è ormai lecito serbare il silenzio sugli effetti materiali del cataclisma del 4 novembre 1966 che ha così gravemente intaccato i beni artistici della città famosa”. Così inizia un celebre editoriale di Roberto Longhi, uscito nel 1967 col titolo di Firenze diminuita. Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, non è lecito per chi coltiva studi di storia dell'arte serbare il silenzio sugli effetti stavolta non materiali, ma morali, di un altro, e diverso, cataclisma che sta non meno gravemente intaccando il valore immateriale di quegli stessi beni artistici. Alludo alla spintissima mercificazione del patrimonio artistico che ha reso Firenze, ancor più della morente Venezia, un luogo simbolo del ruolo della storia dell'arte al tempo della dittatura del mercato. E il titolo di queste righe, assonante a quello longhiano, non potrà allora che essere: Firenze prostituita.
Ho dedicato una considerevole parte del mio libro recente Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane (del quale a seguire ripubblico la Premessa), a descrivere in dettaglio le forme, gli attori e le conseguenze di questa profonda involuzione, che sembra affliggere senza eccezioni le istituzioni principali della città (Montanari 2013, 74-158). Il sindaco, la Provincia, le soprintendenze, la Biblioteca Nazionale (recentemente ridotta a campo da golf), la Curia, l'Opera del Duomo, l'Università, la Fondazione di Palazzo Strozzi condividono la visione di una città ridotta a un'unica, e intensiva, monocultura turistica: e dunque decisa a vivere ancor più di rendita, ossessivamente riversa sul proprio ombelico, interessata solo a baloccarsi con il suo usuratissimo salotto, e incapace di guardare oltre il diaframma delle mura, dove le periferie appaiono abbandonate a se stesse. I sette mesi che separano la stesura di queste note dall'uscita del libro (marzo 2013) hanno offerto un'ampia conferma di tale lettura, ed è all'analisi di tale fenomenologia della prostituzione del patrimonio che vorrei dedicare le prossime righe.
Sabato 29 giugno il sindaco Matteo Renzi ha trasformato Ponte Vecchio in location per una festa della Ferrari. Un evento ‘esclusivo’ in senso letterale, perché i cittadini sono stati allontanati dal ponte, chiuso alle estremità e costellato di tavole imbandite. Anche il modo con cui l'operazione è stata condotta è apparso avvilente: senza nessuna comunicazione alla cittadinanza, rilasciando il permesso di occupazione del suolo pubblico solo all'indomani della cena (il che ha fatto sì che sul Ponte non venisse lasciato nemmeno un corridoio per il passaggio delle ambulanze), con una estrema opacità circa l'ammontare del corrispettivo che sarebbe stato versato dalla Ferrari al Comune.
Non sono tuttavia i dettagli della cronaca: è lo spirito stesso dell'iniziativa, a risultare sconcertante. Il progetto politico del futuro leader della Sinistra italiana si lascia raccontare come un piccolo gruppo di super-ricchi che si appropria dei beni comuni mentre i buttafuori tengono alla larga i cittadini. Non è un episodio, è una strategia. Nello stesso inizio di estate, l'assessore al Turismo Sara Biagiotti ha convocato una riunione che inaugurasse il “percorso di realizzazione di un brand della città, in prospettiva di una politica di sfruttamento commerciale del brand stesso”. Firenze non come comunità civile e politica, dunque, né tantomeno come città di cultura, ma come brand, marchio, griffe da sfruttare a fini esplicitamente commerciali. D'altra parte, nel novembre precedente Renzi aveva dichiarato solennemente: “Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto”. Ma poiché gli Uffizi sono – per ora – statali, il Sindaco si era poi dovuto accontentare di sfruttare il 'suo' Palazzo Vecchio e le piazze della città. Così nel gennaio il Salone dei Cinquecento era diventato la location di una sfilata di moda di Ermanno Scervino, lo stilista preferito di Renzi E, in aprile, Piazza Ognissanti e Piazza Pitti erano state chiuse ai fiorentini per la celebrazione del matrimonio bolliwodiano di un magnate indiano.
Vale la pena di ricordare brevemente, a questo punto, i precedenti che ho analizzato in Le pietre e il popolo. L'anno precedente la Soprintendenza speciale per il Polo Museale Fiorentino aveva riservato gli Uffizi alla cantante pop Madonna per una visita privata (inclusa la guida della soprintendente Cristina Acidini, in veste di personal shopper 'culturale'), e poco dopo aveva affittato sempre gli Uffizi allo stilista Stefano Ricci per una sfilata di moda 'neocoloniale' aperta da una tribù di Masai, che hanno corso, brandendo scudi e lance, di fronte al Laocoonte di Baccio Bandinelli, sotto lo sguardo incredulo dei ritratti cinquecenteschi della Gioviana.
Ma anche la Curia arcivescovile non è da meno. La sfilata inaugurale di Pitti 2011, per esempio, si era tenuta nella chiesa di Santo Stefano al Ponte: una chiesa sconsacrata, ma perfettamente leggibile come luogo sacro e appartenente alla Curia stessa. Le modelle si sono spogliate nella cripta, hanno sfilato nella navata dove un tempo spirava l’eterea spiritualità di una pala del Beato Angelico, e hanno posato – seminude – per i fotografi su un altare dove per secoli si è celebrato il sacrificio eucaristico. E non è stato un incidente. Il sito www.santostefanoal-ponte.com definisce la chiesa “una location elegante e singolare, ideale per organizzare eventi esclusivi nel cuore di Firenze”, “mentre la cripta sottostante, ideale per gli eventi più ristretti, ha una capacità massima di novanta persone”.
Ma torniamo agli eventi degli ultimi mesi. Un mese dopo la privatizzazione di Ponte Vecchio, è trapelata la notizia dell'allestimento di un vero e proprio tariffario per la "concessione in uso dei beni culturali per eventi" da parte del Polo Museale. Ma quanto costa comprare ciò che non ha prezzo? Quanto costa privatizzare pro tempore un bene comune? Quanto cosa piegare al lusso ciò che dovrebbe produrre eguaglianza? Il catalogo è questo: per fare un cocktail nella Grotta del Buontalenti a Boboli, ce la si può cavare con 5000 euro. Per una cena nel Cortile dell'Ammannati di Palazzo Pitti il canone è invece di 15.000 euro, nella Galleria Palatina e agli Uffizi 10.000. E d'ora poi chi vorrà far sfilare i propri abiti nei corridoi dove passeggiavano i granduchi pagherà 150.000 euro. Per uno spettacolo teatrale nel Cortile dell'Ammannati di Pitti si pagano costa 5000 euro, ma se lo spettacolo è "culturale" (e la differenza è ardua da cogliere) fanno 3.000. Se poi ci si vuole organizzare una non meglio definita "manifestazione" (spero non politica) vanno sborsati 20.000 euro.
E non si tratta di una casistica per così dire platonica. La sera di domenica 8 settembre il Polo Museale Fiorentino ha organizzato un party per seicento ospiti del fondo di investimento Azimut, proprio nel Cortile dell'Ammannati. Un vero 8 settembre del governo costituzionale del patrimonio! Quella sera i cinquanta pulmini dei convitati hanno sostato per ore sulle rampe di Palazzo Pitti: cosa vietatissima, per esempio, ai cittadini residenti nell'Oltrarno, i quali già qualche mese fa si erano visti allontanare dalla stessa piazza dai buttafuori in nero che la recintarono per proteggere la succitata festa nuziale del miliardario indiano.
Ora, sottoporre alle leggi del mercato un bene pubblico come il patrimonio artistico appare un grave errore. Il perché lo spiega, per esempio, il filosofo della politica Michael J. Sandel:
Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita? Per due ragioni, una riguarda la disuguaglianza, l'altra la corruzione [...]. Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Questo perché i mercati non solo distribuiscono beni: essi esprimono e promuovono determinati atteggiamenti nei confronti dei beni oggetto di scambio [...]. Spesso gli economisti assumono che i mercati siano inerti, che non abbiamo ripercussioni sui beni che scambiano. Ma questo non è vero. I mercati lasciano il segno. Talvolta, i valori di mercato scalzano valori di cui varrebbe la pena tener conto. [...] Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione – la salute, la sfera familiare, la natura, l'istruzione, l'arte, i doveri civici e così via (Sandel [2012] 2013).
Né questa violazione del valore immateriale del patrimonio può essere giustificata dalla necessità di mantenerlo materialmente. E non solo per l'evidente contraddizione insita in questo meccanismo di delegittimazione, ma perché sono ben altri i corretti canali di finanziamento. Dopo che, nel 2008, Sandro Bondi dimezzò il bilancio dei Beni culturali (allora attestato sui tre miliardi e mezzo l'anno, già insufficienti), i suoi successori Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi hanno perso un altro mezzo miliardo: oggi siamo circa a un miliardo e mezzo (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Nota integrativa per il triennio 2012-2014 per il Ministero per i Beni e le attività culturali). Le armi, invece, ci costano almeno ventisei miliardi (SIPRI, Trends in World Military Expenditure 2012) cui forse se ne aggiungeranno altri dodici per i bombardieri F-35 (così il ministro della Difesa Mario Mauro ha affermato alla Camera il 7 agosto 2013). Ventisei, o trentotto, contro uno e mezzo: sono queste le cifre del suicidio culturale italiano. In Europa le cose stanno diversamente: la nostra spesa per la cultura equivale al 1,1 % del Pil, mentre la media europea è esattamente il doppio, 2,2 % (fonte Eurostat). Se raddoppiassimo torneremmo alla cifra pre-Bondi: e sarebbe già un successo. Se poi riuscissimo ad arrivare a 5 miliardi l'anno, avremmo un patrimonio mantenuto con lindore svizzero, e senza chiedere aiuto a nessuno speculatore privato. Certo, saremmo sopra la media europea: ma il nostro patrimonio non lo è?
Chi caldeggia la prostituzione del patrimonio lo fa sempre e solo con un medesimo argomento: non ci sono i soldi, e dunque è necessario privatizzare. Ma la mancanza di soldi non è un'alluvione o un terremoto, non è una catastrofe naturale: è, appunto, una scelta politica. Una scelta regressiva, e irresponsabile: se nemmeno una delle prime potenze economiche al mondo ritiene di poter investire sul proprio patrimonio, cosa mai dovrebbero fare paesi come la Grecia, l'Egitto, l'Afghanistan o l'Iraq?
Nella storia dell'umanità la cultura è sempre stata il dividendo di un investimento economico: mai è accaduto il contrario. Anche oggi i musei americani, sempre citati a sproposito, non generano reddito, ma anzi sono mantenuti con denaro pubblico o consumano le rendite delle loro ricche donazioni. Però generano civilizzazione, umanità, coesione sociale. Una nazione più colta potrà diventare anche più ricca, ma la più importante risposta alla sciocca affermazione per cui "la cultura non si mangia" è: "non di solo pane vive l'uomo". La nostra giusta ossessione di rimanere una nazione ricca non può cancellare una domanda di fondo: essere ricchi è ancora un mezzo, o è diventato l'unico fine? Siamo abituati a calcolare con grande attenzione il ritorno di ogni nostro investimento: ebbene, oggi dobbiamo decidere se rimanere umani e civili è un ritorno sufficiente. In un'Italia distrutta dalla guerra mondiale e dilaniata dalla guerra civile i nostri padri seppero essere così saggi e lungimiranti da includere tra i princìpi fondamentali dell'Italia futura il paesaggio e l'arte: e non per farci qualche soldo, consumandoli (come avrebbe poi voluto la fatale dottrina del petrolio d'Italia, fiorita nei frivoli, e insieme plumbei, anni Ottanta), ma per farne, attraverso la ricerca e la conoscenza, uno strumento di costruzione di una comunità nuova.
"La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". Con l’articolo 9 della Carta costituzionale, l'arte del passato cambia infatti funzione: dopo secoli in cui ha legittimato il dominio dei sovrani degli antichi Stati, essa ora rappresenta visibilmente la sovranità dei cittadini, consacrata dall'articolo 1. Ma perché la Repubblica nascente si impegnava a profondere denaro ed energia nel tutelare cose che oggi a molti sembrano ornamenti superflui, oppure vacche da mungere? Perché una tradizione secolare suggeriva che proprio l'arte e il paesaggio fossero leve potenti per "rimuovere gli ostacoli ... all'eguaglianza" e permettere il "pieno sviluppo della persona umana" (come vuole l'articolo 3). Mai come oggi possiamo misurare la forza di questa idea: in un mondo, in un Occidente e in un'Italia sempre più dilaniati da una diseguaglianza profonda, la proprietà collettiva del paesaggio e del patrimonio artistico è un potente fattore di equità morale e sociale. Se abbiamo ancora una speranza di rimanere cittadini, e di non essere ridotti a sudditi, anzi a schiavi, del mercato, questa speranza è legata alla forza vitale della nostra dignità. E la dignità della nazione italiana è rappresentata, alimentata, sorretta dal paesaggio e dal patrimonio storico e artistico come da poche altre cose.
È per questo che la partita che si gioca intorno al governo del patrimonio artistico di Firenze ha una portata che va ben oltre la dimensione locale o la tutela materiale dei monumenti: in gioco ci sono i diritti della persona e la democrazia e l'eguaglianza sostanziali. Ed è per questo che non è ormai lecito serbare il silenzio circa la drammatica deriva anticostituzionale che trasforma Firenze da città in mercato.
Premessa da Le pietre e il popolo*
Il mercato, si sa, tende ad universalizzare se stesso. Non coesiste facilmente con istituzioni
che operano secondo principi antitetici ai suoi: scuole e università, giornali e riviste,
organizzazioni senza fini di lucro e famiglie. Presto o tardi, tende ad assorbirle.
Esercita una pressione quasi irresistibile su qualsiasi attività perché essa si giustifichi
nei soli termini che riconosce: diventando un’operazione lucrativa.
Christopher Lasch, La ribellione delle élite
Il primo cittadino di una delle più importanti ‘città d’arte’ del nostro Paese ha recentemente trivellato gli affreschi cinquecenteschi che ornano la più grande sala civica del suo palazzo comunale per tentare di trovare un ‘capolavoro’ perduto che possa alimentare il suo mito personale, e diventare il feticcio di un super-marketing turistico. Matteo Renzi lo ha fatto contro ogni evidenza scientifica, calpestando il metodo e la comunità della conoscenza, usando il patrimonio storico e artistico come una clava, aggredendo e denigrando i dissenzienti. Ma, in tutto questo, la violenza mediatica è l’unica vera novità: da tempo, infatti, l’insopportabile retorica delle cosiddette ‘città d’arte’ italiane nasconde lo stadio avanzato di una metamorfosi fatale.
Per secoli, anzi per millenni, la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. È per questo che la Repubblica – lo afferma l’articolo 9 della Costituzione – nel momento della sua nascita ha preso sotto la propria tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione: perché quel patrimonio è stato il luogo e lo strumento della formazione della comunità nazionale, visceralmente ancorata alle cento città d’Italia.
Lo storico e sociologo americano Cristopher Lasch ha scritto che fra le ragioni del deterioramento della democrazia negli Stati Uniti va annoverata la “decadenza delle istituzioni civiche, dai partiti politici ai parchi pubblici, ai luoghi d’incontro informali […] su di loro, oggi, incombe la minaccia dell’estinzione, man mano che i ritrovi di quartiere cedono il passo agli shopping malls, alle catene di fast food, ai take away. […] Gli shopping malls sono abitati da corporazioni di transeunti, non da una comunità” (Lasch [1995] 2001, 101 e 106).
Commentando un famoso libro del sociologo urbano Ray Oldenburg (Oldenburg 1985) dedicato alla funzione politica e democratica di questi luoghi ‘terzi’ (diversi, cioè, sia dall’abitazione domestica che dal posto di lavoro, Lasch nota ancora che le città americane hanno perso “le attrattive cittadine, la convivialità, la conversazione, la politica … in pratica quasi tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Quando il mercato esercita il diritto di prelazione su qualsiasi spazio pubblico e la socializzazione deve ‘ritirarsi’ nei club privati, la gente corre il rischio di perdere la capacità di divertirsi e di autogovernarsi” (Lasch [1995] 2001,109).
Queste parole descrivono con straordinaria aderenza ciò che è accaduto anche alle città italiane, negli ultimi tre decenni. Con la differenza che i luoghi terzi, da noi, erano stati plasmati e consacrati da una delle civiltà artistiche più alte della storia umana. Il valore civico dei monumenti è stato negato a favore della loro rendita economica, e cioè del loro potenziale turistico. Lo sviluppo della dottrina del patrimonio storico e artistico come ‘petrolio d’Italia’ (nata negli anni ‘80 di Craxi) ha accompagnato la progressiva trasformazione delle nostre città storiche in luna park gestiti da una pletora di avidi usufruttuari. Le attività civiche sono state espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono incessantemente alienati a privati, che li chiudono o li trasformano in attrazioni turistiche. Come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici: da traduzione visiva del bene comune, a rappresentazione della prepotenza e del disprezzo delle regole.
Tutto questo non mette a rischio solo le città di pietra, condannate a un rapido ed irreversibile declino. A essere distrutta è in primo luogo la cittadinanza come condizione morale, intellettuale, politica. Il primo sintomo di questa letale involuzione è la mutazione della funzione culturale del patrimonio, e della scienza che ci permette di conoscerlo: la storia dell’arte. L’industria delle mostre (meglio: dei Grandi Eventi) e le campagne mediatiche su singoli capolavori (spesso inesistenti) attaccano, esplicitamente e frontalmente, la conoscenza, la filologia, la storia e inneggiano invece alle ‘emozioni’: non si rivolgono ad un cittadino adulto, ma a uno spettatore, o meglio ad un cliente-bambino. Questa retorica stracciona prevede che alle obiezioni scientifiche degli storici dell’arte che si oppongono ai singoli abusi del patrimonio non si risponda con argomenti razionali e verificabili, ma con l’esaltazione demagogica di ineffabili e incontrollabili ‘emozioni’ dei comuni cittadini, contrapposte ad un presunto elitismo della conoscenza. Ed è una retorica tre volte menzognera: mente una volta, perché tenta di ammantare di un anelito democratico il marketing; mente una seconda volta, perché illude di far godere dell’arte senza nessuno sforzo intellettuale; mente una terza volta, perché toglie ai cittadini l’unico mezzo per costruire davvero la democrazia: e cioè proprio la conoscenza, che si dipinge falsamente come inconciliabile con l’emozione.
Eppure, questa retorica ha espugnato i luoghi più simbolici dell’educazione repubblicana. Quando si è trattato di celebrare il centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana, ci si è rammentati del nesso fortissimo tra arte figurativa e identità nazionale, e del ruolo centrale giocato dalle città: ma solo per negarlo e annegarlo in una terrificante mostra-evento ottenuta incrociando un manuale di storia della pittura e una raccolta di vedute (il tutto condito da poche sculture e da qualche oggetto sparso). A visitare la Bella Italia, arte e identità delle città capitali montavano una depressione e una rabbia che si allentavano solo quando, finalmente, si apriva la porta di Palazzo Pitti sul Giardino di Boboli, e il sole di un incredibile ottobre fiorentino ricordava che una bella Italia esiste ancora, e per fortuna non è quella.
Il burocratico comunicato stampa diceva che “nel centocinquantesimo dell’unità d’Italia, Firenze … non poteva mancare di rendere omaggio a tale felice ricorrenza”. Ma l’Italia non è antologizzabile. Il nostro non è “il paese più bello del mondo” (secondo un celebre giudizio di Stendhal citato dagli organizzatori) perché possiede molte singole opere d’arte eccellenti, ma perché consiste in un tessuto continuo, unico al mondo, di chiese, palazzi, cortili, giardini, paesaggi. Sarebbe stato più saggio, intelligente e morale spendere quei soldi (più di un milione e mezzo di euro) per offrire un viaggio in queste famose città ai più meritevoli tra gli italiani che nel 2011 compivano diciotto anni, o magari per finanziare un film che ripercorresse criticamente la stupefacente serie dell’Italia vista dal cielo realizzata da Folco Quilici quarant’anni fa.
Quella effimera, e peraltro trascurabile, mostra fiorentina ha avuto il triste ruolo di riconoscere, anche ufficialmente e istituzionalmente, la perdita di ogni funzione civica del patrimonio artistico urbano, ridotto alla servitù turistica e all’alienazione intellettuale organizzata. Proprio a Firenze, tuttavia, qualcuno torna a caricare di significati politici la città di pietre, i suoi monumenti e la sua storia. La storia dell’arte sembra riacquistare uno spazio nella propaganda del sindaco, giovane e ambizioso: ma si tratta di un ruolo strumentale ad un cinico disegno di marketing personale, privo di ogni nesso con la polis e con la sua vera storia. Il patrimonio fiorentino ridotto da generazioni a cadavere da cannibalizzare finisce ora tra le fauci di una politica che si rivolge ad individui raccordati dalla televisione e dai social networks, in un rapporto senza mediazioni tra il leader e il pubblico: senza partiti, senza sapere critico, senza cittadinanza.
“Finché questo è riconosciuto come un pericolo, comunque, si può sempre sperare che la gente sappia invertire il trend suburbano della nostra civiltà, e riportare le arti civiche al loro posto, cioè nel centro delle cose” (Lasch [1995] 2001, 109). La conclusione di Lasch rimarrà vera almeno finché le nostre città continueranno a ospitare cittadini capaci di interpretare, e quindi combattere, la mutazione genetica delle loro città. È a quei cittadini che si rivolge questo libro. Che non è – non saprebbe essere – un’inchiesta sistematica o esaustiva sulle singole città di cui parla, né un trattato di sociologia culturale, o tantomeno di politologia. È invece il tentativo di raccogliere, connettere e comunicare alcuni segnali di allarme che denunciano l’abuso delle cosiddette città d’arte: clamorosi nel caso di Firenze e del suo intraprendente sindaco, ma chiarissimi in molte altre città del Paese.
Riferimenti bibliografici
Lasch [1995] 2001
Cristopher Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia [1995], Milano 2001
Montanari 2013
Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane, Roma 2013
Oldenburg 1985
Ray Oldenburg, The Great Good Place: Cafes, Community Centers, Beauty Parlors, General Stores, Bars, Hangouts and How They Get You Through the Day, New York 1985
Sandel [2012], 2013
Michael J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato [2012], Milano 2013
*Pubblichiamo le prime pagine di Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane, Roma, minimumfax, 2013, per gentile concessione dell'Editore.
English abstract
Has civic value of monuments in Italy been denied in favour of their mere turistic potential? Does the "valorization of the cultural heritage" push us to convert our historical towns into amusement parks, managed by greedy tenant? Le pietre e il popolo (Stones and people) is an endurance manual which remembers us that the civic values of the historical and artistic heritage is the founding principle of democracy and Italy can rise again only when we think of it as a "Republic established over labour [...which...] promotes the development of culture and knowledge", as Italian Consititution prescribes. Engramma publishes the Preface to the book Le pietre il popolo, minimumfax, 2013, with an introduction by the author, Tomaso Montanari. To follow, the first complete English translation of a chapter from the book.
keywords | Art; War; Venice; Stones; Historical heritage; Artistic heritage; Roberto Longhi; Florence.
Leonardo Black
Nowadays, when you hear of Leonardo da Vinci in the news it makes you want to reach for your gun. After the farce of the hunt for the bones of Mona Lisa (meaning the person believed to have acted as Leonardo’s model), and the reams of signatures prepared to have the Mona Lisa on loan (meaning the painting) at the end of August (what a coincidence!) of 2011 an old Florentine refrain resurfaces: the search for the Battle of Anghiari. This time the effort is led both by the Florentine (though transplanted to California) engineer Maurizio Seracini who has, for thirty-five years made it his purpose in life, and Mayor Matteo Renzi who sees not a work of art behind the wall of the Salone dei Cinquecento, but a giant media trampoline. For the record, I won't tell the history of the various nineteenth-century attempts to summon the ghost of the Battle par excellence. It wouldn't require a historian of art criticism, but rather, in turn, a collective behavior psychologist, a psychiatrist specialized in maniacal obsessions, and a political marketing and communications expert.
In 1503, Pier Soderini, Gonfaloniere [chief magistrate] of the Florentine Republic, asked Leonardo to paint, in the great council chamber of Palazzo Vecchio, on the wall overlooking the seats of government one of the battles in which the Florentines saved their cherished freedom: that of June 29, 1440 in which the Milanese were defeated at Anghiari. Leonardo, who had to compete with the young Michelangelo, wanted to experiment with a painting technique that he had reinvented from classical sources [and] that ought to have guaranteed a longer life for his mural. Instead it was a disaster. Even during the execution of the painting, as Giorgio Vasari wrote, "it began to drip in such a way as in a short time, Leonardo abandoned it" (Giorgio Vasari, Vite, IV, 33). Only a marvelous tangle of knights fighting valiantly for a banner remained visible for a while. Half a century later, Duke Cosimo I commissioned that same Giorgio Vasari to transform the large hall and the result was the Salone dei Cinquecento.
The idea of rediscovering that apex of Leonardo's art might seem romantically appealing, but if considered with a little common sense, it appears to be anti-historical, unrealistic, dangerous, and demagogical. There is no chance that Vasari, who worshipped Leonardo, would have hidden such a masterpiece. He had all the technical means for cutting into the wall and saving the painting: he did it with the fifteenth-century masters (like Domenico Veneziano in Santa Croce, and Botticelli and Ghirlandaio in the Florentine church of Ognissanti) whom he certainly loved quite a bit less than Leonardo whom he extolled as the father of the modern manner. It is true that Vasari superimposed his own altarpiece on top of Masaccio's Trinity in Santa Maria Novella but it was a painting, not a fresco. Only a Da Vinci Code mentality and our own infantile illusions of being at the heart of the story can lead us to believe that he buried a treasure under an immovable wall: for what future, what purpose? And for someone like Antonio Paolucci to have declared to the "Repubblica" newspaper that Vasari could have indeed done so "to do a favor for his friend Michelangelo" shows that we are looking at the Renaissance through the lens of 1960s Hollywood. To Orazio La Rocca who asked if "in addition to the colors, will you be able to reconstruct the figures too?" Paolucci ineffably replied, "I really think so. And when this happens, it will truly be a great moment for the history of art” ("Repubblica", August 31 2011). Much more than just Vasari's modification indicates that by 1560 there would not have been anything left of that great and unfortunate Leonardo [painting].
In second place (and particularly tragicomical) is the fact that in the literature there is no agreement about which wall the seats of government would have been found on and thus which would have hosted the Battle. The most current research indicates that it would have been the western one and not the eastern, on which in autumn 2011 the team led by engineer Seracini began to work (see especially H.T. Newton, J.R. Spencer, On the Location of Leonardo’s Battle of Anghiari, in "The Art Bulletin", 64, 1982, 45-52; Nicolai Rubinstein, The Palazzo Vecchio, 1298-1532. Government, Architecture, and Imagery in the Civic Palace of the Florentine Republic, Oxford University Press, Oxford 1995, 41, 110, 115, note 314 and appendix VIII; Francesco Caglioti, Donatello e i Medici. Storia del David e della Giuditta, Olschki, Firenze 2000, 115). For his part, Seracini had participated on the preceding research campaign carried out on that wall.
And if the investigation had discovered some clue behind Vasari's frescoes, what would have happened at that point? It isn't hard to imagine the enormous media pressure and the marketing appetite that would have been triggered in the municipal government and in the Soprintendenza of Florence – in a city in which signatures are collected in the street for the loan of the Mona Lisa – what would have happened in the faced with the prospect (however fleeting) of recovering a monumental Leonardo? It would certainly risk destroying one of the finest and best preserved spaces of sixteenth-century Europe: the work of Vasari who in 2011 was celebrated with rivers of exhibitions and speeches and who, only a few months later, we were more than ready to throw overboard in the name of Leonardo.
It is also worth mentioning that the rooms of the Palazzo Vecchio are in shameful condition: the frescoes of the Quartiere degli Elementi are in a poor state, the paintings on the Terrazzo of Saturn are literally falling to pieces and electrical wires dangle from the frescoed ceilings of the stairways. The Salone dei Cinquecento is furnished and lit like a provincial parish hall and in the evening, the sculptures, even those of Michelangelo and Giambologna, appear like vague shadow puppets. But it is certainly less easy to appear on television tending to reality, for example through regular maintenance, than inducing collective dreams in which Leonardos cross through the walls and the facades of Michelangelo take shape as if by magic. Television is the true driving force of this story.
In September of 2011, Renzi and his cultural commissioner Giuliano Da Empoli flew to the United States (obviously in business class and on the public dime) to sell the "Leonardo Package" to National Geographic. With a paltry donation of two hundred fifty thousand euro to the municipal coffers, the Americans were quite happy to obtain exclusive world rights to this media machine of millions. In an incurably provincial city like Florence, even the directors of the local newspapers thought National Geographic conducted scientific research but it would have been enough to see their recent documentary on a Tuscan art historical subject (the embarrassing cold case of the finding of Caravaggio's body) to realize that it is just pre-packaged "cultural" entertainment.
Thanks to the American trip of the two brilliant Florentine hucksters, the hunt for the lost Leonardo had the singular distinction of being the first scientific undertaking led by a politician in tandem with a television producer, Terry Garcia, the vice president of National Geographic who, during critical moments of the story appeared on the stage next to a Renzi decked out in his tricolor mayorial sash, both solemn and grotesque. At the end of November, the mayor gave the order to open a hole in the frescoes of Giorgio Vasari. To do so, however, required the assent of the Soprintendente of Florence, Cristina Acidini. To understand if the plan is technically and ethically feasible, to whom does this individual turn? To the temporary superintendent of the Opificio delle Pietre Dure of Florence, which, together with the Istituto Centrale del Restauro of Rome, represents the pinnacle of art conservation in Italy. And who is the temporary superintendent? It is once again Cristina Acidini who, unsurprisingly, authorizes Cristina Acidini Soprintendente of Florence to authorize the mayor of Florence to drill through the Vasari.
However, unlike the ugly mess of the fake Michelangelo bought from Bondi on the advice of the same Acidini—a true triumph of conformism and betrayal of the learned—there is at least one art historian in the terrible mess surrounding the phantom Leonardo who is disposed to not throw away her professional ethics. One official of the Ministry of Culture has done as Melville's character Bartleby the scrivener did by saying, "I would prefer not to." And so the joyful war machine that was about to thrust probes into the living body of the painting by Giorgio Vasari was jammed. The official was not just anyone, but rather the head of the wall paintings department at the Opificio, Cecilia Frosinini. Her formal letter of protest addressed to Acidini on November 23, 2011 is so moral and illuminating that it is worthwhile repeating it in full.
With regard to the request put forward by the city of Florence for the Opificio delle Pietre Dure to oversee testing on the east wall of the Salone dei Cinquecento, frescoed by Giorgio Vasari, with the objective of carrying out endoscopic examination in the search for the hypothetically surviving Battle of Anghiari of Leonardo da Vinci, pursuant to law DPR 10 gennaio 1957, n.3 art. 17, I ask that the proceedings of the Institute reflect upon the following considerations.
1. Neither I, nor in general anyone at the Institute including all of its technical, scientific, and art historical divisions, has ever received any copy of scientific research carried out on the lost mural;
2. These studies have furthermore been conducted by third-party institutions or individuals, without any involvement of the Institute, both during the execution and interpretation phases.
3. On November 16, 2011, summary material was presented exclusively as a Power Point slide presentation by the engineer Seracini at the meeting hosted by the Florence municipal government and convened by the mayor. The presentation, obviously, is not equivalent to sharing data and precludes any serious evaluation of it. In the course of that meeting, in addition, there was no willingness on the part of the engineer Seracini to accept anything minimally contradictory or supplementary to the information provided.
4. The investigation aimed at assessing the condition of Vasari's fresco (despite the willingness shown by the research staff of the OPD, specifically Alberto Felici, a technical specialist, who went to Palazzo Vecchio to do so on a weekend, Sunday, November 20, 2011) underscores the need for further information and decision-making that can not be accomplished in the time frame identified by the city and sponsor as useful to the project.
I therefore believe that:
a. the Institute was not given an opportunity to express a technical opinion of the proposed research, and therefore its scientific role has been abrogated;
b. the Institute was not put in a position to exert its role of assessing the technical feasibility of the proposed operations;
c. the Institute has not been allowed to decide with complete autonomy supported by serious and informed scientific evidence whether or not to participate in an activity that foresees endoscopic investigation by means of access from the front side, removing pictorial surface and making holes in Vasari's intonaco. The role of the Institute as an instrument of preservation has been negated, forcing it to cause damage to the paint surface by means of paint removal not motivated by preservation concerns.
In light of these observations I express my firm dissent for the operations and the activities that may be imposed on me according to the choices of the local government and sponsor and that I believe to be detrimental to my professional and academic role and contrary to the functions in the sphere of research and conservation which the State has asked me to carry out.
It is hard to imagine a functionary of the Soprintendenza (minuscule, for heaven's sake) as a citizen-hero. In the collective imagination, ravaged by twenty years of Berlusconi's "everyman’s a master of his own house," the Soprintendenza is full of grey paper shufflers who block us from doing what we believe in our cities and in our homes. In a case like this, though, we realize that if our heritage endures despite everything, we owe it to this sort of "Low Church" of Soprintendenza officials who faithfully work by constitutional dictates, trying to rein in local authorities and wayward superiors in the name of preservation and for the cultural dignity of the artworks and of the territory entrusted to
them. And when it happens that someone like Cecilia Frosinini does her duty thoroughly, the local authorities don't appreciate it. On November 30 2011, in a press conference held in the Salone dei Cinquecento, Renzi attacked her, not concealing the true nature of the "research" but rather charging in waving it like a banner: "To fail to understand this important marketing action for Florence, you have to be absolutely... …and we understand each other" (see the web page). At the same time, Terry Garcia conceded, "If it really is there, the investigation will be done in a way to keep both the Vasari and the Leonardo intact”.
It was chilling to see an American television producer in the Palazzo Vecchio weighing in on the destiny of the Vasari that exists and the Leonardo that does not in front of the world's media. It was evidently too much and on December 3 the organization Italia Nostra presented a harsh complaint to the District Attorney of Republic of Florence. The organization asked the judiciary to ascertain whether the '"provocative operation that would necessarily pass through, even if only partially, a wound made to the physical integrity of Vasari's fresco” does not expose itself to the “sanctions of article 635 (first and second sub-paragraph 3) of the criminal code which punishes damage to things of historic or artistic significance." The complaint, signed by the national president of Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino, also contained a very penetrating analysis of the true mechanism of the affair:
It is obvious in fact that this is not the case of a required conservation obligation as defined by article 29 of the cultural heritage code in which the only permissible reason for intervening directly on an object is through a series of operations aimed at the recovery of the heritage and the integrity of its substance. The aim, on the contrary, conceived of and pursued outside of the institutional settings delegated to cultural guardianship and not limited by it but rather endured by it is what can be well described as political: the construction of a large spectacle with extensive media resonance thought to be capable of enhancing the prestige of the city and, of course, that of he who administers it. One result of "marketing" (to use Renzi's word) that sacrifices the first mandate of guardianship, that of preservation, and that involves an unacceptable injury to the physical integrity of the cultural artifact (the fresco by Vasari).
A few months later the District Attorney of Florence closed the case for the curious reason that the Opificio restorers who had made holes in the fresco had then guaranteed to the police that the Vasari had not been damaged at all (so much for the impartiality of technical expertise).
But the complaint caused another much more important reaction than that of the judiciary: at this point the sleepy international art history community woke up and lined up next to Cecilia Frosinini and Italia Nostra. At the beginning of December, a petition collected more than four hundred signatures in just a few days from the leading art historians of the world including those from museums like the Louvre, the National Gallery of London, the Metropolitan of New York, and the most important scholars of Leonardo and Vasari. The petition, addressed to Soprintendente Acidini and Mayor Renzi went like this:
We want to express our great concern for the fate of the fresco by Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio in Florence which has had several holes drilled in it in the attempt to track down what might remain of Leonardo's Battle of Anghiari. The dissociation of Dr. Frosinini, head of the wall paintings department at the Opificio delle Pietre Dure, has shown that inside the Opificio there is no consensus on the nature and risks of this operation. We think it highly unlikely that Vasari sealed something still legible under a wall and we are concerned that the most convincing art historical evidence has been undervalued to say the least in that it shows that the Battle was in all likelihood on the wall opposite that which is being drilled. Therefore, we share the complaint presented by Italia Nostra to the public prosecutors office of Florence and ask Soprintendente Cristina Acidini and Mayor Matteo Renzi to stop the work and not to begin again without having established an impartial observation group formed by recognized specialists of Renaissance art history.
The international reaction was immense: I remember how I was trying to see the overcrowded Leonardo exhibition (!) at the National Gallery of London when I was asked to go immediately to the BBC studios to explain in an interview the reasons for the appeal (that I had essentially laid out). The global media apparatus assembled by the mayor of Florence turned out to be a double-edged sword. And if the observation group was not formed, the drilling campaign on the Vasari would really be over. The results of the analysis carried out on the materials taken from the holes made up until that point appeared at the beginning of March 2012 but were not presented in a scientific journal but rather in yet another highly trumpeted press conference held in the Salone dei Cinquecento, at which Renzi had himself accompanied by the banner of the city, ridiculously dragged in.
On that occasion, the team led by engineer Maurizio Seracini announced finding a gap behind the Vasari. It was anything but a surprise: the physicist from the University of Florence Massimiliano Pieraccini, inventor of the radar with which Seracini had, years before scanned that wall, declared that "the discontinuity exists, but across the entire east wall, and not as a localized structure that leads us to think of a niche made to protect something. Simply that Vasari constructed a wall on top of another preexisting wall." But the highlight of the presentation was that traces of pigments were found on that second wall. Palazzo Vecchio was in the black: but this had nothing to do with the funding that in those days the treasurer of the Margherita party, Luigi Lusi, was said to have put in the pocket of Matteo Renzi among others. No, it was "Leonardo Black," the same used in the Mona Lisa.
Now, even admitting that those samples of less than a third of a millimeter might possibly contain pigment (which, as we will see, no one will ever know), nothing connects it to Leonardo (and not to any other pictorial decoration present in the old hall). The idea that a specific chemical composition is the "proof" of the presence of the Battle of Anghiari has more to do with propaganda than with science. To make a similar statement (in any case, conceptually daring, because Leonardo did not use materials with a unique chemistry) it would take a long comparative analysis with an essentially non-existent database. In any case, one of the few places where such an investigation could have been carried out is a public institution located right in Florence: the Opificio delle Pietre Dure which contains very unusual scientific, technical, and historical expertise needed to come to terms with such complicated research. During the press conference, when a journalist asked the new Soprintendente of the Opificio, Marco Ciatti, what he thought of the results, he responded that he couldn't provide an answer because the Opificio had not been given the opportunity to repeat the analysis. The results came, in fact, from a private laboratory in Pontedera used by the Piaggio company (not really the pinnacle of scientific analysis for art history) and was not verified by any third-party institute except for a research team that Renzi himself had defined as a "marketing" group.
The evidence is solidified by testing and retesting, as Galileo said, but in this case there were no elements either to prove or to disprove, but merely to believe, as one believes in an article of faith. So let's then try to believe that when drilling willy-nilly in the Vasari exactly those substances jump out that appear at the top of the list that Google spits out when the words “Leonardo” and “pigments” are put into the search field. Even if such a miracle occurred, why didn't Maurizio Seracini and Matteo Renzi have the experiments repeated at the Opificio?
Based on this "airtight" evidence, Renzi asked Minister Ornaghi to make the Battle of Anghiari project “one of the largest and most crucial issues of cultural policy of this country”. In these sober and measured tones it was finally possible to envision a plan for the growth of the nation: a "Big Brother" for art history. But, watch out! Soon thereafter the short step from reality show to a harsher reality was announced. On the edge of the press conference, the mayor declared to Reuters the hope that technology would allow for the contemporaneous enjoyment of both the Leonardo and Vasari but that, if he had to choose, he would choose Leonardo. In the legendary laboratory of Pontedera, the first experiment in eugenics in the history of art was evidently performed.
Despite all this, the next day the Italian press was, as usual, enthusiastically lapping up what everyone or almost everyone referred to as "evidence". The most excited was Armando Torno who wrote for the Corriere della Sera: "whether the wall painting has disappeared, or isn't there, or if you only see fragments, it matters little. It is the work of Leonardo." The creator of the insert "Manifesto for Culture" of Il Sole 24 Ore (motto: culture pays) continued in these terms: “The Battle of Anghiari has found experts who warn caution, and rightly so. However, no one can stop research, testing, hypotheses, the international mystery that is being fueled, and the amateurs who find confirmation for their ideas. That which Leonardo only thought has already become reality. What he left unfinished becomes a laboratory—of imagination” (Armando Torno, “I misteri della Battaglia di Anghiari riaccendono la febbre per Leonardo,” Corriere della Sera, March 13 2012).
Renzi and Torno hit the mark: what really wins over the audience is the mystery, not the reality; the suggestive distraction, not the empirical proof; the fantasy escape, not the critique of reality. He who wins appeals to our irrational parts, in short, not someone who seeks to build and defend measurable arguments. It does not matter that we are not speaking of Cagliostro but of Leonardo whose entire worldview we can sum up like this: "of course in the trial of things, the sentence should be left up to experience" (cited in Scritti d’arte del Cinquecento, edited by Paola Barocchi, Ricciardi, Milano-Napoli 1971, II, 239). If the media had been up to the "experience", that is aware of the rules of science, the sensational "proof" of the existence of the Battle of Anghiari announced in Renzi's press conference would have melted away like snow in the sun many hours before coming out in the papers.
But by now the real goal of the largest stakeholder in the operation, that is National Geographic, had been reached: on March 20 a documentary was broadcast worldwide announcing as news, and indeed as a scientific truth, the finding of the lost Leonardo. Like a huge rosary, each minute deserves to have its own commentary, but for now, we can at least describe one scene in which Maurizio Seracini stops a driller in fear that he has gone too far and pierced the intact Battle of Anghiari that is imagined to be directly underneath, so glossy as to be ready for all the cover pages of the world. Self-satire? I'm afraid not. Obviously, neither in that broadcast nor (more seriously) in the subsequent public service RAI production, an abysmal episode of Voyager by Roberto Giacobbo, there was no mention of the opposition of the international community of art historians. But it is basically understandable: what does blockbuster entertainment have to do with scientific research? After a few million people around the world were sent off to sleep with the firm conviction that in a few months time they would be able to see the rediscovered masterpiece, the work stopped.
It was high summer, as usual, when Renzi made his next move. He did it with a letter in which he asked Soprintendente Acidini to allow further holes in the Vasari, as the data bandied about in March had been so positive. If Italy gets to have the "Worker President", Firenze can't escape the "Art Historian Mayor". I don't know of other cases (meaning in Western democracies) in which the head of a government (as an individual) signs an official letter in which he assumes charge of and guarantees a scientific project. But that is what happened in the letter of July 18 which definitively transformed his personal "Leonardo hunt" into a State research project (and Maurizio Seracini into a historian-scientist of the Court: Corriere Fiorentino, July 18, 2012). "We are in the presence of a series of established facts," writes the art historian mayor. The decisively reckless claim serves to cover a shocking admission: "the amount of material removed in the sampling areas identified by the Opificio has not been sufficient for additional laboratory analysis which is why new sampling needs to be done." This is in essence a declaration of scientific bankruptcy, the candid confession that the press conference of March and the documentary that National Geographic made to support the operation were founded on a non-repeatable experiment. Sure, because if sampling were repeated and if, by chance, the Opificio did not find the same substances at that point, the affair would revolve in an eternal stall between he who can prove that there is nothing there and he who continues to claim to have found something but then to have used it all up in the legendary laboratory of Pontedera (Oh, cynical, cheating fate!).
In conclusion, Renzi wrote that "Professor Maurizio Seracini" would publish this research in "scientific journals". The allusion is to "Medicea", a journal whose director isn't an art historian or a scientist, but a Florentine journalist and spokesman for Cristina Acidini, author of booklets stuffed with glaring art historical blunders. Cristina Acidini responded that they could not make new holes but they could reinsert the probes into the still open holes and remove additional material for new analysis. Faced with this balanced, though a bit hypocritical response from the Soprintendenza, Renzi raised his aim and on Ferragosto wrote an unceremonious letter to the barely present Minister Ornaghi that began, "Dear Minister, the city of Florence will never accept..." and continued with, "we have not asked for the moon,..." yours is a "Pontius Pilate position." And further, "if you and your colleagues prefer to spend time not making a decision, it won't be my administration playing at postponement" because "we are serious." And finally the last strike, "if the minister is afraid to authorize that which is constantly authorized in all the restorations of the world, we will wait for a change of government" (for the full text of the letter, see the web page). Ornaghi, in truth, did not actually do anything, (in which, to be sure, he succeeded perfectly). But the scrap dealer [as Renzi is sometimes called] does not distinguish between scientific and technical decisions of officials of the Ministry of Culture and the responsibilities of the Minister himself: for him it is all within the reach of politics. That is, within his reach. Therefore he puts pen to paper and insults Ornaghi in the name of and on behalf of the City (with which he identifies like the Sun King with the State).
The letter is a key text for he who wishes to understand Matteo Renzi, the most incredibly healthy carrier of culture that moves on the Italian political scene in the sense that he speaks about it all the time without being the least bit affected by it. "The analysis of engineer Seracini, supported by the city of Florence...produced undeniable results...under the Vasari there is a painting." False. As we have seen, Seracini removed samples from underneath the Vasari that he had analyzed in a laboratory of his choice and then he presented (in a press conference, not a scientific setting, mind you) that it came from paint, a paint that only Leonardo would have used. No independent laboratory was able to do counter testing and therefore we need to trust the word of a team sponsored by a docu-fiction channel. And now that the Soprintendenza of Florence concedes to the reinsertion of probes in the existing holes in the Vasari and therefore offers a chance to finally shed a scientific light on this farce, what does Renzi do? He turns the tables and insults Ornaghi saying that either the Vasari is detached or nothing. A broken down way of coming out of the corner and throwing media sand in the eyes of the international observers who at this point begin to get lost in the meandering of an always more surreal Italianate affair.
"To be correct, I have the obligation to tell you," writes Renzi to Ornaghi, "that the city will publish Seracini's research". And this is truly marvelous: a city that publishes scientific research. Not even in Soviet Russia was the political authorities’ control of research and knowledge so direct. Renzi doesn't promote, support, or hope for: no, he publishes as if he were the CNR or an entire university department. The municipality of Paris disburses scholarships that allow young Italians that study, for instance, Greek to freely conduct their research whereas the government – no, the city of Florence if you look closely – directly publishes its own research.
By mid-September the scaffolding structures with which the mayor had hunted the ghost of Leonardo in Palazzo Vecchio were being sadly dismantled under the most rigorous press silence. Even the most neutral observers thought that Renzi had an ace up his sleeve, as he seemed so superior. And everyone asked how, at the end, it would turn out. Now we know. When there was a risk of it becoming evident that the proof broadcasted across the world wouldn't hold up to the slightest impartial examination, Renzi shockingly turned the tables: "I won't find Leonardo because they won’t let me work!" The rhetoric is exactly that of a dyed-in-the-wool Berlusconian.
Renzi's city doesn't shape citizens with its history and its public arts but produces customers with the caricature of scientific research applied to a morally privatized art. There is method to this madness.