Il Museo della Biblioteca di San Marco nella tempesta: Venezia 1797 - Parigi 1815
Marcella De Paoli
English abstract
Alcuni anni fa, leggendo un saggio di Elisa Debenedetti dedicato ad Antonio Canova e alla sua poetica, chi scrive si è imbattuta in un'incisione dei Monumenti scelti Borghesiani raffigurante un sarcofago con Strage dei Niobidi, oggi al Museo Archeologico Nazionale. Da lì l’idea di affrontare un giorno il ruolo forse avuto dallo scultore nell’arrivo a Venezia nel 1816 del medesimo rilievo, in sostituzione di un altro con Suovetaurilia, già Grimani, appartenente al nucleo storico dello Statuario della Serenissima. L’ipotesi che qui si propone non è che un'indicazione di lavoro, da sviluppare; per introdurla era, tuttavia, necessario rievocare, come in un dramma in due atti, le vicende del trasferimento di tante opere d'arte da Venezia a Parigi, durante la Campagna d’Italia, nonché quelle della loro restituzione dopo Waterloo. Fra esse anche alcuni pezzi scelti dal Museo della Biblioteca di San Marco.
Una “libertà di falso conio”
“Venezia rimase sola colla sua libertà di falso conio”
Nievo [1867] 1981, 532
Il 16 maggio 1797 veniva firmato a Milano il trattato che doveva sancire la fraterna amicizia tra la Repubblica francese e la nuova Repubblica democratica di Venezia, nata in seguito alle gravi decisioni prese nell'ultima seduta del Maggior Consiglio il precedente 12 maggio. Le clausole dell'accordo prevedevano l'occupazione militare della città e il versamento a titolo d'indennità di un cospicuo contributo in denaro e in materiali e oggetti, dai magazzini dell'Arsenale, da fornirsi alla Marina francese (Romanin 1861, 204-207; Alberti 1926, 326; Zorzi [1972] 1984, 35). La trionfale campagna d'Italia veniva, infatti, condotta da Napoleone tra difficoltà finanziarie, oltreché politico-militari, e la pace veneziana costituiva per il generale una nuova fonte di finanziamento. Il grande Corso barattava moneta con l'elargita libertà; nel caso di Venezia si sarebbe trattato, tuttavia, di una libertà non solo condizionata ma anche illusoria e di breve respiro, visti i preliminari di Leoben intercorsi con l'Austria soltanto un mese prima (Del Negro 1998, 249-256; Scarabello 1998, 263-264, 344-349).
Com'è noto, nell'articolo quinto della parte segreta del trattato di Milano era contemplata anche la cessione da parte di Venezia di venti dipinti e cinquecento manoscritti (Romanin 1861, 206, 389-447). La quadriga dalla Basilica di San Marco e il leone marciano dalla colonna in piazzetta vanno considerati a parte; non rientravano, infatti, nelle clausole del trattato di Milano, ma furono razziati dai Francesi negli ultimi mesi di occupazione militare, dopo Campoformio e prima dell'arrivo degli Austriaci (Romanin 1861, 304-306). Dunque, non “contribuzioni di guerra” ma veri e propri “furti d'arte”. Anche il ruolo rivestito dai celebri bronzi, una volta giunti a Parigi, non fu quello di accrescere le collezioni del Louvre, come per i quadri (né tanto meno della Bibliothèque Nationale, come per i libri e i manoscritti), ma di adornare alcuni monumenti cittadini: l'estremità orientale delle Tuileries prima e l'arco trionfale della Place du Carrousel poi i Cavalli, una fontana agli Invalides il Leone (Wescher [1976] 1988, 80; Pavan [1974] 2004a, 326), perpetuando in ciò il loro destino di trofei di guerra (Wescher [1976] 1988, 13). La Municipalità provvisoria deliberò di affidare a Pietro Edwards, conoscitore e restauratore che già per il governo aristocratico era stato ispettore alle pubbliche pitture della città, il compito di affiancare i commissari francesi, Monge, Berthollet, Berthélemy e Tinet, nelle operazioni di scelta e rimozione delle opere, loro imballaggio nel refettorio di San Giorgio Maggiore e trasferimento all'Arsenale da dove sarebbero partite alla volta di Parigi. Tra i commissari francesi, i pittori Jean-Simon Berthélemy, vincitore del Prix de Rome nel 1767, e Jacques-Pierre Tinet si occuparono a Venezia e in Veneto delle opere d'arte figurativa, mentre al matematico Gaspard Monge, inventore della geometria descrittiva, e al chimico Claude-Louis Berthollet, entrambi accanto a Napoleone nella successiva spedizione in Egitto, fu chiesta una riconversione dall'iniziale compito di selezionare materiale scientifico a quello di requisire manoscritti e libri (Monge 1993, 25, 155, 166, 168-169).
A far luce sull'intera vicenda è la relazione redatta dallo stesso Edwards per il Comitato di salute pubblica della Municipalità, da cui aveva ricevuto l'incarico di affiancamento (Alberti 1926; Zorzi [1972] 1984, 35-38; Gabbrielli 2009, 97-98). Egli intervenne con considerazioni di ordine conservativo, riuscendo per esempio a scongiurare il trasferimento del delicato Giudizio finale di Tintoretto, sostituito con il Convito in casa di Levi di Paolo Veronese, e cercando di limitare i danni arrecati ai monumenti dagli stacchi dei quadri, eseguiti dai commissari in alcuni casi con “considerevole brutalità” (Zorzi [1972] 1984, 37). Assecondò altresì la loro decisione di sostituire due dei venti dipinti dovuti da Venezia con altrettanti esemplari di statuaria, prelevati dal vestibolo della Biblioteca di San Marco: un bassorilievo con souvetaurilia e un busto di Adriano in bronzo (Michon 1909, 190). È probabile che Edwards ne sia stato sollevato, limitandosi a segnalare ai commissari il fatto che la lastra marmorea fosse spezzata nel mezzo e discutendo con loro dell'antichità del ritratto che, contrariamente a quanto sostenuto dagli esperti francesi, a ragione egli riteneva rinascimentale (Alberti 1926, 332-333).
Una misura analoga fu presa per completare il numero dei cinquecento manoscritti previsti dal trattato; non trovandosi esemplari interessanti in numero sufficiente tra quelli della biblioteca di San Marco, consegnati “con vivissimo dolore” dal custode Jacopo Morelli (Moschini 1820, XVIII), furono aggiunti manoscritti, incunaboli, aldine e libri di musica della stessa Marciana e, “frugando dappertutto” (Monge 1993, 166), di biblioteche private ed ecclesiastiche di Venezia, Padova e Treviso (Romanin 1861, 391-447; Zorzi [1972] 1984, 38; Monge 1993, 37). Mancando ciononostante ancora trenta unità, i commissari francesi si risolsero a prelevare al loro posto un antico cammeo in calcedonio rappresentante Giove Egioco, conservato nel Museo della Biblioteca (Alberti 1926, 334; Monge 1993, 257-258). Quest'ultimo, come si evince da una lettera del 14 ottobre scritta al Ministro degli Esteri francese da Gaspard Monge, coordinatore della commissione, fu prelevato “a mo' di conguaglio” e, diversamente dai volumi e dagli oggetti d'arte affidati alla Marina militare, per ragioni di sicurezza fu custodito personalmente da Monge, il quale una volta a Parigi l'avrebbe rimesso nelle mani del ministro perché fosse infine recapitato al Cabinet des Antiques della Bibliothèque Nationale (Monge 1993, 258).
Da quanto appena esposto emerge chiaramente che le opere prelevate dal Museo della Biblioteca di San Marco, oggi Museo Archeologico Nazionale, furono in realtà dei 'nobili rimpiazzi' per dipinti intrasportabili o volumi introvabili, obiettivo primario dei Francesi. Di conseguenza il prelievo forzoso dal museo di antichità consistette in tre soli esemplari, come confermato anche dai documenti manoscritti oggi al Museo Archeologico (Lorenzi 1838, 4v, 5r, 70v, 71r).
Bello sarebbe pensare che la fama dello Statuario della Serenissima, come veniva anche chiamato il Museo della Biblioteca di San Marco, aperto al pubblico dal 1596 in seguito alla donazione della raccolta di scultura classica dei Grimani di Santa Maria Formosa, cui fecero seguito i lasciti di altri insigni veneziani, collezionisti di antichità, avesse indotto i commissari francesi a una qualche forma di rispetto: lo Statuario era un contesto esistente da almeno duecento anni, un museo pubblico antico e visitato fin dagli inizi del XVII secolo da una fitta schiera di viaggiatori stranieri. Molto più verosimile è, però, che i commissari, avendo già potuto scegliere a Roma sculture celeberrime d'arte antica, note a tutti gli intenditori del Settecento, non fossero affatto interessati alle opere dello Statuario, e che il loro compito fosse di requisire nella città lagunare e in Veneto pitture che illustrassero la scuola veneziana; le loro scelte essendo guidate da una precisa politica museografica perseguita dal nascente Louvre. Così alla costruzione del museo universale ed enciclopedico progettato dalla rivoluzione per la Francia, patria d'elezione di tanti capolavori che ora potevano trovarvi “il loro ultimo domicilio”, anche le terre venete davano un contributo in dipinti. A questi, indicati dagli amministratori del Louvre sulla base della letteratura artistica italiana, per esempio le citazioni di Giorgio Vasari, si aggiunsero i libri rari scelti tra i titoli di una lista redatta dai responsabili della Bibliothèque Nationale (Monge 1993, 168-169; Pommier 2004, 53-58).
Le opere requisite a Venezia, assieme a quelle provenienti dagli Stati della Chiesa, sarebbero arrivate a Parigi dall'Italia in corteo trionfale il 27 luglio 1798. A giustificazione parziale di questo 'prelievo' si invocavano il ruolo educativo del museo e la sua utilità d'istituzione pubblica. Non può essere negato, tuttavia, quanto ben presenti fossero “le antiche ragioni che alle opere d'arte legavano da sempre il prestigio e la legittimazione del potere” e che Napoleone associasse “alla forma museo ambizioni di grandezza civile” (Mottola Molfino 1991, 24; Gabbrielli 2009, 1-4). È già stato fatto notare che in Italia sussistevano ampie possibilità di esproprio, cui venne data una parvenza di legalità includendo le opere d'arte fra le clausole dei trattati di pace, come il trattato di Tolentino stipulato col papa, o facendole rientrare fra i contributi di guerra, come nel caso del trattato di Milano con la Repubblica veneta (Wescher [1976] 1988, 57).
Da quello che poi sarebbe diventato il Museo Archeologico di Venezia partirono, dunque, il raffinato cammeo con testa di Giove Egioco appena entrato nelle collezioni pubbliche con il legato testamentario di Girolamo Zulian del 1795, il busto di Adriano arrivato nel 1784 dal monastero padovano di San Giovanni di Verdara, per la soppressione dell'ordine dei Canonici lateranensi, e il rilievo con suovetaurilia, già Grimani, appartenente invece al nucleo più antico dello Statuario pubblico. La gemma, acquisita dall'ambasciatore Zulian durante il bailaggio a Costantinopoli, era stata scoperta a Efeso e viene oggi variamente datata tra la tarda età ellenistica e l'epoca adrianea (Sperti 1993; De Paoli 1997, 292, n. 346; De Paoli 1999, 92-93; Nardelli 1999, 95-96). Sottoposta al giudizio di Antonio Canova, era stata tradotta in incisione da Raphael Morghen e fatta oggetto di una dissertazione di Ennio Quirino Visconti, pubblicata nel 1793 e distribuita in più esemplari a Venezia e a Roma, che le diede una discreta notorietà (Visconti 1793; De Paoli 1998, 25-26; Materassi 2006, 151). Il busto, invece, era un pregevole esempio di arte rinascimentale all'antica, in tempi moderni attribuito a Ludovico Lombardo (Ravagnan 1997, 233, n. 107; Dossi 2004; Avery 2007, 81-89). Si trattava per entrambi di acquisizioni relativamente recenti nella lunga vita del museo e non è chiaro dove fossero esattamente custoditi all'epoca del loro trasferimento a Parigi.
Il terzo esemplare prelevato dai commissari francesi, il Suovetaurilia Grimani, era, infine, un rilievo della prima età imperiale romana raffigurante una scena solenne di sacrificio (Michon 1909, 109-203; Tortorella 1992; Bodon 1997, 150). Già nel giardino di Palazzo Venezia a Roma, come testimoniano i disegni di numerosi artisti rinascimentali, vi si trovava ancora alla metà del Cinquecento, murato quale scenografico fondale in una parete della scala che porta alla loggia coperta, molto probabilmente per iniziativa di Domenico Grimani, cardinale di San Marco dal 1503 al 1523 (De Angelis d'Ossat 2011, 34-36). L'opera era stata trasferita a Venezia tra la metà del Cinquecento e gli anni Ottanta dello stesso secolo, per trovare posto al piano nobile di Palazzo Grimani nell'anticamera della cosiddetta tribuna, dove era stata murata sopra la porta di ingresso (De Paoli 2008, 130). Collocazione analoga il rilievo ebbe allo Statuario pubblico: a coronamento della porta che dallo scalone d'onore immetteva nel vestibolo della Libreria, sede del museo, proprio sotto l'iscrizione che ricordava le donazioni di Domenico e Giovanni Grimani e di Federico Contarini, da cui il museo medesimo aveva avuto origine. In tale posizione era stato visto e descritto da visitatori illustri, molti francesi, tra i quali nel XVIII secolo figuravano letterati come Claude Caylus, che ne aveva elogiato la bellezza e buona conservazione, e più tardi Jérome Richard, ma anche uomini d'armi come il capitano d'artiglieria Jean de la Roque, che lo aveva segnalato come unico nel suo genere (Buffa 1997, nn. 10, 18, 20). È stato ipotizzato che tali annotazioni di viaggio abbiano potuto contribuire a far cadere la scelta dei commissari francesi su questo rilievo, considerato uno dei migliori pezzi antichi di Venezia (Favaretto 1997, 55-56).
“Con la scorta dei soldati”
Alla caduta dell'Impero napoleonico e con la successiva Restaurazione, il recupero delle opere trafugate a Venezia, come in altri paesi d'Europa, fu influenzato sia da considerazioni di ordine politico sia da valutazioni di natura tecnica. Tali vicende sono state ricostruite da molti studiosi, tra gli altri da Paul Wescher e più di recente da Veronica Gabbrielli, attraverso lo spoglio dei documenti ufficiali d'archivio.
Nel maggio 1814 iniziarono le trattative diplomatiche per la restituzione dei 'trofei di guerra', in verità piuttosto tiepidamente. Più che al recupero delle opere d'arte le potenze alleate sembravano, infatti, interessate al mantenimento dei nuovi equilibri venutisi a creare dopo l'abdicazione di Napoleone e l'insediamento sul trono di Luigi XVIII, motivo per cui la Francia non doveva essere troppo umiliata (Wescher [1976] 1988, 141-143; Gabbrielli 2009, 6-7). Nonostante il dibattito circa l'importanza della conservazione del patrimonio artistico e il valore del contesto che, proprio in concomitanza con le requisizioni francesi, si era sviluppato nei circoli intellettuali a partire dalle Lettres à Miranda di Quatremére de Quincy (Leniaud 2000, 484-485; Gabbrielli 2009, 4-5), in un clima piuttosto conciliante, con la sola eccezione del governo prussiano, Russia, Inghilterra e Austria parvero accantonare il problema, non intendendo scuotere la già debole popolarità della monarchia borbonica. Dal canto loro il re di Francia e il direttore del Louvre, Dominique Vivant Denon, resistettero alla restituzione delle opere d'arte trafugate; il primo sostenendo alla Camera dei deputati che esse ormai appartenevano alla Francia, il secondo organizzando nel luglio del 1814 una mostra di grande successo proprio con quei capolavori.
La situazione cambiò radicalmente dopo il ritorno di Napoleone dall'Elba, i Cento Giorni e la sconfitta finale di Waterloo. La posizione del Borbone era ora senz'altro più debole, mentre tra le potenze alleate prevalse il desiderio di colpire lo spirito francese (Wescher [1976] 1988, 144-154; Gabbrielli 2009, 8-21). Alle resistenze di Talleyrand, il quale invocava la validità dei trattati che avevano fatto confluire a Parigi tanti capolavori, l'Inghilterra oppose con successo, grazie all'abilità dei suoi diplomatici, le ragioni dei legittimi proprietari. L'Austria, interessata soprattutto al recupero delle opere d'arte provenienti dal Lombardo-Veneto, divenuto provincia dell'Impero asburgico, ma investita dai suoi alleati di una sorta di tutela sull'intera penisola, si dovette occupare della restituzione dei beni storico-artistici degli Stati italiani.
Nell'agosto del 1815 arrivò a Parigi il direttore della Galleria del Belvedere di Vienna, Joseph Rosa, con l'incarico di negoziare il recupero dei beni del Lombardo-Veneto e dei ducati di Parma e Piacenza, Guastalla e Modena, della Toscana e dello Stato Pontificio. Il loro ritiro si concretizzò qualche mese più tardi e fu orientato a un “recupero selettivo” delle opere, lasciando in Francia quelle collocate nei musei dipartimentali, nelle chiese parigine, nella residenza reale e le opere difficilmente trasportabili per mole o per precario stato di conservazione (Gabbrielli 2009, 75). Motivi conservativi furono, per esempio, addotti per la sostituzione delle Nozze di Cana di Paolo Veronese, già nel refettorio di San Giorgio Maggiore a Venezia, con La Maddalena dai Farisei di Charles Le Brun (Gabbrielli 2009, 110).
Denon e il suo segretario generale Athanase Lavallée cercarono di opporre una resistenza passiva alle operazioni di recupero; atteggiamento questo che rafforzò la determinazione degli Austriaci, i quali non esitarono a usare la forza, ad esempio nel caso dei Cavalli e del Leone marciani. Le lettere di Antonio Canova, inviato per lo Stato Pontificio, scritte da Parigi all'amico Antonio D'Este, tra agosto e ottobre 1815, forniscono qualche indizio non solo sulla difficile missione affidata da Pio VII al suo ispettore generale alle Belle Arti, ma anche sul clima in cui si svolsero i lavori delle commissioni impegnate al Musée Royal nel recupero delle opere trafugate (sulla missione di Antonio Canova per il recupero dei beni degli Stati della Chiesa, non direttamente oggetto di questo intervento, si vedano, fra i molti e vari contributi, ancora Wescher [1976] 1988, 151-153; Leniaud 2000; Pommier 2004, 71-72; Pavan [1975] 2004, 82-83; Pavan [1974] 2004b, 120-125). Si doveva agire in velocità, senza che venissero forniti strumenti adatti alle operazioni di distacco e rimozione, per di più a museo aperto, straordinariamente, al pubblico in tutte le ore e con la scorta dei soldati austriaci e prussiani (D'Este 1864, 208).
Le casse contenenti quadri, manoscritti, libri e oggetti di antichità destinati a Venezia partirono, dunque, alla volta di Milano alla fine di ottobre del 1815. Nel marzo dell'anno successivo Morelli, direttore della Biblioteca marciana, e Leopoldo Cicognara, presidente dell'Accademia di Belle Arti, furono incaricati di prendere in consegna le casse arrivate da Parigi, di verificarne il contenuto e di ricollocarlo nei luoghi d'origine o, qualora ciò non fosse stato più possibile, nelle sedi opportune.
La sostituzione del Suovetaurilia
Le casse dei libri arrivarono il 23 marzo e furono aperte da Morelli e i suoi assistenti alla presenza dell'incaricato austriaco, barone Ottenfels; quelle delle opere d'arte il 22 marzo e furono esaminate da Cicognara, accompagnato da Edwards, alla presenza del direttore dei musei di Vienna, Rosa (Gabbrielli 2009, 105-115). Quanto agli esemplari del Museo della Biblioteca, il cammeo Zulian aveva già fatto rientro il 6 gennaio 1816, consegnato a Morelli dal principe di Metternich, il quale si era preso “la nobil cura di recarlo seco da Parigi” (Cicogna 1865; Zorzi [1985] 2000, 323). Il busto di Adriano, già Verdara, fu regolarmente riscontrato tra i materiali arrivati il 22 marzo dello stesso anno. Mentre il Suovetaurilia Grimani mancava all'appello, giacché era stato sostituito da una fronte di sarcofago con Strage dei Niobidi, un tempo a Villa Borghese, acquistato col resto della raccolta da Napoleone nel 1807 dal cognato Camillo (Sperti 1988, 134-141; Bollato 2004; Zanker, Ewald [2004] 2008, 76-80, 357-361; Coliva 2011, 156, 204).
Il bassorilievo con suovetaurilia, che al Louvre era stato murato nella parete a sinistra della grande nicchia di fondo nella sala dell'Apollo, non fu restituito perché il suo distacco lo avrebbe danneggiato irrimediabilmente (Gabbrielli 2009, 112) o, come altrove proposto, per non modificare la disposizione architettonica della sala stessa, in cui il rilievo veneziano era associato a un esemplare rinascimentale e al sarcofago di Achille (Michon 1909, 190). Ragioni di ordine materiale, o di sensibilità museografica, più che di natura archeologica sembrano perciò essere state individuate dalla critica come cause dell'accordo intercorso, con la consulenza di Canova, tra la direzione del museo e l'incaricato austriaco il 14 ottobre 1815 (Michon 1909, 190, n.6). Il Musée de sculpture antique et moderne di Charles de Clarac, successivo alla riorganizzazione cui il Louvre andò incontro dopo le restituzioni, in una veduta della medesima sala, detta ormai “della Diana”, mostra i rilievi ancora al loro posto (Clarac 1826-27, tav. 96).
Non trovando tuttavia questa spiegazione pienamente soddisfacente, la presente nota è stata stesa, oltreché allo scopo di raccogliere le notizie sparse sul conto dei tre esemplari del Museo Archeologico interessati dalle vicende sopra ricordate, anche per proporre una nuova ipotesi di lavoro, tesa a esplorare la possibilità che tra le cause dello scambio ci siano state anche motivazioni scientifiche e considerazioni estetiche. Se, infatti, in questo caso i commissari austriaci sembrarono adottare una linea intransigente sul numero ma conciliante nel merito delle opere da recuperare, purché gli scambi avvenissero con esemplari di pari valore come il rilievo con la Strage dei Niobidi sembrò loro essere, non è stato ancora sufficientemente chiarito il ruolo avuto durante i lavori delle commissioni alleate da Visconti, a Parigi dal 1799 e responsabile del museo d'antichità (Haskell, Penny [1981] 1984, 136-139; Mardrus 2000, 507-509), e il peso che in questa specifica trattativa poté avere il parere dello stesso Canova.
Mentre la presenza di quest'ultimo al tentato prelievo del marmo veneziano è dichiarata nei documenti ufficiali, il nome di Visconti non pare comparire in quelli fino a ora esaminati dagli studiosi, ma a chi scrive sembra piuttosto improbabile che il conservatore della Galerie des Antiques non sia stato coinvolto nelle operazioni che avrebbero portato alla spoliazione delle sale del museo da lui organizzate. Visconti, che a Roma si era occupato tra le altre cose delle sculture della raccolta Borghese, aveva dedicato alcune pagine delle sue celebri opere a entrambi i monumenti. Se nel Catalogo del museo parigino il Suovetaurilia è indicato come un bel bassorilievo in marmo pentelico collocato nella sala dedicata all'Apollo del Belvedere (Visconti 1811, 116-117), nei Monumenti del Museo francese, in cui viene ipotizzata l'appartenenza del rilievo a un non meglio identificato monumento pubblico dell'antica Roma, egli conclude la diffusa trattazione del soggetto iconografico e le connesse note storico antiquarie con un giudizio entusiasta: “l'exécution est d'une grande beauté; les détails sont fins et soignés, et cependant les masses triomphent; l'ordre et la simplicité de la composition font distinguer facilement toutes les parties, et contribuent autant que le style au bel effet que produit l'ensemble” (Visconti [1803] 1831, 244-246).
Sul rilievo dei Niobidi, ricordato nelle Sculture del Palazzo della Villa Borghese detta Pinciana come un “pregevolissimo bassorilievo” (Visconti 1796, 27-28) e nei Monumenti scelti Borghesiani come un “bassorilievo integerrimo” in cui si poteva osservare la “nobiltà di tanti gruppi egregiamente composti” (Visconti [1821] 1837, 225-228), non vengono invece spese più parole di quelle necessarie a descriverlo. È probabile che tali citazioni, unitamente a quella fattane da Johann Joachim Winckelmann nei suoi Monumenti inediti (Winckelmann 1767, tav. 89), abbiano contribuito a far accettare ai commissari austriaci lo scambio loro proposto. Non è forse un caso, però, che al museo parigino si sia preferito cedere questo anziché quel rilievo, adducendo motivazioni tecniche ostative.
E Canova? Come ricordato in apertura, in un interessante saggio di qualche tempo fa Elisa Debenedetti ha proposto una lettura della poetica canoviana a partire dallo studio di alcune stampe, riproducenti opere antiche e di Canova, realizzate da un piccolo gruppo di pittori che gravitavano nell'orbita dello scultore e a cui furono in parte affidate le illustrazioni delle antichità borghesiane (Debenedetti 1997). Canova era entusiasta della loro capacità di riflettere nelle stampe le problematiche della sua stessa estetica. Tra questi era il pittore toscano Bernardino Nocchi, suo amico. La prima stampa presa in esame dalla studiosa è proprio quella raffigurante I Niobidi, disegnata da Nocchi; essa rappresenterebbe l'idea dell'antico “come funzione del pensiero, come semplice modello mentale” (Debenedetti 1997, 64). Visto lo stretto legame tra Nocchi e Canova, la scelta del bassorilievo, benché “forma d'arte non canonica rispetto ai precetti del bello ideale”, non sembra essere stata casuale, bensì voluta e magari maturata in quel cenacolo di Villa Borghese di cui, intorno ai primi anni Novanta del Settecento, facevano parte sia Canova sia Visconti sia Winckelmann (sui contatti di Canova con l'arte barocca di Bernini, maturati a Villa Borghese, che suscitarono l'interesse dell'artista veneto anche per la scultura ellenistica, si veda, tra gli altri, il saggio di Coliva 2007).
Se a tale indizio si aggiunge l'indignazione manifestata da Canova a Napoleone, durante un colloquio a Fontainebleau nell'ottobre del 1810, per la vendita delle antichità Borghese, “la più bella raccolta privata del mondo” (Canova [1994] 2007, 409; Coliva 2007, 49-52; Leone 2007, 131-133), si può dedurre che all'artista non fosse indifferente il rilievo dei Niobidi, a lui forse caro in quanto 'monumento borghesiano'. Tale ipotesi va ovviamente verificata ed è quanto ci si propone di fare in futuro con un supplemento di ricerca a Parigi e Vienna, per documenti riguardanti l'allestimento del Louvre tra il 1797 e il 1815 nonché gli accordi diplomatici franco-austriaci per il recupero delle opere d'arte trafugate, e a Bassano del Grappa e Roma, per approfondire l'eventuale coinvolgimento dei Niobidi Borghese nella formazione della poetica canoviana.
Le immagini del Museo Archeologico sono riprodotte su autorizzazione della Soprintendenza Archeologica. I diritti di riproduzione e pubblicazione sono dei rispettivi titolari.
English abstract
The story of the “war contributions” payed in works of art by Venetians to revolutionary France, during the Italian Campaign, can be considered a drama in two acts. The first one was staged in Venice the day after the 12th of May 1797, the second one in Paris in 1815, after Waterloo. In both cases government committees, entrusted with the task of choosing the works of art which had to be transferred, and museum curators, trying to hinder their work, sometimes inventing pretexts, were involved. The journey of three pieces of the Museum of St. Mark's Library to Paris and back (or not back) must be set within this scenery. After gathering together for the first time the information regarding these works of art, the aim of this essay is to suggest a new hypothesis for one of them, the so-called Suovetaurilia Grimani, at that time replaced with a relief with the Massacre of the Niobidai, once Borghese. Two outstanding museum directors as leading actors of the drama: Antonio Canova and Ennio Quirino Visconti.
keywords | Art; War; Venice; Library museum of San Marco; Antonio Canova; Strage dei Niobidi; Grimani; Suovetaurilia.
Bibliografia
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