Aby Warburg biologo delle immagini
Intervista a Maurizio Ghelardi, curatore dell'edizione italiana delle Opere di Warburg
a cura di Silvia De Laude
English abstract
L'idea di un'intervista a Maurizio Ghelardi in occasione del secondo volume delle Opere di Warburg era stata di Enrico Castelnuovo, lo studioso e amico indimenticabile scomparso nel giugno di quest'anno. Era l'estate del 2008. Il secondo volume delle Opere di Warburg era appena uscito, anche se la data del colophon è quella dell'anno precedente, e Castelnuovo ci teneva a darne segnalazione nel numero di settembre dell'“Indice”. Credo avesse pensato a un'intervista perché conosceva molto bene i tempi 'saturnini' di Maurizio e miei (Saturno, il grande malefico che mette i bastoni fra le ruote, e rende lente e laboriose le opere di chi si trovi sotto il suo influsso...).
Maurizio Ghelardi da anni si occupava di Warburg. Era reduce da un lavoro immane, e come chi è appena uscito da un tunnel ma non se ne rende ancora del tutto conto era capace di associazioni e ragionamenti talmente sottili da lasciare a volte a terra i suoi ascoltatori, ignari degli sviluppi della riflessione warburghiana testimoniati dagli importanti inediti pubblicati per la prima volta proprio in quel librone Aragno dall'aspetto di un'arma impropria. Io, d'altra parte, a scrivere di quelle pagine con tante sorprese ci avrei messo un tempo incalcolabile.
Avevamo studiato e lavorato fianco a fianco per anni alla Scuola Normale di Pisa – Enrico Castelnuovo, Maurizio Ghelardi e io. Castelnuovo sapeva che per avere il pezzo in tempo doveva trovare il modo di rendere didattico il discorso di Maurizio, vincendo insieme il mio perfezionismo e le mie titubanze. La soluzione dell'intervista toglieva un peso a tutti e due ed era una trovata delle sue tipiche – conosceva uomini, caratteri e psicologie non meno di quadri e monumenti, e per questo lo divertiva tanto Dickens, in cui riconosceva conferme alle sue intuizioni e quasi chiavi di lettura del mondo. (Si riferiva a lui Italo Calvino quando in un'intervista rilasciata al settimanale “L'Espresso”, nel 1981, parlava di uno “storico dell'arte” che avendo una concezione molto alta dei classici aveva fatto del Circolo Pickwick una delle sue bussole – un'altra stava diventando negli ultimi anni L'isola dei pinguini di Anatole France: “Conosco un ottimo storico dell’arte, uomo di vastissime letture, che fra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l’universo, la vera filosofia hanno preso la forma del Circolo Pickwick in un’identificazione assoluta. Giungiamo per questa via a un’idea di classico molto alta ed esigente”).
Sono passati quasi sei anni, ma credo che l'intervista dell'“Indice” sia ancora utile per affrontare quelle quasi mille pagine senza perdere (stiamo parlando di Warburg, non per niente) l'“orientamento”.
Silvia De Laude È giusto che il lettore sappia perché abbiamo scelto di presentare questo secondo volume delle Opere di Warburg, appena uscito da Aragno, anche con una intervista a te, che lo hai curato. Il volume comprende saggi, seminari, conferenze a appunti dal 1917 al 1929. Gli inediti sono così tanti, e di tale importanza, da disegnare sviluppi sorprendenti nella riflessione di Warburg. In una lettera al fratello Max, scritta poche settimane prima di morire, Warburg parlava di «nuove idee», una nuova fase del suo pensiero, una nuova «finestra panoramica sul cosmo». Nessuno meglio di te, che ci convivi da anni, può farci da Virgilio nell’esplorazione di queste «nuove idee».
Maurizio Ghelardi Finora si era creduto che Warburg dopo il ricovero a Kreuzlingen non fosse stato più in grado di pensare e di lavorare. Se si leggono i testi pubblicati in questo volume si ha invece l’impressione opposta. È soprattutto grazie allo stretto rapporto stabilito con Ernst Cassirer che Warburg si pone il problema di quale sviluppo dare alle sue ricerche che fino allora avevano ruotato attorno alla persistenza dell’Antico nella cultura rinascimentale. Non solo. Gli inizi degli anni venti sono segnati anche da un rinnovato interesse di Warburg per gli studi di antropologia e di storia delle credenze (penso soprattutto ai contributi di Franz Boll, ma anche a Levy-Bruhl e a Durkheim; un discorso a parte andrebbe fatto sui rapporti tra Warburg e Franz Cumont).
Questa duplice sollecitazione dischiude a Warburg nuovi orizzonti rispetto a quella che aveva da sempre ritenuto la questione di fondo delle sue ricerche: come dare cioè spessore linguistico e grammaticale ad una cultura visiva, cioè ad un aspetto dell’espressione umana che finora era stato considerato solo dal punto di vista estetico o storico-artistico. Adesso il tema fondamentale non è più solo la migrazione (Wanderung), cioè la contaminazione delle varie forme attraverso cui si è conservata ed è stata rielaborata o trasfigurata l’eredità dell’Antico, bensì quello di orientamento (Orientierung), cioè come l’uomo abbia costruito lungo i secoli un linguaggio simbolico per orientarsi rispetto al cosmo.
Di qui si capisce il rinnovato interesse per l’astrologia. Insomma, l’eredità figurativa (e anche letteraria) dell’Antico non è più intesa ‘archeologicamente’, ma come elemento costitutivo, come un linguaggio basilare per comprendere in modo più diretto aspetti dell’espressione umana. Ciò spiega l’uso del tutto particolare che Warburg fa di termini che trae dal lessico della tecnica, costruendo talvolta parole che in tedesco sembrano alludere ad una sorta di sperimentalismo linguistico. In generale, Warburg definisce il suo metodo come ‘psico-storico’, ma potremmo anche in un certo senso definirlo anche antropologico. Direi che è proprio il crescente corto circuito provocato dalla difficoltà a dare una forma discorsiva al suo pensiero, cioè la questione dell’espressione, ciò che in questi anni rinnova e rinvigorisce le sue ricerche.
Queste ultime costituiscono per un verso una terapia a cui Warburg era stato indirizzato dopo il suo ricovero a Kreuzlingen nella clinica di Binswanger, per l’altro un modo per trasferire l’eredità visiva dell’Antico in un sistema prettamente linguistico e sintattico. L’esercizio della memoria e la ricostruzione della esperienza vissuta costituiscono una terapia attraverso cui Warburg cerca di riguadagnare una percezione oggettiva della realtà. Vi è un motto molto significativo che il nostro autore conia per riassumere questo suo tentativo di porre una distanza tra sé e gli oggetti: 'Tu vivi e non mi fai male'.
Se poi guardiamo ai manoscritti di questo periodo e a quelli immediatamente precedenti, riscontriamo la difficoltà che Warburg ha di tener ferma la scrittura all’interno di una pagina. Anzi, si ha l’impressione che usi per questo una tecnica che sarà poi tipica del nouveau roman: la ripetizione continua con l’aggiunta ogni volta di piccolissime varianti. Detto altrimenti: la crisi che aveva condotto Warburg a Kreuzlingen è simile a quella che tutti sperimentiamo quando aprendo i files conservati in un computer troviamo che si è rotto il sistema di scrittura che ordina le frasi e la loro consequenzialità logica e sintattica.
Da questa situazione scaturisce la terapeutica conferenza sul Rituale del serpente. Se leggiamo i relativi appunti autografi si ha però l’impressione che Warburg in questo periodo non fosse in grado di dare forma discorsiva e compiuta alle sue riflessioni, e che probabilmente qualcuno (Saxl?) lo avesse fatto per lui. Certo è che, paradossalmente, le annotazioni autografe stese a Kreuzlingen sembrano avere una pregnanza linguistica e concettuale che solo marginalmente si ritrova nel testo che conosciamo, un testo che è sì ben ordinato logicamente dal punto di vista espositivo, ma che è anche più secco e in certa misura povero. Non a caso solo tra queste annotazioni (che ho pubblicato alcuni anni fa) compare Totem e Tabù di Freud.
Insomma, con buona pace di Gombrich, la frammentarietà attraverso cui Warburg si esprime in questi anni, la tensione che cerca di stabilire tra parola e immagine, il tentativo di affidare alla sequenza delle immagini il contenuto delle sue ricerche, sembrano costituire per lui la forma espressiva più adeguata attraverso cui va a cercare il buon Dio nel dettaglio. Tutto ciò appare consustanziale ad una concezione della cultura che non è intesa in modo autofago, ma come cultura animi. Warburg è stato sempre convinto che esistesse al fondo della esperienza umana una forma espressiva prelinguistica che era possibile codificare attraverso il linguaggio delle immagini. Per questo parla di ‘biologia dell’immagine’.
S. D.L. Molti degli inediti sono conferenze. Sembra che Warburg a partire dagli anni 'Venti decida di affidare la trasmissione del suo pensiero soprattutto a questo ‘genere’ orale, piuttosto che a quello ‘canonico’ del saggio. In fondo lo stesso atlante Mnemosyne, con le sue immagini appuntate sulle tavole da spilli, per poter essere spostate, era pensato anche per rispondere a esigenze dimostrative, nell’ambito di presentazioni pubbliche e, appunto, conferenze. Cosa pensi che si aspettasse Warburg da questo modo di trasmettere i risultati della sua ricerca?
M. G. In realtà fin dagli inizi Warburg non intende in modo ‘canonico’ il saggio storico-artistico. La maggior parte dei testi conservata nell’archivio londinese è elaborata in una forma che è più adeguata al tipo di ricerca che Warburg persegue. Di solito le sue conferenze muovono da una breve premessa discorsiva cui segue un lungo elenco di immagini che si conclude con una breve osservazione finale. Molti studiosi hanno creduto e credono tuttora che questa forma espositiva non costituisca un testo in sé conchiuso. Se proviamo a ripetere l’esperimento di Warburg riproducendo sia ciò che è scritto, sia la successione delle immagini, ci troviamo di fronte ad una forma testuale che attraverso il linguaggio visivo cerca di dar conto di temi, quali ad esempio l’Antico in Petrarca, che fino a quel momento erano stati oggetto di ricerche o esclusivamente storico letterarie o storico-artistiche.
Warburg imposta la sua esposizione sincronica in modo prevalentemente visivo. Cerca insomma di mostrare come gesti, forme, temi quali il trionfo, la vittoria e così via siano stati resi visibili, intensificati dal linguaggio figurativo a seconda che in essi persista in modo più o meno trasfigurato, travestito, l’eredità dell’Antico. Dunque possiamo affermare che esistono molte piccole e circoscritte Mnemosyne prima del celebre atlante. Del resto, come testimoniano l’epistolario e il diario, le varie versioni di Mnemosyne dimostrano come per Warburg per lui le varianti fossero solo alcune delle soluzioni possibili e che dunque non vi fosse una direzione unica che potesse spiegare compiutamente la migrazione delle immagini.
L’idea era pur sempre quella di costruire un linguaggio visivo mobile e aperto che sapesse dar conto di quegli aspetti che egli riteneva non residuali della esperienza umana e che il linguaggio verbale non riusciva appunto ad esprimere discorsivamente o esprimeva apoditticamente. Non a caso la logica che presiede il linguaggio warburghiano è quella associativa. Per quanto riguarda la tua seconda osservazione, credo che l’Atlante Mnemosyne rappresentasse per Warburg un modo per disegnare una sorta di testo cartografico che, relativamente ad alcuni temi ritenuti fondamentali nella cultura indoeuropea, fosse capace di ricostruire attraverso pannelli di immagini il modo in cui l’uomo si era orientato rispetto alla realtà fisica (astronomia-astrologia) e sociale (il sacrificio, il legame sociale ecc…).
Per questa ragione credo che l’eredità warburghiana vada affrontata non tanto dal punto di vista storico-artistico, bensì attraverso il rapporto che egli ha cercato di stabilire tra forme del linguaggio ed espressione. Tutto questo si vede molto bene in un testo che costituisce una sorta di rete sottesa a Mnemosyne. Si tratta dei frammenti sulla espressione (circa 450 aforismi risalenti agli anni a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo) ove l’autore indaga come la percezione umana possa dar vita a forme diverse di pensiero.
In un passo dei frammenti Warburg definisce questa una ricerca una ‘fisica del pensiero’. I frammenti sono in corso di pubblicazione presso le Edizioni della Scuola Normale in una edizione che comprenderà sia la versione inedita tedesca che la traduzione italiana. Sono convinto che la loro lettura contribuirà a porre sotto un’altra luce le ricerche dello studioso amburghese, proprio perché qui gli stessi temi che Warburg affronterà successivamente sono trattati attraverso autori (Wundt, von Stein, Stumpf, Vignoli, Darwin) che sembrano a prima vista non aver nulla a che fare con le immagini e le opere artistiche.
S. D.L. Tra le conferenze, io ho trovato interessantissima quella tenuta alla Biblioteca Hertziana di Roma il 19 gennaio del 1929 (L’Antico romano nella bottega di Ghirlandaio). È la conferenza durante la quale fu presentato pubblicamente il progetto dell’atlante Mnemosyne, di fronte a un pubblico di ascoltatori straordinari, come,fra l’altro, Giorgio Pasquali, Ernst Robert Curtius, Kenneth Clark. Kenneth Clark avrebbe confessato più tardi che quella conferenza gli aveva cambiato la vita. Curtius non è mai stato così esplicito, ma la svolta della sua ricerca a partire dagli anni ’30, dimostra che anche per lui in un certo senso è stato così (non per niente nel ’47 avrebbe pubblicato Letteratura europea e Medioevo latino, il libro-monumento sulla sopravvivenza dei topoi classici nelle letterature moderne, che porta una dedica proprio a Warburg). È un caso come quelli di cui parlavi prima, restano della conferenza solo l’inizio e la fine, ma tu hai pubblicato la riproduzione delle tavole dell’atlante come Warburg le aveva allestite in quella circostanza alla Biblioteca Hertziana. Che idea ti sei fatto di quella conferenza così sconvolgente per tanti di quelli che hanno avuto l’opportunità di ascoltarla?
M. G. Devo confessare che finora non ho avuto ancora il tempo per analizzare accuratamente le tavole di questa conferenza romana e di confrontarle con quella che è ritenuta l’ultima versione di Mnemosyne. Posso dire che nel diario e nelle lettere di questi mesi vi sono molte osservazioni importanti e anche molti giudizi salaci su coloro che erano ammessi nella suite dell’Hotel ove Warburg era intento a comporre i pannelli con le foto. Credo di poter dire che forse Warburg ha trasmesso all’uditorio più l’idea di descrivere una tipologia del pathos antico mostrando come esso fosse stato reinterpretato a livello figurativo nel Rinascimento, piuttosto che quella che lui stesso definiva come inversione energetica, alludendo a ciò che si nascondeva nella riproposizione e reinterpretazione di tematiche antico-pagane.
Insomma, che a Roma non sia stata compresa a fondo la filigrana interpretativa e che sia prevalsa la convinzione che ci si trovasse di fronte ad una inedita ‘descrizione’ di immagini, a una singolare e provocatoria mostra fotografica. Quello che dici a proposito di Curtius è vero, ma credo che in lui prevalga più l’aspetto descrittivo dei topoi classici nelle letterature neo-latine che non il tema prettamente warburghiano della mimica intensificata come topos della cultura figurativa rinascimentale. Insomma che Curtius abbia recepito più l’aspetto descrittivo, tipologico di una riflessione che invece mirava a mostrare come il tema della persistenza dell’Antico si legasse strettamente più ad una questione diciamo così antropologica che di genere letterario.
S. D.L. Su Curtius sono perfettamente d’accordo con te. E spero che tu dia presto qualche esempio dei commenti formulati da Warburg nel diario e nelle lettere sui primi spettatori ammessi alla visione dell’atlante. Anche perché la conferenza dell’Hertziana mi sembra sempre di più un evento cruciale, di cui varrebbe la pena di ricostruire una “microstoria”… Intanto però volevo chiederti di un’altra conferenza inedita, quella su Rembrandt (L’Antico italiano nell’epoca di Rembrandt, del 1926), nella quale hai riconosciuto un’eco del tema freudiano di Totem e tabù, già evocato negli appunti di Kreuzlingen.
M. G. Ti ringrazio per aver ricordato questo aspetto. La lunga conferenza su Rembrandt che ha al centro il quadro con il giuramento dei Batavi in realtà non è altro che una reinterpretazione di Totem e Tabù. Il tema del giuramento come atto costitutivo del legame sociale rimanda a quello a cui ho accennato prima, cioè all’importanza che in questi anni ha avuto per Warburg ‘l’antropologia’ di Freud, ma anche l’assimilazione di autori come Levi-Bruhl e Durkheim, che avevano indagato i meccanismi che presiedono ai legami sociali. Parallelamente Warburg riprende in questi anni la questione della biologia dell’immagine, tema che aveva affrontato alcuni decenni prima nei frammenti sull’espressione e nei due seminari su Masaccio e Darwin e su Ghiberti e il Laocoonte di Lessing.
Ho cercato di chiarire questo problema nella introduzione al primo volume degli scritti di Warburg e anche in altre sedi. Certo è che questo problema del rapporto tra biologia, fisiologia e immagine dovrebbe far riflettere coloro che finora hanno interpretato Warburg in senso iconologico o storico-artistico. Aggiungo che alcuni anni fa Paolo Prodi ha scritto un libro molto bello sul giuramento. Prodi non poteva conoscere questo testo. Chissà se adesso anche lui ripenserebbe sotto una nuova luce le sue indagini.
S. D.L. Nella conferenza inedita sulle Feste italiane (1928) Warburg torna sul tema delle feste intese sulle orme di Burckhardt come «trapasso dalla vita all’arte», e sull’importanza del teatro nel mettere sotto gli occhi del pubblico le figure antiche nella loro «realtà corporea» (un punto, questo, letto in modo un po’ semplicistico da Gombrich nella sua Biografia intellettuale di Warburg). Nel testo che hai pubblicato si parla anche dell’‘energia’ che viene alle feste, paradossalmente, proprio dalla transitorietà, dalla loro «esistenza materiale momentanea». Sei d’accordo sul fatto che quello ‘teatrale’ sia un filo rosso della riflessione di Warburg? Come ti sembra che si sviluppi negli ultimi scritti?
M. G. Il tema delle feste rinascimentali rappresenta uno dei leit-motiv della riflessione di Warburg. Il fatto poi che egli insista a questo proposito su Burckhardt è un problema che avrebbe bisogno di una lunga trattazione. Posso solo dire che la festa rinascimentale è per Burckhardt e Warburg una sorta di tempo sospeso in cui viene celebrato e riproposto il tema dell’avvento, del ritorno degli dei e del ciclo naturale della vita. Si tratta di un argomento che percorre la cultura tedesca dell’Ottocento (si pensi ad Heine) e che sarà ripreso in un bellissimo saggio di Ernst Kantorowicz, ove si indaga anche a livello figurativo il tema dell’avvento nel trapasso tra paganesimo e primo Cristianesimo.
Riguardo a ciò che dici a proposito del tema teatrale, credo si possa parlare più opportunamente di una visione tragica, cioè di come l’elemento patologico della espressione umana nei suoi diversi aspetti (dolore, vendetta e così via) rappresenti il fattore costitutivo della vita, intesa quasi nietzschianamente. Nessuno finora ha indagato a fondo la lettura che Warburg aveva ripetutamente fatto della Nascita della Tragedia. Ritengo che una analisi autoptica, suffragata anche dalle note che Warburg ci ha lasciato a margine della sua copia del testo di Nietzsche, porterebbe a risultati inaspettati riguardo al modo in cui il nostro autore aveva metabolizzato alcuni aspetti fondamentali della riflessione del filosofo tedesco sulla civiltà greca delle origini, e soprattutto riguardo al perché Nietzsche avesse definito il suo scritto un contributo alla estetica.
S. D.L. Una presenza folgorante negli ultimi scritti di Warburg è quella di Manet. Si conosceva già il saggio del 1929 intitolato Déjeuner sur l’herbe, ma tu pubblichi col titolo Tra Manet e Mnemosyne: appunti anche un altro testo, inedito, molto importante mi sembra.
M. G. Credo di poter affermare che si tratta di uno dei più importanti testi che sono compresi in questo volume. In Manet Warburg scorge una sorta di secolarizzazione dell’Antico, mostrando qui come esso si fosse ‘naturalizzato’ ben oltre il Rinascimento, ad esempio attraverso il tema del simposio campestre. Così, l’Antico diventa in parte archeologia, paesaggio, proprio perché il mondo moderno, attraverso la scoperta dell’idea di infinito non concepisce più il cosmo come governato attraverso una legge immutabile. Gli dei precipitano sulla terra e al contempo l’uomo è costretto a porsi il problema di come orientarsi nel pensiero.
Emblematica in tal senso è la ricerca su Ovidio, poeta delle trasformazioni, e sulla figura di Fetonte, su come cioè la cultura antica concepisse in modo deterministico il destino umano all’interno di un universo chiuso retto dal simposio degli dei. Fetonte aveva cercato di assumere le funzioni di un dio, ma era precipitato lasciando il mondo nelle tenebre. L’uomo moderno si trova invece di fronte alla necessità di costruire un suo percorso rispetto ad una realtà naturale e cosmica che appare sempre più indeterminata. Superfluo è aggiungere quanto in ciò Warburg sia debitore alle ricerche che Cassirer aveva sviluppato in questi anni.
S. D.L. È impressionante anche il quaderno inedito di appunti su Giordano Bruno, una specie di livre de chevet fatto di annotazioni diaristiche, schemi, appunti di lettura. È un testo di grande fascino, anche di grande qualità letteraria, molto enigmatico però.
M. G. Quella su Giordano Bruno rappresenta l’ultima, incompiuta ricerca di Warburg. Bruno avrebbe dovuto essere oggetto di una relazione ad un convegno di estetica organizzato da Cassirer. Come testimonia il diario, Warburg morì poche ore dopo aver scelto il titolo definitivo della sua relazione: «Perseo o estetica energetica come funzione logica del processo dell’orientamento in Giordano Bruno». Occorre dire anzitutto che si tratta di un quaderno di appunti di difficile trascrizione e interpretazione. Sono però convinto che in queste brevi annotazioni si racchiuda la chiave che permette di comprendere meglio le ricerche di Warburg su Manet, Rembrandt, nonché la conferenza sui rapporti tra astrologia e astronomia tenuta nel 1925 in memoria di Franz Boll.
Molto importanti a questo proposito sono alcune lettere di Cassirer a Warburg, soprattutto una del 29 dicembre 1928, ove tra l’altro si legge: «Lo Spaccio della Bestia trionfante richiede un commento che la filosofia in senso stretto non potrà fornire da sola, ma assieme alla storia delle immagini e alla storia della astrologia.» In effetti, la scoperta di Bruno da parte di Warburg richiama la questione di come l’Antico si sia trasformato e sia stato nuovamente assimilato a partire dalla metà del XVI secolo. Il ruolo delle immagini simboliche nella lotta che il genere umano ha intrapreso per l’orientamento nel mondo non si conclude dunque per Warburg con il Rinascimento. Nello Spaccio della Bestia trionfante le immagini classiche di orientamento sono cacciate dal cielo come emblemi dei vizi, e l’immagine bruniana dell’universo è interamente solcata dalla idea di infinito.
Per chiarire meglio cosa intendesse Warburg quando definiva la sua ricerca una «psicologia del pensiero visivo in Giordano Bruno» è forse opportuno citare un passo da una lettera che durante il soggiorno in Italia il nostro autore invia a Saxl il 21 maggio 1929: «Perugia, dove abbiamo iniziato la lettura dello “Spaccio”, nella speranza di trovare un radicale fanatico dell'astrazione con un'indole avversa alle immagini, mentre l'autore resta invece avvinghiato in modo commovente all’Eidolon … a questo punto siamo in grado di stabilire con precisione … il ponte tra il mondo di Tolomeo e quello di Copernico e Keplero ... il cosmo di Igino, con cui si era dovuto invece confrontare Giordano Bruno … era diventato grazie agli astronomi una indicazione cartografica per le costellazioni.»
Con ciò Warburg indica che il cosmo è una realtà che non è più governata dal simposio divino, ma un universo nel quale l’uomo è costretto adesso ad orientarsi attraverso il pensiero. Non a caso egli insiste su come la critica bruniana della conoscenza «che si cela dietro il simbolo di una campagna militare degli dei contro i demoni celesti» non sia in realtà altro che «una critica della mera irragionevolezza» che deve essere posta «in relazione storica con il materiale figurativo». In definitiva, Bruno rappresenta il momento in cui la liberazione del cosmo «dalle delimitazioni della calotta celeste e dai suoi mostruosi guardiani dei confini» apre la strada ad una secolarizzazione degli dei, che in Manet sono raffigurati come un pacato simposio borghese.
Ma, benché trasfigurato e travestito, l’Antico continua comunque per Warburg ad essere il lessico che sta a fondamento di una ricerca che è definita «psico-storica». Emblematico appare per quel bagaglio di ricerche che avevano cercato di indagare il fondamento dei legami sociali, l’evoluzione del sistema di credenze e la realtà psichica l’incipit della introduzione a Mnemosyne: «la creazione consapevole della distanza tra Io e mondo esterno è ciò che possiamo designare come l’atto fondamentale della civilizzazione umana».
Ma con ciò siamo in certo qual modo tornati all’inizio di questa conversazione, quando avevamo sottolineato l’importanza che in questi anni avevano avuto per Warburg le ricerche di Cassirer sul mito, sulle forme simboliche e su individuo e cosmo nel Rinascimento. Vorrei chiudere ringraziando te e il carissimo amico Enrico Castelnuovo, nonché l’“Indice” per avermi permesso di presentare brevemente questa sorta di Bibbia warburghiana. Spero con ciò di aver gettato almeno un seme e che esso trovi un qualche appassionato e paziente cultore.
L'intervista a Maurizio Ghelardi è uscita col titolo Il biologo delle immagini nell’inserto «L’indice dell’arte», allegato a «L’indice dei libri del mese», a. XXV, n. 9, settembre 2008, pp. 24-25. Il volume che aveva fatto da spunto all'incontro è Aby Warburg, Opere II. La rinascita del paganesimo antico e altri scritti, a cura di Maurizio Ghelardi, Aragno, Torino 2007.
English abstract
In 2007 Aragno published the second volume of Warburg Works, which contains many umpublished studies not yet studied as much as they would deserve. Maurizio Ghelardi has here some instruction for the use of this precious book.
To cite this article: S. De Laude, Aby Warburg biologo delle immagini. Intervista a Maurizio Ghelardi, curatore dell’edizione italiana delle Opere di Warburg, “La Rivista di Engramma” n. 119, settembre 2014, pp. 107-116 | PDF of the article