Il mito come sussidio funebre
Recensione a Paul Zanker e Björn Christian Ewald, Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani, a cura di Gianfranco Adornato, traduzione di Flavio Cuniberto, Bollati Boringhieri, Torino 2008
Luigi Sperti
Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani è la traduzione italiana di un volume del 2004 di Paul Zanker e Björn Christian Ewald. Entrambi gli autori si interessano da anni dell’argomento: due studi di Paul Zanker sui sarcofagi mitologici sono accessibili anche in italiano, come capitoli di un fortunato libro sul ruolo delle immagini nel mondo romano apparso qualche anno fa; mentre Ewald si è occupato di vari aspetti dell’arte funeraria romana e di sarcofagi di Muse e filosofi.
Non si tratta di una indagine tradizionale, nel senso di una indagine incentrata sugli aspetti iconografici e stilistici. Certamente si parla anche di questi, che sono il passo preliminare per la comprensione di una classe di rilievi particolarmente ardua da interpretare. Ma l’accento cade soprattutto su altri aspetti: il ruolo e il significato del mito nella società romana; l’utilizzo di particolari temi per veicolare messaggi di carattere personale o pubblico; l’evoluzione del rapporto con la tradizione mitica nel corso del tempo, e come questa evoluzione incise nella scelta dei soggetti e delle soluzioni figurative da parte di officine e committenza. Un percorso che dai grandi cambiamenti nelle pratiche funerarie che hanno luogo agli inizi dell’età imperiale passa per la nascita della produzione in massa di sarcofagi in età traianea, per concludersi alla fine del III secolo d.C. con il tramonto di dei ed eroi, sostituiti da immagini imposte da nuovi valori e nuove aspettative.
Il capitolo introduttivo traccia la storia della ricezione dei sarcofagi dal Medioevo ai nostri giorni. I sarcofagi hanno una continuità funzionale poco comune: contrariamente ad altre classi di monumenti di età romana, non caddero mai in disuso. Il caso del sarcofago con il mito di Fedra e Ippolito, utilizzato a Pisa nel 1076 per seppellire la comitissa Beatrice di Canossa, esemplifica bene il prestigio che avevano queste casse decorate nella società medievale; ma testimonia anche un altro fenomeno, il ruolo paradigmatico che i rilievi funerari romani ebbero nella cultura figurativa tardomedievale e rinascimentale.
Sulla fortuna dei sarcofagi nel Rinascimento si è detto moltissimo sin dall’Ottocento. L’interesse predominante era per la "maniera", per gli aspetti formali, mentre la "historia", l’aspetto narrativo, interessava meno. Ma il Rinascimento segna anche l’inizio di un atteggiamento diverso: l’attenzione da parte degli artisti viene progressivamente meno, e sorge al contempo un interesse di tipo antiquario. Ci si rende conto subito della necessità di raccogliere il numero enorme degli "antichi pili" in un corpus organico: un cammino che va dallo stupefacente progetto, rimasto sulla carta, di Claudio Tolomei (20 volumi sul patrimonio materiale della cultura classica, di cui uno dedicato appunto all’"opera de’ pili": una sorta di Antiquité expliquèe del Montfaucon quasi due secoli prima) al Museum Chartaceum di Cassiano dal Pozzo, per arrivare alla fine dell’Ottocento alla serie degli Antiken Sarkophagreliefs di Carl Robert. C’è dunque, e va sottolineata, una continuità secolare di approcci e di intenti, che collega la tradizione antiquaria con l’archeologia moderna. Il corpus del Robert segna il primato dell’approccio iconografico e interpretativo (non a caso è l’autore di una Ermeneutica archeologica, tradotta anche in italiano, basata principalmente sulla pittura vascolare greca e appunto i sarcofagi romani). Ma il taglio focalizzato sugli aspetti formali lascia senza risposta domande fondamentali: che funzione concreta avevano questi manufatti, cosa rappresentavano per l’acquirente, quali elementi guidavano la scelta del soggetto, cosa significavano per coloro, parenti e amici, che si recavano a far visita al defunto, che ruolo avevano nella ritualità della memoria, quali credenze rispecchiavano sull’esistenza dei defunti.
Vivere con i miti in un certo senso inizia dove si ferma il Corpus: ci fa vedere i sarcofagi con gli occhi dei Romani. Iniziando dal luogo per il quale il sarcofago è concepito e creato, che è il sepolcro. Il sarcofago come nuova forma di sepoltura si impone a partire dagli inizi del II sec. d.C. (anche se ovviamente non mancano precedenti, anche importanti, sin dall’età repubblicana) e segna l’inizio del passaggio dal rito dell’incinerazione a quello della cremazione. Nel secolo precedente le ceneri dei defunti venivano collocate in urne e altari marmorei, spesso decorate con raffigurazioni che presentano una certa parentela con quelle dei sarcofagi. Come urne e altari, anche i sarcofagi erano collocati in camere sepolcrali, lungo le pareti o all’interno di nicchie, come dimostra il fatto che il lato posteriore è regolarmente liscio, e i lati minori scolpiti in maniera meno accurata. Su criteri e modalità di collocazione delle casse all’interno delle camere funerarie purtroppo si sa molto poco, perché molto spesso gli scavatori di un tempo non erano interessati ai contesti. Comunque, anche quando il contesto è in qualche misura noto, rimane il fatto che spesso l’utilizzo prolungato delle camere sepolcrali comportava aggiunte e modifiche, cosicché la disposizione originaria non è ricostruibile se non in pochissimi casi.
L’inizio della produzione dei sarcofagi segue dappresso un importante mutamento dell’architettura funeraria: i grandi monumenti della tarda repubblica e della prima età imperiale, che annunciavano al passante la potenza e la disponibilità economica delle classi dirigenti e dei liberti arricchiti, vengono sostituiti da insediamenti chiusi verso l’esterno – più vicini ai nostri cimiteri.
Le nuove forme di sepoltura segnano quella che Paul Zanker chiama “interiorizzazione del culto funerario”: il defunto, la cui statua in età precedente era rivolta verso il viandante, diviene ora l’abitatore della tomba, che è intesa come casa dei morti. Diversamente dalla cultura cristiana, dove la tomba ha tutto sommato una scarsa rilevanza (in quanto dimora provvisoria in attesa della vera vita), nel mondo romano la presenza del morto nel sepolcro era credenza diffusa. Come abitazione del defunto è inteso lo stesso sarcofago, conformato esteriormente (e talora anche all’interno) come una vera e propria casa, e fornito in alcuni casi di condotti che permettevano in particolari ricorrenze di rendere concretamente partecipe il defunto delle libagioni dei congiunti.
Per offrire al defunto una dimora appropriata si investivano talora cifre cospicue. Dalle poche indicazioni sullo status sociale dei proprietari risulta che erano destinati soprattutto al ceto medio. Non conosciamo con precisione quanto poteva costare un sarcofago. Si è calcolato la metà o l’intero stipendio annuale di un centurione della guardia pretoriana: evidentemente, per il caro estinto si era disposti a sborsare cifre veramente notevoli.
Si dimentica troppo spesso che il sarcofago era oggetto di visite periodiche, seguite da simposi e banchetti. Il celebre passo di Polibio sul funus romano di età tardorepubblicana ci dà un’idea delle usanze funebri che corrisponde poco alle pratiche attestate nella media età imperiale, quando l’esecizio della memoria si esplica soprattutto nella cura del sepolcro e nella commemorazione di familiari e amici, che aveva luogo in occasione di feste a carattere pubblico e privato. L’allestimento delle aree funerarie dipendeva strettamente da questi rituali, come dimostrano ad esempio le strutture per banchetto tuttora conservate in alcune necropoli dell’Isola Sacra a Ostia. Quei banchetti, aspramente censurati negli scritti dei primi cristiani, erano in realtà occasioni di festa, in cui la presenza del defunto serviva da contraltare alla celebrazione della vita; e Paul Zanker sottolinea giustamente che ad un atteggiamento così poco luttuoso risponde bene il carattere gioioso di alcuni temi raffigurati nei sarcofagi con particolare frequenza.
Il capitolo intitolato Vivere con i miti, che riprende significativamente il titolo del volume, tratta di un argomento di importanza determinante per la comprensione del repertorio mitologico dei sarcofagi urbani: il ruolo paradigmatico di figure e allegorie mitiche nei componimenti a carattere funerario, di cui sono rimaste varie testimonianze, soprattutto epigrafiche. Ma diversamente dalla poesia funeraria, dove il corso delle immagini e i loro significati allegorici erano determinati dalla narrazione, il repertorio mitologico dei sepolcri romani (quello dei sarcofagi, ma anche di pitture e stucchi che decoravano le pareti e la volta) non obbediva ad un programma definito: è lo sguardo del visitatore, con il suo tasso di casualità, a creare libere associazioni, relazioni e corrispondenze tra il defunto e il mondo del mito. Un mondo che per noi ha un valore limitato (per usare un eufemismo) ma che aveva una funzione normativa tale da "svolgere una funzione esemplare e fornire chiarimenti autorevoli sull’ordine del mondo".
Solo in questo senso si spiega l’onnipresenza di immagini mitiche nella Roma di età imperiale: nelle case, nelle ville, negli edifici pubblici, negli arredi domestici e negli oggetti di uso comune; e ovviamente nelle tombe. Una pervasività a cui faceva riscontro la diffusione del mito nel teatro, negli spettacoli del circo, nella vita di tutti i giorni. E questo significa naturalmente una conoscenza media dei miti greci molto diffusa: media, o sufficiente almeno per comprendere la maggior parte delle storie narrate sui sarcofagi. Il mito è ingrediente fondamentale di quella “religione della cultura greca”, un fenomeno che gli storici della società romana di età imperiale conoscono molto bene.
Tra le funzioni del mito vi è anche quella di 'sussidio' funebre. 'Sussidio' può intendersi articolato in due ambiti, due grandi aree tematiche: quella della consolazione, e quella dell’elogio. La consolazione può prendere la forma di una allegoria riferita direttamente alla morte (ad esempio il mito di Niobe), o alla rievocazione di un mondo felice, come appare nei sarcofagi con cortei dionisiaci e marini. L’elogio utilizza temi che mettono in luce le virtù del defunto: virtù che spesso non rispondono a vicende personali, ma costituiscono valori condivisi da tutta la società. Questo repertorio presuppone un accurato processo di selezione, che per ogni mito individua particolari episodi considerati appropriati per veicolare determinati messaggi: non è certo casuale che nei sarcofagi dei Niobidi l’accento cada sulla strage dei figli, e non sul dramma della madre pietrificata; o che nei sarcofagi di Medea la vera protagonista sia la rivale Creusa, simbolo della caduta dolorosa dal massimo della felicità nella tragedia.
A partire dalla metà del II secolo i protagonisti delle storie raffigurate sui sarcofagi mitologici presentano spesso i tratti individuali del defunto e acconciature alla moda: questa semplice strategia evidenzia con immediatezza l’identificazione consolatoria o celebrativa del defunto con il personaggio mitico. Questa veste mitica, come nota giustamente Paul Zanker, in un certo modo sostituisce o integra il ritratto vero e proprio in abiti romani. L’identificazione tramite ritratto può essere estesa anche ai familiari del defunto: così la madre di un giovanetto morto prematuramente elabora il lutto presentandosi in un sarcofago (oggi a Cliveden) con le fattezze di una Arianna abbandonata dal figlio in veste di Teseo: il che ovviamente stravolge il mito dell’eroina cretese, piegata impropriamente a simbolo di lutto materno. Queste forme di identificazione sono spesso utilizzate da coppie di sposi, un po’ come certi gruppi statuari, del più puro stile kitsch, ci mostrano improbabili coppie di coniugi nelle vesti di Venere e Marte.
Tra le strategie per gettare un ponte tra il mondo del quotidiano e l’esperienza mitica vi è l’uso di combinare in uno stesso rilievo scene mitiche e di vita reale. Quando osserviamo nel cosiddetto sarcofago Rinuccini, ora a Berlino, la morte di Adone ucciso da un gigantesco cinghiale associata ad una scena di dextrarum iunctio tra coniugi, e a un sacrificio celebrato da una figura loricata, non può non saltare agli occhi l’incongruenza dell’accostamento. Ma è una incongruenza apparente. Il messaggio scavalca la logica narrativa: ciò che interessa è la celebrazione di qualità morali fondanti, come virtus, concordia e pietas. Il sarcofago Rinuccini non è propriamente un sarcofago di vita quotidiana, né mitologico: è una esaltazione delle virtù del defunto tramite una sorta di crasi allegorica tra mito e realtà.
La scelta di una composizione così anomala è certamente frutto di una specifica commissione. Il ruolo del committente è stato spesso discusso nella letteratura sui sarcofagi romani: l’acquirente sembra avere in non pochi casi un peso rilevante nella scelta della rappresentazione, anche se le singole figure e schemi provenivano in larghissima misura da una tradizione codificata.
Sicuramente l’evoluzione nel tempo dei desiderata dei committenti, le mode culturali, i mutamenti dei valori, l’evolversi del senso della morte sono tutti elementi che incidono profondamente sulle variazioni nel tempo degli schemi iconografici, sulla scomparsa talora improvvisa di determinati temi mitici (ci sono temi che rimangono in repertorio solamente per qualche decennio), sulle diversità di accento data a eroi e eroine. Istruttivo l’esempio di Persefone che nei sarcofagi più antichi si oppone al suo rapitore con fiera resistenza, e più tardi, identificata tramite ritratto alla defunta, si lascia cogliere docilmente da Ade: certamente riflesso di una diversa concezione dellla morte.
A prescindere dalla scelta del tema e dai mutamenti di lunga durata, rimane comunque fondamentale, come è ben sottolineato da Paul Zanker, la capacità da parte del fruitore antico di “leggere astraendo”: di focalizzare lo sguardo su aspetti astratti, a discapito di una lettura letterale del contesto narrativo. Un sarcofago ai Vaticani con marito e moglie raffigurati come Achille che regge Pentesìlea morente e se ne innamora ovviamente non allude ad un uxoricidio, ma è la celebrazione di un amore in chiave mitica (neanche l’amore può impedire la morte) e allegorica, che esalta la virtus del marito e la bellezza della consorte. Lo stesso meccanismo agisce sui sarcofagi con il mito di Fedra e Ippolito, dove la storia di una passione non corrisposta e della doppia morte dei protagonisti perde il connotato tragico e diviene il pretesto per sottolineare il dolore dell’addio, e il momento del rifiuto diviene metafora del distacco definitivo.
A questa prima parte del volume, incentrata in generale sui contesti, sulle cerimonie, sul ruolo del mito nella società romana, seguono tre capitoli che trattano tre grandi ambiti tematici. È quella che Paul Zanker definisce “parte sistematica” , ma ci avverte subito che non si tratta di una esposizione tradizionale secondo i singoli miti, ma di una scelta che, come accade nella retorica funeraria, risponde al ruolo funzionale delle immagini. Dapprima ci si presentano miti che parlano in modo immediato della morte e del lutto, il cui ruolo consolatorio è sottolineato dal parallelismo più o meno scoperto di eroi ed eroine con il defunto e i suoi congiunti. Nel capitolo Visioni di felicità dominano rappresentazioni di cortei dionisiaci e di esseri marini. Un mondo spensierato, in evidente contrasto con la funzione del supporto, ma molto amato dalla società romana (da soli i due gruppi sarcofagi con thiasos marino e dionisiaco ammontano a quasi 800 esemplari, una cifra veramente impressionante tenendo conto della dispersione). Infine vengono i miti come specchio della società, come parafrasi delle virtù e dei ruoli sociali: che non sono ovviamente caratteristiche dei singoli, quanto piuttosto valori dominanti e condivisi.
Un’ottica che privilegia la funzione – dunque possiamo dire il messaggio – considera sullo stesso piano temi mitici molto distanti dal punto di vista narrativo, ma accomunati dall’effetto psicologico e da comuni riferimenti allegorici ed etici. Così accade per le scene di lutto, che proiettano in una dimensione mitica lo strazio per la perdita della persona amata. In un mondo in cui l’ambito pubblico è dominato dall’onnipresenza dell’immagine imperiale non vi è più spazio per le grandi cerimonie pubbliche dell’aristocrazia tardorepubblicana descritte da Polibio. Le esequie acquistano un aspetto più intimo, sottolineato dalle immagini di compianto rituale ambientate in una dimesione domestica. Rarissime quelle realistiche, “borghesi”; molto frequenti invece quelle mitiche: il compianto di Achille sulla morte di Patroclo, di Andromaca sulle ceneri di Ettore, e il compianto di Meleagro, che è veramente “una trasposizione mitica delle immagini greche e romane del compianto funebre”.
Al lutto cerimoniale delle immagini di compianto si affiancano temi che dal punto di vista del contenuto narrativo seguono vie molto diverse, ma svolgono sul piano psicologico e allegorico la stessa funzione: massacri collettivi, come la strage dei figli di Niobe, o gli orrori della guerra di Troia; tragedie individuali, come la morte di Creusa (che come ho già detto è la vera protagonista dei sarcofagi detti "di Medea", dove quest’ultima assume quasi il ruolo impersonale del destino), la punizione di Atteone per una colpa inevitabile. La morte improvvisa trova una metafora efficace nel tema del rapimento, con una sfumatura consolatoria più accentuata rispetto alle immagini di compianto e morte: Persefone è sì rapita da Ade, ma continua a vivere nell’oltretomba, almeno part-time. E in ogni caso, come nota giustamente Paul Zanker, l’amore di un dio può avere (e ha spesso) esiti tragici, ma è comunque un segno di distinzione per il prescelto. E ancora le scene più sentimentali di distacco e rimpianto, dove gli dei acconsentono ad un ricongiungimento, per quanto momentaneo: Alcesti e Laodamia presentate come esempi di dedizione coniugale sino al sacrificio di sé.
Accanto ai sarcofagi mitologici con precisi contenuti narrativi compaiono, sin dagli inizi della produzione, numerosi rilievi con generiche scene marine o dionisiache, tra i temi prediletti della clientela romana. Nella letteratura e nei testi epigrafici greci e latini la relazione tra il mondo dei defunti e l’elemento acquatico è un topos ricorrente: talora questo nesso è stato indebitamente interpretato in prospettiva cristiana. Certo non è da escludere che questi rilievi possano considerarsi una sorta di augurio per una felicità oltremondana. Ma le associazioni possibili rimandano anche a concetti e stati d’animo meno spirituali: rievocazioni delle gioie della vita coniugale, dei piaceri di una esistenza immersa nella natura, esaltazione di particolari virtù dei defunti. Valori che, almeno in parte, troviamo celebrati anche nelle numerosissime immagini dionisiache.
È veramente impossibile dar conto, anche in sintesi, del grande numero di temi e problematiche trattati in questo volume: ciò è particolarmente vero per il capitolo Società allo specchio: ruoli e valori dominanti, dove l’aspetto mitologico viene posto in secondo piano, e il repertorio figurativo dei sarcofagi viene esaminato come, appunto, “specchio della società”: allegoria delle qualità dei defunti; parafrasi di cerimoniali sociali, come il banchetto; modello di concordia coniugale, del ruolo della donna (che è sempre un ruolo passivo, spesso di vittima, o standardizzato nella figura dell’amante o dell’amata). Ciò che sta al centro dell’indagine, in una parola, sono le diverse forme dell’identità sociale.
L’ultima sezione del libro, a cura di Björn Christian Ewald, raccoglie la documentazione di una ventina di miti – la maggior parte di quelli trattati nella prima parte. Ogni voce presenta una introduzione sulla tradizione letteraria, opportunamente focalizzata sugli episodi che fanno parte del repertorio dei sarcofagi, e una scelta di esemplari che dà conto, nei limiti del possibile, dei diversi sottogruppi. Particolarmente apprezzabile è il fatto che molti dei pezzi presentati da Ewald siano stati scelti tra quelli scoperti più recentemente – diciamo dagli inizi dell’800 in poi – quando è più facile trovare qualche indicazione utile sul contesto, sulla disposizione all’interno delle camere sepolcrali, sulla presenza eventuale di altre sarcofagi, in modo da ricostruire almeno parzialmente eventuali programmi figurativi.
Definire Vivere con i miti un libro sui sarcofagi mitologici è molto limitativo. È uno studio che getta luce sul senso della morte, sulle cerimonie della memoria, sulle strategie di autorappresentazione, sul ruolo del mito e della cultura nella società romana. Ne emerge un quadro complessivo che colpisce per il gigantesco investimento di risorse economiche; ma anche per la quantità impressionante di implicazioni culturali e sociali. Un quadro che sembra presentare aspetti quasi ossessivi (e in effetti qualcuno ha parlato a proposito delle società antiche di ossessione della morte). Non so se le cose stiano così: e comunque, forse è più ossessiva la nostra attuale rimozione.
La traduzione in italiano di questo libro è una iniziativa veramente meritoria. In Italia non c’è una grande tradizione di studi sui sarcofagi: certo non è un campo di studi frequentato quanto lo è in Germania. Nella prefazione Paul Zanker si lamenta giustamente dello scarso spazio che hanno i sarcofagi nelle trattazioni complessive sull’arte o sulla scultura romana. In Italia un manuale di scultura romana non compare da molti decenni, per cui non posso che confermare l’osservazione. “Vivere con i miti” è un libro utilissimo per lo specialista, ma è anche un libro ideale per chi senza specifiche competenze voglia accostarsi, attraverso un tema di basilare importanza, alla storia dell’arte e della società romana.
* Il presente contributo è tratto dalla relazione di presentazione del volume di Paul Zanker tenuta il 13 maggio 2008 presso l'Università IUAV di Venezia
Per citare questo articolo / To cite this article: L. Sperti, Il mito come sussidio funebre. Recensione a Paul Zanker e Björn Christian Ewald, Vivere con i miti. L’iconografia dei sarcofagi romani, a cura di Gianfranco Adornato, traduzione di Flavio Cuniberto, Bollati Boringhieri, Torino 2008, “La Rivista di Engramma” n. 65, giugno/luglio 2008, pp. 14-22 | PDF