Carlo Ginzburg e Hayden White
Riflessioni su due modi di intendere la storia
Daniele Pisani
English abstract
La recente pubblicazione di Forme di storia, una raccolta di scritti di Hayden White curata da Edoardo Tortarolo, offre al tempo stesso lo spunto per riconsiderare la riflessione dello storico americano, reintroducendola all'interno del dibattito italiano, e per confrontare le sue posizioni con quelle di Carlo Ginzburg, che ne Il filo e le tracce polemizza aspramente con White.
Forme di storia contiene dieci saggi di White, accomunati da una sostanziale omogeneità tematica e coerenza teoretica: uno inedito e nove pubblicati in un arco di tempo piuttosto esteso, compreso com'è tra il 1978 e il 2004; tutti i saggi sono, comunque, successivi rispetto alla pubblicazione della principale opera di White, Metahistory, del 1973 (tradotta in italiano come Retorica e storia nel 1978).
1. Vero falso finto
Per tentare di rendere conto del pensiero di cui Forme di storia si fa tramite, si tenterà qui di seguito di farne coagulare alcuni dei principali motivi intorno alle critiche che Ginzburg gli rivolge, e, quindi, di andare alla radice della divergenza di convinzioni e intenti manifestata dai due storici a riguardo del proprium della storia.
Il saggio in cui lo storico italiano affronta e critica di petto la concezione della storia sostenuta da White è Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà, pubblicato nel 1992 e, quindi, ne Il filo e le tracce (due letture dell'ultimo lavoro di Carlo Ginzburg sono in Engramma 52). Ginzburg inserisce l'analisi dell'opera di White all'interno di un discorso che, nel contesto della riflessione sull'Olocausto, si interroga sul senso e i limiti del fare storia. Lo spunto è offerto dalla tesi, negazionista, di Robert Faurisson, secondo cui i campi di sterminio nazisti non sarebbero mai esistiti. Su di essa Ginzburg non entra nel merito; la enuncia sbrigativamente e la innalza a caso estremo di un atteggiamento assai più comune, diffuso e pericoloso. Versus Faurisson, Ginzburg fa appello a Pierre Vidal-Naquet, e in tal modo introduce il problema del carattere narrativo proprio della storia. "Ero convinto – afferma Vidal-Naquet, citato da Ginzburg – che esisteva un discorso riguardante le camere a gas, che tutto doveva passare attraverso le parole, ma che al di là, o per meglio dire al di qua di questo, c'era qualcosa di irriducibile che, in mancanza di meglio, continuerò a chiamare realtà. Senza questa realtà, come si fa a distinguere tra romanzo e storia?". Realtà: è contro il suo aproblematico accantonamento che Ginzburg muove, con Vidal-Naquet, il proprio sdegno e volge la propria argomentazione. Senza il suo privilegiato rapporto con la realtà, la storia a suo giudizio si riduce a una narrazione tra le tante.
Nell'economia del discorso, i campi di sterminio consentono a Ginzburg di porre un problema di natura generale – l'aderenza alla realtà e l'accertamento della verità come il proprium della storia – a proposito dell'argomento per antonomasia su cui non si può procedere con nonchalance: l'Olocausto. Quindi, non appena interrotta la citazione da Vidal-Naquet, Ginzburg finalmente nomina il proprio vero bersaglio polemico: "Negli Stati Uniti la domanda sulla differenza tra romanzo e storia scaturisce di solito dall'opera di Hayden White". Le pagine a seguire del saggio di Ginzburg sono, non a caso, dedicate a un'aspra critica del pensiero di White.
Tramite una rilettura – che qui non è possibile seguire passo per passo – dell'interpretazione che White offre del pensiero di Croce, Ginzburg arriva a equiparare la posizione di White a quella di Roland Barthes. Le fait n'a jamais qu'une existence linguistique: estrapolata tanto dal suo contesto originario che dalla sua ripresa da parte di White, Ginzburg affigge la formulazione di Barthes come condanna inappellabile al pensiero dello storico americano. Affermare che il fatto e la realtà non posseggano altro che un'esistenza linguistica, che essi vengano cioè costruiti soltanto nel discorso e che essi esistano soltanto nel discorso significa infatti, per Ginzburg, 'derealizzare' la realtà, ossia la materia stessa della storia; oppure, per dirla in altri termini, significa aprire le strade all'illimitata capacità del linguaggio di manipolare indefinitamente gli eventi del passato, di crearli come di negarli.
Se, ora, si torna al contesto in cui è inscritta l'argomentazione di Ginzburg, il suo significato si chiarisce immediatamente: Faurisson – questo è quanto Ginzburg, senza mai dirlo, suggerisce implicitamente al lettore – non costituisce che l'esito estremo di un modo di concepire la storia di cui de Certeau, Barthes, Foucault e soprattutto White costituiscono i teorizzatori. Insomma: Hayden White, secondo Ginzburg, risulta essere responsabile delle aberrazioni di un Faurisson.
Solo a questo punto Ginzburg riprende la critica che White stesso muove all'ipotesi di Faurisson; certo, White – come riporta Ginzburg – la ritiene "moralmente offensiva e intellettualmente sconcertante"; ma, secondo lo storico italiano, la critica di White è impossibilitata a cogliere le ragioni per cui la tesi di Faurisson è "menzognera". Nel pensiero relativistico di White, infatti, qualsiasi posizione avrebbe diritto di esistenza a patto di essere efficace; "Possiamo concludere – chiosa Ginzburg – che se la narrazione di Faurisson dovesse mai risultare efficace, White non esiterebbe a considerarla vera". Per Ginzburg, allora, il pensiero storico di White conosce il proprio punto debole – e il proprio carattere foriero di pericoli – nella convinzione che di un medesimo evento sia lecito offrire diverse costruzioni altrettanto valide e compatibili con la realtà, e quindi altrettanto tollerabili (non a caso, egli cita criticamente l'affermazione di White secondo cui "dobbiamo fare i conti col fatto che nella documentazione storica non troviamo nessun elemento che ci induca a costruirne il significato in un senso anziché in un altro"); ma, non manca di affondare il colpo Ginzburg riprendendo un argomento già avanzato da Arnaldo Momigliano, "quando le divergenze intellettuali e morali non sono collegate in ultima analisi alla verità, non c'è niente da tollerare".
Nell'ostilità a White, del resto, gli argomenti di Ginzburg sono in misura cospicua sostanziati su quelli già più volte esposti da Momigliano, soprattutto in The Rhetoric of History and the History of Rhetoric: On Hayden White's Tropes del 1981 (poi edito in italiano come La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden White, in Sui fondamenti della storia antica): "La ragione fondamentale – vi affermava Momigliano – del mio disaccordo con Hayden White (un amico che ammiro e dal quale ho sempre da imparare) riguarda il futuro piuttosto che il passato. Temo le conseguenze del suo approccio alla storiografia perché egli ha eliminato la ricerca della verità come compito fondamentale dello storico". Nel prendere le distanze da White, non a caso, Ginzburg ricorre più di una volta alle argomentazioni – ma quasi anche all'auctoritas – di Momigliano. Con questi condivide in primo luogo il timore per l'indistinzione tra finzione e storia imputata a White, al cui relativismo viene contrapposta una concezione della storia come disciplina scientifica volta ad appurare la verità (unica per principio). Per dirla con Momigliano, infatti, "ciò che infine ha distinto la scrittura storica da ogni altro tipo di letteratura è il fatto che essa è, nel suo complesso, sottoposta al controllo dei dati".
Quella che in Momigliano è una perplessità nei confronti dell'impianto epistemologico di White si tramuta però, con Ginzburg, in una critica tout court. Il limite della storia à la White consisterebbe nel suo labile rapporto con la realtà, ossia con la verifica di quanto effettivamente avvenuto. L'accento che lo storico americano porrebbe sul fatto che la storia è tale soltanto all'interno di una narrazione, che al di fuori della narrazione il nudo fatto è muto e che il medesimo fatto è inseribile all'interno di più costellazioni e quindi anche di narrazioni altrettanto valide e impossibilitate a escludersi vicendevolmente sarebbe, così, del tutto inaccettabile – come dimostrerebbe esemplarmente proprio l'esito di quelle premesse nella tesi di Faurisson. Occorre, invece, insistere sulla realtà: la storia non è una narrazione di fantasia, ma lo studio del passato, fondato sul meccanismo della "prova", volto ad appurare quanto avvenuto e wie es eigentlich gewesen. Contro White, che insiste sul carattere narrativo della storia e pertanto sul diritto di cittadinanza di qualsiasi narrazione storica, l'argomento che Ginzburg impugna, accanto e insieme alla "realtà", è la "verità"; seguire le orme di White significherebbe, invece, ritrovarsi in un mondo dove tutto può essere indifferentemente vero o falso e dove l'unico criterio di valutazione è l'efficacia narrativa della ricostruzione proposta.
2. Storia come narrazione
Occorre a questo punto osservare più da vicino il pensiero di Hayden White e chiedersi se e sino a che punto la critica di Ginzburg colga nel segno. È sufficiente l'incipit dell'Introduzione a Forme di storia a manifestare l'incompatibilità delle posizioni dei due storici: "Non ritengo – afferma White – che la 'storia' sia una disciplina scientifica [...]. Neppure ritengo che possa mai diventare una scienza, né debba impegnarsi in questo senso"; di più: "Il progetto di trasformare la storia [...] in una scienza [...] ebbe come effetto di sottrarre al 'discorso della storia' la sua originaria funzione sociale di attribuire al fatto un significato". La storia, allora, come un discorso con la funzione di attribuire al fatto un significato – questa sola convinzione racchiude in nuce i motivi dell'opposizione di Ginzburg al pensiero di White: in primo luogo, la riduzione della storia a un discorso; in secondo luogo, l'assegnazione alla storia del ruolo di produttrice di senso, con l'implicazione che la realtà in sé e per sé ne sarebbe priva.
I due momenti, nel pensiero di White, sono strettamente connessi. Per quanto la disciplina storica sia riluttante a riconoscerlo, egli afferma, le narrazioni storiche sono "costruzioni verbali" che, in quanto tali, presentano maggiori analogie con la letteratura che con la scienza. Il compito dello storico consiste allora nel "far emergere una storia plausibile da una congerie di fatti che, nel loro stato primitivo, non hanno alcun senso". Il problema è, però, che "nessun insieme dato di eventi storici casualmente registrati può costituire una storia in sé; al più, gli eventi possono offrire allo storico elementi per una storia. Gli eventi sono trasformati in una storia attraverso la soppressione o la subordinazione di alcuni di loro e la sottolineatura di altri" e attraverso l'impiego di "tecniche che normalmente ci aspetteremmo di trovare nell'intreccio di un romanzo o di un pezzo teatrale" (si può qui osservare, a margine, come proprio la critica che Ginzburg rivolge in Unus testis a White sia strutturata su una studiata architettura retorica che si articola su procedimenti di allusioni per omissione – di praeteritio – più che sulla controdeduzione dialettica). È in virtù di ciò che di un medesimo evento è possibile offrire diverse versioni. Dal momento che "gli eventi storici non hanno valore intrinseco", può infatti avvenire – come, del resto, di sovente avviene – che su di un determinato fenomeno sia possibile raccontare più storie, senza che in astratto sia possibile scegliere tra l'una e l'altra. Anzi: "Per essere giudicato storico, un evento deve essere passibile di almeno due narrazioni riguardanti il suo accadimento".
La domanda, a questo punto, è scontata: tutte le possibili versioni di un dato evento sono altrettanto valide? E nel caso in cui non lo siano, come è possibile stabilire la maggiore o minore validità di una rispetto a un'altra? White è consapevole di offrire, a tale riguardo, il fianco alla critica; e prova a prevenirla: "Come si debba configurare una specifica situazione storica dipende dall'abilità dello storico di far corrispondere una specifica struttura d'intreccio a un complesso d'eventi storici cui egli desidera attribuire un significato di tipo particolare. Questa è essenzialmente un'operazione letteraria, cioè di costruzione fantastica, e chiamarla così nulla toglie allo status delle narrazioni storiche in quanto forniscono un certo tipo di conoscenza". Una narrazione storica è, in altri termini, da preferirsi rispetto a un'altra in virtù della sua capacità di rivelarsi adeguata rispetto a una determinata serie di eventi. L'adeguatezza, dal canto suo, consiste nella capacità da parte di uno storico: 1. di dar senso a una nuvola di eventi di per sé irrelati e in quanto tali insignificanti; 2. di riuscire a intrecciare tali eventi in una narrazione letterariamente consona alla costellazione di eventi prescelta. La civiltà del Rinascimento di Jacob Burckhardt, allora, è un'opera esemplare, a prescindere dal fatto che, su base documentaria, buona parte delle affermazioni che vi compaiono sarebbe ormai da aggiornare, quando non da precisare e correggere.
Senza una riflessione sul linguaggio è per White impossibile comprendere il senso del fare storia: "Il linguaggio non è mai un complesso di forme vuote in attesa di essere riempite da un contenuto fattuale e concettuale o di essere associate a referenti preesistenti nel mondo"; anche la storia, pertanto, "può essere soltanto una costruzione del linguaggio e un fatto del discorso". Parte del messaggio che essa veicola può, inoltre, passare soltanto attraverso uno specifico uso della lingua: le narrazioni storiche "riescono ad attribuire significati a complessi di eventi passati grazie alle somiglianze metaforiche di eventi reali e strutture convenzionali delle nostre costruzioni di fantasia. Attraverso la costituzione di un complesso di eventi organizzati in modo tale da far emergere una storia comprensibile, lo storico attribuisce a questi eventi il significato simbolico di una struttura di intreccio comprensibile". Non solo, per White, a qualsiasi narrazione storica sono immanenti un intreccio, una costruzione, una morale; ma "c'è un elemento poetico in ogni resoconto storico sul mondo".
3. Fatto ed evento
L'interesse di White è, pertanto, tutto incentrato sulla storia come atto di interpretazione e di scrittura; la convinzione – già crociana – che tra ricerca storica e storia propriamente detta sussista una netta linea di demarcazione configura quest'ultima come un'operazione di costruzione. Alla riflessione di White rimane in tal modo estranea la ricerca preliminare (quella archivistica, ad esempio); a risultare escluso dal campo visivo di White è, così, proprio quello che per Ginzburg costituisce lo specifico del mestiere dello storico: l'incontro con il documento e, tramite esso, con il 'fatto' nella sua concretezza. Dove per White sta una serie di macerie, che il mondo chiama 'fatti', e che lo storico è chiamato a significare e a condurre – narrandoli – innanzi ai suoi contemporanei ("Non viviamo storie, anche se diamo alle nostre vite un significato presentandole retrospettivamente sotto forma di storie"), per Ginzburg stanno delle monadi intangibili; e dove per White la storia si configura come un'interpretazione ineludibilmente soggettiva (i complessi eventi che lo storico configura, allora, non sono "immanenti agli eventi stessi; esistono solo nella mente dello storico che vi riflette"; quindi, "ciò che il discorso storico produce sono interpretazioni di qualsiasi informazione e conoscenza del passato a disposizione dello storico"), per Ginzburg la storia aspira a definirsi come una pratica che proceda obiettivamente, per operazioni verificabili, ancorata tramite l'impiego della "prova" al "reale".
Il 'fatto' nella sua concretezza (il fatto in quanto "reale" e "vero") è la principale posta in palio della contesa tra i due storici. A tale riguardo, White introduce un'importante distinzione: quella tra fatto ed evento. Lo fa in un saggio (Teoria letteraria e scrittura storica, del 1999) in cui pare quasi rispondere alle obiezioni che Ginzburg gli muove. "Sembra, pertanto – così White formula una delle critiche che gli vengono più spesso rivolte –, che non ci si possa più appellare ai fatti per giustificare o criticare una data interpretazione della realtà. Ciò che potrebbe contare come fatto sarebbe comunque infinitamente rivedibile". E risponde che la sua teoria "colpisce il concetto stesso di fattualità e, in particolare, la pretesa degli storici a proposito della verità fattuale non solo delle loro affermazioni su particolari eventi, ma del loro intero discorso". Questo non significa che nulla esista al di fuori del linguaggio, ma che il carattere letterario della narrazione storica è una questione assai più complessa e meno neutrale di quanto gli storici di professione non siano soliti pensare; la propria teoria, conclude White, "non elimina le differenze tra fatto e fantasia ma ridefinisce le relazioni tra loro all'interno di qualsiasi discorso dato. Se non esiste nulla di simile ai fatti nudi e crudi ma solo eventi in diverse descrizioni, allora la fattualità dipende dai protocolli descrittivi usati per trasformare eventi in fatti [...]. Gli eventi accadono, laddove i fatti sono costituiti da una costruzione linguistica [...]. I fatti sono una funzione del significato assegnato agli eventi, non sono dei dati primigeni che determinano quali significati un evento possa avere".
Dal punto di vista di White, Ginzburg confonde così i fatti con gli eventi; e la critica che quest'ultimo gli muove origina da questa confusione. Per White gli eventi sono obiettivi e verificabili, ma insignificanti; nel momento in cui vengano inseriti in una narrazione, essi assumono un significato e, proprio in tal modo, diventano fatti, ossia tasselli di una costruzione che è già logica e al tempo stesso retorica e linguistica. Di conseguenza, l'insistenza da parte di Ginzburg sui fatti non ha ragione di esistere: perché se si tratta di eventi, essi sono nulla, mentre se si tratta propriamente di fatti, sono già stati significati nel processo di interpretazione che si è compiuto. Parafrasando Goethe, si potrebbe dire che quanto sostiene White è che ogni sguardo sulla realtà – sui fatti – è già teoria.
4. Storia e filosofia della storia
Momigliano osservava che "il contrasto fra ciò che facevo e ciò che White supponeva che facessi era veramente troppo grande", esattamente quanto "la differenza fra la storia che noi storici pratichiamo e la Metastoria che i teorici ci attribuiscono". Se il fatto è l'oggetto della querelle tra White e Ginzburg, occorre osservare che alle divergenze sul suo statuto corrisponde, in effetti, non soltanto un diverso modo di professare il medesimo mestiere, ma quasi un mestiere diverso.
La prospettiva di Ginzburg è quella di chi pratica la storia come mestiere; quella di White è quella di chi guardi di lontano gli storici all'azione. Di qui alcune nette differenze: come afferma White stesso, definendo la metahistory, "per scrivere la storia di una qualsiasi disciplina accademica o anche di una scienza, si deve essere pronti a porsi domande su essa di tipo diverso da quelle che ci si pone quando la si pratica. Si deve cercare di superare o scavare nei presupposti che reggono un dato tipo di ricerca e porre le domande che possono essere date per scontate nella sua pratica: tutto questo al fine di determinare perché questa specifica ricerca sia stata progettata per risolvere proprio un certo ordine di problemi e non altri". Colui che riflette sulla storia, sostiene White, è così propenso a porsi domande che chi la pratichi non può permettersi di porsi; tra queste domande, la principale concerne forse la natura del passato: "Il discorso storico è possibile solamente presupponendo l'esistenza del passato come qualcosa di cui si possa parlare in modo significativo. Questa è la ragione per cui gli storici normalmente non si interessano della questione metafisica se il passato esista realmente né di quella epistemologica se lo si possa conoscere veramente, ammesso che esista davvero. L'esistenza del passato è un presupposto necessario del discorso storico e il fatto che sia in realtà possibile scrivere storie è una prova sufficiente del fatto che possiamo conoscerlo".
Quello che, di conseguenza, entra in gioco nella querelle è un diverso apparato di competenze e di strumenti; se gli oggetti su cui si appunta l'interesse dei due storici sono non di rado i medesimi (l'Olocausto, ad esempio), il modo con cui questo avviene è talmente differente nei due casi che risulta spesso difficile addirittura stabilire un confronto. White ha facilità a organizzare discorsi teorici e astratti, che tuttavia mai si posano sulle cose sino a sentirne l'attrito (può così giungere sino al punto da equiparare, già nella Prefazione a Metahistory, storia e filosofia della storia; l'unica distinzione tra di esse sarebbe "nell’enfasi, non nel contenuto"); Ginzburg rifugge invece dall'articolazione di un pensiero teorico e si impone di dedicarsi alla risoluzione di 'casi esemplari'. Nessuno dei due, d'altro canto, sembra disposto a mettersi in discussione sul campo dell'altro: White a verificare nell'esercizio pratico della disciplina la validità delle proprie asserzioni teoriche; Ginzburg a sviluppare gli spunti o gli accenni polemici in un vero e proprio discorso teorico, di cui sia possibile discutere ed eventualmente criticare le conclusioni.
Questo comporta che entrambi tendano ad avere buon gioco nel cogliere le manchevolezze della posizione altrui; e che ciò nonostante vi sia sempre qualcosa che, vista la parzialità di ciascuna delle posizioni, sfugge loro: i rispettivi discorsi, poi, si articolano su piani diversi che, non di rado, non riescono a incontrarsi. Quando, ad esempio, White sostiene che "se gli storici dovessero riconoscere l'elemento di fantasia nelle loro narrazioni, questo non significherebbe degradare la storiografia a ideologia o propaganda", e che "riconoscerlo servirebbe da efficace antidoto alla tendenza degli storici a cadere vittima di preconcetti ideologici che non riconoscono come tali ma che percepiscono come la percezione 'corretta' di 'come le cose veramente sono'", egli afferma qualcosa che, dal punto di vista di Ginzburg, è mero relativismo. Allo stesso modo, quando Ginzburg insiste – come ne Il filo e le tracce – sulla "verità" e la "realtà" come gli obiettivi della ricerca storica, egli si fa sostenitore di una posizione che White riconduce a "preconcetti ideologici" e taccia di ingenuo positivismo: "In tutte le rappresentazioni dei fenomeni storici – afferma, infatti – vi è un'insormontabile relatività"; e, anzi, "tutte le storie sono di fantasia". Dal punto di vista di White, Ginzburg è pertanto uno di coloro che trasformano "in feticcio la nozione di fatto storico per evitare l'accusa che le storie [...] siano in ultima analisi poco più che 'fantasie'". Per Ginzburg, probabilmente, proprio come un feticcio deve invece essere inteso il concetto di narrazione a cui fa riferimento White: proprio come un feticcio, a tal punto invasivo da precludere la possibilità di vedere che la storia non è solo e soltanto narrazione, di vedere come, cioè, essa tragga la sua specificità dal suo, pur problematico, tentativo di costituire in un discorso fatti che, così si suppone, siano effettivamente avvenuti, e per di più nel modo in cui sarebbero davvero avvenuti.
In effetti, se un limite vi è nella recente posizione di Ginzburg è che – predisposta a una difesa ad oltranza dei concetti di verità e di realtà, messi in discussione da relativismo e negazionisimo – essa manca di un'adeguata elaborazione teorica; persino i concetti di verità e di realtà, su cui egli tanto insiste, in ultima analisi sono lasciati nel vago – mai definiti esattamente, mai discussi nella loro essenza, nelle loro relazioni reciproche e nella loro attingibilità. Malgrado essi stiano al centro della riflessione di Ginzburg, proprio l'assenza di una seria considerazione della loro natura è sintomatica della sua difficoltà: e non tanto perché sviluppare discorsi teorici non è nelle sue corde, ma perché facendolo egli abbandonerebbe il terreno che è proprio del suo ambito disciplinare. Detto in altri termini: colui che pratica il mestiere dello storico, così come esso viene inteso dalla comunità scientifica di cui Ginzburg è membro eminente, sembra non poter riflettere sul senso del proprio operare a meno di deporre i propri ferri del mestiere. Quel che ne consegue è che l'ultimo Ginzburg attacca il proprio bersaglio polemico più per principio che nella sostanza. D'altro canto, egli ha dalla propria parte il know-how di chi pratica il mestiere, riflettendo sulle operazioni che compie e sul loro senso.
Il pensiero di White, in fondo, non sembra meritare l'ostilità che gli riserva Ginzburg. Certo, le categorizzazioni cui White ricorre sono non di rado semplicistiche (si pensi ad esempio alla nozione di 'modernismo', sotto cui in Forme e storia viene fatta passare, quasi fosse un tutto omogeneo, tutta quanta la produzione culturale del primo Novecento – e non solo); le sue argomentazioni, poi, risultano talvolta costruite tramite il montaggio di temi e motivi distanti e che andrebbero affiancati e comparati previa assunzione di ben altre precauzioni; e, soprattutto, egli insiste unilateralmente sul carattere narrativo della storia, accentuandone l'innegabile natura letteraria a scapito, però, di una adeguata interrogazione sulla specificità della narrazione storica (e quindi sui requisiti extra-letterari e sui limiti delle narrazioni storiche). Ma, nel complesso, il suo discorso non solo sembra tenere, ma anche rivelarsi tutt'altro che rivoluzionario. Che, ad esempio, "la storia avrà dunque il diritto di rivendicare il suo posto fra le conoscenze veramente degne d'impegno solo nella misura in cui essa ci consentirà, invece di una semplice enumerazione, senza nessi e quasi senza limiti, una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità", è affermazione non di White ma di un Marc Bloch; ed è un dato di fatto accettato dalla comunità scientifica. Quello che, piuttosto, fa difetto a White è la renitenza a scendere di scala: a verificare – come fa invece sempre Ginzburg – nel caso specifico e concreto la tenuta (e quindi i limiti) delle proprie spesso condivisibili convinzioni. White non si scontra mai con le piccole, grandi difficoltà che Ginzburg affronta nella pratica quotidiana e che non è affatto disposto a sottovalutare, e tanto meno a trascurare e a negare.
La critica, da parte di Ginzburg, secondo cui la storia così come concepita da White, attenuando il proprio rapporto con la verità, aprirebbe a una illimitata proliferazione di mere interpretazioni in ultima analisi equivalenti – ossia indimostrabili e inconfutabili – è pertanto una critica di per sé corretta, ma a patto che, innanzi tutto, riconosca a White i giusti meriti. Come giustamente osserva Tortarolo, "se c'è un obiettivo polemico [in White], questo non è certamente lo storico che è convinto di essere in grado di rappresentare la realtà del passato, ma piuttosto lo storico che si illude di farlo senza porsi il problema della forma da dare alla propria rappresentazione del passato e si illude che la subordinazione passiva al documento sia la soluzione alla questione di come utilizzare le fonti e più in generale di trovare un ordine, raccontabile, nel caos del passato". In tale convinzione è difficile non dare ragione a White. Che, poi, una posizione come la sua possa condurre, per derive progressive, ad aberrazioni sarà vero, ma comunque tutta da dimostrare è la responsabilità diretta dei presupposti teorici sugli esiti storiografici: White, poi, esprime idee diffuse e in ampia misura accettate nelle scienze umane; le sue convinzioni sono condivisibili anche in ambito storico e comunque non facilmente liquidabili; attribuirgli, inoltre, le responsabilità di sviluppi altrui – leggi Faurisson – rischia di tramutarsi nella costruzione della figura del 'cattivo maestro'; Ginzburg, infine, non si chiede mai dove condurrebbe – e se, anzi, sia possibile – un rifiuto totale delle tesi di White.
Vi è, del resto, più di una ragione per credere che, per Ginzburg, White costituisca una sorta di capro espiatorio da sacrificare sull'altare della riflessione, per lo storico angosciosa, sulla deontologia professionale: su di lui, infatti, egli fa ricadere una serie di accuse di cui l'accusato non è in prima persona responsabile, e che avrebbero inoltre potuto essere fatte ricadere su altri; di più, e sintomaticamente: di alcune delle critiche che Ginzburg rivolge a White sarebbe egli stesso – in quanto autore, tra l'altro, di quello che è spesso ritenuto il suo capolavoro: Il formaggio e i vermi – passibile. Se, ora, ci si interroga sulle ragioni di una tale animosità, la risposta non può che essere ipotetica. A nostro giudizio, essa è da ricercare in una sorta di regolamento di conti che, da ultimo, Ginzburg è intento a compiere nei confronti di una parte cospicua della propria stessa produzione storiografica – quella precedente alla metà degli anni ottanta. Le tracce di questo regolamento di conti non mancano nell'opera dello storico. Nell'Introduzione a Miti emblemi spie (1986), ad esempio, Ginzburg parlava di un crescente "agonismo largamente interiorizzato", osservando: "Il mio antagonista interno è diventato molto più forte che in passato. Una volta egli mi poneva delle obiezioni che riuscivo generalmente a superare, in un modo o nell'altro – nel peggiore dei casi, ignorandole. Ma mentre lavoravo a Spie credo di aver provato per la prima volta una sensazione che negli anni successivi è diventata via via più precisa: non sapevo se parteggiare per me o per il mio avversario. Non sapevo se volevo ampliare l'ambito della conoscenza storica o restringerne i confini; risolvere le difficoltà legate al mio lavoro o crearmene continuamente di nuove". Le parole di Ginzburg paiono premonitrici: la scelta compiuta in seguito a tale dichiarazione sarà quella di restringere i confini all'ambito della conoscenza storica; o meglio: di far corrispondere a un allargamento dell'ambito tematico da indagare – Ginzburg si è nel frattempo interessato a disparati argomenti – un arroccamento metodologico nel proprium della disciplina. In altri termini, pare quasi che Ginzburg, dopo aver contribuito con la microstoria (e quindi proprio con Il formaggio e i vermi) ad ampliare i confini disciplinari, abbia avvertito i rischi e i pericoli connaturati a una tale operazione; e abbia compiuto un passo indietro. "Proprio Ginzburg – osserva non a caso proprio White in un'intervista rilasciata il 5 novembre scorso a "Il manifesto" –, un uomo molto colto, che ha una concezione della verità storica profondamente biblica e che si appella alla verità storica, ha scritto cose di pura fantasia, come Il formaggio e i vermi, un libro che nega ogni aspetto di finzione e che si presenta come un testo storico ma che è, in realtà, una storia fantastica, costruita sulla base di due sole pagine di documenti dell'Inquisizione".
La veemenza della critica a White forse non è estranea a questa inversione di tendenza nel percorso intellettuale di Ginzburg. E, questo, tanto più in quanto White mette in discussione proprio quanto Ginzburg è oggi intento a racchiudere all'interno della cittadella della disciplina: la realtà come l'oggetto della storia, la verità come il suo obiettivo, la prova come il suo precipuo strumento. Questo non significa che le critiche che Ginzburg rivolge a White siano per principio sbagliate e infondate; il problema di fondo che egli pone e il timore che esprime nei confronti dei pericoli che riconosce in alcune attuali derive della ricerca storiografica sono, anzi, del tutto condivisili; troppo spesso i suoi strali cadono però fuori bersaglio.
D'altro canto, osservati dall'esterno, pare quasi che sia a White che a Ginzburg – arroccati in posizioni contrastanti, a contendersi sugli stessi problemi da prospettive che non riescono a integrarsi e a dialogare – faccia difetto la capacità di mettere in discussione il proprio punto di vista. In fondo, essi suggeriscono la necessità di un profondo ripensamento della storia. Ma un ripensamento che sia all'altezza della consapevolezza di quanto problematico sia lo statuto della storia sembra poter provenire soltanto dalla dialettica tra le loro posizioni. Che questa impresa, poi, sia possibile non è detto – per saperlo, occorrerebbe infatti intraprenderla.
5. Storia e progetto
In cosa può consistere un profondo ripensamento della storia? A suggerirlo è quella responsabilità etica che Ginzburg implicitamente assegna, come compito, allo storico – e la cui mancanza imputa a White e a coloro che aderiscono alla sua teoria. A parere di Ginzburg, come si è visto, il relativismo di White è colpevole di aprire a indefinite rivisitazioni e revisioni – tra cui egli annovera, come caso esemplare, quelle compiute da Faurisson a riguardo dell'Olocausto. Ora, se in prima istanza la critica di Ginzburg appare condivisibile, occorre notare come essa presenti un limite decisivo, speculare – ma in quanto tale identico – a quello che imputa a White: essa, infatti, non si chiede in nome di cosa occorra limitare la proliferazione delle interpretazioni. Se la teoria della storia enunciata da White, con la sua insistenza sul carattere intrinsecamente narrativo della narrazione storica e la sua tendenziale equiparazione di quest'ultima alla narrativa tout court, non si pone il problema di come escludere dalla disciplina interpretazioni aberranti (ed è, in definitiva, costitutivamente impossibilitata a farlo), la posizione di Ginzburg inclina implicitamente verso un arroccamento su certe (quali? e perché mai necessariamente più valide?) letture del passato: in altri termini, tende a privare la storia della propria facoltà di dubitare di se stessa, di passare sempre di nuovo al vaglio le proprie costruzioni, di provarsi sempre – per dirla con Walter Benjamin – a "passare a contropelo la storia". È, allora, innegabile che uno studioso come Faurisson impieghi a fini aberranti e grotteschi una tale facoltà; ed è altrettanto evidente come, in generale, questo impiego sia foriero di pericoli; ciò malgrado, tale facoltà è la premessa dell'inesausto processo di autocritica che, nel caso migliore, la storia continuamente esercita su se stessa. Non ogni revisione delle letture consolidate è, insomma, di per sé revisionista.
A ben vedere, l'indefinita proliferazione delle interpretazioni e l'aprioristica chiusura nei loro confronti sono il frutto di una medesima latitanza: quella della storia come progetto. L'assenza di un progetto conduce White ad assegnare la medesima validità a innumerevoli narrazioni, e Ginzburg a rifiutarne alcune per principio – lasciando inesplicato il principio stesso a cui si appella, in nome di una indiscussa idea di "verità", vagheggiata ma mai chiarita. La critica che White rivolge a quegli storici che del fatto fanno un 'feticcio' è la medesima che, tra i tanti, alcuni dei più acuti storici marxisti hanno rivolto a una concezione della storia (quella dello Storicismo ottocentesco, con la sua pretesa di appurare una volta per tutte la verità sul passato) votata, in nome del fatto, a giustificare e a mantenere lo status quo; ma in White manca del tutto l'intonazione etica o politica, ed è proprio questa mancanza a rendere trascurabile – indifferente – la scelta tra un'interpretazione e un'altra. Si produce, in tal modo, un'implicita abdicazione al ruolo intellettuale proprio dello storico: il mezzo – l'insistenza sulla possibilità di offrire del passato letture diverse – si è fatto un mezzo senza fine – intendendo fine la potenzialità della storia di aprire prospettive altre sul passato, ergo sul presente, ma non prospettive qualsiasi, bensì: capaci di scardinare i presupposti condivisi, i fondamenti non detti su cui il presente riposa. La teoria della storia esposta da White sembra, così, indebolita da due opposte manchevolezze: da un lato, dal fatto di trascurare in toto la specificità della storia (e qui giungono a proposito le critiche di Momigliano e Ginzburg), e, dall'altro di aprire le porte – dopo essersi preclusa la possibilità di porre argini – a qualsiasi re-interpretazione del passato. La critica da parte di Ginzburg del "relativismo" di White, così, coglie nel segno nel momento in cui espone il timore di una storia in cui qualsiasi interpretazione abbia diritto di cittadinanza, ma eccede nel momento in cui pare trascurare come la pluralità di interpretazioni sia non solo una ricchezza ma, pure, la premessa a nuove ricerche, la premessa, tra l'altro, del diritto dello storico – Ginzburg compreso – di dissentire e di proporre una nuova chiave di lettura (cosa che Ginzburg ben sa; non a caso, di recente egli si è schierato tra gli storici italiani che si sono opposti alla proposta di legge di Mastella sulla penalizzazione del negazionismo della Shoah).
Paradossalmente, proprio lo stesso si può però dire anche di Ginzburg. La difesa ad oltranza dei "fatti", con il suo implicito rifiuto della storia come produttrice di nuove prospettive ("interpretazioni narrative", per dirla con White) sul passato, conduce anch'essa a un'abdicazione al ruolo intellettuale dello storico: la responsabilità etica che conduce Ginzburg ad arroccarsi sui fatti è svuotata di ogni significato dal fatto di essere anch'essa un mezzo senza un fine – di essere orientata a proteggere le conoscenze acquisite (che spesso coincidono con il dettato dei vincitori), ma non necessariamente in nome della loro fecondità (stando a Ginzburg, che esse siano o meno feconde sembra anzi, a rigore, una domanda illecita).
I potenziali rischi che si annidano nelle due posizioni, contrastanti, di White e Ginzburg inducono così a formulare, dubitativamente, un compito per lo storico, oggi – quello di interrogarsi sul proprium della storia, a partire dalle seguenti, eluse domande: può lo storico rinunciare ad assumersi responsabilità di tipo etico? può un'autentica responsabilità etica evitare di prendere posizione nei confronti del presente? e come può farlo in mancanza di un progetto? Come ricorda Ginzburg nella postfazione a Il ritorno di Martin Guerre di Natalie Zemon Davis (anch'essa ripubblicata ne Il filo e le tracce), "principio di realtà e ideologia, controllo filologico e proiezione nel passato dei problemi del presente s'intrecciano, condizionandosi reciprocamente, in tutti i momenti del lavoro storiografico". Una tale, inesausta dialettica – come osserva Ginzburg – tende a inficiare una concezione della storia, come quella di White, portata a trascurare gli attriti con il "principio di realtà"; nella stessa misura, tuttavia, essa destituisce la storia di ogni pretesa di attingere immediatamente e asetticamente a "verità" e "realtà".
English abstract
The publication in Italy of a volume of collected essays by Hayden White, Le forme della storia (a cura di E. Tortarolo, Carocci, 2006) is the occasion to discuss the notion of history of the American scholar, and to revise Carlo Ginzubrg's view of it. In an essay included in Il filo e le tracce: vero, falso, finto (Feltrinelli, 2006), Ginzburg openly criticizes White's position on the relationship between history and reality, and the use of documentary evidence to prove facts. Against the Linguistic turn that sees history primarily as an act of interpretation and writing, Ginzburg argues relentlessy in favour of a notion of history as the recovery of reality.
keywords | Carlo Ginzburg; Hayden White; historiography; relativism; historical facts.