Nel repertorio dell’immaginario iconografico della mitografia antica del mondo greco, la vite e l’uva rappresentano il dono del dio straniero itinerante, il dono sovrannaturale di Dioniso che, grazie alla vite e ai suoi frutti, ha il potere di mettere in contatto mondi lontani e culturalmente diversi che, reclamando i suoi doni, conquistano e reinterpretano il senso di una comune identità collettiva.
Il “dono di Dioniso” cantato da Omero e minuziosamente descritto nella decorazione dello scudo di Achille con vigne e scene di vendemmia (Il. XVIII, 561-572), rappresenta il comune denominatore che segna le tappe più significative della vita dell’uomo tra potere e quotidianità, in Sicilia, in Oriente come in Occidente: dai solenni giuramenti ai banchetti, dai riti funebri alle cerimonie religiose, dai matrimoni ai simposi all’uso di tutti i giorni.
La Sicilia, grazie alla mescolanza di differenti elementi culturali filtrati dalla mediazione autoctona e arricchiti dagli apporti transmarini, soprattutto nell’area sud-orientale dell’isola rappresenta un modello fondamentale per lo studio dei vigneti, della produzione vinicola, del bere conviviale, del fenomeno simposiale e di tutto quello che ruota intorno alla cultura del vino.
È Diodoro Siculo a fornire il ritratto di una cantina siciliana della fine del V secolo a.C., nel passo in cui tratteggia la meraviglia dello storico Policleto di Larissa alla sua vista nella dimora del facoltoso acragantino Tellias. Da quella circostanza scaturì una delle descrizioni più significative di cantina greca siciliana, che lascia intuire l’intensa attività produttiva di un’‘impresa vitivinicola’ come quella del “primo cittadino per ricchezza e moralità di Akragas” (Diod., XIII, 89, 90) che possedeva
300 pithoi incassati nella viva roccia, ciascuno dei quali conteneva 100 anfore e, accanto ad essi, un pigiatoio rivestito di calce della capacità di 1000 anfore [ndr la capacità di misura di un’anfora era in media 20-30 litri ca.], da cui il vino scorreva nei pithoi tramite un sistema di canalizzazione (Diod., XIII, 83, 3).
Sul piano archeologico, il deposito contenente circa 800 anfore vinarie scoperto nella Stoà W di Kamarina, associato ad altri più piccoli magazzini (Di Stefano, 1999, 151; 1993-1994, 1369), assai probabilmente utilizzati per accogliere le cellae vinariae di un articolato complesso vitivinicolo, sembrerebbe richiamare la celebre cantina di Tellias, almeno per la considerevole capacità di approvvigionamento [Fig. 1].
In questo scenario economico-produttivo, una posizione di ‘qualità’ spetta a quei vini prodotti in Sicilia considerati, come diffusamente celebrati dalle fonti letterarie (Cerchiai Manodori Sagredo, 2013), tra i grands crus dell’antichità. Essi rivelano nei loro nomi una stretta parentela con i luoghi e i terreni generosi che li hanno nutriti: il Murgentinum da Murgenta, Morgantina; il Tauromerianum da Tauromenion, Taormina; l’Haluntinum da San Marco d’Alunzio (sul Murgentinum, cfr. Cato, De Agr. 6, 4; Varrone I, 25; Plinio, Nat. Hist. XIV, 35-38; Columella III, 2, 27; sul Tauromenion, cfr. Varrone, I, 25; Plinio, Nat. Hist. XIV, 25 e 66; Esichio, s. v.; sull'Haluntinum, cfr. Plinio, Nat. Hist. XIV, 80).
Una parte del ricco terreno di Eloro era probabilmente dedicato alla coltivazione del Pollios, il vino amabile di Siracusa che viene ritenuto da molte fonti oriundo della Tracia (cfr. Archestrato di Gela e Ippi di Reggio citati in Ateneo, Deipn. I, 28 b-c, 31 b): un espediente letterario questo, che ne nobilitava la genealogia attraverso una diretta discendenza dalla terra che aveva dato i natali a Dioniso. Pollios è lo stesso vino dolce da invecchiamento, forse antenato del Moscato di Siracusa, paragonato per qualità a quello di Lesbo e considerato il miglior vino sul mercato, talvolta ricordato anche come Biblinos (Teocrito, Id. XIV, 15), un vino che dopo il quarto anno è profumato come fosse appena uscito dalla pressa, ritenuto simile al miglior vino prodotto nell’isola di Cos. Alcuni di questi vitigni sono ancora oggi coltivati nelle regioni più famose del continente: dal Nero d’Avola al Moscato di Siracusa, dal Grillo al Cerasuolo di Vittoria e al Syrah, solo per citarne alcuni tra i più conosciuti. Il Syrah, in particolare, di colore rosso intenso e tendente al granato, tra i vitigni più complessi dell’ampelografia mondiale, sembrerebbe richiamare, almeno nella radice del suo nome, una possibile origine siracusana (Meredith e Boursiquot 2008, 17-20).
A testimonianza del dinamismo d’impresa che caratterizza questo settore, si ricordano alcuni contratti di vendita, tra cui quello che si riferisce alla cessione di un intero vigneto, corredato di tutte le infrastrutture necessarie all’impianto produttivo, nell’iscrizione che cita anche il nome del protagonista della compravendita, un certo Luson, figlio di Hippias (Manganaro 1989, 203-205). Queste pratiche e consuetudini rappresentano la realtà di un’élite della società ’imprenditoriale’ della Sicilia antica e coinvolgono nella loro quotidianità allo stesso tempo un’attività agricola specializzata – che richiedeva l’impiego di una cospicua forza lavoro con competenze specifiche che vanno affinando nel tempo le tecniche colturali – i sistemi di lavorazione nonché le modalità di gestione e organizzazione nello scenario produttivo.
L’aspetto immediato che affiora dalle più recenti ricerche nel territorio siciliano (Olcese et alii, in questo stesso numero di Engramma) è segnato, nella fase tardo-ellenistica e in quella successiva alla conquista romana, dall’emergere di un paesaggio variamente antropizzato, caratterizzato dalla presenza di insediamenti rurali di varia estensione che, da un lato, sembrano seguire le vocazioni produttive ereditate da un patrimonio di conoscenze comuni, dall’altro, delineano nuovi orizzonti produttivi per rispondere alle sopraggiunte esigenze imposte dal nuovo panorama politico che in età tardo-antica sarebbero ruotate attorno alla villa.
Tentare una ricostruzione del paesaggio produttivo delle villae nelle sue varie fasi storiche e nelle correlate problematiche economiche equivale a tracciare un quadro complesso dove a ogni testimonianza risponde un micro-contesto culturale che soddisfa criteri topografici e agronomici specifici. Tra questi, il caso della Villa che sorgeva lungo il corso del Tellaro in contrada Caddeddi, rappresenta in modo emblematico la specificità di un’intensa attività produttiva in senso vitivinicolo in età tardoantica. Forse come in nessun’altra parte dell’Occidente, la Villa del Tellaro sembra celebrare il vino siciliano nella magnifica scena della mescita del vino al banchetto en plein air ambientato sotto una tenda.
Nella ‘Stanza dei crateri’ poi, la ricchezza dei prodotti della terra presenti nella sua scenografica pavimentazione musiva è stata recentemente a ragione ribattezzata ‘Stanza di Bacco’ (Wilson 2016, 63-74), confermando ancora una volta l’esaltazione di Dioniso come celebrazione dell’esperienza condivisa del ‘bere’, come esercizio ‘sociale’ guidato dall’euphrosyne, secondo norme simposiali che ritualizzano il consumo convivale del vino.
Nel dipanarsi delle colture degradanti fino al mare con ritmo regolare, ormai tutt’uno con un paesaggio antropizzato e ben ordinato della cuspide sud-orientale della Sicilia, la vite e il vino del territorio siracusano si coniugavano agli impianti di grandi e piccole villae; e le annesse strutture produttive evocano ancora oggi aulici rimandi a divinità, numi ed eroi che prendevano parte a sontuose libagioni e impegnati simposi [Fig. 2]. Nel siracusano, i Greci e in seguito i Romani – parallelamente alle pratiche religiose connesse ai culti mistici di Dioniso/Bacco e al mondo dionisiaco – riuscirono ad affinare talmente le loro tecniche di coltivazione e di selezione delle viti, da assicurarsi prodotti di alta qualità e porre la Sicilia sud-orientale al centro di un complesso circuito di traffici mercantili. Ancor più, l’ascesa del cristianesimo avrebbe poi contribuito senza dubbio ad attribuire al vino un’ulteriore valenza sacralizzante.
Della Villa del Tellaro, straordinario esempio di architettura tardo-romana ispirata appunto al modello economico della villa, conosciamo solo la piccola porzione della sua pars urbana, rinvenuta casualmente negli anni '70 del secolo scorso negli strati di fondazione di una masseria d’età sette-ottocentesca (Voza 1973a; Voza 1973b). Oggi rimane a vista, musealizzato, un frammento della pars urbana destinata alla residenza del dominus e della sua familia, che si articola intorno a un grande peristylium con sala rettangolare a cielo aperto, cinta da un quadriportico a colonnato. Ben poco conosciamo, invece, delle parti fructuaria e rustica della Villa, ovvero quelle destinate rispettivamente alla lavorazione e custodia dei frutti della terra (olio, vino e grano) e ai magazzini per gli utensili da lavoro, sebbene siano stati rinvenuti anche un certo numero di indicatori correlabili alle attività produttive come macine, frammenti di dolia, falcetti, ecc., dei quali riferisce Columella nel suo celebre trattato.
La strategica posizione di questa Villa lungo le ubertose rive del Tellaro – che domina il paesaggio agrario fino ad Eloro e quindi fino al mare immediatamente prospiciente – insieme alla lussureggiante vegetazione della contrada Caddeddi in cui essa sorge, rappresentano dunque le coordinate principali di un sistema che ne faceva la proprietà ideale del suo dominus, ovvero di quell’aristocratico intellettuale che si dedicava all’otium honestum per controllare le attività produttive del proprio fundus, del quale tuttavia non ci è dato di conoscere il nome. Gli ambienti funzionali e gli apparati decorativi tipici dell’Occidente romano si combinano secondo una logica dell’ ‘abitare’ che nel tardo-antico supera il concetto stesso di residenza destinata alla sussistenza della familia del dominus, per quanto agiata, per diventare un luogo di rappresentanza politico-amministrativa, epicentro di un complesso produttivo all’interno del latifondo. In questo scenario, mentre il dominus conduceva gli affari relativi al suo latifondo, la pars urbana della Villa si articolava in spazi di rappresentanza, sale d’udienza e tricliniari, corredate da lussuose suppellettili, rivestimenti marmorei e tappeti musivi tra i più preziosi, assecondando così al tempo stesso le esigenze di prestigio richieste dal dominus.
Come sostiene Wilson a proposito della Villa tardo-antica di Piazza Armerina (Wilson 1983a), dove non sono stati trovati ambienti adatti a ospitare i dipendenti amministrativi e i servi diretti del dominus con le relative famiglie, anche per la Villa del Tellaro è ipotizzabile che questi spazi dovessero essere situati in una zona separata, più strettamente connessa con strutture funzionali alle attività agricole e probabilmente individuabili (Carandini, Ricci, De Vos 1982, 163; cfr. anche Wilson 1983b, 69-70) nel quartiere che ha restituito scarichi di fornace tardo-imperiali o bizantini.
La Villa del Tellaro, di cui è fruibile solo una piccola parte rispetto alla ben maggiore estensione originaria del complesso, rappresenta uno dei pochi casi finora documentati in Sicilia – insieme alle ville di Piazza Armerina e di Patti Marina – che possano identificarsi come residenze rurali tardo-antiche di grandi dimensioni, caratterizzate da considerevoli manifestazioni di lusso. Particolarmente significativi sono i mosaici policromi con scene figurate correnti e/o geometriche che si sviluppano sul piano pavimentale. La scena del riscatto del corpo di Ettore e la pesatura del suo corpo con le figure di Ulisse, Achille e Diomede sono scene tratte dall’Iliade che, insieme alle scene di caccia e di Eroti e Satiri, rientrano in un codice rappresentativo conosciuto ed è reso con una freschezza compositiva e cromatica di alto livello che trova confronti solo nell’Africa proconsolare (Wilson 2016).
Tra i mosaici la scena più interessante per la sua connotazione conviviale è quella del banchetto en plein air, che rappresenta un momento di libagione dove la mescita del vino ricorre in diversi gesti significativi. La scena evoca certamente, nella sua dimensione simbolica, quella del simposio, al quale prendevano parte esclusivamente uomini, seguendo un cerimoniale rispettoso di precise norme liturgiche dove la presenza di Dioniso era assicurata dalla bevanda che lui stesso aveva dato in dono all’uomo. L’atmosfera è quella di una festa in cui il bere insieme si configurava come un atto mistico-sacrale con tanto di offerte votive, ghirlande di edera e mirto, inni alla divinità generalmente accompagnati dall’aulòs, dalla cetra o dalla lira. Qui i convitati sono disposti intorno a uno stibadium, sotto una tenda tesa fra i rami di alberi illustrati in maniera sorprendentemente realistica. Nella parte mediana della scena si notano tracce di un cattivo restauro eseguito in antico, dove del commensale posto al centro (forse il dominus) resta solo il braccio sinistro.
Nella scena a sinistra è rappresentato un momento particolarmente importante del convivio [Fig. 3], ovvero l’atto del miscelare il vino con l’acqua (forse già aromatizzata), presumibilmente secondo quantità prescritte dal simposiarca, arbiter bibendi dell’occasione. Il personaggio a sinistra, un servo, trattiene nelle mani due contenitori per servire liquidi: con la sua destra versa un liquido non meglio identificato nel bicchiere tenuto dal primo banchettante, già mezzo pieno di vino rosso e reso con piccole tessere musive da un bel colore rubicondo; nella scena contigua a sinistra vi è una cesta con altri tre contenitori della stessa tipologia vascolare.
Al lato diametralmente opposto della mensa [Fig. 4] corrisponde un altro personaggio, ancora un servo, colto nell’atto del versare acqua in una patera per consentire al commensale di lavarsi le mani prima del pasto.
In questo quadro bucolico di convivialità, l’unica bevanda identificabile è inequivocabilmente il vino rosso presente nel calice del commensale a sinistra della tavola, mentre per gli altri vasi per liquidi che ritroviamo sulla scena possiamo solo provare a immaginare cosa potessero contenere. Sappiamo infatti che il vino puro, quello che i Romani chiamavano temetum e che i Greci, con piena consapevolezza etnocentrica, concepivano come la cifra di un modo di bere barbaro e primitivo, era miscelato con altre sostanze vegetali, minerali e aromatiche, dando luogo a un’ampia gamma di bevande dai bouquet più vari.
Al lato diametralmente opposto della mensa [Fig. 4] corrisponde un altro personaggio, ancora un servo, colto nell’atto del versare acqua in una patera per consentire al commensale di lavarsi le mani prima del pasto.
Le fonti classiche riferiscono che i Romani non solo provvedevano a combinare il vino con miele, mirto, rosmarino, assenzio, pistacchio, timo, issopo, menta, finocchio, ma facevano anche generoso ricorso perfino all’acqua di mare (vini salsi) per migliorarne le qualità. L’aggiunta dell’acqua di mare, in particolare, favoriva la conservazione del vino grazie alla presenza del cloruro di sodio, il quale, oltre a vivacizzarne il gusto, grazie alle sue proprietà antibatteriche ostacolava la fermentazione degli acidi acetici e rallentava il sorgere della muffa, tanto che Columella ne raccomandava largamente l’uso in tutte le regioni e per qualunque tipo di vendemmia:
Nec solum huic notae vini sal adhibendus est, verum, si fieri possit, in omnibus regionibus omne genus vindemiae hoc ipso pondere saliendum est; nam ea res mucorem vino inesse non patitur (Col. XII, 23,3).
Il registro iconografico che si svolge nella cosiddetta ‘Stanza dei crateri’ è caratterizzato dalla presenza dei quattro grandi vasi, utilizzati per mescolare vino e acqua nel simposio, disposti agli angoli della sala e collegati da ricchi festoni di girali, fiori e frutti, teste di satiri e sileni, che definiscono altrettante aree sceniche, più una quinta, quella centrale, andata quasi completamente perduta.
In quest’ultima, grazie all’attenta rilettura di Wilson (Wilson 2016), è stata messa in evidenza la presenza di una porzione musiva riconducibile a un tirso [Fig. 5], di cui è distinguibile l’asta della ferula sormontata dalla pigna e i due nastri svolazzanti, attributo tipico di Bacco e dei suoi seguaci.
Alla scena centrale, che assai verosimilmente doveva accogliere il busto di Bacco con la sacra ferula, fanno eco le quattro aree semicircolari incorniciate da festoni, con i rispettivi emblemata raffiguranti scene di satiri e menadi presso un’ara ripresi in atto di danza con pedum e cembalo, che ben riverberano la dimensione sacra del culto a Dioniso e che suggeriscono di ribattezzare quest’ambiente come ‘Stanza di Bacco’. La ricca varietà botanica è ancora sottolineata dalla presenza di grappoli d’uva, che fuoriescono dal cratere dell’angolo nord-est della stanza, unitamente agli altri frutti della terra nei quali Wilson identifica, tra le altre, le specie di pyrus communis, mespilus germanica, prunus persica.
Come al Tellaro, anche alla Villa del Casale di Piazza Armerina la rappresentazione degli eroti vendemmiatori [Fig. 7] nel cosidetto xystus a pianta ovoidale, o la scena di Ulisse nell’appartamento della domina colto nell’atto di offrire la coppa di vino a un curioso Polifemo a tre occhi [Fig. 8], rivela a chiare note un messaggio collettivo di prosperità legato ai prodotti della terra e al piacere conviviale del vino. Allo stesso tempo non sfugge, su un altro registro di lettura, il significato allegorico del vino di Ulisse donato a Polifemo con l’inganno, fermamente consigliato dalla ratio che vince le passioni, per svelare forse una richiesta iconografica voluta da un proprietario della Villa colto e raffinato, a Piazza Armerina come al Tellaro.
Da quel complesso produttivo della Villa, che aveva messo a frutto i latifundia selezionando, piantando e coltivando i vitigni che crearono ricchezza, discende, più o meno consapevolmente, la realtà vitivinicola dell’odierna economia imprenditoriale siciliana. Oggi questa realtà sembra avviata verso una riconquista dell’antico e una riscoperta delle vocazioni del territorio, per riguadagnare un rapporto diretto tra l’uomo e l’agricoltura e tornare quindi alla dimensione che più le pertiene, come insegna Serge Latouche nella sua nota teoria della decrescita felice.
Riferimenti bibliografici
Carandini, Ricci, De Vos 1982
A. Carandini, A. Ricci, M. De Vos, Filosofiana. La Villa di Piazza Armerina, Palermo 1982.
Cerchiai Manodori Sagredo 2013
C. Cerchiai Manodori Sagredo, Nettare di Dioniso: la vite e il vino attraverso le parole degli autori antichi, Roma 2013.
Di Stefano 1998
G. Di Stefano, L’agorà di Camarina in Sicilia, in Proceedings of the XVth International Congress of Classical Archaeology (Amsterdam July 12-17, 1998), Amsterdam 1999, 149-153.
Di Stefano 1993-1994
G. Di Stefano, Scavi e ricerche a Camarina e nel Ragusano (1988-1992), “Kòkalos” 39-40 (1993-1994), II, 2, 1367-1421.
Gallocchio, Pensabene 2010
E. Gallocchio, P. Pensabene, Rivestimenti musivi e marmorei dello xystus di Piazza Armerina alla luce dei nuovi scavi, in C. Angelelli e C. Salvetti (eds.), Atti del XV Colloquio AISCOM (Aquileia 4-7 febbraio 2009), Tivoli 2010, 333-340.
Guidobaldi 2000
F. Guidobaldi, Distribuzione topografica, architettura e arredo delle domus tardoantiche, “Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana” (catalogo della mostra), Roma 2000, 134-136.
Manganaro 1989
G. Manganaro, Casa e terra a Kamarina e Morgantina nel III-II a.C., “Parola del Passato” 44 (1989), 189-216.
Meredith, Boursiquot 2008
C. P. Meredith, J. M. Boursiquot, Origins and importance of Syrah around the world, International Syrah Symposium (Lyon 13-14 May 2008), Oenoplurimédia, 17-20.
Pensabene 2009
P. Pensabene, I mosaici della Villa Romana del Casale: distribuzione, programmi iconografici, maestranze, in M. C. Lentini (ed.), Mosaici Mediterranei, Caltanissetta 2009, 87-115.
Sfameni 2006
C. Sfameni, Ville residenziali nell’Italia tardoantica, Bari 2006.
Vera 1983
D. Vera, Temi e problemi della Villa di Piazza Armerina, “Opus” 3 (1983), 581-593.
Wilson 1982
R. J. A. Wilson, Roman Mosaics in Sicily: The African Connection, “American Journal of Archaeology” 86, 3 (Jul. 1982), 419-420.
Wilson 1983a
R. J. A. Wilson, Piazza Armerina, London 1983.
Wilson 1983b
R. J. A. Wilson, Luxury Retreat, Fourth-century Style: A Millionaire Aristocrat in Late Roman Sicily, “Opus” 3 (1983), Roma, 537-552.
Wilson 2016
R. J. A. Wilson, Caddeddi on the Tellaro: A Late Roman Villa in Sicily and Its Mosaics, Babesch Supplements 28, Leuven 2016.
Voza 1973a
G. Voza, I mosaici della Villa del Tellaro, in G. Voza e P. Pelagatti (a cura di), Archeologia della Sicilia sud-orientale, Siracusa 1973, 173-179.
Voza 1973b
G. Voza, La Villa del Tellaro, Siracusa 1973.
English abstract
This paper discusses the ancient wines considered among the grands crus of antiquity in Sicily, as widely mentioned by literary sources. The wealth of the late-Roman Villa on the Tellaro river, near Noto in South-East Sicily, with its extraordinary landscape still covered in vineyards and surviving polychrome mosaics in its pars urbana, is an emblematic model of the variety and fineness of ancient fortunes.
The paper also alludes to the mosaics that highlight the aristocratic taste of the Villa’s dominus, used to entertain and impress his guests with some scenes from Homer's Iliad, coupled with an en plein air picnic (with the diner on the left holding a glass of red wine) and four overflowing craters with rich harvests goods, including grapes. The luxury of the rooms such as the ‘Room of Bacchus’, as recently re-baptized by Wilson (2016), seems to particularly deliver a unique message of opulence and appears to invite guests to celebrate the God of wine.
keywords | Dionysus; Sicily; Greek culture; Wine; Archeology.
To cite this article: E.F. Castagnino Berlinghieri, Archeologia e cultura del vino in Sicilia, “La Rivista di Engramma” n. 143, marzo 2017, pp. 77-87 | PDF of the article