"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

150 | ottobre 2017

9788894840261

La leggenda del re morto

I figli che saettano il padre come exemplum di calunnia e d’empietà. Recupero di una leggenda medievale nel settimo rilievo dell’architrave del loggiato della Calunnia di Apelle

Sara Agnoletto

English abstract 

Nel rilievo scolpito sull’architrave del loggiato della Calunnia di Apelle di Sandro Botticelli, in posizione A7, sono rappresentati due uomini: uno, sulla destra, siede nudo sopra un blocco di pietra, in cima a una rupe, con le braccia dietro le spalle, forse legate attorno al tronco di un albero che si intravede sullo sfondo. La sua figura, massiccia, è piegata in avanti, il capo rivolto verso il basso. Di fronte a lui, sulla sinistra del riquadro, un arciere tende l’arco e lo prende di mira, puntandolo al petto. È anch’egli nudo, ma la sua taglia è più piccola rispetto a quella dell’altra figura.

1 | Botticelli, Calunnia di Apelle, tempera su tavola, 1495 ca. Firenze, Galleria degli Uffizi, dettaglio; schema della Calunnia: in lilla la posizione del riquadro A7 
2 | Sandro Botticelli (o Bartolomeo di Giovanni), La sagittazione del padre morto (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, 1495 ca., Firenze, Galleria degli Uffizi.

Il rilievo fu identificato da Hermann Ulmann come Die Befreiung des Prometheus (la liberazione di Prometeo), una tesi che è stata accolta anche da altri studiosi. In effetti, l’immagine presenta alcuni elementi iconografici che possono indurre a pensare si tratti del famoso episodio mitico: la figura maschile seduta con le braccia dietro le spalle, in una ambientazione rocciosa, potrebbe essere Prometeo incatenato sul monte del Caucaso; mentre la figura con l’arco potrebbe essere Ercole che libera il Titano trafiggendo con una freccia l’aquila che lo tormenta, prima di scioglierlo dalle catene che lo immobilizzano. Eppure qualcosa in questa lettura, non funziona: infatti, attenendoci rigorosamente a ciò che si vede raffigurato, Ercole starebbe sul punto di trafiggere con una freccia proprio il petto di Prometeo, e non l’aquila di cui nel riquadro non c’è nessuna traccia.

All’interno di questo breve saggio si cercherà, con l’aiuto di Jerzy Miziolek e, prima, di Wolfgang Stechow e di Carlo Delcorno che hanno dedicato all’argomento studi importanti, di ricostruire la fortuna testuale e iconografica e il valore semantico attribuito a uno dei temi meno noti dell’iconografia tardo-medievale e moderna (Stechow 1942, Delcorno 1989, Miziolek 2001). ’I figli che saettano il padre’, ovvero ’La leggenda del re morto’: tenteremo di dimostrare che proprio questo è il soggetto rappresentato nel rilievo del fondale della Calunnia.

La tradizione letteraria della leggenda

Nel trattato Baba Bathra (Ultima Porta) del Talmud babilonese risalente al IV secolo d.C. (il testo fu assemblato ed editato dal Rabbi Ashi, 352-427 d.C.) si riferisce di un uomo che, venuto a conoscenza del fatto che solo uno dei suoi figli è suo figlio biologico, decide di lasciargli tutti i suoi beni, senza però specificare chi egli sia. Morto l’uomo, siccome non si riesce a stabilire a chi spetti l’eredità, il caso è presentato al rabbino, che istiga i figli a recarsi al sepolcro del padre e a flagellarlo, affinché questi resusciti e sciolga ogni dubbio circa le sue volontà. Solo il figlio legittimo si rifiuta di compiere l’infame azione, cosicché il rabbino decide di consegnargli l’eredità paterna:

In un momento di confidenziale effusione e di straziante rimorso, una madre raccomandava a calde lagrime l’onestà e la virtù alla sua fanciulla, e con vivi colori le dipingeva la propria infelicità, creata dalle sue colpe, e nell’impeto del ragionare e del piangere lasciava intendere che di dieci suoi figliuoli un solo era legittimo. Il marito ascoltò per caso questo dialogo e questa terribile confessione, la quale, confermandogli antichi sospetti, gli portò nell’animo l’angoscia e la disperazione. Giunto all’ora di disporre dei suoi averi, egli così si espresse: "Lascio tutte le mie ricchezze al mio figlio". Sorse tosto tra i giovani gravissimo dissidio, e ciascuno pretendeva di essere il figliuolo prescelto; e non potendo venire ad un accordo fra loro, si presentarono a Rav Benahà, affinché portasse sentenza. Il savio disse: "Nessuna prova qui soccorre al giudice, sulla quale possa posare la sua sentenza. Ordunque, recatevi tutti al sepolcro del padre e flagellatelo, finch’egli stesso sorga dalla tomba e spieghi le sue parole". Gli sciocchi si precipitarono tosto al cimitero per tentare la prova suggerita dal savio: Un solo, impedito da natura e ribrezzo, stette immobile, e dichiarò che mai non avrebbe potuto risolversi a commetter quel sacrilegio. Il savio allora disse: "Questi è il figlio prescelto: a lui spetta l’eredità paterna" (Talmud Baba Bathra, 58; cfr. Levi 1861, 264-265).

Carlo Delcorno, autore del saggio I figli che saettano il padre, riferisce che la leggenda fu adottata dalla letteratura medio-latina occidentale nella prima metà del XIII sec. “in un periodo in cui il Talmud è al centro dell’interesse della Chiesa, e diventa oggetto di polemiche e proibizioni ecclesiastiche, culminanti nei processi e nei roghi di parigini del 1242” (Delcorno 1989, 165). Diventato parte del patrimonio letterario cristiano, il racconto ebbe una diffusione amplissima e ininterrotta fino al XVIII secolo. Durante questa lunga tradizione, il testo talmudico originario fu stravolto e subì molteplici ritocchi narrativi, che riguardavano ora il numero dei figli, ora la natura della profanazione (il corpo del padre viene trafitto da lance o frecce), ora l’identità del padre (talvolta re, talvolta imperatore, talvolta militare), e la sostituzione del rabbino con un giudice, spesso identificato con il Re Salomone, un podestà o un comes.

Già all’inizio della sua fortuna in Occidente, si impongono due distinte letture della leggenda: una più letterale, l’altra metaforica. Alla prima lettura, che interpreta la leggenda come un exemplum di pietà filiale, appartiene la più antica testimonianza del racconto, inclusa nel De Naturis rerum di Alexander Neckam (morto nel 1217), “un autore che per la sua familiarità con i rabbini poté avere facile accesso al Talmud” (Delcorno 1989, 165). Come è evidente dal titolo che viene dato all’aneddoto – De adolescente qui nobilitate animi nobilitatem generis declaravit – per Neckam la storia dimostra che la virtú del figlio è il più certo indizio della sua illustre discendenza, e quindi del vincolo di sangue che lo unisce al padre defunto, “miles strenuus rebus abundans, maturi pectoris, nobilitate animi, genus geminans”. Sarà ancora Neckam a introdurre, forse derivandola da fonti orientali, la macabra cronaca della prova di abilità, nella variante della gara di tiro con lancia:

“adjecit etiam illum tanquam haeredem patri successurum qui in cadavere ibidem suspenso validissimum ictum praeberet. Milites duo praecepto comitis obtemperantes, vibrantes hastas, corpus emortuum vulneraverunt, ictibus robustissimis ipsum perforantes atrocissime” (Alexander Neckam, De Naturis rerum; cfr. Wright 1863, 313).

Tale variante verrà mantenuta nel poemetto confuso con i fabliaux, Le jugement Salemon, ma sarà sostituita, nelle successive versioni dell’episodio, dalla gara di tiro con l’arco, variante che verrà poi mutuata dalle arti figurative.

L’interpretazione della leggenda come exemplum di pietà filiale fu accolta dal religioso francese Stefano di Borbone che, nel Tractatus (la maggiore raccolta di exempla per la predicazione del Trecento), inserì il racconto sotto la rubrica De pietate parentum. Nonostante questa inserzione, nonostante la sua redazione sia stata diffusa anche dallo Speculum morale, e nonostante “l’exemplum figuri sotto le rubriche De filiis e Filiatio in alcune notissime raccolte, come la Scala coeli di Giovanni Gobi e la Summa praedicantium di Giovanni Bromyard” (Delcorno 1989, 166), tale lettura non godette di molta fortuna nell’ambito della predicazione. In Italia solo il più grande predicatore agostiniano del primo Trecento, Alberto da Padova (In evangelia quadragesimalia utilissimae canciones) e quindi, sulla sua traccia, Simone da Cremona (Postilla super evangeliis et epistolis omnium dominicarum), ricorsero a questo aneddoto come exemplum, per l’appunto, di pietà filiale.

Ma anche l’accostamento del racconto con il tema della pietas dovette diffondersi, dal momento che nelle Bible historiale l’episodio dei figli che saettano il padre morto illustra il Libro dei Proverbi, in cui viene stigmatizzato il comportamento irriverente dei figli nei confronti dei genitori:

Chi rovina il padre e fa fuggire la madre è un figlio disonorato e infame. Figlio mio, cessa pure di ascoltare l’istruzione, se vuoi allontanarti dalle parole della sapienza” (XIX, 2627); “Chi maledice il padre e la madre vedrà spegnersi la sua lucerna nel cuore delle tenebre”(XX, 20).

3 | I figli che saettano il padre, incisione, in Francesco Petrarca, Von der Artzney bayder Glück des guten und widerwertigen [... ], Augspurg 1532, II-55.

Una ricezione analoga occorre nella traduzione tedesca del De remediis utriusque fortunae di Francesco Petrarca (lib. II, cap. XLVI De amisso patre), pubblicata ad Augspurg nel 1532, in cui il capitolo Von einem verlorem Vater è corredato da un’incisione raffigurante i figli che saetano il padre morto. Anche in questa occasione l’aneddoto dei tre figli (oramai talmente noto da poterne essere tralasciata la didascalia) non viene raccontato, ma si insiste sulla pietà di padre e figlio (pium patrem, pium ille filium) e sull’importanza d’adottare da parte di quest’ultimo un comportamento pietoso verso il prossimo. Un secolo prima, inoltre, anche Giovanni Sercambi, nel suo Novelliere (raccolta toscana di novelle databile ai primi anni del Quattrocento), aveva narrato il racconto dei figli che saettano il cadavere del padre, insistendo proprio sulla pietà filiale, questa volta vincolandola indissolubilmente al perdono fraterno.

All’interno delle prediche, invece, prevalse piuttosto l’interpretazione del racconto come exemplum blasphemiae con “riferimento ad un sistema di immagini di origine scritturale, dove la freccia indica la parola aggressiva” (Delcorno 1989, 163). Secondo questa lettura il padre che viene saettato dai figli è il Padre celeste, le frecce sono le bestemmie, i bastardi i bestemmiatori, e il vero figlio è colui che ha orrore della bestemmia. Tale lettura si trova per la prima volta nella Summa vitiorum (1236-1239), opera fortunatissima del frate predicatore francese Guglielmo Peraldo che, da sola o abbinata alla Summa virtutum, esercitò un enorme influsso sulla predicazione e sulla letteratura religiosa, ed ebbe un’ampia diffusione in Italia dove, fin dal Quattrocento, ne circolava una versione vernacolare. Sarà questa interpretazione a fare capolino nelle prediche di Domenico Cavalca, raccolte nel Pungilingua (1330 ca.) nel capitolo intitolato Del peccato del bestemmiare Dio) e in quelle, più tarde, di Bernardino de Bustis (Rosarium sermonum [...], pubblicato per la prima volta nel 1494) e di Bernardino da Siena (predica XXVII Del danno del bestemmiatore, annotata dagli uditori a Firenze nella quaresima del 1424; predica X Questa è la predica quanto è peccato bestemmiare Idio, riportata dagli uditori a Siena nella primavera del 1425; e sermone XLI De orrendo peccato blasphemiae et de impietatibus eius, che fa parte del De christiana religione, il grande manuale scritto da Bernardino dopo il 1429).

Nella cultura del XIV secolo, il gusto per l’allegoria fa sì che l’exemplum dei figli che saettano il padre diventi

il veicolo allegorico dei più nuovi e disparati messaggi, mentre l’allegoria investe non più soltanto il significato complessivo del racconto, ma ne spiega pedantescamente tutti i dettagli (Delcorno 1989, 167).

Alla stesso modo Nicola Bozon, già nel secondo decennio del XIV sec., identifica i tre figli con tre distinte categorie di cristiani: coloro che fanno apertamente il male, gli ipocriti e i buoni. E ancora: nei Gesta Romanorum (1330 ca.), collezione di racconti e aneddoti popolarissima in tutta l’Europa rinascimentale, i figli, aumentati da tre a quattro, rappresentano i pagani, gli ebrei, gli eretici e i buoni cristiani. Inoltre, mentre “nei testimoni più antichi dell’exemplum non si precisava in che consistesse l’eredità, [...] nel Trecento il gusto per l’allegoria induce ad identificare l’eredità contesa con oggetti che hanno un forte valore simbolico nell’immaginario medievale” (Delcorno 1989, 167) come, per esempio, un vidriarum, trasparente allegoria del Paradiso nella Scala coeli, ovvero un prezioso anello che nelle Gesta Romanorum allude alla vita eterna.

Un altro aspetto della tradizione letteraria in aria occidentale su cui è importante soffermarsi per l’influenza che esercitò nella figurazione del soggetto, è la stretta relazione dell’exemplum con il celebre giudizio di Salomone, raccontato nella Bibbia (Primo Libro dei Re, 3, 16-27) e più tardi nelle Antiquitates Judaicae di Giuseppe Flavio (VIII, 2, 31). I due aneddoti sono accumunati da un chiaro nesso tematico, giacché in entrambi i casi il giudice propone una soluzione crudele (dividere a metà un neonato; profanare la salma del padre) per saggiare il sentimento di pietà nei riguardi dei parenti. Come osserva con acume Delcorno “si tratta quasi di un dittico specularmente simmetrico: nel primo giudizio si esalta la pietà della madre verso il figlio, nel secondo quella di un figlio per il padre” (Delcorno 1989, 168).

In alcuni casi il riferimento consiste solo in un rapido richiamo all’episodio biblico, abilmente menzionato nel momento in cui il giudice propone ai contendenti l’orribile prova: è questo il caso, per esempio, di Servasanto da Faenza che nella Summa de exemplis adversus curiosos scrive “Tunc sapiens iudex memor iudicii Salomonis consimile aliud fecit”. In altri casi, i due exempla sono disposti consecutivamente: nel Summa vitiorum del Peraldo e negli autori che ne seguono l’insegnamento (Bernardino nella sua predica sulla bestemmia del 1424; Giovanni Gritsch nel Quadragesimale) e in Giovanni Sercambi, il giudizio di Salomone segue la leggenda del re morto, mentre l’ordine è invertito nel Pungilingua di Domenico Cavalca e in un sermone quaresimale poi raccolto nel In evangelia quadragesimalia utilissimae canciones di Alberto da Padova.

In altri ancora la figura anonima e generica del iudex, del podestà, del signore o principe della terra chiamato a soprintendere al giudizio è esplicitamente soppiantata dal leggendario re di Gerusalemme. Questa versione, che in alcuni casi è associata alla “riduzione dei figli da tre a due sul modello delle due madri che si contendono il neonato” (Delcorno 1989, 168), è attestata in Francia e in testi d’area francese in lingua volgare per tre secoli. Il giudice viene expressis verbis chiamato ’Salomone’ dall’anonimo autore di un poemetto intitolato Le jugement Salemon, conservato nella raccolta Recueil de fabliaux, dits, contes en vers, datata alla seconda metà del Duecento (ms. 837 del fondo francese della Bibliothèque Nationale di Parigi), nella versione delle Lamentationes Matheoli di Jehan Le Fèvre, il Renart le Contrefait, e il Mistère du Viel Testament. Sempre con Salomone è identificato in un exemplum toscano facente parte di una raccolta trascritta nel ms. Riccardiano 2735 (datato al XV sec.) e nel Novelliere di Giovanni Sercambi, in cui Salomone è rappresentato non già “nella sua dignità regale, ma come un giovinetto che sfida il vero giudice, suo padre Davide” (Delcorno 1989, 172).

La tradizione figurativa della leggenda nell’arte d’Oltralpe

L’episodio dei figli che saettano il padre iniziò a circolare come tema figurativo nel Duecento, ed ebbe una speciale fortuna in Francia, dove di frequente fu associato alle scene bibliche del giudizio di Salomone. I primi tre testimoni di cui si ha notizia sono delle miniature risalenti al XIII sec. Due di esse sono oggi conservate presso la Pierpont Morgan Library di New York: una decora l’incipit del Libro dei Proverbi di Salomone di una Bibbia francese (1250-74) che probabilmente fu di proprietà di Isabella di Valois, figlia del re di Francia Giovanni II, andata in sposa nel 1360 a Gian Galeazzo Visconti; un’altra si trova nel margine inferiore di un foglio di uno dei salteri provenienti dalla diocesi di Liegi, datato all’incirca al 1280; la terza decora anch’essa un salterio della seconda metà del Duecento, conservato presso il Musée Historique Lorrain di Nancy.

4 | Scene della vita di Salomone, in Bibbia francese, 1250-74. New York, Pierpont Morgan Library, MS M.494, fol. 330r
5 | La sagittazione del padre morto (particolare fregio inferiore), in Salterio di Liegi, seconda metà del XIII sec., New York. Nancy, Musée Historique Lorrain, Pierpont Morgan Library, MS M.183, MS. 249, fol. 39.
6 | La sagittazione del padre morto (particolare deI fregio inferiore). In Salterio di Liegi, seconda metà del XIII sec., New York. Nancy, Musée Historique Lorrain, Pierpont Morgan Library, MS M.183, MS. 249, fol. 39.

Nel XIV secolo, di là delle Alpi, lo stesso soggetto si trova intagliato su uno stallo del coro ligneo della cattedrale di Colonia, datato alla prima metà del secolo, ancora una volta in abbinamento con il giudizio di Salomone. Ma nel Trecento, il principale veicolo di trasmissione di questa iconografia furono i codici miniati. Nel XIV e XV sec., infatti, ’La leggenda del re morto’ è di frequente l’illustrazione dell’esordio dei proverbi di Salomone nella cosiddetta Bible historiale (1291-1295 ca.) di Guiart Desmoulins, versione popolarissima e ampliata della Historia scholastica di Pietro Comestona, di cui si conservano ben 144 esemplari, completi o frammentari. In questi manoscritti la leggenda è inserita in una scena quadripartita, di cui occupa uno o talvolta anche due riquadri. Di seguito citeremo alcuni testimoni tra i tanti pervenuti (quelli già previamente riportati da Wolfagang Stechow): due esemplari della Bible historiale oggi conservati al British Museum di Londra, uno miniato dal maestro di Boqueteaux nel 1357 e l’altro dal “master of the coronation book of Charles V” prima del 1356; la Bible historiale di Carlo V (1371) del Museum Meermanno Westreenianumi dell’Aia; e la Bible historiale che appartenne al Duca Jean de Berry (1380-90).

7 | Scena quadripartita con immagini dei giudizi di Salomone, in Bible historiale, 1357, London, British Museum, Royal MS 17 E VII vol 2, fol. 1r.
8 | Scena quadripartita con immagini dei giudizi di Salomone, in Bible historiale, 1350-56 ca., London, British Museum, Royal MS 19 D II vol 2, fol. 273.
9 | Scena quadripartita con immagini dei giudizi di Salomone, in Bible historiale, 1371, Aia, Museum Meermanno Westreenianumi, MS 10 B 23, fol. 317.
10 | Scena quadripartita con immagini dei giudizi di Salomone, in Bible historiale, 1380-90, Paris, Bibliothèque Nationale de France, MSS Français 20090, fol. 290r.

Molto diffuso in Francia e nelle Fiandre, a partire dalla metà del secolo XV, in concomitanza con la perdita di popolarità della Bible historiale, questo tipo di rappresentazione miniata quadripartita divenne rara. Ma, nonostante la rarefazione dei testimoni, Oltralpe il motivo continuò ad essere rappresentato con frequenza: numerosi sono infatti i testimoni, soprattutto le incisioni, che ne attestano la diffusione durante il XVI secolo, particolarmente in Germania. Ancora nel XVII secolo il tema è ancora molto amato dai pittori di vetrate svizzeri (quest’ultimo sviluppo, che esula largamente rispetto l’arco cronologico di nostro interesse, si può approfondire grazie allo studio di Paul Boesch (Boesch 1954-55).

11 | Das Schiessen auf den toten Vater, in Der Renner, 1468, Colonia, Fondation Martin Bodmer, Cod. Bodmer 91, fol. 190 r
12 | Nicolaus Alexander Mair von Landshut, Das Schiessen auf den toten Vater, incisione, 1485-1510 ca. Cleveland, Cleveland Museum of Art.
13 | Maestro MZ (Matthäus Zasinger?), Das Schiessen auf den toten Vater, incisione, 1500 ca. New York, Metropolitan Museum of Art.
14 | Hans Baldung Grien, Das Schiessen auf den toten Vater, penna e acquerello, 1517, Berlin, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett.
15 | Thomas Schmid, Das Schiessen auf den toten Vater (particolare dalla Weissen Adler Haus), affresco, 1525 ca. Stein am Rhein, Canton Sciaffusa, Svizzera. 
16 | Anonimo, Das Schiessen auf den toten Vater, penna e inchiostro nero, 1529. New York, The Metropolitan Museum of Art.
17 | La sagittazione del padre morto, in Gesta Romanorum XLV, 1535- 45. New York, Pierpont Morgan Library, MS M.218, fol. 109 v.

18 | La sagittazione del padre morto, pettine eburneo, 1370 ca., Lucerna, Collezione privata.

La tradizione figurativa della leggenda nell’arte italiana

In Italia le due prime rappresentazioni della leggenda risalgono alla seconda metà del Trecento. Si tratta di due pettini eburnei: uno è datato agli anni ’80 del XIV secolo ed è conservato a Monaco presso il Museo Nazionale di Baviera; l’altro fu eseguito probabilmente un decennio prima e fa parte di una collezione privata di Lucerna.

I successivi testimoni che sono pervenuti risalgono alla seconda metà del secolo XV. Si tratta di un gruppo abbastanza eterogeneo di opere composto da un dipinto da spalliera di Marco Zoppo (1462 ca.); un’incisione di Baccio Baldini (1460-1480 ca.); un’illustrazione miniata della Bibbia Italica, conosciuta anche come Bibbia Malermi (1471); e due placchette di bronzo probabilmente eseguite nell’Italia settentrionale, una datata verso il 1480, l’altra verso il 1500.

19 | Marco Zoppo, La sagittazione del padre morto, frammento di una spalliera, tempera su tavola, 1462 circa. Los Angeles, County Museum of Art.
20 | Marco Zoppo, La sagittazione del padre morto, frammento di una spalliera, tempera su tavola, 1462 circa. Firenze, collezione privata.
21 | Baccio Baldini, La sagittazione del padre morto, incisione, 1460-80 ca. London, British Museum.
22 | Maestro dei putti, La sagittazione del padre morto, in Bibbia italica, Venezia, Vindelino da Spira, 1471, New York, Pierpont Morgan Library, PLM 26984, frontespizio del II volume.
23 | Anonimo, La sagittazione del padre morto, placchetta di bronzo, 1480 ca. Washington D.C., National Gallery, Samuel H. Kress Collection.
24 | Anonimo, La sagittazione del padre morto, placchetta di bronzo, 1500 ca. Washington D.C., National Gallery, Samuel H. Kress Collection.

Nel ’500, in particolare nella prima metà del secolo, sono ancora numerose le attestazioni che testimoniano la vitalità del tema. Si vedano: il riquadro di cassone di Alvise Donato (primo decennio del ’500); la spalliera del Bachiacca (1523 ca.); il disegno di Raffaellino del Colle (metà del ’500) – opere nelle quali l’iconografia del cadavere del padre si ispira al corpo di Marsia (secondo la postura del cosiddetto ’Marsia Rosso’, datato tra il 100 e il 200 d.C., restaurato da Mino da Fiesole e Andrea Verrocchio) che nell’ultimo quarto del Quattrocento era entrata a far parte della collezione dei Medici. Si aggiungono al regesto: due maioliche istoriate risalenti al 1540 ca. e un bassorilievo ovalato di alabastro datato alla fine della prima metà del XVI secolo. Sul finale del ’500, infine, si registrano tre ultimi testimoni: un disegno, che si trova presso la Historical Society di Madison (Wisconsin), ed è stato studiato da Stechow (Stechow 1942, 220); un dipinto, forse attribuibile a Federico Zuccari, conservato in una sconosciuta collezione privata, di cui dà notizia Andor Pigler (Pigler 1974, 462); un affresco che fa parte del ciclo pittorico della sala grande di Palazzo Giustiniani, in Roma, nota come Sala Zuccari, dal nome dell’artista cui era stata originariamente attribuita la paternità degli affreschi della volta (che invece più recenti studi hanno ascritto ad Antonio Tempesta e Pietro Paolo Bonzi e datato tra il 1586 e il 1587, quando il Palazzo non apparteneva ancora ai Giustiniani).

25 | Alvise de Donati, La sagittazione del padre morto, riquadro di un cassone, tempera su tavola, primo decennio del ’500, Cracovia, Castello Reale.
26 | Francesco Ubertini, detto Bachiacca, La sagittazione del padre morto, spalliera, olio su tavola, del 1523 circa. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Alte Meister.
27 | Raffaellino del Colle, La sagittazione del padre morto, disegno a penna, metà del Cinquecento, Frankfurt am Main, Städelsches Kunstinstitut.
28 | Anonimo, La sagittazione del padre morto, piatto di maiolica, 1540 ca., luogo di conservazione sconosciuto.
29 | Anonimo, La sagittazione del padre morto, piatto di maiolica, 1540 ca., Faenza, Museo Internazionale delle Ceramiche.
30 | Anonimo, La sagittazione del padre morto, bassorilievo in marmo alabastrino, metà del XV sec., Firenze, Museo Bardini.
31 | Antonio Tempesta e Pietro Paolo Bonzi, La sagittazione del padre morto, affresco, 1586-87, Roma, Palazzo Giustiniani.
32 | Anonimo, La sagittazione del padre morto, disegno a penna, 1600 ca., Madison (Wisconsin), Historical Society.

In generale, si può osservare come in Italia, la rappresentazione della leggenda dei figli che saettano il padre morto si emancipi precocemente dal supporto cartaceo per passare a decorare oggetti di uso comune (i due pettini eburnei e i due piatti in maiolica istoriati), arredi (il cassone di Alvise de Donati, le spalliere di Marco Zoppo e del Bachiacca, e il bassorilievo in marmo alabastrino che secondo Jerzi Miziolek poteva ornare qualche armadio o un caminetto) e interni (l’affresco di palazzo Giustiniani, unica raffigurazione monumentale della leggenda). Si tratta per lo più di oggetti di carattere laico, diffusi soprattutto in ambito privato.

In alcuni di essi permane l’associazione con il giudizio di Salomone, come nei due pettini eburnei, decorati sul retro con la scena del più celebre giudizio delle due madri; nell’illustrazione della Bibbia Malermi, in cui il giudice è rappresentato con le fattezze di un giovane Salomone, in linea con quanto raccontato nella novella di Giovanni Sercambi; nel cassone dipinto da Alvise Donati, in cui il nostro motivo è affiancato dal giudizio delle due madri e dalla storia della vestale Tuccia (allo studio di questo fronte di cassone dedica Jerzi Miziolek il saggio “Exempla” di giustizia, Miziolek 2001); nella serie di piatti di maiolica della collezione Strozzi Sacrati di Faenza, in cui sono raffigurati l’arrivo della regina di Saba da re Salomone e la sagittazione del padre morto (sul retro si legge La sententia di Salomone a li tre fratelli che al padre saggittavano) e la Storia della vestale Tuccia (per approfondire questo tema si rimanda a Bojani, Vossilla 1998); e nel ciclo di affreschi che decorano la galleria del Palazzo Giustiniani a Roma, la quale come noto ospitava un’importante collezione di antichità. Sul soffitto del salone, oltre alla scena del nostro giudizio, sono dipinti anche l’arrivo della regina di Saba e la più comune scena del giudizio di Salomone. Diversa la serie in cui era inserito il dipinto di Bachiacca, che fa parte di un ciclo pittorico eseguito per l’anticamera della dimora fiorentina di Giovanni Maria Benintendi: oltre a I figli che saettano il padre, facevano parte della serie anche L’Adorazione dei re Magi di Pontormo, Il Battesimo di Cristo dello stesso Bachiacca, Il Bagno di Betsabea del Franciabigio e San Giovannino di Andrea del Sarto.

33 | Sandro Botticelli (o Bartolomeo di Giovanni), La sagittazione del padre morto (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, 1495 ca. Firenze, Galleria degli Uffizi.
34 | Sandro Botticelli, Il martirio di San Sebastiano, tempera su tavola, 1473 ca. Berlino, Gemäldegalerie.

L’architrave A7 della Calunnia di Botticelli

Quando, sul finire del Quattrocento, Botticelli dipinse la Calunnia di Apelle, il racconto dei figli che saettano il corpo del padre morto circolava ancora ampiamente in Toscana, sotto forma di predica e anche di novella, e il pittore (o uno dei suoi consulenti) certo conosceva una, o più versioni del racconto e magari pure una sua rappresentazione. Tra i testimoni, particolarmente prossimo alla tavola degli Uffizi, sia per la cronologia che per il contesto in cui fu realizzata, è l’incisione di Baccio Baldini, datata al 1460-80 ca., che reca alle spalle del giudice uno scudo con l’arma della famiglia de’ Medici: sette bisanti o palle.

L’immagine dipinta sul fondale architettonico della Calunnia potrebbe dunque restituire una specie di compendio in forma abbreviata data la presenza di un unico arciere del tutto incongrua rispetto allo schema iconografico diffuso, come abbiamo visto, un po’ ovunque: una sorta di spot della leggenda che ne mette in luce solo il momento più barbaro e cruento. Sta di fatto però che le informazioni che si possono trarre dal minuscolo rilievo non bastano, da sole, a confermare questa ipotesi che, così proposta, apparirebbe assai debole: chi potrebbe escludere, infatti, che non si tratti di una rappresentazione del martirio di San Sebastiano o di San Cristoforo con cui l’iconografia del nostro soggetto è stata spesso confusa?

Per corroborare l’interpretazione del tema, ancora una volta ci viene in soccorso considerare il rilievo non come un elemento isolato, ma per ciò che è: il frammento di un insieme, il tassello di un mosaico semantico le cui parti sono collegate le une alle altre da rimandi continui a formare un ipertesto alquanto intricato. In questa prospettiva, proviamo a puntellare in modo più solido la nostra ipotesi.

All’interno della tradizione iconografica dell’exemplum che stiamo studiando è documentato un unico testimone in cui è omessa la rappresentazione del gruppo del giudizio: si tratta del salterio di Nancy, della seconda metà del Duecento. In esso, il particolare della macabra gara di tiro con l’arco illustra il salmo 52, in cui è pronunciata una condanna contro coloro, la cui lingua “è come lama affilata, artefice di inganni”, che preferiscono “il male al bene, la menzogna al parlare sincero” e che amano “ogni parola di rovina, o lingua di impostura”. Ad essi si contrappongono coloro che, al contrario, sono giusti e timorosi di Dio.

35 | La sagittazione del padre morto, particolare fregio inferiore, Salterio, seconda metà del ’200. Nancy, Musée Historique Lorrain, MS. 249, fol. 39.

Si tratta di un testo strettamente connesso con il tema della blasfemia, tema al quale il racconto dei figli che saettano il padre era abitualmente associato nelle prediche. Lo stesso tema, per altro, rimanda da vicino anche alla sfera della calunnia, della parola denigrante e diffamante, dell’accusa coscientemente falsa – tutti vizi ed errori contro i quali sia il quadro di Apelle che il precetto di Luciano mettono in guardia per exemplum. Nella Calunnia di Botticelli, la scelta del particolare rappresentato permette allo spettatore colto non solo di risalire dal laconico frammento figurativo alla totalità del racconto (metonimicamente, come pars pro toto), ma gli consente anche di focalizzare l’attenzione su di un’unica sequenza narratologica del testo, quella in cui un figlio è in procinto di trafiggere la salma del padre, facendo sì che la storia venga letta con una valenza decisamente negativa. L’azione, che offende la coscienza per la sua amoralità, muove alla condanna della calunnia; un ammonimento del tutto in linea con il tema del dipinto di Botticelli.

L’ipotesi che il riquadro in A7 venisse interpretato come un exemplum calumniae è indirettamente confermata anche dalla tradizione tardo-medievale e rinascimentale toscana: come suggerisce Maria Monica Donato, rientrava nell’uso rappresentare l’immagine della Verità che strappa la lingua alla Bugia come monito per i giudici, negli ambienti preposti all’amministrazione della giustizia. Così Donato:

L’immagine della Verità che strappa la lingua alla Bugia risale agli intimidatori apparati figurali delle chiese romaniche francesi, ma è già isolata nel rilievo murato all’esterno del Duomo di Modena, verso il mercato, in cui "Veridi(cus) linguam fraudis de guttura stirpai ". La potenzialità ’giudiziaria’ del tema fu però colta per la prima volta a Firenze, nel primo Trecento, in un perduto affresco di Taddeo Gaddi al Tribunale della Mercanzia, descritto dal Vasari. Alla cruenta operazione assistevano sei giudici (tanti ne contava il Tribunale), e una terzina esplicitava il nesso fra Verità e Giustizia: "La pura Verità per ubbidire / Alla Santa Giustizia che non tarda / Cava la lingua alla falsa bugiarda". La rilettura ebbe fortuna; a Pisa, in quello che è ora il Palazzo dei Cavalieri (già degli Anziani), è emerso anni fa un bel frammento, verosimilmente di primo Quattrocento, con la Verità designata come tale da un distico rimato, e come quella del Gaddi "vestita di velo su l’ignudo". Filarete propone il tema per il cortile del palazzo del Podestà; ed è notevole che la sua descrizione concordi con un affresco di primo Cinquecento nel cortile del palazzo di San Gimignano, riferito alla scuola del Sodoma:

"Io l’ho veduta dipinta: una donna ignuda, bella, amantata con uno candido velo; e in mano tiene una borsa piena di danari voltata di sotto in su [un rotulo nell’affresco] [...] e da l’altra mano tiene uno ramo d’olivo e i piedi alti sopra terra in su uno marmo bianco, e in capo tiene una colomba. E la Bugia è una femmina vestita di nero con i stivaletti in pie con molte legature, e in mano tiene una borsa piena di danari e tiella stretta, e da l’altra mano tiene una verghetta avoltolatovi su una serpe, e in capo ha uno corbo, li pie tiene bassi nell’acqua [...] E poi ho veduto che la Verità cava la lingua alla Bugia con uno paio di tanaglie di fuoco; e così la colomba che porta in capo la Verità cava la lingua al corvo".

In basso la pittura è abrasa, ma la Verità si scorge ancora; lì sarà avvenuta l’operazione, ordinata dal Giudice al centro: "...cava tu Verità alla Bugia / la falsa lingua qual sempre mentisce". La questione è da chiarire; ma più che ad una derivazione della pittura dal testo filaretiano, penserei ad un modello comune: forse proprio quello fiorentino, cui rimanda anche la presenza del giudice. Si tratta, in ogni caso, di un’ottima prova del persistere, in provincia, di un lessico di antiche "cose morali", che l’arte più avanzata del Trecento toscano aveva riletto in chiave politica (Donato 1994, 499-500).

36 | Scuola del Sodoma, Il giudice fra la Verità e la Bugia, affresco, inizio del Cinquecento. San Gimignano, Palazzo del Popolo.

Pare dunque essere la tradizione ripresa nella Calunnia di Apelle di Botticelli in cui, all’interno della loggia, lo stesso exemplum situato al di sopra del trono su cui siede il principe-giudice, lo esorta a perseguire la verità. Il messaggio etico è invariato, come pure identici restano il destinatario del monito (la figura istituzionale, la personalità giuridico-politica addetta ad applicare la giustizia) e l’ubicazione (la sede preposta all’amministrazione della giustizia). Varia invece il lessico visivo: all’allegoria subentra il racconto; viene meno il motivo della Verità che strappa la lingua alla bugia, sostituito dall’iconografia del figlio che saetta il padre.

In aggiunta a tutto ciò, anche l’ambientazione della scena in un paesaggio roccioso, che richiama alla memoria quello delle Malebolge in cui vengono puniti i peccatori fraudolenti (categoria in cui certo possono essere inclusi anche i calunniatori), rafforza l’ipotesi che il rilievo di cui ci stiamo occupando sia effettivamente un exemplum calumniae (sulla rappresentazione delle malebolge nel rilievo in B2 del fondale della Calunnia rimando ad Agnoletto 2016).

Questa può essere una prima chiave ermeneutica, ma non è esclusa la possibilità che l’immagine abbia anche un secondo significato, in cui confluisce la tradizione che vede nella favola un exemplum di pietà filiale. In questo caso il rilievo andrebbe letto come una critica del comportamento empio del figlio che, per avidità, commette un’azione inumana, mostruosa. Questo figlio, che ama più le ricchezze che il proprio padre, dimostra, con il suo comportamento, una mancanza di caritas verso gli uomini e di pietas verso Dio; inoltre l’eccessiva attenzione rivolta verso le cose terrene, distoglie il suo sguardo dalle cose celesti, dissuadendolo dall’intraprendere un percorso di perfezionamento e di "indiamento", come una talpa che cieca scava nella terra, e dalla terra non riesce a sollevarsi restandone seppellita (Guglielmo Peraldo, Summa virtutum ac vitiorum, Brescia 1494, II, IV, 8). Ci troveremmo quindi di fronte a un exemplum antitetico rispetto ai racconti dedicati ai trionfi d’amore, anch’essi disposti sul fregio dell’architrave del loggiato, ma in posizione frontale, anziché di scorcio come il nostro rilievo e quello prossimo della Battaglia dei Centauri e dei Lapiti (A5), anch’esso exemplum di un comportamento contrario ad Amore e negativo rispetto alla deificatio hominis (sulla serie dei trionfi d’amore, rimando al mio Omnia Vincit Amor, Agnoletto 2015).

Nel rilievo della Calunnia, Botticelli (forse avvalendosi di dotti consulenti) è stato capace di adattare la leggenda dei figli che saettano il padre alle esigenze narrative dell’opera che rispondono a nuove funzioni della pittura, tra cui quella politica, proponendo l’antico racconto come un exemplum di condanna della calunnia anziché della avidità o della blasfemia. Ma si tratta di una variante che devia solo leggermente rispetto alle tradizionali interpretazioni morali dell’exemplum. In questo senso è plausibile affermare che la scena oggetto del nostro studio rappresenta un esemplare certo atipico, ma dal punto di vista narrativo e semantico congruo, della leggenda dei figli che saettano il padre: la figura del giudice, che non trova spazio nel minuscolo riquadro in A7, è comunque evocata dalla personificazione ecfrastica del re-giudice; e anche l’assenza dei fratelli che prendono parte alla gara di tiro con l’arco non è di ostacolo al riconoscimento del racconto d’origine talmudica. Ad evocare l’aneddoto – e la sua iconografia, come abbiamo visto, al tempo notissima – basta l’immagine del giovane arciere che si accinge a scagliare una freccia per colpire dritto al cuore il corpo di un uomo legato a un albero che, privo di vita, è chino in avanti: il figlio avido e malvagio che uccide il padre-Re; e quindi la parola che ferisce, “Iaculum et gladius et sagitta acuta homo qui loquitur contra proximus suum falsum tetimonium” (Prov. 25, 18).

Bibliografia Fonti

Talmud babilonese, sezione Baba Bathra.
Il racconto è citato secondo l’edizione a cura di G. Levi, Parabole, leggende, e pensieri raccolti dai libri talmudici dei primi cinque secoli dell’era volgare, Firenze 1861, 264-265. 

Alexander Neckam, De Naturis rerum libri duo (cap. CLXXVI De adolescente qui nobilitate animi nobilitatem generis declaravit. L’aneddoto dei figli che saettano il padre è stato citato secondo l’edizione: Alexander Neckam, De Naturis rerum libri duo, with the poem of the same author De Laudibus Divinae Sapientie, a cura di Thomas Wright, London 1863.

Vincenzo di Beauvais, Speculum morale (lib. III, Dist. XXV, Pars X De pietate erga parentes).

Bernardino da Siena, pr. XXVVII Del danno del bestemmiatore.

Bernardino da Siena, pr. X Questa è la predica quanto è peccato bestemiare Idio.

Bernardino da Siena, De christiana religione (Sermo XLI Dominica quinta, sc. De Passione in quadrasegima de mane. De orrendo peccato blasphemiae et de impietatibus eius).

Bernardino de Bustis, Rosarium sermonum [...] (Pars II, sermo IV R).

Stefano di Borbone, Tractatus de diversis materiis predicabilibus (Liber secundus. De dono pietatis).

Nicole Bozon, Les contes moralisés (c. 51 Quod Christus est similis pellicano). 
In internet si può consultare l’edizione parigina del 1889 curata da L. Toulmin Smith e P. Meyer 

Giovanni Bromyard, Summa praedicantium (Pars Prima, F V 17).
In rete è possibile consultare l’edizione del testo data alle stampe a Venezia nel 1586 da Dominicum Nicolinum .

Domenico Cavalca, Pungilingua, cap II: Del peccato del bestemmiare Dio.
In internet si può consultare il testo Il Pungilingua di fra Domenico Cavalca ridotto alla sua vera lezione da Monsignor Giovanni Bottari, Milano 1837.

Simone da Cremona, Postilla super evangeliis et epistolis omnium dominicarum.

Servasanto da Faenza, Summa de exemplis adversus curiosos, lib. II, De sacramentis ecclesie, cap.XVII, De matrimonio.

Alberto da Padova, In evangelia quadragesimalia utilissimae canciones (Sermo CXXXVI, a c. CCXXXIII).

Gesta Romanorum, XVI Quod solum boni intrabunt regnum celorum.

Giovanni Gobi, Scala coeli.

Giovanni Gritsch, Quadragesimale.

Guglielmo Peraldo, Summa virtutum ac vitiorum (Tract. IX, De peccato linguae, pars II, cap. I, De blasphemia).

Giovanni Sercambi, Novelliere.

Le jugement Salemon.

Jehan Le Fèvre, Les Lamentationes de Matheoli.

Renart le Contrefait.

J. de Rothschild, Le Mistère du Viel Testament, IV Palia.

Libro dei proverbi (XIX, 2627; (XX, 20) 

Bibliografia critica
English abstract

In the tractate Baba Bathra (Last Gate) in the Babylonian Talmud, legend is told concerning the conflict between brothers fighting over which one should be their father’s successor. The arbiter in their case urges them to remove their father’s corpse from its grave and to shoot arrows at him: the status of legitimate heir would be granted to the archer who hits closest to the father’s heart. Only the youngest of the sons refuses to take part in this procedure out of reverence for his father, whereupon the arbiter decides to award the inheritance to him.

Since the thirteenth century, when the legend reappeared in Christian literature, it has changed (although the essence of the story remains the same), and the theme was intended as a moral exemplum of filial piety or blasphemy. The purpose of this essay is to argue that one of the reliefs around the room in the Calumny of Apelles by Sandro Botticelli (A7) contains a depiction of this medieval legend, interpreted as an amoral exemplum both of calumny and impiety.

keywords | Calumny of Apelles; Botticelli; Shooting at Father's Corpse; Calumny; Pity; Cruelty. 

Per citare questo articolo / To cite this article: S. Agnoletto, La leggenda del re morto, “La Rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 11-31 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.150.0001