Immagini e parole, invisibile e indicibile
Maria Luisa Catoni
English abstract
1.
Le possibilità aperte dall'interazione fra parole e immagini furono largamente utilizzate e manipolate nell'antichità classica. Sul piano teorico, poi, quest'interazione ha mobilitato un gran numero di riflessioni, allora e fino ai nostri giorni.
Il confronto, la cooperazione e la potenziale competizione fra immagini - o meglio ‘figure’- e parole sono onnipresenti in moltissime produzioni e pratiche culturali, sociali, rituali, figurative e letterarie dell'antichità e prendono forme diverse in relazione sia al tipo di performance della parola (cantata, parlata, scritta); sia al tipo di figura (che poteva essere il prodotto di arti dinamiche come la danza, la retorica, la recitazione e la gestualità oppure di arti statiche come la pittura, la scultura, il ricamo, etc.); sia, ancora, al tipo di contesto (in termini di pratiche, occasioni e relative funzioni) entro il quale l'interazione fra figure e parole si articolava (De Martino 2013; Giuliani 2013; Ieranò 2011; Chaston 2010; Catoni 2008; Osborne 2008; Elsner 2007; Giuliani, Most 2007; Slatkin 2007; Taplin 2007; Celentano, Chiron, Noël 2004; Goldhill 2000; Snodgrass 1998; Settis 1997; Bertelli, Centanni 1995; Settis 1994).
Con speciale intensità a partire dal IV a.C., ad Atene, il rapporto fra parole e figure fu anche oggetto di numerose analisi teoriche, nel contesto di più ampie riflessioni sulle technai. Le arti mimetiche, in questo ambito riflessivo, assunsero un ruolo importante e l'interesse per le loro caratteristiche, i loro limiti e strumenti da un lato e, dall'altro lato, le caratteristiche e gli effetti dei loro prodotti condussero a serrati confronti fra diverse arti mimetiche e tipi d'imitazione. Il tema finiva per toccare questioni cruciali come, per esempio, quella del confronto fra linguaggio verbale e linguaggio visuale; oppure dell'identificazione delle potenzialità e dei limiti della parola scritta rispetto a quella orale o, ancora, della parola scritta rispetto all'immagine; o, ancora, il problema dello statuto delle immagini rispetto alla realtà e del loro potere di determinare caratteri e comportamenti.
2.
Va tenuto sempre presente però che, a parte le riflessioni teoriche, l'interazione fra figure e parole - figure dinamiche o statiche, parole parlate, cantate o scritte - è da considerarsi la norma ben prima del IV secolo a.C. e praticamente in ogni ambito, sia esso cultuale, letterario, performativo o figurativo.
Un'anfora a figure rosse firmata da Smikros come pittore e databile intorno al 510 a.C. (Berlin, Antikensammlung SMPK 1966.19; Beazley Archive/CVAonline nr. 352401; Catoni 2010, 314-17; Euphronios der Maler, 254-257 nr. 61; Kossatz-Deissmann 1991, 173 s.v. Stysippos nr.1 e 173 s.v. Terpaulos nr. 1; Greifenhagen 1974; Ohly-Dumm 1974; Greifenhagen 1967) è decorata su un lato con un satiro itifallico barbato che, armato di pelta e lancia - la cui asta è costituita da un bastone grezzo - sta probabilmente eseguendo una danza armata (Fig.1, sinistra). Incede verso destra a passo veloce, danzato, mentre getta all'indietro il capo coronato di foglie d'edera; del suo corpo atletico il pittore ha sottolineato con cura i profili e le masse dei muscoli possenti. Sopra la sua testa corre l'iscrizione di inneggio Stysip[pos kalo]s. Dal fallo eretto scende verso il basso un'altra iscrizione: Smikros egraphsen "Smikros dipinse", cioè la firma del pittore. Al giovane corpo ben curato, muscoloso e allenato del satiro su questo lato del vaso si contrappone, sull'altro lato, quello del compagno più adulto (Fig. 1, destra). Anch'egli barbato, coronato d'edera e itifallico, incede a passo lento e pacato verso destra suonando il doppio flauto, mentre indossa l'apposita phorbeia. Sopra la testa corre l'iscrizione del suo nome: Terpaulos ("flauto gioioso" o "colui che allieta col flauto"). Smikros ha differenziato con grande cura e attenzione i corpi dei due satiri. Terpaulos, più vecchio, ha un corpo decisamente più flaccido e molle del suo giovane compagno che danza, forte di vibrante energia, sull'altro lato del vaso.
Ciò che più interessa, nel nostro contesto, è l'iscrizione che scende dalle canne del doppio flauto. Prim'ancora del contenuto, va rilevato che questa iscrizione è realizzata e collocata in modo tale da stabilire un'analogia visuale molto stretta con l'iscrizione della firma del pittore che le corrisponde sull'altro lato. Dal doppio flauto, dunque, scende una stringa di lettere: Netenareneteneto. Si tratta probabilmente dell'indicazione di una sequenza di note: la nete è la nota più acuta (nella lira la corda più lontana dal suonatore) e la paranete ("narenete" sta probabilmente per "paranete") è quella immediatamente più bassa (Greifenhagen 1967; su un'iscrizione vascolare con note musicali cf. Bélis 1984. Cf. anche Bélis 1988; West 1994, 64-70; Bessi 1997; Bundrick 2005).
Questo esempio, scelto fra moltissimi, permette di richiamare un dato ovvio e cioè il livello di complessità, anche in oggetti molto semplici, dell'interazione fra figure e parole. Escludendo il momento della produzione del vaso e l'ambiente della bottega (Settis 1993), ci sono almeno tre diversi modi in cui questo e oggetti come questo implicano un'interazione fra parole e figure. A un primo livello ci sono le parole articolate intorno all'oggetto o a partire da esso, quelle espresse in forma di narrazione, enunciato, conversazione o canto, dagli attori nei contesti d'uso, come è per esempio il simposio cui quest'anfora rimanda anche attraverso le figure che la decorano, o il rituale o l'ambiente domestico, cittadino e così via. Ad un secondo livello ci sono le parole articolate sul corpo del vaso o dal vaso stesso - nel caso delle iscrizioni parlanti (i nomi dei satiri, la firma del pittore, i nomi delle note musicali). Anche questo secondo livello rimanda alla performance orale delle parole e alla loro referenzialità. In alcuni casi, come ci mostrano molti altri vasi, queste stringhe di lettere possono anche evocare non parole ma suoni. C'è poi un terzo livello, quello della parola scritta che, proprio perché scritta, ha valore non come parola ma come segno e diventa perciò immagine, eikon. Il caso più evidente è quello delle nonsense inscriptions. Nel caso dell'anfora di Smikros che abbiamo analizzato, le scelte compositive relative alla collocazione della firma del pittore e della sequenza di note musicali rispetto alle figure e l'una rispetto all'altra stabiliscono un'analogia che si colloca, prima di tutto ed esclusivamente, sul piano visuale. Dall'interazione poi fra la dimensione esclusivamente visuale delle parole iscritte, la loro dimensione orale e referenziale e le altre figure che popolano il vaso possono scaturire catene di analogie: per esempio, nel nostro caso, fra il fallo e l'aulos e, magari, fra Smikros e la musica (Catoni 2010, 313-317; Mosconi 2008).
La parola, dunque, attraverso il medium della scrittura si colloca nell'ambito del visuale e diviene figura!
3.
Le implicazioni dell'idea che la scrittura faccia delle parole eikones furono esplorate ampiamente ed esplicitamente, negli anni '70-'60 del IV secolo a C., all'interno di un dibattito relativo allo status del discorso scritto rispetto al discorso estemporaneo (Avezzù 1982, IX–XII, XXXIII–XLI e 78–79; O'Sullivan 1992; O'Sullivan 1996; Muir 2001, V–XXXIII; McCoy 2009; Noël 2009; Catoni 2017). Uno dei testi più famosi e importanti nel nostro contesto è un passo del Fedro di Platone (Pl. Phdr. 275d-276a, tr. Reale 1993 leggermente modificata):
ΣΩ: Δεινὸν γάρ που, ὦ Φαῖδρε, τοῦτ᾿ ἔχει γραφή, καὶ ὡς ἀληθῶς ὅμοιον ζωγραφίᾳ. καὶ γὰρ τὰ ἐκείνης ἔκγονα ἕστηκε μὲν ὡς ζῶντα, ἐὰν δ᾿ ἀνέρῃ τι, σεμνῶς πάνυ σιγᾷ. ταὐτὸν δὲ καὶ οἱ λόγοι· δόξαις μὲν ἂν ὥς τι φρονοῦντας αὐτοὺς λέγειν, ἐὰν δέ τι ἔρῃ τῶν λεγομένων βουλόμενος μαθεῖν, ἕν τι σημαίνει μόνον ταὐτὸν ἀεί. ὅταν δὲ ἅπαξ γραφῇ, κυλινδεῖται μὲν πανταχοῦ πᾶς λόγος ὁμοίως παρὰ τοῖς ἐπαΐουσιν, ὡς δ᾿ αὕτως παρ᾿οἷς οὐδὲν προσήκει, καὶ οὐκ ἐπίσταται λέγειν οἷς δεῖ γε καὶ μή· πλημμελούμενος δὲ καὶ οὐκ ἐν δίκῃ λοιδορηθεὶς τοῦ πατρὸς ἀεὶ δεῖται βοηθοῦ· αὐτὸς γὰρ οὔτ᾿ ἀμύνασθαι οὔτε βοηθῆσαι δυνατὸς αὑτῷ.
ΦΑΙΔ: Καὶ ταῦτά σοι ὀρθότατα εἴρηται.
ΣΩ: Τί δ᾿; ἄλλον ὁρῶμεν λόγον τούτου ἀδελφὸν γνήσιον, τῷ τρόπῳ τε γίγνεται, καὶ ὅσῳ ἀμείνων καὶ δυνατώτερος τούτου φύεται;
ΦΑΙΔ.: Τίνα τοῦτον καὶ πῶς λέγεις γιγνόμενον;
ΣΩ: Ὃς μετ᾿ ἐπιστήμης γράφεται ἐν τῇ τοῦ μανθάνοντος ψυχῇ, δυνατὸς μὲν ἀμῦναι ἑαυτῷ, ἐπιστήμων δὲ λέγειν τε καὶ σιγᾶν πρὸς οὓς δεῖ.
ΦΑΙΔ.: Τὸν τοῦ εἰδότος λόγον λέγεις ζῶντα καὶ ἔμψυχον, οὗ ὁ γεγραμμένος εἴδωλον ἄν τι λέγοιτο δικαίως.
So.: Questo, infatti, Fedro, è quel qualcosa di strano che ha la scrittura, simile, in verità, alla pittura. Infatti le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero esseri viventi ma se qualuno chiede loro qualcosa se ne restano in un solenne silenzio. Lo stesso avviene anche con i discorsi scritti. Potresti ritenere che parlino come se avessero qualche discernimento ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di quello che hanno detto, continuano a ripetere una sola e la medesima cosa. E una volta che un discorso sia scritto, rotola dappertutto, nelle mani di coloro che se ne intendono come di coloro ai quali non importa nulla e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano un'offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo.
Fed.: Anche questo che hai detto è giustissimo.
So.: E allora? Vogliamo considerare ora un altro discorso, fratello legittimo di questo? E vogliamo vedere in quale modo nasca e, per sua natura, quanto sia migliore e più potente di questo?
Fed. : Qual è questo discorso e in quale modo dici che nasce?
Soc.: E' il discorso che viene scritto, mediante la scienza, nell'anima di chi impara e che è capace di difendersi da sé e che sa con chi deve parlare e con chi deve tacere.
Fed.: Intendi dire il discorso di colui che sa, il discorso che è vivo e ha un'anima, del quale il discorso scritto può dirsi, a buona ragione un'immagine?
Questa analisi del rapporto fra discorso orale e discorso scritto è costruita come caso specifico del rapporto fra parole e immagini. Socrate, nel testo appena citato, chiama in causa solo le immagini della pittura, istituendo un parallelo tradizionale che risultava ovvio anche solo dal punto di vista linguistico. Ma gli stessi argomenti ricorrono, per quanto in modo e con fini diversi, in due altri testi contemporanei: Sugli scrittori di discorsi scritti o Sui Sofisti di Alcidamante e Evagora di Isocrate. Entrambi questi testi estendono l'analogia anche ai prodotti della scultura ed entrambi attribuiscono alle immagini, come Socrate nel Fedro, immobilità, mancanza di vita e incapacità di agire nelle diverse situazioni.
Alcidamante, dunque, utilizza il parallelo con le immagini per affermare la superiorità del discorso estemporaneo rispetto al discorso scritto (Alcid. Soph. 27-28, tr. Avezzù 1982 leggermente modificata):
ἡγοῦμαι δ᾽οὐδὲ λόγους δίκαιον εἶναι καλεῖσθαι τοὺς γεγραμμένους, ἀλλ᾽ὥσπερ εἴδωλα καὶ σχήματα καὶ μιμήματα λόγων, καὶ τὴν αὐτὴν κατ᾽αὐτῶν εἰκότως ἂν δόξαν ἔχοιμι, ἥνπερ καὶ κατὰ τῶν χαλκῶν ἀνδριάντων καὶ λιθίνων ἀγαλμάτων καὶ γεγραμμένων ζῴων. ὥσπερ γὰρ ταῦτα μιμήματα τῶν ἀληθινῶν σωμάτων ἐστί, καὶ τέρψιν μὲν ἐπὶ τῆς θεωρίας ἔχει, χρῆσιν δ᾽οὐδεμίαν τῷ τῶν ἀνθρώπων βίῳ παραδίδωσι, τὸν αὐτὸν τρόπον ὁ γεγραμμέμος λόγος, ἑνὶ σχήματι καὶ τάξει κεχρημένος, ἐκ βιβλίου <μὲν> θεωρούμενος ἔχει τινὰς ἐκπλήξεις, ἐπὶ δὲ τῶν καιρῶν ἀκίνητος ὢν οὐδεμίαν ὠφέλειαν τοῖς κεκτημένοις παραδίδωσιν. ἀλλ᾽ὥσπερ ἀνδριάντων καλῶν ἀληθινὰ σώματα πολὺ χείρους τὰς θεωρίας ἔχοντα πολλαπλασίους ἐπὶ τῶν ἔργων τὰς ὠφελείας παραδίδωσιν, οὕτω καὶ λόγος ὁ μὲν ἀπ᾽αὐτῆς τῆς διανοίας ἐν τῷ παραυτίκα λεγόμενος ἔμψυχός ἐστι καὶ ζῇ καὶ τοῖς πράγμασιν ἕπεται καὶ τοῖς ἀληθέσιν ἀφωμοίωται σώμασιν, ὁ δὲ γεγραμμένος εἰκόνι λόγου τὴν φύσιν ὁμοίαν ἔχων ἁπάσης εὐεργεσίας ἄμοιρος καθέστηκεν.
Μa nemmeno sarebbe giusto dirli discorsi, quelli scritti, ma quasi simulacri e figure e imitazioni di discorsi; così potrei a buon diritto considerarli alla stessa stregua di statue di bronzo o di marmo o di animali dipinti. Come questi sono imitazioni di corpi vivi e reali, e sono sì piacevoli alla vista ma non offrono utilità alcuna alla vita dell'uomo, così il discorso scritto avendo un solo schema e una sola posizione, a leggerlo sul libro può impressionare piacevolmente ma, incapace di muoversi nelle diverse occasioni, non offre utilità alcuna a chi lo possiede; come i corpi vivi e reali, che pure sono molto inferiori in bellezza alle statue, soccorrono utilmente, in molte diverse maniere, nell'agire, così anche il discorso pronunciato estemporaneamente, all'atto stesso del concepimento, ha un'anima ed è vivo e si adegua ai fatti, in tutto simile a corpo vivente, mentre quello scritto ha natura simile ad una mera immagine di discorso ed è privo di qualunque utilità.
E' importante sottolineare i molti punti di contatto fra il testo di Alcidamante e quello di Platone in relazione all'uso del parallelo fra immagini e parole. Entrambi i testi, tanto per cominciare, sospingono il testo scritto sul versante delle immagini. Gettata questa premessa, potremmo dire che tutte le critiche avanzate nei confronti delle immagini appaiono come declinazioni e corollari di un'unica affermazione: a differenza del discorso estemporaneo che è vivo e ha un'anima (ἔμψυχός ἐστι καὶ ζῇ) - nella versione di Alcidamante -, e a differenza del discorso orale di colui che sa, anch'esso dotato di anima e vita (τὸν τοῦ εἰδότος λόγον λέγεις ζῶντα καὶ ἔμψυχον) - nella versione di Platone -, le immagini sono inerti, non si muovono, non rispondono né agiscono nelle diverse circostanze.
Che le immagini non siano affatto inerti è ben noto oggi come lo era allora. La nascente filosofia politica per esempio, Platone e Aristotele in testa, attribuì alle immagini l'enorme potere di influenzare, perfino di determinare, il carattere dei cittadini, grazie alla capacità di imitare l'invisibile, cioè caratteri astratti come il coraggio, la viltà, la concordia e così via. Platone per esempio, in un passo molto famoso della Repubblica (Pl. Resp. 401a-b), dopo aver trattato di armonie e ritmi, afferma che anche i prodotti della pittura e di ogni altra arte di questo tipo sono caratterizzati da eleganza o ineleganza (εὐσχημοσύνη ἢ ἀσχημοσύνη). Prosegue poi riconducendo anche questi alle parole e, in ultimo, ai valori, cioè ai caratteri dell'animo. E' proprio, anzi, sulla comune capacità delle parole dei poeti e delle opere degli artigiani di produrre immagini di valori che Platone fonda la necessità di esercitare una stretta sorveglianza su tutte le arti all'interno della città (Pl. Resp. 401b, tr. Lozza 1990 leggermente modificata):
Ἆρ’ οὖν τοῖς ποιηταῖς ἡμῖν μόνον ἐπιστατητέον καὶ προσαναγκαστέον τὴν τοῦ ἀγαθοῦ εἰκόνα ἤθους ἐμποιεῖν τοῖς ποιήμασιν ἢ μὴ παρ’ ἡμῖν ποιεῖν, ἢ καὶ τοῖς ἄλλοις δημιουργοῖς ἐπιστατητέον καὶ διακωλυτέον τὸ κακόηθες τοῦτο | καὶ ἀκόλαστον καὶ ἀνελεύθερον καὶ ἄσχημον μήτε ἐν εἰκόσι ζῴων μήτε ἐν οἰκοδομήμασι μήτε ἐν ἄλλῳ μηδενὶ δημιουργουμένῳ ἐμποιεῖν [...]
Ma dovremo sorvegliare e costringere soltanto i poeti, con la minaccia di trasferirli altrove, a introdurre nelle loro opere l'immagine del buon ethos? Non occorre forse sorvegliare anche gli altri artisti e impedire loro di introdurre sia nelle immagini di esseri viventi, sia negli edifici sia in ogni altra loro opera la malvagità, la sfrenatezza, la viltà, l'indecenza [...]?
Le parole - e la mousiké -, dunque, producono immagini di ethe; lungi dal creare imitazioni inerti di esseri viventi, anche arti come la pittura, la scultura e l'architettura riescono a produrre immagini di ethe, rendendo visibile ciò che visibile non è, ponendolo sotto gli occhi dei cittadini.
La capacità delle arti visuali di rappresentare caratteri astratti apre la possibilità di fare della rinuncia ad essa un potentissimo strumento di comunicazione. Senza entrare nell'analisi dei rapporti molto stretti fra un'arte della parola - la retorica - e le arti visuali, va almeno ricordato un esempio famoso che, significativamente, accomuna ancora una volta parole e immagini (Bremmer 1992; Bertelli-Centanni 1995; Centanni 1995; Catoni 2008, 306-307). Si tratta del caso del quadro con la raffigurazione del sacrificio di Ifigenia nel quale Timante avrebbe velato il volto di Agamennone per raffigurare il più alto - e inesprimibile - grado di intensità del dolore. Riconducendo l'invenzione di questo espediente visuale alla narrazione omerica del dolore di Priamo di fronte alla morte di Ettore, Eustazio (Eust. Comm. ad Il. Ω 163, 1343, 61 sgg.) nota che, velando il volto di Priamo, Omero aggiunge all'assenza di parola anche l'assenza d'immagine, amplificando l'indicibile attraverso l'invisibile (ὑπερβολὴν γάρ, φασί, πένθους ἀξίαν οὐχ εὐρίσκων ὁ ποιητὴς τῷ γέροντι περιθεῖναι καλύπτει αὐτόν, καὶ οὐ μόνον σιγῶντα ποιεῖ, ἀλλὰ καὶ μηδὲ βλεπόμενον). L'invezione fu utilizzata, ci dice Eustazio, non solo dai poeti - come Eschilo - ma anche dal pittore Timante. Un'eco del suo quadro è forse ancora percepibile in un affresco di Pompei (Fig. 2, Affresco da Pompei, Casa del Poeta tragico, Napoli MAN), nel quale sono rappresentati a destra Calcante, al centro Diomede e Ulisse che trasportano Ifigenia verso il luogo del sacrificio e, a sinistra, Agamennone tutto avvolto nel proprio mantello, il capo velato e il volto coperto sia dal lembo del mantello sia dalla mano destra portata alla fronte.
Ciò che più interessa qui non è tanto l'espediente visuale del velare il volto per rappresentare un dolore inesprimibile, quanto il fatto che Timante lo avrebbe utilizzato all'interno di una gamma di gradi d'intensità del dolore, facendone così il culmine. Quintiliano richiama la storia del quadro di Timante all'interno di una sezione dell'Institutio Oratoria nella quale, trattando di figure retoriche e in particolare del rapporto fra rispetto dell'uso ordinario e deviazione da questo, propone continue analogie fra linguaggio verbale e linguaggio visuale (Quint. Inst. II.XIII.11-14, tr S. Corsi 1997 leggermente modificata)
Quam quidem gratiam et delectationem adferunt figurae, quaeque in sensibus quaeque in verbis sunt; mutant enim aliquid a recto, atque hanc prae se virtutem ferunt, quod a consuetudine vulgari recesserunt. Habet in pictura speciem tota facies: Apelles tamen imaginem Antigoni latere tantum altero ostendit, ut amissimi oculi deformitas lateret. Quid? non in oratione operienda sunt quaedam, sive ostendi non debent sive exprimi pro dignitate non possunt? Ut fecit Timanthes, opinor, Cythnius in ea tabula qua Coloten Teium vicit. Nam cum in Iphigeniae immolatione pinxisset tristem Calchantem, tristiorem Ulixem, addidisset Menelao quem summum poterat ars efficere maerorem: consumptis adfectibus non reperiens quo digne modo patris vultum posset exprimere, velavit eius caput et suo cuique animo dedit aestimandum. Nonne huic simile est illud Sallustianum: ‘nam de Carthagine tacere satius puto quam parum dicere?
Proprio una grazia e un diletto simili procurano le figure, sia quelle di pensiero sia quelle di parola. Si discostano infatti un poco dalla normalità e presentano il pregio d'abbandonare la consuetudine ordinaria. In un dipinto attrae l'intero volto: tuttavia Apelle dipinse Antigono di profilo, per nascondere la deformità dell'occhio perduto. E che? non è vero che in un'orazione alcune cose vanno celate, vuoi perché non devono essere mostrate vuoi perché non si può esprimerle in modo degno? E' quel che fece Timante, nativo credo di Citno, in quel quadro col quale vinse su Colote di Teo. Infatti nel dipingere il sacrificio di Ifigenia, raffigurò Calcante triste, Ulisse ancor più triste e diede a Menelao l'espressione di massimo dolore che la sua arte gli permetteva di esprimere. Esaurita la gamma delle emozioni, non trovando un modo nel quale potesse degnamente rappresentare il volto del padre, ne velò il capo, lasciando che ciascuno se ne facesse un'idea secondo la propria sensibilità. Non è forse simile a questo il detto sallustiano "Di Cartagine reputo meglio tacere che dir poco"?
Quintiliano, in questo passo, conduce la sua comparazione fra linguaggio verbale e linguaggio visuale oltre che al livello delle figure e degli espedienti della retorica anche a quello, più basilare, della grammatica. Così, l'arte di Timante fornisce al pittore gli schemata per rappresentare tre soli gradi d'intensità del dolore, che corrispondono ai tre gradi dell'aggettivo: "tristem" Calcante, "tristiorem" Ulisse, "summum maerorem" per Menelao. Dopo e oltre il grado superlativo nulla possono più parole e immagini: entrambe ricorrono ad una sottrazione, evocando un'assenza a rappresentare un'impossibilità di espressione.
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Abstract
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This paper hints at the theoretical reflections on the relationship between images and words in the context of a debate that took place in Athens in the first half of the 4th century BCE, and focussed on the superiority of oral over written discourse. Quintilian's use of the famous example of Timanthes' Sacrifice of Iphigenia in the context of the comparison between verbal and visual languages is recalled.
keywords | Athens; 4th century BCE; Thimantes; Iphigenia.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. L. Catoni, Immagini e parole, invisibile e indicibile, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 333-345| PDF