Il 68 che verrà
Editoriale di Engramma 156
Monica Centanni, Fernanda De Maio, Michela Maguolo
“Poi ci vengono a dire: ‘Ah vedrete [...]
se la rivoluzione riuscirà, andrà a finir male’.
Ma non saremo assolutamente nello stesso genere di problemi.
Ci sarà una nuova rivoluzione, si attiveranno dei nuovi divenire rivoluzionari.
Gli uomini, nelle situazioni di tirannia, di oppressione,
non hanno altra scelta se non diventare rivoluzionari.
Quando poi si dice: ‘È andata male’, non si parla della stessa cosa.
È come se si parlassero due lingue assolutamente diverse.
L’avvenire della storia e il divenire attuale della gente
non sono la stessa cosa”.
Gilles Deleuze, G comme gauche
Venezia, quattro studenti sul tetto dei Tolentini, nell’aprile del 1967. Quattro ragazzi, due in maglione, uno in camicia, uno in giacca e cravatta, a cavalcioni della linea di colmo che unisce le due falde del tetto, i due versanti, l’esterno e l’interno, la scuola e la città. Stanno presidiando dall’alto la facoltà di architettura occupata e diffondendo sulla città la voce della protesta. Lo sguardo è lontano, è oltre. Il 68 è cominciato così allo Iuav, nell’aprile del 1967, con un’occupazione durata 64 giorni.
Diritto allo studio e Diritto di cittadinanza sono i temi che emergono e si intrecciano nel 68 che in Italia nasce nelle Università – e nelle facoltà di architettura,prima che altrove. Due diritti che sembravano acquisiti con pienezza cinquant’anni fa e dovrebbero essere riconosciuti come inalienabili e che invece assumono oggi contorni ambigui e incerti, scontrandosi con le paranoie sociali su cui si fonda l'ideologia politica opprimente che avvelena l’Italia nella primavera 2018.
Interrogare le “profezie del passato” (per ricorrere alla bella definizione della storiografia di Santo Mazzarino), entrando nel cuore della contesa per la lettura dell’evento, ci serve strumentalmente, come armamentario teorico ed estetico, per individuare, sottolineare e mettere in evidenza le aporie del presente e per immaginare linee di fuga. Il numero monografico di Engramma dedicato al 68 sceglie dunque, come punto di prospettiva privilegiato, l’osservazione critica delle forme emergenti di fobia e paranoia: la sicurezza; il decoro; l’identità; le fissazioni auto-immunitarie di identità e di comunità; l'esclusione di tutto ciò che appare perturbante, estraneo, straniero.
Per i curatori e gli autori, per tutta la redazione di Engramma, l’interesse per il 68 sgorga non già dal bisogno di un ennesimo racconto memorialistico o celebrativo, ma dal desiderio vivo di trovare anche nel nostro presente le crepe da cui l'evento può fare, improvvisamente come il 68 insegna, irruzione. Per dire meglio, e per dirlo in greco:la facies di questo desiderio è protesa al presente e al futuro (è eros, è himeros)non è rivolta al rimpianto per il passato (il languido Pothos).Il “68 che verrà” usa l’innesco di quella rivoluzione –incompiuta solo perché pura epifania del divenire –come una lezione di disciplina che insegna alle nostre intelligenze a ritrovare il respiro di orizzonti intellettuali in-disciplinati e non carcerari, come un allenamento che esercita i nostri corpi a reinventare le posture e gli spazi, fisici e metaforici, in cui esercitare il diritto alla libertà.
Nel 2008, come conclusione dei lavori del Seminario Mnemosyne innervato dagli studi e dalla passioni di Giuseppe Cengiarotti, pubblicavamo Tavola 68. Mnemosyne 68 – Mnemosyne 2008. Zum Bild das Wort/Zum Wort das Bild, dove a partire dalle immagini e dalle parole, rintracciavamo una serie di rizomi del 68. Le immagini parlavano di capelli e ninfe, del suicidio delle icone, della rivoluzione in statu nascenti. Con le parole si affrontavano l’immaginazione al potere, la presa della parola, i profeti disarmati, il tempo (aoristico) della rivoluzione.
Nel 2018 pubblichiamo “Il 68 che verrà”, che è il frutto di mesi di intense e appassionate ricerche e di fortunati incontri. Il numero è articolato in tre sezioni tra loro connesse, anche grazie alla costellazione di nomi e di pensieri e alla rete di citazioni dei nostri “amici” più grandi che abbiamo scelto come compagni e guide: Gilles Deleuze, Michel de Certeau, Edgar Morin, Hannah Arendt, Michel Foucault, Herbert Marcuse, Cornelius Castoriadis, Claude Lefort.
A Gilles Deleuze è dedicata la sezione centrale del numero, che presenta l’edizione di due testi. Mai 68 n’a pas eu lieu | Il Maggio 68 non ha avuto luogo,scritto a quattro mani con Felix Guattari nel 1984, ribalta la meccanica dei nessi causa/effetto tanto cari agli storici per leggere il profilo fenomenologico del maggio francese, urgente perché espressione della crisi della società francese (ed europea) e della sua attuale incapacità ad accettare la provocazione di quella inascoltata creatività. Proponiamo il testo nella traduzione di Vincenzo Bellizzi. G comme ‘gauche’ è la trascrizione di uno dei lemmi chiave dell’Abécédaire che, nella forma confidenziale e, insieme, teoreticamente intensa del dialogo con l’allieva Claire Pernet, ci restituisce preziose definizioni dell’idea di ‘sinistra’ e di 68. Essere di sinistra, ci insegna Deleuze, significa spostarsi dall’asse centrale di una postura di maggioranza, per interrogare, invece, il limite, per “premere sui bordi” e impegnarsi nei “processi di divenire minoritari”: in gioco, in palio, non è il governo ma una “questione di percezione”. Il 68 è “l’apertura del campo del possibile in cui il reale irrompe”; è la prova, sempre imminente, che invera l‘idea secondo cui “gli uomini, nelle situazioni di tirannia, di oppressione, non hanno altra scelta se non diventare rivoluzionari”.
Una sezione del numero presenta tre contributi che guardano al 68 con occhi e stile ermeneutico radicalmente diversi. Marco Boato nella sua presentazione del recente volume Il lungo 68 in Italia nel mondo, in diretta dal suo passato di protagonista, allunga lo sguardo in due direzioni, verso le origini del 68, il suo background sociale, politico, economico, e verso i suoi lasciti, nel decennio successivo. Antonio Benci trattando de Il futuro del Sessantotto, rintraccia i fili che da quell’anno conducono all’oggi, in una dialettica inesauribile fra esperienza e aspettativa. Roberto Masiero nel tratteggiare “un’ermeneutica sul 68 al di là del 68”, scorge in quel torno d’anni la presa di coscienza – o intuizione – della trasformazione epocale della soggettività moderna, dovuta al rizomatico passaggio dal modo di produzione industriale a quello digitale.
Nella sezione che apre il numero, il focus è sul pensiero del 68 e sulle scuole di architettura. Partire dallo Iuav e in generale dalle scuole di architettura italiane significa mettere in luce il bisogno di città che oggi – allorquando si vanno costruendo e solidificando i nuovi apparati istituzionali di controllo dell’era globale – appaiono come i veri fulcri della vita sociale. Il mondo del 2018 è il mondo delle metropoli oltre che della second life del web. Nelle pervasive narrazioni conservatrici e reazionarie, i valori risorgimentali di ‘nazione’ (intesa anche strettamente come ethnos) e di ‘patria’ si propongono come l’ultimo baluardo da difendere per la protezione della ‘identità’ contro le pressioni del mondo reale. Ma il mondo reale – ovvero il mondo civile, così come è stato pensato in Occidente la dimensione dell’umano – è un mondo non patriottico e identitario, ma metropolitano e cosmopolita. E perciò è un mondo che trova attuazione nelle città: ancora il riconoscimento di un seme che il 68 ha raccolto, fatto proprio e gettato a fiorire in una prossima buona stagione.
Il saggio di Fernanda De Maio, A est del 68. Rivoluzione antiautoritaria a ritmo di città, pone l’accento sulla ricerca creativa, da parte dei giovani studenti di architettura sessantottini, di nuovi linguaggi per criticare ma anche per descrivere e progettare le città del mondo, allo Iuav come nella altre scuole di architettura italiane e ne verifica l’attualità rispetto al contesto odierno della generazione studentesca dello Iuav.
Nel contributo Il dispositivo Foucault. Un seminario a Venezia, Marco Assennato propone una ricostruzione del convegno veneziano curato da George Teyssot nel 1976 e promosso da Manfredo Tafuri, con Massimo Cacciari e Franco Rella, che mise al centro del dibattito su intellettuali e potere, la figura e l’opera di Michel Foucault, decidendo per una linea di netta opposizione rispetto al pensiero del filosofo francese, destinata ad avere importanti conseguenze teoretiche e politiche nella cultura degli anni ‘70 e ’80 in Italia.
Le coordinate del saggio corale che apre il numero – Il 68 che verrà, Seminario Mnemosyne, a cura di Monica Centanni e Peppe Nanni – si leggono nei titoli dei capitoli del contributo: 1. “Sembrava la prima volta”; 2. Paideia critica: processo all’autorità; 3. Coraggio vs sicurezza: il corpo esposto nella vita activa; 4. Desiderio e corpi in movimento: la festa della politica.
Al binomio antagonista ‘coraggio’ versus ‘sicurezza’ si ricollega il saggio di Barbara Biscotti, Anna Fressola, Nicolò Zanatta InDecorosa Mente, come approfondimento sui dispositivi giuridici, le pratiche e l’estetica securitaria: al centro della riflessione è il D.A.SPO, promulgato nel 2017 dal governo Gentiloni, e direttamente dal ministro Marco Minniti, che in nome di ‘sicurezza’ e ‘decoro’ dilania e recinta la spazialità urbana, separando le ‘persone per bene’ dagli ‘indesiderabili’.
Nel saggio per immagini Iuav 68. Labirinto politico, Seminario Mnemosyne, coordinato da Michela Maguolo e Roberto Masiero, attraverso il dispositivo di una tavola costruita secondo il metodo warburghiano, si rilevano due tracce, due percorsi che ruotano intorno a due luoghi: l’Aula magna e la Porta dello Iuav, dalle prime rivolte studentesche iniziate nel 1967 fino a oggi. I percorsi individuati, nel loro andamento rizomatico, possono produrne altri, in un labirinto di cui non si intende indicare l’uscita, ma nel quale proprio il cortocircuito in divenire tra immagini, parole, simboli spinge a rimettere tutto in gioco. Una lettura a due voci – Canto e controcanto – attraversa poi le immagini, soffermandosi su alcune di loro e sui temi che dai percorsi e dall’accostamento delle immagini sono emersi.
“Usare il 68 per riuscire a vedere con altri occhi e a misurare con altre parole il nostro presente” – così abbiamo scritto nel Saggio corale. Assumendolo come evento che “non è stato (ancora) quel che ha promesso di essere”, abbiamo provato a richiamare il 68 alla sua destinazione profetica: è un esperimento di riattivazione di un’archeologia del sapere che scava e trova tesori preziosi nel passato, e nel contempo un alert per l’estetica del presente e una speranza per quel che sapremo diventare – da oggi in avanti.
Per citare questo articolo / To cite this article: Monica Centanni, Fernanda De Maio, Michela Maguolo, Il 68 che verrà. Editoriale, “La Rivista di Engramma” n. 156, maggio-giugno 2018, pp. 7-11 | PDF dell’articolo