Alcune premesse
Quando si pensa ad Alice nel Paese delle meraviglie sono gli occhioni azzurri della bimbetta vestita di bianco e celeste – così come l’aveva immaginata Walt Disney nel 1951 – a venire subito in mente. Eppure questa creatura letteraria di Lewis Carroll, già alla fine dell’Ottocento – sull’onda del successo di Alice's Adventures in Wonderland e Through the Looking-Glass, and What Alice Found There, i due libri che la vedono protagonista – aveva originato una vera e propria “moda di Alice”. Proprio per questo, al giorno d’oggi, Alice la si potrebbe addirittura definire – sulla scia di Bachtin – un cronotopo, ovvero un luogo nel quale il tempo si condensa, o in cui si sovrappongono diversi strati dell'esistenza, compenetrandosi in una simultaneità in cui passato e presente sono la stessa cosa.
Uno degli aspetti più interessanti del personaggio di questa bambina scaturita dalla penna di Carroll è dunque il fatto che, nonostante il suo codice d’origine sia senz’altro ottocentesco, man mano che gli anni passano essa diventa un atto artistico tanto più significante quanto più riferirsi a lei la colloca in una situazione nuova, che include altri significati. L’allusione più interessante ad Alice, come vedremo, è quella che appellandosi alle capacità mnemoniche e al sapere visivo dell’osservatore, si propone il fine di suscitare in lui una serie di associazioni libere mediate da queste due lenti. Attenzione però – se negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso intersecare Alice con le associazioni libere della mente poteva sottendere un riferimento alle sostanze stupefacenti e agli stati modificati della coscienza – uno dei primi incontri della bambina nel Paese delle meraviglie avviene con un bruco blu che, seduto in cima a un fungo a braccia conserte, è intento a fumare qualcosa di assai simile a un narghilè, un bruco che, tra l’altro, le consiglia di mangiare un fungo che le permetterà di crescere o rimpicciolire a suo piacimento – le associazioni libere a cui faremo ricorso in questo saggio nulla avranno a che fare con l’apertura della mente o con l’espansione dei sensi che la marijuana e le sostanze allucinogene producono.
Il bruco blu è certamente una figura chiave per l’identità di Alice e, tuttavia, se la domanda che rivolge alla bambina tra grandi sbuffi di fumo sembra collegamento evidente alla cultura psichedelica, proprio quel “E chi sei tu?”, inserito in un contesto più ampio, apre alla costruzione e alla formazione dell’identità. Si tratta di un’identità che attingendo a fonti diverse in grado di entrare in un vicendevole rapporto di dialogo, originerà una molteplicità il cui fuoco sarà non l’autore, che si limiterà a esporre una serie di proposte, bensì il lettore.
L’identità di Alice sarà oggettivata ed evidenziata partendo dal presupposto che, come sostiene Marshall McLuhan, nell’era elettronica tutti noi indossiamo la nostra umanità come una pelle (McLuhan 1967); perciò il corpo, non essendo più il luogo della psiche o del sociale, è piuttosto una struttura da controllare e modificare. Del nostro argomentare, Alice sarà dunque non tanto il soggetto quanto piuttosto l’oggetto. E non sarà un oggetto del desiderio, bensì di riprogettazione. A consentirci questo tipo di modificazione sono proprio le circostanze storiche della narrazione dei romanzi di Carroll, che ci lasciano immaginare il viaggio di Alice come fosse (anche) il gioco di un matematico con la logica e le strutture del linguaggio.
Se, come per tutti i grandi testi, il sogno di Alice ha tante interpretazioni quanti sono gli occhi che lo guardano – seguendo Vladimir Propp il nostro viaggio nelle Avventure di Alice sceglie come aiutante numinoso lo specchio.
La superficie profonda dello specchio
Lo specchio pur essendo l’oggetto polimorfo per eccellenza ha la proprietà, paradossale, di restare il medesimo. Infatti, non si trasforma continuamente in qualcosa di diverso in base a quella logica onirica che fa esclamare ad Alice mentre precipita nella tana del coniglio bianco: “Come ci si confonde con tutti questi mutamenti!”, e consente così una correlazione tra visione, analisi e teoria, evidenziando come l’apparenza sia strettamente correlata alla realtà. E così, quando Alice si rivolge alla sua gattina Kitty dicendole:
Come sarebbe bello se potessimo penetrare nella Casa dello Specchio! […] Facciamo finta che ci sia un modo per entrarci, Kitty. Facciamo finta che il vetro sia morbido morbido come una garza, così che si possa attraversarlo. Diamine, sta mutandosi in una specie di foschia adesso, ti dico! Sarà abbastanza facile attraversarlo (Carroll [1871] 2003, 133).
da una parte diventa a sua insaputa (e ben prima che la settima arte le dia vita sullo schermo) un’immagine assai simile a quella dei tanti film che la vedranno protagonista, e dall’altra, destatasi dal sogno cinematografico, ricomincerà un’altra serie di avventure al di fuori della pellicola. Certo, se in fondo, nel film – con buona pace di Bazin e la sua ideologia del realismo (Bazin 1986) – ogni immagine è un simulacro, in realtà ogni arte che si provi a figurare il racconto di Alice scoprirà che la verità di questo soggetto non è raggiungibile; ed è proprio il relativismo radicale di ogni verità possibile sulla rappresentazione di questa bambina a permetterci di considerare l’io molteplice e diviso tra diversi riflessi.
A questo punto sarà da richiamare l’affermazione di Umberto Eco, il quale, parlando di “pragmatica dello specchio”, stabilisce che:
queste superfici riflettenti non si preoccupano neppure di favorire la veridicità delle immagini da loro restituite ri-ribaltandole come fa invece la fotografia stampata che vuole procurare un’illusione di realtà (Eco 1985, 15).
Converrà dunque stabilire quale sia la fenomenologia degli specchi di cui per lo spazio di questo contributo decidiamo di fidarci. Nella scelta, ci comporteremo esattamente come Alice e fingeremo di poter penetrare dentro lo specchio facendo cambiare così di segno, sul piano della riflessione concettuale, il fenomeno fisico della riflessione, fenomeno che, per altro, sul piano percettivo e motorio riusciamo a interpretare correttamente. Se quindi gli specchi che scegliamo non doppiano il visibile e invece, fungendo da misteriose superfici di accesso, sono soglie di separazione e di divisione tra mondi, ecco che nel loro riflesso appariranno immagini in cui la visibilità si allargherà attestando ulteriormente la possibilità di una reciproca interazione tra Alice come soggetto e l’attività riflettente che il suo sguardo, pur non sempre visibile come entità percettiva, suscita nel mondo delle immagini che la riguardano.
Davanti al nostro specchio, l’eroina di Lewis Carroll – certamente non un enfant terrible con la presunzione di mettere in discussione il mondo ma, anzi, una bambina senza pretese che addirittura, quasi senza intenzione, si ritrova semplicemente ad attraversarne la superficie finendo in un universo a parte, una favola in cui tutto è altro – è per certo inconsapevole di come i suoi incontri e le sue azioni arrivino a disvelare quello che secondo Deleuze è il “punto segreto in cui la stessa cosa sia aneddoto della vita ed aforisma del pensiero” (Deleuze 1975,116-117). Acutamente, Gilles Deleuze – che osserva in Alice le stesse qualità che Nietzsche, scrivendo contro Wagner, riconosce ai Greci quando afferma: “Quanto profondi erano questi Greci a forza di essere superficiali” (Nietzsche [1988] 1967,118) – evidenzia una volta di più come i riflessi dell’eroina di Carroll sulle superfici, ovvero sulle immagini che dall’arte al cinema la raccontano, acquisiscano il loro senso nella profondità di cui sembrano la semplice superficie. Alice, dunque, man mano che le immagini da noi scelte la racconteranno, sarà il nome della figura che, stagliandosi oltre le superfici delle sue figurazioni, impone un riordinamento di tutto il pensiero visivo che la riguarda. E se questa bambina, stando a quanto ne scrive ancora una volta Deleuze, riformula nel mondo dello specchio la logica del senso, lo fa proprio sfruttando la singolarità dei riflessi con cui le arti, nel corso degli anni, l’hanno raccontata.
Le dimensioni, il tempo, la soglia
Pare che inizialmente Carroll avesse concepito Through the Looking-Glass, and What Alice Found There su di una scacchiera, aggiungendo solo in un secondo momento gli effetti ottici di rovesciamento generati dallo specchio. Sono dunque la sistematicità della scacchiera e l’illusione percettiva ottenuta ponendosi di fronte a qualsiasi superficie riflettente a generare il mondo in cui questa bambina dell’età vittoriana, dopo essere uscita dal Paese delle meraviglie, vive la sua seconda avventura. Se nel Paese delle meraviglie lo scrittore racconta la propria protagonista riprendendo il gioco delle carte, in fondo, quello specchio di cui abbiamo attraversato la soglia decidendo di affidarci ad esso come fosse una protesi, consente di cogliere lo stimolo visivo dove l’occhio non potrebbe mai giungere, ovvero di fronte al proprio corpo ma anche dietro un angolo o in una cavità. Ecco allora che la creatura di Lewis Carroll interseca Walt Disney e i surrealisti ben prima del celebre film d’animazione del 1951. Le carte di Attraverso lo specchio diventano così gli arcani maggiori dei Tarocchi – i quali, nati anticamente come carte da gioco, attraverso i secoli sono diventati strumenti divinatori e simbolo della trasformazione interiore – ed ecco che usando come trait d’union il Destino – il cartone animato giunto a noi nel 2000 grazie a Roy Disney ma in realtà girato da Walt nel 1945 insieme a Salvador Dalí – viene facile rintracciare un parallelismo con la metafora spaziale del castello posto al limitar del bosco in Il castello dei destini incrociati (Calvino 1969). E dunque anche Italo Calvino si accomoda al nostro tavolo da gioco e, a sua volta, capita che il castello fatale accolga anche la romantica e surreale Alice.
Per incrociare un castello in cui un mazzo di Tarocchi, disposti di volta in volta in diversa successione, originano una storia nuova con la fanciulla degli spazi onirici di Dalí e Disney – luoghi fantastici, abitati da strane creature e scanditi da continui incantesimi – dobbiamo certamente sottoporre il tempo e lo spazio a una ambigua distorsione. A consentirlo è proprio quell’aiutante numinoso che, sulla falsariga di Vladimir Propp, abbiamo identificato nello specchio (Propp 1966). In quanto canale-protesi, lo specchio provoca certi inganni percettivi, se pur come in questo caso transitori e reversibili. Dal rischio – e dalla possibile frustrazione – di prendere lucciole per lanterne ci tutela proprio Alice in persona fin dal Paese delle meraviglie, quando, capitata al tea-party del Cappellaio, si ritrova in un tempo che, pur muovendosi, scorre a vuoto in quanto sospeso all’ora del tè. Se dunque l’immagine chiave del tè del Cappellaio è quella di un tempo infinito, non solo Dalí, Disney e Calvino possono abitare la stessa dimensione – e sedere allo stesso tavolo da gioco. L’orizzonte letterario in cui si ascrive Carroll è volto a instaurare una sorta di contro-tradizione che nell’umorismo paradossale del nonsense predilige la non coerenza e l’anarchia, perciò creando intersezioni nel nome di Alice possiamo liberamente aprire a un universo governato dal paradosso e dal reversibile.
E se l’orizzonte del visivo con cui moduliamo le immagini di Alice è certamente delineato in modo da smentire ripetutamente il vincolo della temporalità, questo stesso meccanismo di produzione del senso è ancora una volta garantito dallo specchio. Infatti abbiamo già visto che l’effetto speculare pur disvelando il segno in un “designatore rigido” (Eco 1985,19), e dunque restituendo un’immagine che non è interpretabile, può tuttavia suscitare inferenze di vario genere, ovvero può rinviare a un campo di cui, per similitudine, costituisce un doppio. In particolare il Surrealismo, proprio sfruttando gli specchi con le loro valenze simboliche e metaforiche, costruisce in pittura parallelismi con le situazioni che Alice sperimenta durante i suoi viaggi onirici nel Paese delle meraviglie e attraverso lo specchio. Basti pensare, solo per fare qualche esempio, a The Stolen Mirror di Max Ernst, del 1941, ad Alice in 1939 ma anche, nel 1970, al suo Alice in Wunderlands da Lewis Carroll’s Wunderhorne, ancora, alle varie versioni Alice au Pays des Meraveilles eseguite da René Magritte tra il 1945 e il 1946, per finire poi con le illustrazioni di Alice eseguite nel 1969 da Salvador Dalí. Sono immagini che, a partire dal mondo alternativo di Lewis Carroll e dalla sua storia di Alice collocata in quella terra di nessuno tra il reale e l’immaginario, consentono che la percezione di chi guarda ne esca totalmente dissolta.
Nel frattempo Alice, con la sua voglia di libertà, conquista non solo il cinema hollywoodiano ma anche quello europeo. Tra il 1969 e il 1980 vengono girati diversi film che riportano il suo nome o nel titolo o tra i protagonisti delle vicende: in Alice’s Restaurant (Arthur Penn, USA 1969), Alice e Ray, col fine di mantenere una comunità hippie che vive in una chiesa sconsacrata, gestiscono un ristorante; Martin Scorsese nel 1975 gira Alice non abita più qui (Alice Doesn’t Live Here Anymore) e ci presenta una Alice on the road che, rimasta vedova con figlio dodicenne a carico, decide di tornare a Monterey pagando questo viaggio strada facendo con la sua professione di cantante; Wim Wenders nel 1980 con Alice nelle città (Alice in den Städten) offre forse quello che al cinema resta il ritratto più affascinante di Alice che, nelle mani del regista tedesco, diventa una bambina in grado di far riacquistare fiducia a un giornalista-fotografo con il quale si trova casualmente a viaggiare: i due, prendendo la macchina, il treno, il traghetto o l’aereo, girano diverse città; e se dapprima l’uomo è molto seccato dalla presenza della bambina, con il passare del tempo si affeziona a questa ragazzina che, per parte sua, dimostra molta maturità. Nato casualmente, il loro rapporto diventerà una vera amicizia, permettendo all’una e all’altro di riacquistare, alla fine del viaggio, tornati alla realtà, fiducia in loro stessi e nella vita.
Come Lewis Carroll nei due libri che vedono Alice protagonista, anche Wenders nel suo film alicesco, raccontando l’infanzia come condizione invidiabile, costruisce un mondo a parte retto da proprie regole speciali, un mondo che vorrebbe imitare gli adulti mentre invece, falsificandone proporzioni e dimensioni, arriva a mostrarne tutti i limiti, le ipocrisie e la finzione. E, stabilito che nel film Alice è l’alter ego di Wenders, per certo il cineasta, scegliendola come guida, sembra dirci che essere registi, in qualche modo, è come essere, direbbe MacEwan “bambini nel tempo”.
A conclusione
Se, come scrive Umberto Eco, “nello specchio scelgo io l’inquadratura perché lo specchio è sempre artificio inquadrante e l’inclinarlo in un certo modo sfrutta questa sua proprietà”, per chiudere su Alice e le sue rappresentazioni, stabiliamo allora che “dello specchio non si dà impronta o icona che non sia un altro specchio” (Eco 1985, 37). Così facendo, poniamo due specchi l’uno davanti all’altro e creiamo il caso limite di uno specchio senza punti di passaggio. Ci siamo messi nella condizione mentale di quei giardinieri che nel Paese delle meraviglie dipingono le rose del colore che avrebbero dovuto avere e, tutti presi dal lavoro, sono incoscienti del loro squilibrio; questo punto di prospettiva – la postura mentale della follia – ci consente – ‘assoluto’ lo specchio dalle sue caratteristiche tecniche – di chiudere con un’immagine originata anch’essa da uno specchio, anche se con questo oggetto sembra non aver più nulla a che fare.
Si tratta dello specchio creato da Douglas Gordon nella sua videoinstallazione del 1999 che, pur citando Alice fin dal titolo – Through a looking glass è il nome dell’opera – viene posto sulla soglia di una superficie deformante, facendo così raggiungere a chi guarda un punto di catastrofe che lo costringe a decidere se posizionarsi al di qua o al di là del riflesso. Partendo dal monologo di Robert De Niro tratto da Taxi Driver di Martin Scorsese (1976), Douglas Gordon pensa al celebre attore come se si trovasse davanti a uno specchio e nella sua installazione fa partire la sequenza due volte, contemporaneamente. Le due proiezioni iniziano assieme, perfettamente sincronizzate e poi, a poco a poco, si allontanano l’una dall’altra per infine rincorrersi. Ecco allora che lo spettatore si trova proprio al centro dello specchio in cui De Niro sembra riflettersi, e quel luogo sospeso tra la superficie dello specchio e la superficie del vetro è l’ultimo gioco che evochiamo con Alice e con il mondo di Lewis Carroll.
Riferimenti bibliografici
- Bachtin [1975] 2001
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M. Pugliese, M. Ragozzino, C. Birrozzi, Alice nel castello delle meraviglie. Il mondo fuori forma e fuori tempo nell’arte italiana del Novecento, Milano 2005.
Filmografia
- Alice in Wonderland, Walt Disney, USA 1951.
- Destino, Walt Disney, Salvador Dalí, USA 1945.
- Alice’s Restaurant, Arthur Penn, USA 1969.
- Alice Doesn’t Live Here Anymore, Martin Scorsese, USA 1974.
- Taxi Driver, Martin Scorsese, USA 1976.
- Alice in den Städten, Wim Wenders, Deutschland 1973.
Videoinstallazioni
- Douglas Gordon, Through a looking glass, New York 1999.
English abstract
The mirror as the numinous helper of which Vladimir Propp writes in Morphology of the Folktale, in the journey into the world of Alice, the heroine of Lewis Carroll, mixes the sources exploiting the rich echo of this child in the world of images. It is precisely the radical relativism of every possible truth about the representation of this child who allows us to consider herself and her image as multiple and divided into different reflections.
keywords | mirror, Propp, Alice in Wonderland, relativism, childness.
Per citare questo articolo: Marina Pellanda, Lo specchio di Alice attraverso il cinema, “La Rivista di Engramma” n. 161, dicembre 2018, pp. 129-138. | PDF dell’articolo