Tre bocche
Esempi di performazione sonora nelle arti visive medievali
Luca Capriotti
English abstract
"Nella pittura è una macchia e nella scultura è una cavità".
Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte
Nel contesto degli studi inaugurati dal filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten, la lettura filosofica si è espressa spesso, tra XVIII e XIX secolo, in modo critico sulla rappresentazione delle deformazioni somatiche indotte da un temperamento perturbato, da un moto di ribellione, dall’incomprensione a riguardo del mistero della morte, ma anche dall’evidenziazione visiva di un atto percettivo o performativo che deve rendere chiara l’utilizzazione dei sensi. D’altronde, come tutte le dottrine, anche quella lettura estetica era figlia del proprio tempo, il Settecento, nel quale il gusto che si andava sviluppando prendeva le mosse da un recupero della classicità, in qualche modo sulla falsariga di quanto accaduto nel primo Quattrocento fiorentino. All’interno del dibattito sulla rappresentazione delle deformità corporali, merita una menzione speciale, per il discorso che svilupperò, il Laocoonte di Gotthold Ephraim Lessing, pubblicato nel 1766. Il filosofo tedesco ricerca la fonte letteraria che ispirò il grande gruppo scultoreo, rintracciandola in Virgilio, e cerca di stabilire in che modo sia avvenuta la sua funzionalizzazione artistica. In questa discussione trova spazio anche la teorizzazione della specificità della pittura e della poesia, che Lessing svolge differenziando le due arti da un punto di vista temporale: la poesia espone i fatti consequenzialmente, mentre le arti visive mostrano un unico evento icastico; e afferma che l’artista che scolpì il gruppo voleva ottenere un fine estetico ben preciso, ossia evitare un accesso alla dimensione del dolore:
Doveva dunque diminuirlo; mitigare le grida in sospiri; non perché il gridare tradisca un animo ignobile, ma perché stravolge il volto in un modo disgustoso. Si immagini, infatti, di spalancare anche solo la bocca al Laocoonte e si giudichi. Lo si faccia gridare e si osservi. Era un’immagine che suscitava compassione, perché mostrava nel contempo bellezza e dolore; ora è divenuta una figura brutta e orribile, da cui si volge volentieri lo sguardo, perché la vista del dolore suscita ripugnanza nel dolce sentimento della compassione. La semplice ampia apertura della bocca nella pittura è una macchia e nella scultura è una cavità che produce l’effetto più disgustoso del mondo (Lessing, Laocoonte, 28).
Le irregolarità anatomiche, soprattutto facciali, derivate da un’enfatizzazione dei moti dell’animo e della percezione dei sensi, sono, in un certo senso, un tema scottante, che sarà gradualmente riabilitato appieno grazie alle neo-avanguardie novecentesche. Basti pensare al pathos e all’attrazione che hanno destato le operazioni body-artistiche, che ai nostri giorni rivestono una grande importanza nel contesto delle strategie performative. Una sensibile censura artistica si consuma però già nel contesto dell’avanzamento delle nuove implicazioni stereometriche del cosiddetto ‘primo Rinascimento’ di inizio Quattrocento. La sua produzione – con molte, alcune clamorose eccezioni – tende a rimuovere dai propri prodotti ogni suggerimento visivo che possa comportare una eccessiva concitazione dei tratti del volto, o un’impressione di squilibrio anatomico: anche sulle scene più forti, nelle movenze pur agitate delle membra o nella animazione dell’insieme, doveva comunque spirare un’aura di grazia. La declinazione di forme che rievocano la compostezza della classicità apollinea non è mai, peraltro, univoca. Da una parte, il repertorio del passato su cui si modellano le scelte visive ed espressive è un Antico astorico, in cui arte greca e romana si confondono, alla ricerca di un canone assoluto; dall’altra, la componente dionisiaca – o comunque ‘patetica’ – riemerge (per quanto non concettualizzata) dal rimosso, seguendo l’istanza, propria di molti movimenti di rottura, di distinguersi dal passato.
Le premesse qui esposte mi permettono di orientare meglio la ricerca e la discussione di opere d’arte del periodo medievale, durante il quale un certo tipo di restituzione somatica sarebbe stata recepita come poco gradevole dai rappresentanti di una cultura che pensava alla classicità come a un repertorio totalmente equilibrato e senza eccessi. A tal proposito ho scelto di analizzare un architrave ligneo, uno marmoreo e un affresco, che comprendono un arco cronologico relativamente ristretto, che va dal XII secolo alla fine del Duecento. Ho scelto questi tre manufatti per le concordanze interne che si riscontrano nell’esame iconografico: forte riproduzione dell’oralità e conseguente deformazione somatica dei personaggi.
Il primo esempio riguarda un architrave ligneo proveniente dal monastero di San Miguel de Cruïlles, realizzato tra l’ultimo quarto del XII secolo e i primi anni del XIII, e attualmente ubicato nel Museu Diocesà di Girona. Dal punto di vista stilistico non siamo in possesso di molte informazioni per quello che riguarda la produzione di un manufatto come questo, data l’impossibilità di riscontri coerenti con oggetti analoghi. Ma, senz’altro, l’interesse della trave risiede nella iconografia. Infatti l’immagine rappresenta membri del clero, distribuiti orizzontalmente su tutta la superficie del piano ligneo. Bisogna sottolineare che l’immagine è molto specifica, essendo un evento temporale collocabile all’interno di una processione liturgica. La celebrazione viene evocata non solo dalla forma paratattica della rappresentazione, ma anche, e direi soprattutto, dalla riproduzione della dimensione orale della scena, come se gli attanti stessero cantando una formulazione liturgica di giubilo che sottolinea i punti cruciali della vita religiosa. La performazione del sacro apre molti scenari relativi all’investimento dei cinque sensi nella liturgia medievale, tema che è stato recentemente approfondito, apportando sostanziosi risultati, da Eric Palazzo.
Grazie appunto all'evidenziazione della performazione fisica del canto, l’opera catalana si può collegare a un architrave toscano: il portale già della chiesa di San Leonardo al Frigido, asportato dal suo contesto primitivo e attualmente conservato al Cloister Museum di New York (un calco dell’opera originaria è stata recentemente esposta al Palazzo Ducale di Massa, dopo oltre trenta anni dalla sua finalizzazione). Il manufatto originario decorava la chiesa medievale, piccola ma rilevante perché fungeva in zona da punto di transito sulle rotte, soprattutto pellegrinali, durante il XII secolo, come sembra testimoniare la memoria del viaggio di ritorno dalla III crociata di Filippo II Augusto nel 1191. Il complesso scultoreo fu realizzato pochi anni dopo il 1180, sulla base dei confronti estendibili con altri due architravi firmati da Biduino: nella chiesa di San Cassiano e nell’architrave attualmente in collezione Mazzarosa a Lucca. Per ciò che riguarda l’authorship trovo che si tratti di un’opera non autografa, realizzata da un workshop ispirato all’attività di Biduino. Il portale presenta i seguenti elementi: due basi che fungono da imposta per gli stipiti, un architrave e un anello fitomorfico che le gira attorno. L’elemento cruciale che esorbita dall’apparato visivo emerge dall’architrave, dove è rappresentata l’Entrata a Gerusalemme. In questa sezione emerge una ‘cavità’ stravagante: gli apostoli sono scolpiti con la bocca aperta e, come nella trave catalana, sembra stiano performando oralmente un canto di giubilo per celebrare l’ingresso trionfante di Cristo in città. Questa minuzie di particolari permette di accedere a una possibile interpretazione del suo ruolo sociale. Non è escluso infatti che il portale, e nella fattispecie l’architrave, soddisfacesse le aspettative di un pellegrino dell’epoca, il quale poteva facilmente empatizzare con il concetto rappresentato: il viaggio sacro, il quale, secondo le abitudini mentali di un viandante del XII secolo, sovrapponeva la storia universale ed evangelica con l’esistenza individuale. Credo quindi che l’iconografia dell’architrave possa essere estesa all’umana dimensione del pellegrinaggio, in senso autoidentificativo, dal momento che il significato rappresentato dalla scena corrisponde alla metafora medievale dell’homo viator, che perviene alla meta (l’esistenza cristiana, peraltro, era percepita come un esilio che avrebbe trovato una definitiva conclusione al termine della vita terrena).
A prescindere dalle interpretazioni che si possono proporre per questa scultura romanica, è evidente l’aggancio con l’esempio precedente e con un altro che si pone a distanza di poco più di un secolo.
All’interno della basilica superiore di Assisi, tra le storie di San Francesco, è rappresentata la rievocazione vivente della nascita di Gesù da parte di San Francesco, dipinta da Giotto: il cosiddetto Presepe di Greccio. Il riquadro offre uno sketch essenziale dell’epoca, da cui apprendiamo un dato molto interessante nel contesto delle abitudini medievali legate al contesto locale assisiate e non solo: durante alcuni eventi, ai laici maschi era permesso di varcare il tramezzo e di stanziare temporaneamente nella partizione planimetrica tradizionalmente riservata ai chierici. Evidentemente, la scena evocata da Giotto era a tutti gli effetti un avvenimento in qualche modo eccezionale. Una conferma dell’importanza dell’evento la possiamo riconoscere nella compartecipazione attiva dei testimoni: all’indirizzo del bambino sono rivolti tutti gli sguardi dei personaggi non religiosi, ed anche quello dell’asinello sul lato destro della culla, a sottolineare una deferenza globalizzante rivolta a Cristo. Ma l’aggancio tematico con la trave catalana e l’architrave toscano ce lo offre un aspetto sonoro che visivamente può essere restituito solo con un'accentuazione della deformità somatica. Una parte dei membri appartenenti all’Ordine Francescano omaggia la nascita di Cristo, cantando a gola spiegata in modo giubilare. E in questo esercizio le loro bocche diventano una “macchia”, dalla quale fuoriesce un canto corale, che ci trasmette un importante riferimento a riguardo dell’utilizzo di elementi extra-visivi durante le cerimonie medievali. Una verità fisica che si appaia alla verità spaziale di una scena che mostrava al pubblico dell’affresco una zona cui in realtà raramente aveva accesso, come evidenziato da Michele Bacci.
Il canto di giubilo e la performazione corale mettono in successione la trave di San Miguel de Cruïlles, l’architrave di San Leonardo al Frigido (o viceversa, a seconda della datazione effettiva del dipinto catalano) e il riquadro affrescato nella basilica superiore di Assisi, che si pone comunque, come detto, a una seriorità cronologica di circa un secolo, parte della cui produzione artistica non si è salvata dall’impermanenza del tempo. Esistono ovviamente non pochi altri esempi lato sensu 'medievali' in nostro possesso dove si possa leggere l’evidenziazione di una pratica, il canto, non riportabile di per sé nei suoi elementi sonori all’interno di una scena dipinta o scolpita nelle arti mute; ma riconosciamo in queste tre scene un particolare investimento sensoriale dell’apparato uditivo e orale tramite dettagli che Lessing avrebbe giudicato in modo dispregiativo e additato, appunto, come “macchie” e “cavità”, e che invece, rispetto ai giudizi su Giotto, trovano in questo elemento, come spesso è stato fatto, un elemento di ‘realismo’ e dunque, immediatamente, di ‘modernità’.
In ogni caso, il fil rouge proposto lascia spazio a un’ipotesi: l’eventualità che esistessero dei veri e propri patterns visivi in qualche modo codificati impiegati nelle scene descriventi (o derivanti dalle) esperienze liturgiche con un’enfasi su questo elemento anatomico, che almeno da Giotto in poi prende piede fino al pieno Trecento (si pensi, ad esempio, ai Funerali di San Martino di Simone Martini, dipinti nella basilica inferiore di Assisi nel secondo decennio, la cui apertura sensoriale è un netto riferimento al Presepe di Greccio). La riproposizione di modelli, in contesti geografici limitrofi o anche distanti, è un tema ben noto nella storia artistica medievale, e qualche volta certe aperture apparentemente così naturali e spontanee, e di cui si cerca un legame con la realtà effettuale, si legano in realtà alla problematica legata all’iterazione di modelli, come avviene – per esempio – nei cicli dei Mesi.
In questo senso, una traccia che qui non approfondisco è quella offerta dalle numerose scene dei manoscritti e altri manufatti miniati di ambito liturgico, in cui vengono mostrati dei gruppi impegnati in una performazione vocale: i fedeli davanti ai rotuli degli Exultet pasquali, ma soprattutto frati, suore o chierici a coro (si pensi alla illustrazione di Cantate domino). La bocca aperta, che sarà spesso mostrata dal XIV secolo in poi in questo tipo di produzione, non ha sempre, in precedenza, una marcata tradizione di evidenziazione: ancora a fine Duecento, in Toscana, il dato viene spesso del tutto omesso, pure in modo incongruo. Peraltro, come evidente, il riflesso identificativo di uno spettatore di un architrave dipinto o scolpito – o di un muro affrescato – con storie bibliche o agiografiche è del tutto distante dall’illustrazione che in modo implicitamente autoreferenziale mostra la pratica stessa che l’oggetto miniato aiuta a performare, in stretto rapporto fisico e concettuale con un testo scritto, e soprattutto con un target spesso molto più delimitato.
In ogni caso, negli esempi che ho presentato, dipinti o scolpiti, si ottiene una perforazione della superficie che conferisce vita alle scene rappresentate. Non credo sia trascurabile l’investimento sensoriale prodotto da un piccolo accorgimento come la rappresentazione delle bocche aperte: una licenza artistica prettamente anticlassica (se pensiamo a questo concetto nell’ottica di un totale equilibrio fisico ed emotivo), che si traduce in un’esperienza sensoriale pregnante.
Nota bibliografica
Limito qui i riferimenti bibliografici a quanto cito direttamente nel testo, e ai contributi specifici sugli esempi meno noti riportati. Per il brano di Lessing [cfr. G. E. Lessing, Laokoon oder über die Grenzen der Malerei und Poesie, 1766] l'edizione consultata è Laocoonte, a cura di M. Cometa, Palermo 2007. Sulla trave dipinta catalana, E. Palazzo, L’invenzione cristiana dei cinque sensi nella liturgia e nell’arte del Medioevo, Napoli 2017, 101-112, con rimandi alla bibliografia precedente; al di là dei casi qui considerati, lo studioso autore di questo testo fondamentale ci avverte anche che "saltuariamente, nell'iconografia medievale, il motivo della bocca aperta non è sempre associato all'idea del canto, ma a quella più generica della Parola e dell'autorità che l'accompagna" (109). Per l’architrave di San Leonardo al Frigido, con oscillazione tra un’attribuzione diretta e il riferimento a un’opera di bottega o di derivazione, cfr. almeno H. Swarzenski, Before and after Pisano, “Bulletin / Museum of Fine Arts, Boston” 68 (1970), 178-196 (185); C. Baracchini, Problemi di architettura e scultura medievale in Lucchesia, “Actum luce” 7 (1978), 7-30 (20-23); G. Tigler, Una statua romanica ad Altopascio (per il problema della scultura monumentale nel medioevo), “Arte Medievale” 4, 1990, 2 (seconda serie), 123-133 (129); D. Glass, “Then the eyes of the blind shall be opened” a lintel from San Cassiano a Settimo, in E. Sears (Ed.), Reading medieval images, Ann Arbor 2002, 143-150 (145-148); D. Glass, Portals, pilgrimage, and crusade in western Tuscany, Princeton 1997, 33-35, 61-63; G. Tigler, Toscana Romanica, Milano 2006, 231; di recente, C. Griffith Mann, Encounter: the San Leonardo at Frigido portal at The Cloisters, “Gesta” 53 (2014), 1, 1-3. La lettura del riquadro giottesco che cito nel testo si trova in M. Bacci, Lo spazio dell’anima. Vita di una chiesa medievale, Bari 2005, 83-85. Un altro bell'esempio di evidenziazione della bocca aperta nel canto esaminato da Palazzo è appunto legata alla produzione di codici liturgici (essendo stata identificata come legatura): la tavoletta d'avorio di Francoforte, della seconda metà del IX secolo (Palazzo 2017, 221-238).
English abstract
The article analyzes a strong reproduction of orality in a wooden, and in a marble architraves, and in a painted image. They are included in a chronological period, from the 12th century to the end of the 13th century. These three medieval objects are characterized by the representation of open mouths: an visual element which seems to suggest a strong sensorial involvement.
key words | medieval art; iconography; mouth
Per citare questo articolo / To cite this article: L. Capriotti, Tre bocche. Esempi di performazione sonora nelle arti visive medievali, “La Rivista di Engramma” n. 168, settembre/ottobre 2019, pp. 123-130 | PDF