“Persi par persi, ’ndemo a consolarse”
Uno sguardo ‘terzo’ sul concerto dei Pink Floyd a Venezia
Giacomo Maria Salerno
English abstract
È sempre possibile dire il vero nello spazio di una esteriorità selvaggia
Michel Foucault [1971] 2001, 23
Attraverso il dibattito scatenato dal concerto dei Pink Floyd del 1989, si è potuto assistere a una delle ultime e più esemplari declinazioni del lungo e insanato conflitto tra Venezia e il moderno, che da lungo tempo opponeva in Laguna gli schieramenti cosiddetti dei conservatori e degli innovatori. In questo dibattito, che in controluce vedeva profilarsi le luci di Expo 2000, Manfredo Tafuri ha visto l’articolazione di una doppia sconfitta, in cui nessuna delle due fazioni (tanto quella che tentava di “mettere il belletto a un cadavere”, quanto quella che lo ha visto “liquefarsi sotto i suoi occhi” (Tafuri 1994) è riuscita a immaginare una soluzione a quello che ormai, a partire almeno dal celebre titolo del convegno del 1962, era pubblicamente definito come “il problema di Venezia”. Nessuno dei due schieramenti era insomma riuscito a offrire alla città una qualche via d’uscita dalle secche in cui si trovava impantanata da un secolo ed oltre, presa com’era tra le spinte contrastanti l’ammodernamento funzionale delle sue strutture da un lato, e quelle alla conservazione del patrimonio storico in essa sedimentato dall’altro; conflitto, questo, che appare estremamente longevo e tuttora irrisolto, come risulta evidente anche solo dal confronto tra le sue attuali declinazioni e le parole che gli dedicò Pompeo Molmenti nel 1902 in un’interrogazione parlamentare:
Quantunque le pietre a Venezia siano migliori e più belle degli uomini, abbiano però anche gli uomini i loro diritti, e non sia lecito, per amore dell’arte, condannare gente viva ad abitare tra le fredde pareti di un museo, e se Venezia non deve essere un museo, non può nemmeno perdere o sciupare ciò che il mondo le invidia (Molmenti 1924, 253).
Non era dunque cambiato di molto il discorso pubblico dall’inizio del secolo agli anni ’80, se lo stesso Tafuri, nell’introduzione di Venezia e il Rinascimento, poteva riaffermare che questa Venezia è problema per i ‘moderni’, i quali
[...] affascinati da una continuità cristallizzata [...] non riescono a sopportare la sfida che Venezia lancia loro. E moltiplicano i tentativi di violenza e tradimento, con tratti sadici appena dissimulati dietro la maschera del ‘progetto rispettoso’, del passato come amico del nuovo Capriccio, della mummificazione, della rivitalizzazione effimera (Tafuri 1985, XI).
Il concerto del Redentore ’89, con lo strascico di polemiche che lo ha seguito, non ha fatto che riproporre questo dibattito all’interno della nuova stagione sociale e politica che stava vivendo la città dopo la chiusura del ciclo fordista, inaugurato dalle sconfitte operaie e dalla riorganizzazione della produzione industriale. Riguardando la scena del corteo dei lavoratori di Porto Marghera, ripresa nel docu-film La città (regia di Guido Vianello, 1974), si potrebbe dunque dire che i cartelli su cui appare lo slogan “No alla città museo” rappresentano non solo il canto del cigno della Venezia operaia, che sul lavoro industriale aveva provato a rifondare un’economia urbana in una dimensione metropolitana, ma anche l’intuizione dell’avvento di una nuova industria pesante, che farà del corpo stesso della città materia prima da sfruttare nel contesto della nascente economia spettacolare. La pressione turistica cresce infatti inarrestabile durante tutti gli anni ’80, e investe una città sempre meno attrezzata, dal punto di vista della sua composizione sociale, a resistere all’urto di masse di visitatori che ormai non si limitano a concentrarsi nei tradizionali tre mesi dell’alta stagione estiva.
È così che Venezia, nel 1989, vede scendere la sua popolazione al di sotto della soglia degli ottantamila abitanti, mentre l’arrivo dei primi torpedoni di turisti provenienti dal blocco dell’Est in via di disfacimento segna ufficialmente il suo ingresso nell’era del turismo di massa.
In un quadro così determinato, il conflitto tra innovatori e conservatori si riarticola dunque su due posizioni, “una che guardava avanti in difesa del patrimonio artistico della Serenissima, incoraggiando allo stesso tempo l’utilizzo di strumenti e soluzioni più moderne di ricezione turistica; l’altra che considerava la laguna come una città-museo, della quale esaltare la dimensione poetica” (Szacka 2016, 184). Se la seconda opzione immobilizzava il corpo urbano in una stasi contemplativa per intellettuali, stranieri facoltosi e cosiddetti ‘turisti di qualità’, sensibili ai sussurri che questa città postuma e spettrale riusciva ancora a lanciare (Tafuri 1994; Agamben 2009), la prima pareva più vicina alle provocatorie posizioni espresse pochi anni prima da Marco Romano, che nel 1981 sosteneva che “la trasformazione di Venezia in una Disneyland potrebbe segnare il passaggio ad un modo di vivere più creativo, più allegro e più festoso” (Romano 1981, 77). Qualunque però fosse la postura assunta, entrambe queste posizioni parevano in definitiva non essere in grado di offrire una soluzione al famoso ‘problema’, poiché nessuna di queste si era dimostrata in grado di porre un argine alla principale minaccia che incombeva sulla città a partire dal secondo dopoguerra: l’esodo degli abitanti.
La sostanziale vittoria del partito della conservazione, cui in qualche modo entrambi questi modelli fanno riferimento, avendo fatto della preservazione della struttura sedimentata di Venezia il suo tratto fondamentale, ha infatti determinato una paradossale periferizzazione della città storica: in questo modo
L’immagine consolidata si è trasformata in marchio, logo, inteso quale vuoto simbolo per una virtuale economia in grado di offrire l’archetipo di tante Disneyland riprodotte in facsimile. Così operando si è rovesciata la situazione: adesso Venezia è diventata la periferia di Mestre (Cervellati 2010).
Che il modello cui tendere fosse quello del museo o quello del parco tematico, dunque, la realtà urbana veneziana si mostrava in ogni caso profondamente trasformata nella sua dimensione più fragile, vale a dire in quella costituita, più che dalle sue pietre, dalle persone in carne ed ossa: i ceti più fragili sono stati così tendenzialmente espulsi dalla città insulare, che contestualmente si avviava verso un destino di museificazione e mercificazione che sull’altare della città turistica avrebbe sacrificato la tradizionale mixité sociale che la caratterizzava. Al termine di questi processi di lungo corso, potevano dunque valere anche per Venezia le parole usate da Henri Lefebvre nel 1968:
Come testo sociale, la città storica [...] si allontana. Assume l’aspetto di un documento, di una mostra, di un museo. La città storicamente formata non è più vissuta, non la si coglie più praticamente. È solo un oggetto di consumo culturale improntato all’estetismo rivolto a turisti avidi di spettacoli e di pittoresco. Anche per coloro che cercano di comprenderla affettuosamente, la città è morta (Lefebvre [1968] 2014, 102).
Il concerto dei Pink Floyd viene dunque a inserirsi in questo nuovo contesto, in cui, se dal lato dell’architettura tradizionale “a Venezia la ragione progettuale sembra aver drasticamente accorciato i propri orizzonti” (Gregotti 2012, 96) – come testimoniano i rifiuti opposti a interventi di grandi architetti come Le Corbusier, Frank Lloyd Wright o Louis Kahn (Bonaiti, Rostagni 2016) – dall’altro iniziava ad affermarsi in Laguna una tendenza alla progettazione del temporaneo di cui il Redentore ’89 è in qualche modo il momento culminante e il punto d’arresto, che “chiude ‘simbolicamente’ una stagione dell’architettura effimera” (Marini 2017, 140) aperta dieci anni prima dall’apparizione in quello stesso spazio acqueo del Teatro del Mondo di Aldo Rossi.
Raggiungendo questo suo apice, la progettazione dell’effimero da un lato si è trovata a determinare impreviste conseguenze materiali, come reso evidente dai danni economici lasciati in eredità dal concerto, ma dall’altro – mentre pensava di doversi opporre unicamente alle rigidità delle impostazioni più conservatrici – ha dovuto fare i conti con l’irruzione sulla scena di un elemento imprevisto, rappresentato da quegli oltre duecentomila giovani che hanno inondato le calli della città, nella totale assenza di servizi minimi ad essi dedicati. Scriveva sempre Lefebvre, e proprio in un testo dell’89 (l’ultimo da lui pubblicato) che
[...una volta] esportati, o meglio deportati nelle periferie, i produttori ritornano come turisti nei centri storici, dei quali sono stati spossessati, espropriati. Oggi le popolazioni periferiche reinvestono i centri urbani solo come luoghi di piacere, di tempo vuoto e inoperoso. Il fenomeno urbano è così profondamente trasformato. Il centro storico in quanto tale è scomparso. Non restano che centri decisionali e di potere, da una parte, e spazi fittizi e artificiali dall’altra. È vero, la città persiste, ma solo con tratti museificati e spettacolari (Lefebvre [1989] 2017, 236).
Ed è proprio questo che si potrebbe leggere tra le pieghe del grande evento: gli espulsi dalla città vetrina, no navigator to guide their way home, vi fanno infine rumorosamente ritorno, come consumatori, come turisti, o, in questo caso, come indisciplinati fan di una delle più influenti rock band del Novecento.
Veniamo dunque alla notte del concerto, destinata d essere ricordata come la più famosa delle ‘notti famosissime’. In quella sera del 15 luglio, migliaia di giovani, residenti e foresti, attratti dall’esibizione di un gruppo in qualche modo espressione delle controculture giovanili degli anni ’70 e ’80, si sono materialmente riappropriati dello spazio della città, facendo letteralmente saltare il dispositivo logistico (male) organizzato dall’amministrazione cittadina. Lo sciopero dei trasporti pubblici aveva inaugurato la giornata e la chiusura in mattinata del ponte stradale aveva costretto la folla ad affidarsi unicamente al trasporto ferroviario o a una lunga traversata a piedi. Un racconto romanzato di quei momenti descrive così il clima che si respirava in città dalle prime ore del giorno:
Verso le 10 era giunta una telefonata allarmata dalla questura di Roma. Ai colleghi di Venezia la Polfer aveva comunicato che erano partiti due treni, uno affollato di ottomila persone, l’altro di cinquemila, tutte dirette nella città lagunare. I primi grattacapi per l’ordine pubblico li avevano già dati alla Stazione Termini, tanto che le forze dell’ordine erano dovute intervenire con piccole cariche per impedire vandalismi. Il questore Musarra e il capo di gabinetto Cesare Porta, che coordinavano gli oltre mille agenti e carabinieri in servizio, avevano inviato alcuni plotoni della Celere ad accogliere i fan romani più turbolenti, che così erano stati scortati fino in piazza San Marco. Col viso tirato e le radio ricetrasmittenti schiacciate fra le dita, gli agenti avevano cercato di opporsi a ogni intemperanza della folla. Alla stazione, nel frattempo, treni provenienti da Bologna e da Milano avevano continuato a scaricare migliaia di persone (Anonimo Veneziano 1999).
Già dal mattino dunque la macchina organizzativa della città mostrava i primi segni di inadeguatezza e di sottovalutazione della situazione reale. A nulla erano valse le raccomandazioni di Fran Tomasi, organizzatore del concerto, sul grande richiamo di pubblico che avrebbe avuto l’evento. In una recente intervista, l’impresario ricorda così questo aspetto della vicenda:
Io ho sempre detto: “Fate attenzione che per un concerto gratuito dei Pink Floyd appare un flusso di gente straordinario”. Tanto è vero che avevo proposto di mettere i bagni chimici e altre strutture di assistenza. Io credo di aver portato una decina di tope (barche veneziane) con bottiglie d’acqua perché la gente non aveva niente da bere (Rocchi 2015-2016, 81).
Incuranti degli avvertimenti, le autorità non ritennero di predisporre alcun servizio d’ordine né di installare i bagni, per non correre il rischio di ‘deturpare’ il contesto monumentale della piazza. Nel frattempo però la situazione non avrebbe fatto che peggiorare:
Per le 15.30 la delicata bomboniera di Piazza San Marco era ultrasatura, ma la gente continuava ad arrivare da tutte le parti. Una muraglia umana di giovani si era assiepata sull’intera riva fino all’Arsenale, abbarbicandosi su ogni sporgenza che permettesse di superare gli ostacoli alla vista, approfittando di ogni impalcatura, pontone di vaporetti, cornicione di porta. Presto iniziò l’assalto ai monumenti. Una ventina di spericolati si arrampicò su per le impalcature del Palazzo delle Prigioni Vecchie in restauro, subito imitata da una nuova ventina. Altri salirono sulla copertura del dirimpettaio imbarcadero della Paglia, altri ancora sull’impalcatura prospiciente l’ingresso della Biblioteca Marciana. Molti occuparono le rive, i pontili, le gradinate, finendo con i piedi in acqua. Le forze di polizia invocarono disperatamente rinforzi da Mestre e da Padova. Alle 16 giunse l’annuncio che i carabinieri chiamati da Mestre erano rimasti anch’essi intrappolati sul Ponte della Libertà. Nella Piazza martellata dal sole la folla assetata si stava disidratando (Anonimo Veneziano 1999).
Non riuscendo a organizzare e contenere il flusso della folla, le forze dell’ordine, chiaramente impreparate, arrivano persino a effettuare alcune cariche di alleggerimento in piena Piazza San Marco. Lo testimonia un servizio del Tg1 dell’epoca, che racconta come “alle 21, 45 minuti prima che risuonasse la prima nota di Shine on you crazy diamond, la folla ha sfondato le transenne […], la polizia ha respinto la pressione, ha caricato. Nel panico, i ragazzi sono fuggiti, per non tornare”. Seguono poi delle interviste in presa diretta dalla Piazza, di cui riportiamo alcune voci:
– Allora, di là hanno sfondato…
– Ma han caricato prima là via…
– È successo per tre volte…
– Ci son qua trecentomila persone, carichiamo? E chi le ferma più quando si mettono a correre? Dai rendiamoci conto…
– Ci sono stati dei feriti?
– Si! Era un’ondata! Un’ondata di gente che veniva…
Se questo era quanto accadeva in Piazza, anche le acque del Bacino si sono dimostrate piuttosto turbolente: alla manovra effettuata per mettersi in prima fila da parte della chiatta che ospitava vip e autorità, dalle barche assiepate da ore in attesa delle prime note è iniziato un fitto lancio di invettive e di oggetti, come si può vedere in alcuni video amatoriali che ancora circolano in rete. Lo stesso Fran Tomasi riporta l’episodio nella già citata intervista e racconta di come abbia dovuto noleggiare a sue spese quattro taxi per portare in salvo alcuni ospiti della zattera di rappresentanza, la quale ha dovuto poi piazzarsi in posizione defilata dietro alla chiatta del palco (Rocchi 2015-2016, 82). Ancora più interessante è però questa testimonianza diretta, che esprime bene, come i cori e gli insulti sguaiati che si possono sentire nel video, l’umore delle persone presenti di fronte al tentativo di autorità e celebrities di guadagnare una posizione privilegiata:
Arriva davanti a dove ci troviamo un cabinato di una trentina di metri, manovra mollemente e comincia le manovre per il posizionamento dell’ancora. Esattamente tra l’imbocco della piazza e il palco. 50 secondi di sbigottimento generale, 10 secondi di rabbia grugnita e la piazza reagisce. Partono migliaia di cose verso quella tinozza ma credo nessuno volesse invitarli al party malgrado il loro Martini. Ancora oggi al pensiero mi viene da ridere, mi vedo sta povera barchetta che comincia a barcollare sotto il carico delle immondizie che l’avrebbero fatta affondare se gli amici degli amici non fossero intervenuti con le loro luci blu per sgomberare il campo dalle immondizie, barchetta compresa (Associazione Culturale Floydesum 2014, 54)
Dopo il concerto, saranno poi la cronaca del “deflusso da incubo” e l’immensa distesa di immondizie del mattino seguente, puntellata di saccopelisti addormentati, a tenere banco nel dibattito mediatico e a far titolare ai quotidiani locali dei cubitali “Mai più”. Il day after verrà infatti descritto, in un famoso servizio del Tg1, come “un immenso dormitorio fatto di immondizie, di pipì, di volti assonnati”, su cui spiccano le immagini di un ragazzo, “irriverente di dieci secoli di storia della Basilica Marciana”, intento a orinarvi sul portone. “Se i veneziani ieri hanno avuto paura – continua il servizio – stamane si sono svegliati con la rabbia addosso. Mai più una cosa del genere a Venezia. Lampioni rotti, vetrine infrante, negozi devastati, plastica a profanare la restaurata loggia del Sansovino”. E poco importa se per quei filmati il giornalista “finì sotto inchiesta disciplinare della Rai, accusato di avere fatto un po’ di cinema con la faccenda dell’orinatore sacrilego” (Zuin 2005): l’immagine del ragazzo che saltellante si avvia verso la porta della chiesa per espletare i propri bisogni farà il giro del mondo, consolidando la percezione di una città oltraggiata dall’invasione di migliaia di giovani, dipinti come componenti di una novella orda barbarica.
Significativa eccezione, un servizio andato in onda su Rai3, che commenta invece
La cronaca di una tragedia annunciata, scongiurata solo per caso, [che] si chiude con un bilancio di 80 ricoveri, per fortuna non gravi, e di 200 ragazzi medicati […]. Oggi ci si indigna per le immagini di una Venezia profanata, ma un esercito di giovani, quelli bollati come barbari, ha vissuto 24 ore da incubo senza servizi né pubblici né privati, per non parlare di assistenza. E anche questa è barbarie. A Parigi si festeggiavano i 200 anni della dichiarazione dei diritti, a Venezia si sono calpestati i diritti più elementari, quelli degli invasori come quelli degli invasi. Diritti di civiltà. Venezia e la fragile Serenissima sul mercato si vende bene. La cultura giovanile cui appartengono i Pink Floyd ancora meglio. Ma per i giovani in carne e ossa mandati allo sbaraglio non c’è nemmeno la garanzia di dignità e di organizzazione che riserva a una partita di calcio.
Metro di paragone, quest’ultimo, provocatoriamente richiamato anche da Massimo Cacciari, che, in un’intervista svolta tra le immondizie della mattina dopo, parlerà del concerto come di una prova generale per poter svolgere la prima partita dei mondiali dell’anno successivo proprio in Piazza San Marco.
Riguadagnando un po’ di distanza dai fatti, si potrebbe in definitiva dire che il dispositivo di uso spettacolare della città, tra l’impreparazione organizzativa e il boicottaggio attivo di parte dell’amministrazione, è stato messo a dura prova dalla materializzazione nello spazio urbano dei corpi di quel proletariato giovanile che, con Lefebvre, abbiamo visto essere stato deportato ed espropriato della città storica. Questa variegata e denigrata moltitudine urbana, pur se in maniera scomposta, ha quella notte messo in campo delle pratiche di uso e di riappropriazione dello spazio che il dibattito successivo, riorientatosi rapidamente sulla vecchia dialettica tra conservatori e innovatori, ha raramente preso in considerazione. Tuttavia quei giovani, accorsi da ogni parte del Paese e non solo, hanno in qualche modo espresso, attraverso la rivendicazione di uno spazio della festa – per quanto predisposto dall’industria dello spettacolo con la sovrascrittura di una celebrazione popolare come il Redentore – qualcosa come una rivendicazione di una città attraversabile ed esperibile, ‘attraverso’ ed ‘oltre’ la sua mercificazione. Si esprime infatti così l’editoriale anonimo di una rivista underground di quegli anni:
Dopo i Pink Floyd in S. Marco vogliamo i Public Enemy in Piazza del Duomo… Al saccheggio delle finanziarie e delle immobiliari, al taglieggio odioso dei mercanti preferiamo il saccheggio proletario, l’orda irriverente insensibile ai fantasmi della città morta. Agli inorriditi filosofi della sinistra dotta e illuminata ricordiamo l’essenza di centri storici costruiti sullo sfruttamento di generazioni di proletari… Al dibattito sull’arte ed il marxismo opponiamo la ferocia inconsapevole dei luddisti nostrani: saccheggiare Venezia è stato già un diverso uso della città (Autonomen 1989).
E continua:
I padroni della città disegnano in superficie e volume i loro profitti, concedendo qua e là, non senza fatica, scampoli di periferia e brandelli di verde… Questo mercato non ci interessa: siamo stati sfrattati e deportati, i nostri quartieri sventrati e ricostruiti, i nostri legami dissolti e violentati… Ci prenderemo le aree, quelle dismesse e quelle occupate dai vostri uffici e dal vostro comando, perché la città viva non è fatta di parchi e concerti ma è l’estinzione dei suoi padroni (Autonomen 1989).
A partire dall’uso evenemenziale dello spazio urbano praticato in quella notte di festa potrebbero dunque essere intravisti dei segnali di un desiderio di riappropriazione della città da parte di chi – nel processo convergente di museificazione, spettacolarizzazione e mercificazione – ne è stato espulso: i residenti, le classi popolari, la vita minuta; di quella fluida composizione sociale, insomma, che nella presa di parola affidata alla rivista – per quanto certamente minoritaria e ideologicamente connotata – si raccontano come coloro che dal centro sono stati “sfrattati e deportati”.
Se dunque “in quegli anni parte dell’avanguardia culturale italiana sceglie il tempo determinato come strategia di occupazione dell’esistente”, definendo i tratti di “una nuova pratica urbana” (Fava 2016, 22-23) costruita sulle esperienze dell’Estate Romana e del veneziano Teatro del Mondo, questa avanguardia non è la sola ad aggredire il terreno dell’effimero come spazio di affermazione e sperimentazione. Anche queste variegate moltitudini urbane, in maniera più o meno consapevole e organizzata, si ritrovano a occupare simbolicamente o materialmente gli spazi che si aprono loro dinnanzi, provando a trarre profitto a modo proprio delle occasioni che si presentano. “Questa mobilità contestatrice, irrispettosa dei luoghi, volta a volta giocosa e minacciosa, che si estende dalle forme microbiche della narrazione quotidiana fino alle manifestazioni carnevalesche” (De Certeau [1980] 2001, 191), si trova dunque a elaborare modalità d’uso dello spazio al tempo stesso interne e antagoniste alla sua dimensione ufficiale, normata dal potere e dalla macchina spettacolare. Ritagliando i propri spazi tra le maglie delle strategie tracciate dagli apparati (intendendo per strategia “il calcolo dei rapporti di forza che diviene possibile a partire dal momento in cui un soggetto di volontà e di potere è isolabile in un ‘ambiente’” (De Certeau [1980] 2001, 15), queste moltitudini non possono che inventare delle tattiche molecolari attraverso cui “giocare con gli eventi per trasformarli in ‘occasioni’”, poiché “la tattica ha come come luogo solo quello dell’altro” e “non dispone di una base su cui capitalizzare i suoi vantaggi” (De Certeau [1980] 2001, 15).
È così che “le tattiche del consumo, ingegnosità del debole per trar partito dal forte, sfociano dunque in una politicizzazione delle pratiche quotidiane” (De Certeau [1980] 2001, 13). Nel momento in cui lo spazio urbano viene pesantemente occupato dal dispositivo spettacolare, che implacabilmente sottrae spazi alle forme dell’abitare e agli usi non normati, la vita quotidiana si trova quindi a dover inventare delle nuove modalità di appropriazione temporanea della città, di cui curiosamente un esempio tutto veneziano potrebbe essere preso a modello: si tratta delle forme con cui tradizionalmente alcuni veneziani usano ed abitano la Laguna e le sue spiagge temporanee, come il Bacàn, dando vita a pratiche effimere che si condensano in quelle che Sara Marini ha definito “epifanie veneziane”; lì, come nell’invasione floydiana dello spazio simbolico della Piazza, l’unica possibile “logica” sottesa è quella “dell’occupazione e della fuga” (Marini 2016, 62).
Anche all’interno della città vetrina e della città museo, dunque, resistono potenzialità inespresse di urbanità, e anche nel conclamato ‘disastro’ del concerto dei Pink Floyd è possibile veder racchiusa, nel prisma di una notte, quell’articolazione conflittuale tra tattiche minute e strategie degli apparati che illustrano esemplarmente il rapporto “agonistico” e di “incitazione reciproca” che sempre si instaura tra potere e resistenze (Foucault 1982). Nel gioco continuo tra la costruzione di spazi di autonomia e i tentativi di ricattura istituzionale e sussunzione capitalistica, si delinea quindi quel campo di tensioni nel quale rimane tuttavia possibile sperimentare delle precarie pratiche di libertà. Queste hanno potuto darsi tanto nell’occasione offerta dal grande evento, in cui, simili agli Indios nel loro rapporto con i colonizzatori spagnoli, i subalterni
[...] trasformavano le azioni rituali, le rappresentazioni o le leggi loro imposte in qualcosa di diverso […] e le sovvertivano non già respingendole o cambiandole, bensì usandole a loro modo per fini e in funzione di riferimenti estranei al sistema al quale non potevano sottrarsi (De Certeau [1980] 2001, 7);
e contemporaneamente, nell’ambito della vita quotidiana che sopravvive all’evento, nella memoria di una libertà sperimentata, dallo stesso evento trae ispirazione per future pratiche di autonomia, che si appoggeranno a
[...] un’attività astuta, dispersa, che però s’insinua ovunque, silenziosa e quasi invisibile, poiché non si segnala con prodotti propri, ma attraverso ‘modi di usare’ quelli imposti da un ordine economico dominante (De Certeau [1980] 2001, 7).
Insomma, “persa per persa” la vecchia città, come echeggiato dai versi della celebre canzone dei Pitura Freska richiamata nel titolo, occorre soffermare lo sguardo su quella prossemica della devianza (De Certeau [1980] 2001, 190-193) che mette in luce i modi in cui la vita tenti comunque di “consolarsi”, inventando la possibilità di nuove forme e nuove pratiche. La sfida cui queste invenzioni autonome saranno chiamate, sarà quella di oltrepassare l’orizzonte effimero dell’evento e di produrre nuove significazioni sociali, in grado di durare e di aprire spazi per una riappropriazione simbolica e materiale dello spazio urbano.
Per concludere, ci piace immaginare che queste moltitudini urbane – sempre più relegate ai margini della città storica, da essa espulse o in essa condannate a svolgere il ruolo di comparse nella grande industria post-fordista che è la città turistica – possano aver conservato, a partire dall’esperienza di quella notte dell’89, il ricordo di una libertà ancora praticabile. Locali e foresti, privati dell’esperienza della città storica dalla sua tendenziale trasformazione in museo (termine con il quale, secondo Agamben, si “nomina semplicemente l’esposizione di una impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza”; Agamben 2005, 96) anche grazie al concerto dei Pink Floyd hanno potuto riscoprire dei modi di esperibilità dell’urbano che altrimenti sarebbero stati loro negati, poiché la città-museo e la città-spettacolo costituiscono precisamente la declinazione urbana di quella “povertà di esperienza” di cui scriveva già Benjamin nel 1933. Questa nuova condizione antropologica, maturata secondo l’autore tedesco a seguito dello sviluppo della tecnica e del tramonto delle forme di vita pre-moderne, “non è solo povertà nelle esperienze private, ma nelle esperienze dell’umanità in generale. E con questo una specie di nuova barbarie” (Benjamin [1933] 2003, 539).
Attestandoci su questa immagine, si potrebbe dunque suggerire che se quella dei fan dei Pink Floyd è stata raccontata come un’invasione barbarica, occorrerebbe – per permettere di leggere le vicende di quella notte e le indicazioni sul futuro che da esse si possono trarre dalla prospettiva di una “tradizione degli oppressi” (Benjamin [1940] 2006, 486) – “introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie” (Benjamin [1933] 2003, 539). A partire da questo, sarà forse possibile attrezzarsi alle sfide del futuro, in cui
[...] l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario. E quel che è più importante, lo fa ridendo. Forse a tratti questo riso suona barbaro. Bene. Talvolta il singolo può pure cedere un po’ d’umanità a quella massa, che un giorno gliela renderà con interessi e interessi raddoppiati (Benjamin [1933] 2003, 543).
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English abstract
Starting from the debate on the ’89 Pink Floyd concert, the article aims to analyse the longstanding conflicts that have arisen in Venice between the so called ‘innovators’ and ‘conservatives’. Through the emergence of the crowd of fans as a new actor on the stage, it aims to explore the possibility of a third position on the matter, one that beyond the two mentioned factions could prefigure a different use of the city, to be imagined from the perspective of the urban multitudes rather than from the perspective of it being a theatre machine.
keywords | Pink Floyd; Venice; Innovators vs Conservatives; Manfredo Tafuri; City as stage.
Per citare questo articolo / To cite this article: G.M. Salerno, “Persi par persi, ‘ndemo a consolarse”. Uno sguardo ‘terzo’ sul concerto dei Pink Floyd a Venezia, “La Rivista di Engramma” n. 167, luglio-agosto 2019, pp. 47-62 | PDF