A Momentary Lapse of Reason. I Pink Floyd a Venezia, tra Modena e Berlino
Intervista a Patrizio Cherubini
a cura di Michela Maguolo
Patrizio Cherubini, cultore della musica rock, instancabile concertgoer, si definisce uno che ha avuto la fortuna di vivere fin da piccolo, all’inizio degli anni Sessanta, le vibrazioni della musica che di lì a poco sarebbe esplosa, cambiando il mondo. Si è trovato nella singolare situazione di assistere a tre concerti consecutivi dei Pink Floyd, fra il 1988 e il 1990, e di aver potuto così mettere a confronto lo show di Venezia, con quello di Modena, prima, e di Berlino (del solo Roger Waters) poi, offrendo delle considerazioni, da appassionato, sul panorama musicale e sull’evoluzione del concerto rock.
[Michela Maguolo] Venezia, 15 luglio 1989. Un concerto memorabile?
Partirei dall’antefatto: l’anno prima dei Pink Floyd a Venezia, avevo assistito a una serie di concerti in Italia, tutti ben organizzati dove ogni possibile esigenza del pubblico era stata prevista e risolta. Non sono molte le esigenze che possono insorgere da parte del pubblico prima, durante e dopo un concerto: arrivare, parcheggiare, bere, andare in bagno. Nessuno dei concerti cui partecipai in quel periodo ebbe intoppi a tal riguardo. Tra i concerti che vidi nel 1988 c’era stato quello di David Bowie, a San Siro, settantamila persone, ineccepibile. E naturalmente, quello dei Pink Floyd a Modena, l’8 luglio. Eravamo partiti da Mestre poco più di un’ora prima dell’inizio, parcheggiammo ed entrammo giusto in tempo per l’attacco di Shine on You Crazy Diamond. C’erano fra le trentamila e le quarantamila persone, eppure tutto si svolse nella massima tranquillità. Fu uno spettacolo magnifico, impeccabile: perfetta l’organizzazione, perfetto il palco, eccellente l’audio, straordinarie le luci. Il pubblico viveva in un sogno perché, per quanto se ne possa dire, e poi si è detto, quel tour, e prima, il disco che l’aveva originato – A Momentary Lapse of Reason – era stato una liberazione. Era il primo tour dopo la separazione da Roger Waters, dopo che si era temuto che i Pink Floyd non sarebbero più esistiti. Lo spettacolo fu magnifico, e noi tutti ne restammo inebriati. Anche per l’uscita e il ritorno non vi furono problemi, mangiammo una pizza e tornammo a Mestre alle sei del mattino e alle sette, freschi come rose di maggio, andammo a lavorare. Perché avevamo visto e vissuto una cosa straordinaria.
Arriva il 1989, lo stesso spettacolo viene portato a Venezia. Premetto che mi sono sempre chiesto – proprio perché avevo visto numerosi concerti nel 1988, ospitati in sedi adatte per un concerto – perché i Pink Floyd, non tanto a Venezia, ma il giorno del Redentore. Avendo vissuto tante feste del Redentore in barca (tonnellate di persone felici, giulive e serene, che mangiano, si ubriacano, si denudano e si divertono) mi chiedevo che senso potesse avere organizzare uno spettacolo dei Pink Floyd, che come avevo avuto modo di constatare, significava trenta-quarantamila persone, proprio in quel giorno, in cui Venezia si riempie, e una massa si riversa nei campi, sulle rive, e il Bacino di San Marco si affolla di barche?
Comunque, si decide con quattro amici di andare a vedere pure questo spettacolo. Sono note le vicissitudini organizzative: la cosa che più trovavamo incomprensibile dopo aver digerito la poco sensata decisione della data, fu la delibera di non installare bagni chimici in città “per motivi di decoro”. Con la previsione dell’arrivo di cinquanta-centomila persone, considerare indecorosi per la città di Venezia dei bagni chimici ci apparve surreale, ridicolo. Ebbi la fortuna di andare al concerto in barca. Andammo in auto fino a Lignano, dove un amico teneva un motoscafo, fummo anche fermati dalla polizia che riuscimmo a impietosire cantando inginocchiati buona parte del repertorio dei Pink Floyd. In un’ora arrivammo in laguna.
C’era un oceano di barche: quelle dei veneziani che comunque ci avrebbero festeggiato il Redentore. Riuscimmo a sistemarci in buona posizione in Bacino, di fronte al palco. Non c’era da parte nostra un’aspettativa particolare nei confronti del concerto. Lo conoscevamo già, lo sapevamo a memoria. Ricordo che ci portammo un piccolo televisore per vederlo in diretta alla TV – uno strano cortocircuito, fra l’essere fisicamente al concerto e guardarlo contemporaneamente su di un piccolo schermo. In realtà, inguardabile: con riprese sbagliate, disturbi tecnici. Ma la visione diretta non era più emozionante, probabilmente a causa della riduzione dei decibel o per la posizione in cui ci trovavamo, il suono risultava distorto, un surrogato di quanto ascoltato a Modena, anche per la durata, poco più di un’ora. Comunque, in acqua si viveva il clima festoso del Redentore, che finì per sovrastare il concerto: la gente mangiava, beveva, rideva, si arrampicava sui pali. Il clima non era quello di un concerto, ma di una baldoria. E un po’ alla volta, il concerto, per quanto gradevole, scivolò quasi in sottofondo.
Solo più tardi, quando tutto era finito e lentamente il fitto assembramento di imbarcazioni si sciolse per tornare verso terra, cominciarono ad arrivare le notizie di quanto stava accadendo a riva. Niente acqua, niente bagni, i bar chiusi, la gente imbottigliata, disperata. Vorrei ricordare che tredici anni prima il concerto di Paul McCartney in Piazza San Marco [Wings over the World Tour, 25 settembre 1976] era stato organizzato molto meglio, senza intoppi dal punto di vista organizzativo, per l’affluenza e il deflusso del pubblico. Ci furono poi polemiche per i danni provocati alla piazza, per i Tir carichi di materiali cui fu consentito di sostare a fianco di Palazzo Ducale. Ci furono le fisiologiche proteste di chi aveva pagato e si vedeva sorpassato dal pubblico non pagante. Aprì sicuramente un dibattito sull’opportunità di ospitare eventi rock in contesti storici (vedi G. Alajmo, McCartney a Venezia. Una catastrofe. Ma l’evento in sé si svolse serenamente. Neppure al concerto dei Pil (Public Image Ltd) per la Festa dell’Unità a Modena nel 1988, a cui avevo assistito, si erano verificati incidenti particolari. Johnny Rotten (ex Sex Pistols) e il suo gruppo suonarono da anglosassoni, maledetti, ma pur sempre inglesi. E anche quando gli ultras dei Pil cominciarono a pogare, ad agitarsi troppo, facendosi male, subito intervenivano le ambulanze. A Venezia il pubblico fu lasciato in balia di sé stesso, dei suoi problemi, del disagio.
[MM] Piazza San Marco non era nuova a eventi musicali. Singolare è stata la scelta di suonare sull’acqua, di posizionare il palco in mezzo al Bacino e rivolto verso la Piazza, dando così le spalle al Redentore, escludendo quella parte di Venezia da cui la festa tradizionalmente si irradia.
Paradossalmente, un concerto sull’acqua è la cosa più sensata per Venezia. È il luogo più logico, un palcoscenico naturale. La città è attrezzata per il trasporto di merci e di cose per mezzo di pontoni galleggianti. Il via vai di mezzi nel bacino è costante. E sicuramente sull’acqua si sarebbero evitati i problemi che si erano verificati a San Marco tredici anni prima. Da un punto di vista logistico, il concerto sull’acqua era la soluzione migliore. Sappiamo che i tecnici dei Pink Floyd avevano lavorato tre mesi per mettere a punto la grande piattaforma, equipaggiarla di tutto il necessario, palco, backstage, uffici, mensa [v. Bob Hassall, Pink Floyd Backstage. Another Lapse from the inside]. Le capacità organizzative non mancavano sicuramente, c’erano stati grandi eventi, concerti, non era l’esperienza che mancava alla città. Forse l’obiettivo degli organizzatori era stato quello di creare un evento mediatico, pensato e costruito per la diffusione televisiva in tutto il mondo, disinteressandosi del pubblico presente, delle persone. Disinteresse per le persone, salvo poi accusarle di barbarie, di inciviltà, da parte dell’amministrazione locale. L’ipotesi di una “prova generale” per l’Expo 2000, realizzata in modo così maldestro per mostrare l’inadeguatezza di Venezia a ospitare un evento di massa, è circolata ed è ritenuta la più plausibile, per spiegare il disastro organizzativo. Può essere, ma farlo sulla pelle delle persone è grave.
[MM] E la band? Come si comportò, come condusse il concerto?
Gli artisti si comportarono da professionisti. Suonarono in modo impeccabile, ma si percepiva – noi sentivamo – l’assenza di quel rapporto con il pubblico che per esempio a Modena era evidente, palpabile. Un’emozione che si avvertiva anche in loro, nel modo di suonare, di cercare un legame con la gente, attraverso uno sguardo, un sorriso, un gesto, Gilmour in particolare. A Venezia invece la sensazione era di distacco, di professionalità senza pathos, senza simpatia. Forse, chi era sulla riva a San Marco, ha avuto una sensazione diversa, più positiva e ha vissuto il giorno più bello della sua vita. La scaletta del concerto era ovviamente simile a quella di Modena, se non per la riduzione dell’intero concerto a poco più di un’ora, aperto da Shine on You Crazy Diamond e chiuso da Run Like Hell. Questa con il suo ritmo incalzante, finiva con un’esplosione che a Venezia coincise con l’inizio degli immancabili fuochi d’artificio del Redentore.
Per me, lo spettacolo fu gradevole, ma asettico. Ho assistito, molti anni dopo, al concerto di Gilmour in Piazza San Marco [The Pulse, 12 agosto 2006] e l’intesa con il pubblico era fantastica, con risate, battute, scambi di sguardi. Il concerto del 1989 aveva ben poco in comune con quello dell’anno prima, a Modena, dove il gruppo aveva dato il meglio di sé. E con quello dell’anno dopo a Berlino, di Roger Waters [The Wall Live in Berlin, 21 luglio 1990].
Berlino, appunto. Il solo Waters, con il suo The Wall, in una città ritrovata. Berlino stava vivendo un momento epocale, la fine del muro, la riunificazione delle due Germanie. Il concerto prometteva di essere un evento storico, e non si poteva non esserci. Si partì il mattino alle 9, e appena entrati in Germania, ci trovammo circondati da Trabant, le leggendarie scatolette in plastica alimentate a miscela che si conoscevano per fama ma che mai avevamo visto. Finalmente libere di muoversi, avevano subito cominciato a invadere la metà del loro paese che fino a un anno prima era rimasta per loro interdetta. Piccole, leggere, traballanti, un grappolo consistente si trovò coinvolto in un incidente con Bmw e Mercedes: cominciarono a volare Trabant e noi riuscimmo a evitarle per miracolo. Al concerto di Berlino erano presenti duecentomila persone. Arrivammo lì con il biglietto comprato in Italia, ma non c’era un ingresso: era tutto aperto. Nessun intasamento, nessun disagio: abbiamo parcheggiato, abbiamo trovato da mangiare, da bere e c’erano file ordinate di bagni. Un concerto memorabile, un evento storico.
[MM] Si racconta che la grandiosità del tour di A Momentary Lapse of Reason servisse a rilanciare un gruppo che rischiava di scomparire dalla memoria.
Non sono d’accordo. Ricostruiamo i fatti: nel 1983 esce The Final Cut, scritto da Roger Waters. Richard Wright era appena stato allontanato dal gruppo. Il disco era stato registrato con il sistema olofonico, tecnica di recente introduzione che permetteva, si diceva, di avere un effetto surround, tridimensionale, ma da un’unica fonte sonora. Il disco aveva ancora come tema la morte in guerra del padre di Waters. Il ruolo dispotico di Waters e lo scarso successo del disco portarono a dissapori e poi alla scissione definitiva del gruppo. Dopo le poco edificanti diatribe, finite in tribunale, sull’uso del nome Pink Floyd, Gilmour e Mason produssero A Momentary Lapse of Reason – a mio avviso un vero capolavoro – che ebbe un buon successo. Nonostante fossero passati quattro anni dall’ultimo disco, i fan non si erano dimenticati dei Pink Floyd. Le vendite furono ragguardevoli, certo non ai livelli di The Dark Side of The Moon o di Wish You Were Here, ma i tempi erano cambiati e gli LP non raggiungevano più i record di vendita di dieci, quindici anni prima.
Il tour mondiale, poi, fu uno dei più seguiti in assoluto, con tappe in città dove non erano mai stati in precedenza. La scenografia era straordinaria, con lo schermo circolare e l’enorme sfera di specchi. Fu un disco di grande liberazione compositiva per i tre musicisti: non dimentichiamo che Wright fu richiamato a suonare con loro. Gilmour ha dato il meglio di sé, Wright ha contribuito in modo fattivo, Mason ha messo d’accordo tutti. C’erano note in abbondanza, arrangiamenti pieni di pathos, riecheggiavano i Pink Floyd di quindici anni prima, ma in forma aggiornata. Un capolavoro, dopo quanto era successo. I Pink Floyd sono uno dei rari gruppi che ha saputo crescere, evolversi, inventarsi e plasmarsi in base alle conoscenze acquisite nel tempo. Le loro competenze musicali all’inizio erano limitate, nessuno era un vero virtuoso dello strumento come per esempio Keith Emerson, degli Emerson Lake and Palmer, tastierista talmente bravo che non poteva superarsi.
[MM] Fu un tour spettacolare, come nella tradizione dei Pink Floyd, da The Dark Side of the Moon, o più ancora, da Animals: scenografie stupefacenti, effetti speciali. Il rock è spettacolo.
In generale, il pop e il rock sono musica spettacolare, teatrale. Ma, per quanto riguarda i Pink Floyd, credo che il respiro infinito dei loro temi musicali li abbia sempre spinti a uno sguardo più ampio, a cercare e creare spazi smisurati, che trasmettessero la sensazione di incommensurabilità, di tempo e di spazio, cosmico, siderale. La spettacolarità era un mezzo necessario per coinvolgere il pubblico nei loro viaggi interstellari.
English abstract
Patrizio Cherubini, a rock music enthusiast, a tireless concertgoer, calls himself one who had the chance to experience, as a child in the Sixties, the vibrations of the music that would soon explode, changing the world. In this interview he tells how he found himself in the singular situation of attending three consecutive Pink Floyd concerts, between 1988 and 1990, so as to be able to compare the historic Venice concert, with that held in Modena the previous year (A Momentary Lapse of Reason Tour, 1988, and the one in Berlin – Roger Waters’ The Wall, 1990).
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Per citare questo articolo / To cite this article: M. Maguolo, A Momentary Lapse of Reason. I Pink Floyd a Venezia tra Modena e Berlino. Intervista a Patrizio Cherubini, “La Rivista di Engramma” n. 167, luglio-agosto 2019, pp. 63-69 | PDF