Edgar Wind, Recensione a Ernst H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale [1971]
traduzione italiana di Monica Centanni e Anna Fressola
English abstract
§ Edgar Wind, On a recent Biography of Warburg
Il testo che qui presentiamo in nuova traduzione italiana è l’importante, e molto aspra, recensione di Edgar Wind al volume di Ernst H. Gombrich, Aby Warburg: An Intellectual Biography, London 1970. La recensione fu pubblicata il 25 giugno 1971 in “The Times Literary Supplement”, 735-736, pochi mesi dopo l’uscita dell’opera che costituisce tuttora il più importante riferimento per la biografia, e per una parte consistente degli inediti, di Aby Warburg. Lo scritto di Wind che qui pubblichiamo è, a oggi, la voce critica più precisa, acuta e dettagliata sulla Biografia intellettuale. Sarà opportuno ricordare che la lettura che Wind ci offre della biografia di Gombrich è particolarmente preziosa per ragioni essenziali, legate alla storia della ‘scuola warburghiana’. Nell’ultimo periodo della sua vita, Aby Warburg considerava il giovane Edgar Wind, insieme a Gertrud Bing, la persona più vicina al suo stile di ricerca e ai temi delle sue riflessioni – di fatto, il suo vero erede. Fu proprio Wind, nell’ottobre del 1930, il primo a tracciare il profilo di Warburg, delle sue coordinate di pensiero, dell’importanza del suo lascito nell’ambito degli studi durante un intervento alla Biblioteca di Amburgo, in occasione del primo anniversario della morte del fondatore, a conclusione di un Congresso di Estetica che lo stesso Warburg aveva organizzato con Cassirer (l’importante saggio è stato pubblicato l’anno seguente all’interno degli atti del congresso, ed è disponibile anche in traduzione italiana: Wind [1931, 2009] 1984, 1992). Ma a causa delle travagliate vicende del Warburg Institute, dopo averne guidato l’avventurosa migrazione e la prima fase del trasferimento a Londra, Wind era stato marginalizzato dalla direzione alla fine degli anni ’30, poi espulso di fatto dal circolo di studiosi che vi ruotava attorno e costretto a un secondo ‘esilio’ a Oxford: in questo quadro si inserisce la recensione molto severa al volume su Warburg, dedicata da Gombrich al titolare dell’Istituto di cui era allora divenuto direttore.
Un’edizione ampliata della recensione, con note tratte dagli scritti di Wind, fu pubblicata nel 1983 in appendice alla raccolta di saggi The Eloquence of Symbols: Studies in Humanist Art, ed. Jaynie Anderson, Oxford 1983, 106-113. In italiano, il testo è stato tradotto in occasione dell’edizione dello stesso volume antologico degli scritti di Wind per Adelphi: L’eloquenza dei simboli, Milano 1992, tr. it. di E. Colli, 161-173. La traduzione italiana del 1992 della recensione e di tutto il volume The Eloquence of Symbols, messa a confronto con l’originale, presenta diversi punti critici e alcune vere e proprie incomprensioni. Il traduttore, con ogni evidenza, conosceva solo approssimativamente il profilo del pensiero di Warburg, le sue opere e i suoi autori di riferimento in ambito filosofico e culturale, al quale Wind fa molti, espliciti e impliciti, rimandi. Facciamo due soli esempi, uno di un errore materiale, uno concettuale: nell’edizione Adelphi 1983 si parla di “libri pubblicati da Warburg tra il il 1902 e il 1906”, laddove si tratta, notoriamente, di saggi e studi, a volte anche molto brevi; nel punto in cui Wind si riferisce alla forte vena melanconica del temperamento di Warburg, con l’espressione “strain of melancholy in his temperament”, il traduttore, disattendendo gli studi fondamentali sul tema della malinconia di Warburg e del Warburgkreis, traduce “splenetic introvert” come “introverso bilioso” – come se ‘bile’ e ‘melancolia’ fossero lo stesso umore. Pertanto, per queste e per altre ragioni, abbiamo ritenuto utile fornire al lettore una nuova traduzione dell’importante recensione di Wind, più attenta e precisa nei riferimenti al pensiero e all’opera di Warburg, riportando in nota tutti i rimandi puntuali che Wind fa al volume di Gombrich. Le note tra parentesi quadre inserite nel corpo di testo sono riportate dalla seconda edizione della recensione, pubblicata in The Eloquence of Symbols, con richiami dalle carte dello stesso Wind. Ripubblichiamo inoltre la versione originale in modo da consentire il riscontro diretto sul testo inglese.
Sulla relazione tra i ‘biografi’ di Warburg v. in Engramma, la nota introduttiva Centanni, Pasini [2000] 2014. Un’importante ripresa della lettura di Wind vs Gombrich è in Bilancioni [1984] 2004. Sulla genealogia della Biografia intellettuale di Gombrich, v. in questo stesso numero di Engramma, Centanni 2020, con bibliografia. Su Wind e Warburg, v. Ghelardi 2017; sulla relazione tra Wind e il Warburg Institute, v. Takaes de Oliveira 2018 e Takaes de Oliveira 2020. Una monografia dedicata a Wind, con importanti materiali inediti dall’archivio Bodleian Libraries di Oxford, è stata pubblicata di recente da Branca 2019.
Edgar Wind, Su una recente biografia di Warburg
L’importanza culturale delle rinascite del paganesimo, come fonti sia di illuminazioni che di superstizione: possiamo dire che questo, in linea generale, è stato il tema delle audaci ricerche di Aby Warburg. Un tema accademico apparentemente logoro, la cosiddetta ‘sopravvivenza dei classici’, è stato da Warburg affrontato con tanta fresca vivacità, da angolature così inaspettate e con una tale ricchezza di nuove prove documentarie, indagando sulle sottostanti forze sociali, morali e religiose, che un famoso storico dell’arte tedesco ha potuto dire, a ragione, ricorrendo a una frase di Dürer, che Warburg ha aperto “un nuovo regno” allo studio delle arti [E. Panofsky, Professor A. Warburg †, necrologio pubblicato nell’“Hamburger Fremdenblatt”, 28 ottobre 1929].
Oggi questo “nuovo regno” viene associato non tanto agli scritti di Warburg, che in Inghilterra sono praticamente sconosciuti, quanto piuttosto alla grande biblioteca che realizzò nel mentre che preparava i suoi studi, e che ora è proprietà dell’Università di Londra; una biografia su Warburg avrebbe potuto portar rimedio a questa situazione, ma avrebbe dovuto introdurre il lettore all’alta quantità e all’ampio spettro delle sue vere scoperte materiali e al suo nuovo rigoroso metodo argomentativo, in cui discipline divergenti sono fuse insieme e considerate strumenti utili per la soluzione di uno specifico problema storico. Invece, come l’autore della biografia di Aby Warburg si dilunga a spiegare nell’introduzione, questo libro è nato sotto una cattiva stella. E.H. Gombrich fu costretto ad affrontare questo lavoro da circostanze indipendenti dalla sua volontà, e il tono deprimente che in larga misura pervade la sua scrittura è la prova che si è trovato di fronte a un compito che non gli era affatto congeniale. Ci sono buone ragioni per chiedersi se non sarebbe stato meglio rinunciare a scrivere un libro su un soggetto così difficile, piuttosto che scriverlo controvoglia. Ma il professor Gombrich ha scelto di farlo e, a questo punto, si deve metter da parte la questione della sintonia e dire che cosa ci sia di sbagliato.
Alcuni dei punti di debolezza del volume sono già prefigurati nel suo stesso progetto. Si propone infatti di essere tre cose in una e, di conseguenza, non riesce a rendere piena giustizia a nessuna di esse: in primo luogo, sarebbe una raccolta di scritti e appunti inediti di Warburg e avrebbe la pretesa di essere un’edizione consultabile di quegli scritti; secondo, vorrebbe essere una storia biografica, da usare come ‘impalcatura’ per gli inediti di cui sopra, in sostituzione di vere e proprie note di commento; terzo, sarebbe un compendio delle ricerche di Warburg e dei suoi progressi nell’ambito degli studi. Ma questi tre propositi, sebbene apparentemente intrecciati l’uno con l’altro, finiscono per intralciarsi a vicenda; e ciò spiega, almeno in parte, il ritmo strascicato del libro. Del tutto assurda la pretesa che in questo fiacco procedere uno dei più acuti esploratori della storia “parli con le sue stesse parole” [1]. Frammenti tratti da appunti inediti, abbozzi, diari, lettere, indiscriminatamente mescolati con passi estrapolati da opere compiute, come fossero essi stessi frammenti, sono annegati in una noiosa massa di parafrasi che determinano il tono e il passo del libro.
Quel che segue è un chiaro esempio dell’atteggiamento del professor Gombrich nei confronti di Warburg: “Era come un uomo che si fosse perduto in un labirinto, e il lettore che intende avventurarsi nel prossimo capitolo va avvertito del labirinto che lo aspetta” [2]. Strana osservazione, se si considera che questa infausta avvertenza si riferisce agli anni dal 1904 al 1907, uno dei periodi più importanti e fecondi per Warburg, in cui pubblicò il contributo, prezioso e originale, sulle Imprese amorose (1905), la dissertazione, considerata ora un classico, sulla Morte di Orfeo di Dürer (1906), e il saggio magistrale su Francesco Sassetti (1907), forse il suo studio più raffinato sulla psicologia del Rinascimento. Per il Professor Gombrich il processo di ricerca sotteso a questi lavori, che sono esemplari nell’unire nuove prove archivistiche con spiegazioni di natura psicologica, sfocia nella confusione, nel tormento, nella frustrazione: “Può sembrare irrilevante cercare di rintracciare le peregrinazioni di Warburg nel labirinto; ma questo ci consente almeno di indicare per quale motivo egli trovò così difficile e doloroso l’orientarvisi” [3]. Questo è il modo che ha l’autore di ricostruire quel che ritiene sia stata la personalità del protagonista del suo lavoro.
Ed è dalla lettura di scritti inediti che il professor Gombrich ha tratto il profilo di questa figura tormentata. Tuttavia, il “punto di vista interno” [4] – come fiduciosamente Gombrich stesso lo definisce – non è necessariamente il più autentico. Frugando tra frammenti, bozze e altri materiali incompiuti, solo un curatore che non stia in guardia contro quell’errore può pensare di essere nella scomoda condizione di procedere a tentoni, specialmente in un caso come quello di Warburg, di cui sono sopravvissuti troppi brogliacci.
Non c’è dubbio che c’era, in Warburg, una mania ossessiva nella sua abitudine più che stravagante di conservare ogni abbozzo e nota preliminare, gonfiando così il suo archivio personale in modo elefantiaco, con comici effetti collaterali che, per altro, non sfuggivano nemmeno a lui. Eppure questo mausoleo vivente di scarti di appunti gli era indispensabile per l’esercizio del suo genio quanto, per così dire, l’odore delle mele marce era fonte di ispirazione per Schiller, per non parlare dell’inesauribile batteria di pillole assemblate ed etichettate da Stravinsky. Si tratta di puntelli meccanici alle attività dello spirito, rituali privati che, per quanto eccentrici, meritano certamente l’attenzione dello storico; ma quando nella narrazione sbalzano troppo in primo piano, finiscono in qualche modo per falsificare il quadro d’insieme. Questo è ciò che è avvenuto in questo libro. L’economia interna e l’eleganza dei lavori finiti di Warburg, che sono il marchio caratteristico di quei lavori, vere opere di un maestro artigiano, non sono considerate qui come parte integrante della sua personalità. Lo stile incisivo dell’uomo va disperso nello sciame pullulante di commenti inconsistenti, da cui lo studioso emerge come uno spettro, nella veste, oggi molto di moda, di un mollusco tormentato: informe, agitato e sterile, travagliato incessantemente dai propri conflitti interiori e spinto invano a ingigantirli per un incoercibile prurito di Assoluto.
Considerando ciò che Warburg pensava delle persone che hanno “una vita interiore rumorosa” [ein geräuschvolles Innenleben], il fatto che egli stesso sia qui rappresentato come un personaggio così molesto, e neppure esente dal cattivo gusto, suggerisce una certa ottusità nella prospettiva dell’autore. Dopo aver fatto riferimento, per sentito dire, alla fama di cui Warburg godeva per la sua “verve epigrammatica”, il professor Gombrich persiste nella svalutazione di “questo aspetto più inafferrabile della sua personalità” perché “è naturale” che ne “siano rimaste poche tracce negli appunti” [5]. Ma questa distinzione è fin troppo facile, e gli appunti stessi non la supportano, visto che inevitabilmente contengono esempi di quella felicità nell’espressione per aforismi che illumina anche gli scritti pubblicati di Warburg. Cominciare una “biografia intellettuale” di uno studioso così particolare mettendo fuori gioco la Musa Comica significa perdere di vista un aspetto importante della sua immaginazione storica. Warburg, implacabilmente sensibile alle incongruenze umane, che riviveva nella sua stessa persona con un grado sconcertante di immedesimazione mimetica, usava la sua arguzia come strumento ideale per affinare e approfondire la propria intelligenza storica.
Nonostante una forte vena malinconica del temperamento che lo rendeva soggetto, fin da bambino, a stati di abbattimento e di ansia, Warburg non era un melanconico introverso ma era invece un uomo di mondo, e sul palcoscenico del mondo, ben consapevole dei suoi talenti e della sua fortuna in termini di ricchezza intellettuale e materiale, recitò la sua parte con un tratto di esuberanza e con uno splendido senso dell’umorismo, senza dimenticare l’essenziale dose di autoconsapevolezza che caratterizzò sempre il suo modo d’essere. In gioventù era ammirato come “ballerino delizioso”, e quando studiava a Bonn era noto per essere uno fra gli studenti più esuberanti che facevano baldoria al carnevale di Colonia. La sua vitalità animale (che la malattia non riuscì mai a domare) stava alla radice della sua capacità di comprendere, in modo meravigliosamente preciso, le feste popolari, fossero quelle della Firenze del Rinascimento o degli Indiani Pueblo. Anche il suo gusto nel ricercare metafore bizzarre aveva il sapore di un coinvolgimento festoso. “Vita in movimento” [das bewegte Leben], era un’espressione che gli piaceva usare sia quando parlava che nei suoi scritti, e ben definisce quella che Pope avrebbe chiamato la sua passione dominante.
Data la predisposizione di Warburg per l’imitazione e il ruolo importante che essa giocava nella sua concezione dell’arte, ben si comprende che avesse accolto con grande favore la teoria sull’Einfühlung (empatia), introdotta in psicologia ed estetica da Robert Vischer, che aveva coniato quel termine nel suo piccolo saggio rivoluzionario Über das optische Formgefühl (1873) [ristampato in Drei Schriften zum äestetischen Formproblem (1927), 1-44] [6], rivolto contro la scuola di ascendenza herbartiana. Warburg cita questo libro nella prefazione del suo primo lavoro – la dissertazione su Botticelli – definendolo la fonte principale per lo studio dell’Einfühlung, che, come lui stesso afferma, aveva una sicura attinenza con il suo metodo. Nel descrivere l’accorgimento peculiare di Botticelli di animare le proprie figure, che disegnava con un tratto così sicuro, ricorrendo ad accessori fiammeggianti, come drappeggi fluttuanti e capelli svolazzanti – reminiscenze delle antiche baccanti – Warburg pensava che avrebbe potuto mostrare per quali vie contorte l’empatia possa diventare un’energia nella formazione dello stile. Anni più tardi, quando studiò la connessione tra divinità olimpiche e divinità demoniache nella trasmissione delle immagini pagane, notò una bipartizione simile a quella che aveva ravvisato nell’arte di Botticelli: nel contorno una fermezza “idealistica” del tratto, contrapposta a una agitazione “manieristica” degli accessori.
Come metro della considerazione deficitaria del professor Gombrich per le principali fonti di ispirazione di Warburg, valga il fatto che non ha tenuto in alcun conto il lavoro di Vischer e i riferimenti che a quello studioso fa Warburg nella sua dissertazione di laurea. Einfühlung è un termine che Warburg usa regolarmente, e la parola ‘empatia’ compare abbastanza spesso nel libro del professor Gombrich, ma senza che egli dia alcuna indicazione sul fatto che questo termine, così importante nel pensiero di Warburg, era una parola di nuovo conio che datava agli anni ’70 del diciannovesimo secolo. Uno studio più ravvicinato del metodo di Warburg, con un’analisi precisa del suo debito nei confronti di Vischer e delle idee feconde che ne erano derivate, avrebbe potuto portare il professor Gombrich a rivedere la sua asserzione – ribadita parecchie volte e con un tono così inappellabile che sarebbe stato da disapprovare anche se le prove che adduce fossero meno labili – secondo cui i concetti psicologici di Warburg non terrebbero conto dell’immaginazione creativa e sarebbero quindi di scarsa utilità per la comprensione delle tradizioni artistiche. Gombrich sentenzia e ribadisce più volte che Warburg basava la sua concezione della mente umana su una psicologia meccanicistica superata, che “parlava solo in termini di impressioni sensoriali e di associazioni di idee”: ma è proprio questa la posizione contro la quale Vischer aveva scritto Über das optische Formgefühl [le vivaci discussioni sulla natura della Einfühlung derivate dal brillante trattato di Robert Vischer sopravvivono ancora nella diatriba di Croce L’estetica della ‘Einfühlung’ e Roberto Vischer (1934)].
Un tratto della riflessione psicologica di Warburg imbarazza in particolar modo il professor Gombrich: come Vischer, Warburg credeva che un giorno la fisiologia del cervello avrebbe fornito i mezzi per dare una spiegazione scientificamente esatta al funzionamento dell’empatia e delle sua ramificazioni. Gombrich registra con un certo fastidio il numero ‘crescente’ di note che Warburg dedica a queste riflessioni ma, sfortunatamente, non ne cita nessuna. C’è da sperare che questo interessante passaggio del pensiero di Warburg prima o poi venga studiato da uno storico che conosca per bene la psicologia fisiologica di quel periodo. Si tratta infatti di un tema che non riveste un interesse soltanto antiquario: perché nel rapporto di Warburg con l’empatia e il modo in cui funziona si trova la chiave delle sue successive e più famose ricerche sulla magia e sulla demonologia, che lo condussero, ad esempio, alla scoperta epocale delle costellazioni demoniche orientali negli affreschi di Palazzo Schifanoia di Ferrara, o a rilevare tracce di pronostici pagani nella politica anti-papale di Lutero, quando propagandava in volantini illustrati le apparizioni di monstra bestiali come autentici prodigi. E in effetti anche le distinzioni iper-raffinate introdotte da Vischer nello studio dell’empatia – ‘Einfühlung, Anfühlung, Zufühlung’ (empatia, sentimento empatico, emozione immediata) [R. Vischer, op. cit., 26] – ricorrono in uno dei primi tentativi di Warburg di distinguere fra i vari tipi di appropriazione magica – ‘Einverleibung, Anverleibung, Zuverleibung’ (incorporazione, appropriazione, attribuzione corporale) [così Warburg in una nota scritta a Santa Fe nel 1896, citata da Gombrich 1970, 91] [7].
Sull’attitudine di Warburg a rivedere continuamente i propri scritti preparatori e a ritornare spesso sulle proprie formulazioni, spesso ricorrendo a esercizi esasperati sulle varianti tanto da dare l’impressione di testare lo spettro semantico e la coerenza dei suoi propri termini, il professor Gombrich ha una opinione tutta negativa: “Il risultato spesso era la paralisi” [8]. È lecito chiedersi se anche il termine “blocco”, a cui fa ricorso il professor Gombrich, non sia troppo grossolano per designare il ritmo irregolare che Warburg scandiva nel progresso del proprio lavoro. In una gustosa notazione autobiografica sui suoi “servigi da maiale da tartufi” (Trüffelschweindienste), Warburg osserva che, per quanto poteva averne coscienza, le sue idee generali sulla psicologia storica e le sue scoperte su certe situazioni storiche erano state renitenti a svelare la loro “intima connessione” fino a quando non ebbe compiuto quarant’anni [Diario di Warburg, 8 aprile 1907, citato da Gombrich 1970, 140] [9]. Ciò potrebbe suggerire al lettore delle opere importanti che Warburg pubblicò tra il 1902 e il 1906 che quando era sulla quarantina (1906), ovvero quando cominciò a scrivere il saggio su Francesco Sassetti, sentì improvvisamente una nuova libertà e una nuova chiarezza nell’applicare quei principi che avevano governato i suoi scritti precedenti in modo più istintivo. Invece, con buona pace dei tartufi, il professor Gombrich insiste sul fatto che quella annotazione, che ha in sé una buona dose di autoironia, debba essere intesa come prova oggettiva del fatto che negli anni precedenti il 1906 Warburg avrebbe sofferto di un serio e prolungato “blocco” delle sue facoltà di coordinazione mentale. Ma, dato il tono ironico della nota, e considerando le sue pubblicazioni tra il 1902 e il 1906 (a partire dallo studio Bildniskunst und florentinisches Bürgertum, immediatamente seguito nello stesso anno, nel 1902, da Flandrische Kunst und florentinische Frührenaissance, saggi entrambi ricchi di nuove scoperte nell’ambito delle imprese e dell’iconografia, con una amplissima ricaduta sul piano degli studi di psicologia dell’arte), la deduzione di Gombrich sembra quanto meno affrettata. Ma non è che un, ulteriore, tocco di quel grigiore malinconico di cui il professor Gombrich ha cosparso tutta la tela del suo ritratto.
Nella storia che la biografia racconta, l’impressione che Warburg abbia sofferto di un pesante isolamento intellettuale è rafforzata dal fatto che non vengono affatto prese in considerazione le relazioni di amicizia con altri ricercatori, che sono una fonte così importante per la ricostruzione della sua vicenda intellettuale. Di quando in quando tra quelle pagine svolazza qualche nome – “il suo amico Mesnil”, “il suo amico Jolles”, “il suo amico fiorentino Giovanni Poggi”, “il suo amico Pauli, lo storico dell’arte di Amburgo”, ma al di là del riportare il mero dato che Mesnil era “uno storico dell’arte belga”, o Jolles “uno scrittore filosofo olandese”, non viene fatto alcuno sforzo per dare un carattere a queste personalità: non c’è la più pallida idea dei loro interessi di ricerca o delle loro personali idiosincrasie – tutti dati particolarmente intriganti, come nel caso del sincero anarchico Jacques Mesnil, autore dei volumi italiani del Baedeker, le ricerche del quale, analogamente a Warburg, avevano come oggetto Botticelli e gli scambi artistici tra Fiandre e Italia.
Anche Jolles, che appare come coautore con Warburg di un jeu d’esprit (il cui titolo, Ninfa fiorentina, deriva quasi certamente dalla Ninfa fiesolana di Boccaccio), in questo libro rimane una vaga ombra; per non parlare del celebre Poggi, sul quale Warburg fece il particolare complimento che, mentre stava lavorando nel buio tunnel della vita amorosa dei Medici, sentì “l’amico Poggi che bussava dall’altra uscita”. Quanto a Pauli, significativo è il fatto che nel libro non venga ricordato che difficilmente si sarebbero potuti dedurre indizi dell’intima amicizia che li univa dalla feroce recensione della dissertazione di laurea di Warburg, nella quale lo stesso Pauli affermava che era assurdo che questo principiante applicasse a Botticelli una massa di conoscenze molto più vasta e ponderosa di quella che lo stesso Botticelli possedeva [G. Pauli, Antike Einflüsse in der italienischen Frührenaissance, recensione a A. Warburg, Sandro Botticellis ‘Geburt der Venus’ und ‘Frühling’ (1893), “Kunstchronik” 5 (1894), 174-177]. Si tratta di un attacco critico scritto in modo vivace, in cui per la prima volta si riscontra l’affermazione di quel paradosso, che per la verità appare un luogo comune assai logoro; ma quella critica non è citata nella bibliografia di “Scritti su Warburg” che il professor Gombrich mette in calce al suo libro [10]. Sul punto si noti che non è esplicitata alcuna ragione del fatto che la bibliografia proposta inizi solo dall’anno 1917, omettendo così tutto quanto era stato scritto, contro e a favore di Warburg, al tempo in cui apparvero a stampa le sue scoperte più importanti.
Per altro, considerando che Warburg non aveva mai avuto la presunzione di poter comprendere una personalità storica senza collegarla puntualmente al suo proprio ambiente intellettuale, appare incredibile che egli stesso sia diventato oggetto di una monografia che, nell’indagare gli anni della sua maturità, ignora questo principio fondamentale. E in questo senso è molto dubbio che una biografia che omette un aspetto così importante della vita di uno studioso come le sue amicizie intellettuali possa chiamarsi “biografia intellettuale”. Né nel testo né nella bibliografia, si trova, ad esempio, alcuna menzione dell’ampio e significativo tributo, scritto a nome della comunità di studiosi che nella biblioteca e nella persona di Warburg aveva trovato il proprio centro, che Ernst Cassirer pose, come una sorta di dedica collettiva, nella premessa al suo volume Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance (1926).
Quando poi la biografia arriva al periodo finale di Amburgo, dopo il 1924, in cui Warburg si trovò a essere profondamente coinvolto nelle vicende della nuova università, anche i nomi si rarefanno e tendono a scomparire dietro un fumoso “suo entourage”, espressione alquanto incongrua in riferimento a un gruppo di studiosi, a meno che non sia da leggere con un’intenzione ironica, che qui però non pare molto perspicua. Delle assidue conversazioni di Warburg con Cassirer, contrassegnate da un vivido contrasto fra le loro personalità – Cassirer sempre impeccabilmente olimpico di fronte alla demonica energia di Warburg – il professor Gombrich non fa alcuna menzione, sebbene Cassirer sia stato tra i primi studiosi a frequentare Warburg durante la sua convalescenza dopo una lunga malattia mentale. Proprio sulla scorta di un illuminante scambio di idee su Keplero che avevano avuto in quel periodo, Warburg ordinò che la sala di lettura nella sua nuova biblioteca fosse costruita a forma di ellisse.
Circa cinque anni dopo, riflettendo sul suo rapporto con Warburg e sull’impressione che aveva suscitato il loro primo incontro, Cassirer scrisse:
Nella prima conversazione che ho avuto con Warburg, egli si era lamentato tra l’altro che i demoni, di cui aveva penetrato il potere nella storia dell’umanità, si fossero vendicati impadronendosi di lui [Dal discorso funebre di Cassirer al funerale di Warburg, in Aby M. Warburg zum Gedächtnis, stampato privatamente, Darmstadt 1929] [11].
Il professor Gombrich, che ha visto i diari che Warburg ha tenuto durante la sua malattia, dà un’immagine molto diversa:
Scritti a matita in evidente stato di eccitazione e di ansia, essi sono difficili da decifrare e poco significativi se non per uno psichiatra. Questi scritti molto difficilmente possono essere di supporto alla leggenda che si è andata formando, secondo la quale le principali preoccupazioni del malato a quel tempo si collegavano con le sue precedenti ricerche sulla demonologia e la superstizione” [12].
Non è del tutto chiaro come la lettura di quegli scritti, che il professor Gombrich aveva trovato difficili da decifrare e poco significativi, lo abbia autorizzato a derubricare come ‘leggendaria’ una chiara prova testimoniale. In ogni caso, la “leggenda” non è si è diffusa per caso, ma è stata con tutta evidenza promossa dallo stesso Warburg. Certo si potrebbe sostenere che questo potrebbe essere stato il modo in cui Warburg riconsiderò la sua malattia a posteriori, dopo che si fu ripreso da essa, e che durante la malattia stessa egli avesse altre – e forse meno elevate – preoccupazioni. Ma ci sono due fatti che depongono contro chi volesse prendere il giudizio retrospettivo di Warburg troppo alla leggera. È generalmente accettato – e lo ammette lo stesso professor Gombrich – che la sorprendente consapevolezza di Warburg sulla natura delle sue proprie ossessioni contribuì alla sua cura; ed è noto che la prova cruciale che propose al suo medico, con la quale contava di dimostrare di essersi liberato dalle fobie che lo avevano tormentato, fu di riuscire a tenere, in modo coerente, una conferenza sui “Rituali del serpente degli indiani Pueblo” – cosa che fece per i pazienti della clinica. Per una strana ironia della sorte, è questa l’unica sua opera che sia apparsa in lingua inglese (tradotta da W.F. Mainland). Va da sé, Warburg, per suo conto, non l’aveva mai pubblicata.
Nel saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Nietzsche osserva che una giusta coltivazione dell’oblio è indispensabile per la salute mentale. È certo che Warburg, da questo punto di vista, non fu mai sano di mente. Infatti, nonostante ben conoscesse i pericoli di una eccessiva empatia e di una rievocazione dei ricordi troppo appassionata, esercitava queste facoltà senza parsimonia. In particolare, nel 1918, essendo profondamente immerso, in quanto testimone della storia politica del suo tempo, nella temperie di un insieme di decisioni nefaste che fecero carne da macello del rispetto reciproco e della diplomazia internazionale, questo ‘buon europeo’ uscì di senno, e ci vollero sei anni perché si riprendesse. Durante la malattia, Warburg continuò a scrivere, più o meno continuativamente. Nelle mani di un medico esperto quegli scritti potrebbero essere una fonte estremamente preziosa per studiare i progressi e il recupero di uno psicotico di eccezionale talento. Il professor Gombrich ha deciso però di lasciare da parte quei sei anni, sulla base del fatto che non aveva la competenza per trattarne. Warburg avrebbe disapprovato questa posizione, dato che sosteneva, e insisteva sempre con forza, sul punto che ogni qualvolta uno studioso si imbatte in un problema che non può affrontare con competenza professionale deve chiamare in aiuto un esperto, e trasformare il lavoro in una ricerca in collaborazione. Potremmo affermare che se quei sei anni fossero stati studiati come meritano, le tenebre che incombono su tutta la vicenda esposta dal professor Gombrich si sarebbero concentrate nel punto giusto.
Accade però che, ovviamente, il professor Gombrich non può chiudere completamente occhi e mente di fronte ad alcuni di quegli scritti che pur dice di non sentirsi qualificato a interpretare. In verità ne ha ben fatto uso qua e là. Così, ad esempio, è per il suo resoconto sull’infanzia di Warburg che si basa in parte su appunti scritti da Warburg durante la malattia: vale a dire, scritti circa cinquant’anni dopo gli avvenimenti che riproducono, e in circostanze decisamente anomale. Presentati come sono, quegli appunti conferiscono al capitolo intitolato “Preludio” un tocco di psicopatia che finisce per condizionare tutto il tono del libro. Nell’introduzione il professor Gombrich afferma che “il precario equilibrio della salute mentale di Warburg” ha permesso “al biografo di individuare i motivi delle sue personali implicazioni assai più chiaramente che non nel caso di studiosi più estroversi” [13]. A giudicare da questa notazione, e in realtà da tutto il libro, il quadro di riferimento del biografo non è mai libero da considerazioni di tipo medico, e ciò rende ancor più riprovevole il fatto che questa materia non sia stata affidata a mani più competenti.
Sarà poi da spendere qualche parola su questo libro dal punto di vista della curatela editoriale. Le bibliografie sono poco curate, anche per quanto concerne gli stessi scritti di Warburg (le Gesammelte Schriften, per esempio, sono citate senza il loro titolo, Die Erneuerung der heidnischen Antike, e senza il nome dei curatori, G. Bing, con la collaborazione di F. Rougemont). I saggi pubblicati in riviste scientifiche sono riportati senza indicazione del numero di pagine, per cui diventa impossibile distinguere gli studi più consistenti da quelle che sono soltanto brevi note. La bibliografia critica degli scritti su Warburg, oltre a omettere tutto ciò che è stato scritto prima del 1917, è incompleta anche dopo quella data. Se l’idea era quella di una bibliografia selezionata, si sarebbero potuto tralasciare molte altre cose per far spazio a Interpretazione e fede negli astri di Boll e Bezold, a Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius, al Botticelli di Mesnil, o ai ricordi di Pauli, per menzionare solo alcune voci. I brani tratti dagli scritti inediti di Warburg sono riportati senza note di spiegazione e commento. Così, ad esempio, quando Warburg fa le sue considerazioni su “artisti contemporanei come Philipp, Niels o Veth” [14], questi nomi poco noti restano senza spiegazioni. Laddove si dice che i fratelli di Warburg comprarono “due quadri di Consul Weber” [15], è più verosimile che li avessero acquistati da Consul Weber, che era un noto collezionista di Amburgo. In uno dei frammenti dalla Ninfa fiorentina, Warburg cita un’espressione poetica di Jean Paul (“fioriva innestato sullo stesso ceppo”) [16]; ma non viene data alcuna indicazione sulla fonte (Vorschule der Asthetik, II, IX, 50) o sull’importante ruolo che quel testo giocò nelle successive considerazioni di Warburg sulla natura della metafora. L’indice non solo non registra questa citazione giovanile sotto il nome di Jean Paul, ma è nel suo insieme uno strumento disomogeneo che, con tutta evidenza, omette alcuni nomi sui quali il lavoro del curatore non è stato sufficientemente approfondito. Le illustrazioni alla fine del libro sono arrangiate in modo grossolano. La Tavola in cui il ritratto di Warburg è stato giustapposto al dipinto di Max Liebermann, che raffigura gli anziani ospiti di un ospizio ad Amsterdam, risulta, involontariamente, esilarante [17]. Le didascalie sono spesso incomplete e talvolta errate: ad esempio, si trova scritto “Morte di Alcesti” sotto un’immagine che in realtà rappresenta la “Morte di Meleagro” [18].
Al professor Gombrich piace ricordare Stazione Finlandia di Edmund Wilson, come unica fonte di una magniloquente lettera di Michelet, di cui cita poco accuratamente lunghi brani, sulla base del fatto che quelle frasi “potrebbero essere state scritte da Warburg” [19]. Ma – fortunatamente – non è vero che le abbia mai scritte. La superata, e ad oggi non verificata, ipotesi secondo cui il celebre motto di Warburg “Il buon Dio si annida nei dettagli” (Der liebe Gott steckt im Detail) potrebbe essere una traduzione da Flaubert, viene ripresa qui senza alcun riferimento alla frase originale di Flaubert, i cui scritti non sono certo inaccessibili. Inoltre, sebbene il professor Gombrich non perda occasione di scagliarsi contro il concetto di Zeitgeist, continua tuttavia a riferirvisi nel senso di “sapore dell’epoca”. Ed è in ragione di questa accezione del termine che l’aura di Isadora Duncan sarebbe rintracciabile nella Ninfa fiorentina di Warburg – un’analogia così assolutamente stonata che non stupisce apprendere, da una nota a piè di pagina [20], che Warburg trovava Isadora Duncan ridicola; peccato che questa evidenza non basti a indurre il professor Gombrich a mettere in discussione la pertinenza della sua ricostruzione. Il fatto è che le certezze dell’autore appaiono talvolta eccessive. Ad esempio, il truce Karl Lamprecht, del quale Warburg frequentò tre corsi di storia a Bonn, viene considerato in modo assertivo come “il vero maestro di Warburg” [21]; ma sta di fatto che Usener e Justi, dei quali Warburg aveva altresì seguito le lezioni a Bonn, sono da lui nominati, mentre Lamprecht non è menzionato in nessuna delle pubblicazioni di Warburg: come si può non tenere in conto di un dato del genere?
Nel testo, si incorre pressoché a ogni passo in giudizi pesantemente sbagliati quando si tenta l’analisi delle motivazioni soggettive e personali. Frasi come “voleva provare a se stesso, alla sua famiglia e ai suoi parenti acquisiti che aveva qualcosa da offrire” [22] appartengono a una mentalità e a un milieu molto più ristretti rispetto a Warburg, e la terminologia stessa ne è la prova; per non parlare della punta di comicità che si riscontra in affermazioni da nanerottoli come quella secondo cui Warburg “non mancò mai di occuparsi di congressi per bilanciare il suo isolamento nel mondo accademico” [23] – una frase che risente, questa sì, di un innegabile “sapore del tempo”. Nella realtà dei fatti, Warburg era estremamente orgoglioso di esercitare quella “spregiudicatezza economica che invece è propria dello studioso indipendente” [24]. Insinuare, come il professor Gombrich per due volte fa, senza per altro fornire alcuna prova, che una momentanea insoddisfazione per il suo lavoro nel Kunsthistorisches Institut di Firenze, nel cui consiglio di amministrazione lavorò con grande energia, avrebbe “aumentato il desiderio di Warburg di dimostrare attraverso un’istituzione contrapposta come lui vedesse la questione” [25] non è solo fuori luogo, ma oggettivamente assurda, dal momento che Warburg non concepì mai la sua biblioteca e quella dell’Istituto fiorentino come istituzioni fra loro comparabili, e tanto meno come “imprese rivali”.
Un’altra speculazione infondata, che capovolge il vero ordine dei fatti, è che lo stile di Warburg sia stato “probabilmente influenzato” dal Sartor Resartus di Carlyle [26], un libro che Warburg amava perché la sua ‘Filosofia degli abiti’ conteneva alcune penetranti osservazioni sulla natura dei simboli: ad esempio, il fatto che in un buon simbolo, come in un buon abito, si combinano dissimulazione e rivelazione. Per quanto riguarda lo stile, il linguaggio di Warburg, con i suoi bruschi scarti e il suo periodare per accumulazione, appartiene a una consolidata tradizione di prosa tedesca che a sua volta Carlyle parodiava in Sartor Resartus, attingendo alla sua profonda conoscenza di Jean Paul, “una sola ondata di quel vasto Mählstrom dello Humor grande quanto il mondo con le sue sublimi trovate geniali che è ora, ahimè, tutto congelato nel gelo della morte!” [Sartor Resartus, I, IV] [27]. Certo, sul piano della parodia questo tipo di stile ha un suo valore, ma non è affatto una fonte dello stile di Warburg, il quale non fu mai tentato di imitare, nemmeno per metterli in burla, gli aspri manierismi tedeschi di Carlyle. E infatti non se ne trova alcuna traccia nella bozza di una sagace finta dedica, con cui Warburg intendeva, con la giusta dose di ironia, esprimere il suo sentimento di affinità con lo stravagante professore di filosofia degli abiti:
Dem Andenken Thomas Carlyles in Ehrfurcht ein Weihgeschenk von Teufelsdröckh dem Jungeren.
[In memoria di Thomas Carlyle, con timore reverenziale, un sacrosanto dono di Teufelsdröckh il giovane].
Il professor Gombrich, pur trattando della passione di Warburg per il Sartor Resartus, non ha pensato di dover citare questa impagabile frase, forse perché la considerava parte dell’“aspetto più inafferrabile della sua personalità” [28].
C’è però ora un pericolo: che, nonostante i suoi difetti, questo libro venga usato e citato come surrogato delle pubblicazioni di Warburg, che non sono ancora disponibili in lingua inglese. Una traduzione di quegli incomparabili scritti, lucidi, solidi e concisi, che lo stesso Warburg aveva dato alle stampe, avrebbe prodotto un volume, se non più leggero, sicuramente più breve del libro che è oggetto di questa recensione. Sembra, tuttavia, che sia ormai una tradizione in voga tra i seguaci di Warburg considerare la sua produzione scritta come una sorta di arcano, un elisir di sapienza estremamente prezioso ma fin troppo concentrato, da non servire ai consumatori inglesi senza essere stato abbondantemente diluito con acqua d’orzo. Ma sebbene le possibilità di una traduzione in inglese degli scritti di Warburg possano ora sembrare diminuite dalla vera e propria congerie di materiali prodotta nella deficitaria trattazione del professor Gombrich, l’ostacolo potrebbe forse non essere inamovibile. Da quando è stata pubblicata una traduzione italiana autorizzata [La Rinascita del Paganesimo antico, a cura di Gertrud Bing, tr. it. di Emma Cantimori, Firenze 1966], il desiderio legittimo di leggere un Warburg non diluito in lingua inglese non potrà essere ignorato all’infinito.
Note alla traduzione
1. Traduzione rivista sull’originale, Gombrich [1970] 1984, 20032, 261.
2. Traduzione rivista sull’originale, Gombrich [1970] 1984, 20032, 130.
3. Gombrich [1970] 1984, 20032, 131.
4. Gombrich [1970] 1984, 20032, 12.
5. Traduzione rivista sull’originale; cfr. Gombrich [1970] 1984, 20032, 13.
6. R. Vischer, Über das optische Formgefühl, Leipzig 1873; tr. it. Sul sentimento ottico della forma, in R. Vischer, F.T. Vischer, Simbolo e forma, a cura di A. Pinotti, Torino 2003, 35-106.
7. Traduzione rivista sull’originale, Gombrich [1970] 1984, 20032, 87.
8. Traduzione rivista sull’originale, Gombrich [1970] 1984, 20032, 19.
9. Si veda la citazione in Gombrich [1970] 1984, 20032, 127.
10. Gombrich [1970] 1984, 20032, 299-304.
11. Cfr. A. Warburg, E. Cassirer, Il mondo di ieri, a cura di M. Ghelardi, Torino 2003, 117.
12. Traduzione rivista sull’originale; cfr. Gombrich [1970] 1984, 20032, 15.
13. Gombrich [1970] 1984, 20032, 14.
14. A. Warburg in una lettera al fratello Paul datata 4 gennaio 1904, citata in lingua originale e tradotta in Gombrich 1970, 156; Gombrich [1970] 1984, 20032, 137.
15. A. Warburg in una lettere al fratello Max datata 30 giugno 1900, citata in lingua originale e tradotta in Gombrich 1970, 130; Gombrich [1970] 1984, 20032, 118.
16. Traduzione rivista sull’originale. A. Warburg, Heidnisch-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten (1920), in Id., Gesammelte Schriften, hrsg. von G. Bing unter mitarbeit von F. Rougemont, Teubner, Leipzig-Berlin 1932, GS, Bd. II, 491, citato in lingua originale e tradotto in Gombrich 1970, 208; cfr. Gombrich [1970] 1984, 20032, 158.
17. Tavola 3 in Gombrich [1970] 1984, 20032.
18. Tavola 15 in Gombrich [1970] 1984, 20032.
19. Gombrich [1970] 1984, 20032, 16.
20. Gombrich [1970] 1984, 20032, 103, nota 11.
21. Gombrich [1970] 1984, 20032, 41.
22. Traduzione rivista sull’originale; cfr. Gombrich [1970] 1984, 20032, 95.
23. Gombrich [1970] 1984, 20032, 13.
24. Traduzione rivista sull’originale. A. Warburg in una lettera al fratello Max datata 28 ottobre 1900, citata in lingua originale e tradotta in Gombrich 1970, 131; Gombrich [1970] 1984, 20032, 119.
25. Traduzione rivista sull’originale; cfr. Gombrich [1970] 1984, 20032, 125.
26. Gombrich 1970, 14.
27. T. Carlyle, Sartor Resartus, nota preliminare di J.L. Borges [1945], tr. it. di C. Maggiori, Macerata 2008, 58.
28. Gombrich [1970] 1984, 20032, 13.
Edgar Wind, On a recent Biography of Warburg
The cultural significance of pagan revivals, as sources both of light and of superstition, may roughly be said to have been the theme of Aby Warburg’s bold researches. A seemingly threadbare academic subject, the so-called ‘survival of the classics’, was here freshly attacked from such unexpected angles, and with such a wealth of new documentary evidence on the underlying social, moral, and religious forces, that it could justly be said by a famous German art historian, availing himself of a phrase of Dürer’s, that Warburg had opened up “a new kingdom” to the study of art [E. Panofsky, Professor A. Warburg †, obituary notice in “Hamburger Fremdenblatt”, 28 October 1929].
Today that kingdom is associated less with Warburg’s own writings, which are virtually unknown in England, than with the great library which he built up in preparing them, and which is now the property of the University of London. A biography of the man could well have helped to redress the balance, on the assumption that it would introduce the reader to the large number and wide range of Warburg’s factual discoveries and to his new method of compact demonstration, in which divergent disciplines are fused together as instruments for solving a particular historical problem. However, as the author of Aby Warburg explains at some length in the introduction, this book was conceived under an ill-omened star. The work was forced on E.H. Gombrich by circumstances beyond his control, and it is clear from the depressing tone of much of the writing that he found himself faced with an uncongenial task. It might well be asked whether it would not have been better to leave a book on such a difficult subject unwritten rather than to write it against the grain. But Professor Gombrich has made his choice, and one must discard one’s sympathy, and say what has gone wrong.
Some of the weaknesses of the book are foreshadowed in its plan. It sets out to be three things at once and, consequently, never does full justice to any of them: first, a presentation of some of Warburg’s unpublished notes and drafts in what purports to be a usable edition; second, a biographical history, to serve as a ‘scaffolding’ for the notes in place of regular annotation; and third, a conspectus of Warburg’s research and of his growth as a scholar. That these three aims, although supposedly dovetailed, constantly get in each other’s way may account, at least in part, for the dragging pace of the book. The claim that in this sluggish progress one of the most alert of historical explorers speaks in his own words’ is absurd. The fragments quoted from unpublished notes, drafts, diaries., and letters, and indiscriminately mixed with pieces torn from finished works as if they were fragments, are drowned in a slow-moving mass of circumlocution which determines the tone and tempo of the book.
The following is a fair example of Professor Gombrich’s attitude towards Warburg: “He was like a man lost in a maze and the reader who attempts the next chapter should perhaps be warned that he, too, will have to enter the maze”. Strange to say, this inauspicious invitation refers to the years 1904-7, one of Warburg’s great productive periods, in which he published the exquisitely fresh Imprese amorose (1905), the now classic discourse on Dürer’s Death of Orpheus (1906), and the masterly treatise Francesco Sassetti (1907), perhaps his finest essay on Renaissance psychology. To Professor Gombrich the process of discovery underlying these works, which are exemplary in their union of new archival evidence with psychological demonstration, spells confusion, agony, and frustration: “It might seem an impertinence to attempt to trace Warburg’s wanderings through the maze, but it is possible at least to indicate why he found it so agonizingly hard to map it out”. This is the author’s way of building up what he considers to be his subject’s persona.
It is from his reading of the unpublished papers that Professor Gombrich has abstracted this tortured figure. However, “the inside view”, as he hopefully calls it, is not necessarily the most authentic. Rummaging in fragments, drafts, and other unfinished business easily gives a compiler, unless he is on his guard against that error, a disproportionate sense of tentative gropings, particularly if, as in the case of Warburg, too many preparatory scribbles have survived.
No doubt, there was some obsessional quirk in Warburg’s over-extravagant habit of preserving all his superseded drafts and notes, thus swelling his personal files to gargantuan proportions, with comic side-effects that did not escape him. And yet this living tomb of superannuated memoranda was as indispensable to the exercise of his genius as, say, the smell of rotting apples was to Schiller’s inspiration – not to speak of the inexhaustible battery of pills assembled and labelled by Stravinsky. As mechanical props in the operation of the spirit, such personal rituals, however odd, certainly merit the historian’s attention; but when they protrude too far into the foreground of his narrative they are likely to falsify the picture. This is what has happened in the present book. The economy and elegance of Warburg’s finished work, which mark it as that of a master-craftsman, are not seen here as an integral part of his personal character. The incisive style of the man is lost in the pullulating swarm of ephemeral notations, from which he emerges, like a spectre, in the now fashionable guise of a tormented mollusc: shapeless, flustered, and jejune, incessantly preoccupied with his inner conflicts and driven in vain to aggrandize them by some unconquerable itch for the Absolute.
Considering what Warburg thought of people who had “a noisy inner life” [ein geräuschvolles Innenleben], the fact that he himself is here portrayed in that fatiguing character, without any respite from its vulgarity, suggests some obtuseness in the author’s outlook. After referring, as a matter of hearsay, to Warburg’s reputation for “epigrammatic wit”, Professor Gombrich proceeds to disregard “this more volatile side of Warburg’s personality” because “in the nature of things” it “has left few traces in his notes”. But the distinction is much too facile, and the notes themselves do not bear it out, since they inevitably include examples of the aphoristic felicity which also illumines Warburg’s published writings. To begin an ‘intellectual biography’ of this particular scholar by ruling the Comic Muse out of court is to lose sight of an important phase of his historical imagination. Unfailingly responsive to human incongruities, which he would re-enact in his own person with a disconcerting degree of verisimilitude, Warburg used his wit as an ideal instrument for refining and deepening his historical discernment.
Despite a strong strain of melancholy in his temperament which rendered him susceptible, from early years, to fits of dejection and nervous apprehension, Warburg was not a splenetic introvert but very much a citizen of the world, in which, knowing himself favoured by intellectual and economic wealth, he played his part with expansive zest and with a glorious sense of humour, not to forget a substantial dose of personal conceit which always marked his bearing. Admired in his youth as ‘a ravishing dancer’, he became notorious, while he was studying at Bonn, as one of the most ebullient among the revelling students who took part in the carnival at Cologne. His animal vitality (which illness never quite managed to subdue) was at the root of his marvelously exact comprehension of folk festivals, whether in Renaissance Florence or among the Pueblo Indians. Even his pursuit of far-fetched allegories had an ingredient of festive participation. A phrase that he enjoyed using in speech and writing, “das bewegte Leben”, defines what Pope would have called his ruling passion.
Given Warburg’s pleasure in miming, and the important role it played in his conception of art, it is understandable that he seized with delight on the theory of Einfühlung (empathy), introduced into psychology and aesthetics by Robert Vischer, who had coined the term in his revolutionary little treatise Über das optische Formgefühl (1873) [reprinted in Drei Schriften zum äestetischen Formproblem (1927), 1-44], directed against “die Herbartische Schule”. Warburg referred to this book in the preface to his first work, the dissertation on Botticelli, listing it as the principal source for the study of Einfühlung, which he said had some bearing on his own method. In describing Botticelli’s peculiar trick of animating his firmly-set figures with the help of flamboyant accessories, such as fluttering draperies and flying hair, reminiscent of ancient Bacchantes, Warburg thought he could show in what devious ways empathy became a force in the formation of style. In later years, when he studied the link between Olympian and demonic deities in the transmission of pagan imagery, he noticed a similar bifurcation to that which he had first traced in Botticelli’s art: an ‘idealistic’ firmness of outline offset by a ‘manneristic’ agitation in the accessories.
It is a measure of Professor Gombrich’s imperfect rapport with some of Warburg’s chief sources of inspiration that he has taken no account at all of Vischer’s work or of the reference to it in Warburg’s dissertation. Einfühlung is a term regularly used by Warburg, and the word ‘empathy’ occurs quite often in Professor Gombrich’s book. But he gives no indication that this term, so important in Warburg’s thought, was a new coinage of the 1870s. A closer study of Warburg’s method, with an exact analysis of his debt to Vischer and of the constructive ideas that grew out of it, might have led Professor Gombrich to revise his opinion, pronounced several times with an air of finality which would have been ill-judged even if the evidence had been less faulty, that Warburg’s psychological concepts make no allowance for the creative imagination and are therefore of little use for an understanding of artistic traditions. He repeatedly asserts that Warburg based his conception of the human mind on an outmoded mechanistic psychology that only ‘talked in terms of sense impressions and the association of ideas’ – the very doctrine against which Vischer had written Über das optische Formgefühl [The lively debates on the nature of Einfühlung arising from Robert Vischer’s spirited treatise still survive in Croce’s diatribe L’estetica della ‘Einfühlung’ e Robert Vischer (1934)].
One phase of Warburg’s psychological thinking embarrasses Professor Gombrich particularly: like Vischer, Warburg believed that the physiology of the brain would one day offer the means of giving a scientifically exact account of the workings of empathy and its ramifications. Professor Gombrich has looked with some despair on the ‘increasing’ number of notes devoted by Warburg to these reflections. Unfortunately none is quoted. It is to be hoped that this interesting phase of Warburg’s thought will eventually be studied by a historian who has mastered the physiological psychology of that period. The interest is more than antiquarian: for in Warburg’s concern with empathy and its operation lies the key to his later and more famous researches into magic and demonology, which led, for example, to his epochal discovery of oriental star-demons in the frescoes of the Palazzo Schifanoia in Ferrara, or of traces of pagan augury in Luther’s anti-papal policy of advertising animal monstrosities as authentic portents, illustrated in broadsheets. Indeed, some perhaps over-refined distinctions introduced by Vischer into the study of empathy – ‘Einfühlung, Anfuhlung, Zufuhlung’ [R. Vischer, op. cit., 26] – recur in one of Warburg’s earliest attempts to distinguish between various kinds of magical appropriation (‘Einverleibung, Anverleibung, Zuverleibung’) [Warburg in a note written at Santa Fé in 1896 quoted by Gombrich, 91].
On Warburg’s skill in revising his drafts and refining his formulations, often with the help of astringent exercises in permutation, by which he liked to test the range and density of his terms, Professor Gombrich’s opinion is unfavourable: “The result was often paralysis”. It is open to doubt whether the term ‘blockage’, also used by Professor Gombrich, is much too coarse to designate the uneven rhythm that Warburg noticed in the progress of his work. In a delightful autobiographical note on his Trüffelschweindienste (services as a pig for rooting out truffles) Warburg observed that, so far as his conscious awareness was concerned, his general ideas on historical psychology and his discoveries about particular historical situations had resisted the disclosure of their “intimate connection” until he was forty [Warburg’s Diary, 8 April 1907, quoted by Gombrich, 140]. To a reader of the important works that Warburg had published between 1902 and 1906, this would suggest that at the age of forty (1906), when he began composing Francesco Sassetti, Warburg suddenly felt a new freedom and clarity in his application of principles that had governed his previous writings in a more instinctive way. But despite the truffles, Professor Gombrich insists that this note, which has a good deal of self-parody in it, must be accepted as positive proof that Warburg had suffered in the years before 1906 from a protracted and very severe “blockage” of his mental faculties of co-ordination. Given the humorous tone of the note, and considering the publications of 1902-6 (beginning with Bildniskunst and florentinisches Bürgertum, immediately followed in the same year, 1902, by Flandrische Kunst and florentinische Frührenaissance, both packed with new heraldic and iconographic discoveries of the widest psychological import), the inference seems a little hasty; but it adds to the splenetic gloom that Professor Gombrich has spread over his canvas.
In the biographical narrative, the impression that Warburg must have suffered from intense intellectual isolation is strengthened by an important source for his intellectual history being left untapped – his scholarly friendships. Time and again a name flits across these pages – “his friend Mesnil”, “his friend Jolles”, “his Florentine friend Giovanni Poggi”, “his friend, the Hamburg art historian Pauli” but beyond the bare fact that Mesnil was “a Belgian art historian” or Jolles “a Dutch author-philosopher”, no attempt is made anywhere to characterize these men or to give even the slightest idea of their scholarly preoccupations or personal idiosyncrasies – particularly attractive in the benign anarchist Mesnil, author of Baedeker’s Italian volumes, who worked concentratedly, as did Warburg, on Botticelli and on artistic exchanges between Flanders and Italy.
Even Jolles, who appears as Warburg’s co-author in a jeu d’esprit (whose title, Ninfa fiorentina, derives almost certainly from Boccaccio’s Ninfa fiesolana), remains a mere shadow in this book; not to speak of the famous Poggi, to whom Warburg paid the odd compliment that while he himself was working through the dark tunnel of the Medicean vita amorosa, he heard ‘friend Poggi knocking at the other end’. As for Pauli, it is a memorable fact, here unremembered, that the intimate friendship that united him and Warburg could hardly have been foretold from a scathing review of Warburg’s dissertation, in which Pauli declared it absurd that this novice should apply to Botticelli a mass of learning that was much larger and weightier than Botticelli’s own [G. Pauli, Antike Einflüsse in der italienischen Frührenaissance, a review of A. Warburg, Sandro Botticellis ‘Geburt der Venus’ und ‘Frühling’ (1893) in “Kunstchronik” N.F. 5 (1894), 174-7]. This brilliantly written critique, in which a well-worn paradox was stated for the first time, is not listed in the bibliography of “Writings about Warburg” which Professor Gombrich has appended to his book. For no apparent reason this bibliography begins only with the year 1917 and so omits all that was written about, against, and in favour of Warburg at the time when his major discoveries first appeared in print.
Considering that Warburg never assumed that he could understand a historical character unless he had meticulously related him to his intellectual surroundings, it seems extraordinary that he himself should have been made the subject of a monograph which ignores that fundamental principle in dealing with his mature years. It may indeed be doubted whether a biography which omits such an important part of a scholar’s life as his intellectual friendships can itself be called ‘an intellectual biography’ at all. No reference is made, for example, either in the text or in the bibliography, to the long and eloquent tribute to Warburg, composed in the name of the community of learning that had found its centre in Warburg’s library and person, which Ernst Cassirer prefixed as a sort of collective dedication to his book Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance (1926).
By the time the biography reaches that final period in Hamburg (after 1924), when Warburg became deeply involved in the affairs of the new university, even names become scarce and tend to disappear in a shadowy phrase – “the entourage” – rather ill-suited for a group of scholars except perhaps in a satirical sense, which is not intended here. Warburg’s frequent confabulations with Cassirer, marked by a vivid contrast of personalities – Cassirer always impeccably Olympian in the face of Warburg’s demonic intensity – are not even mentioned by Professor Gombrich, although Cassirer was among the first scholars to visit Warburg during his convalescence from a long mental illness. In memory of a clarifying exchange of ideas that they had at that time about Kepler, Warburg ordered the reading-room in his new library to be built in the shape of an ellipse.
Some five years later, reflecting on his association with Warburg and on the impression he had received at their first meeting, Cassirer wrote:
In the first conversation that I had with Warburg, he remarked that the demons, whose sway in the history of mankind he had tried to explore, had taken their revenge by seizing him [From Cassirer’s address at Warburg’s funeral, in Aby M. Warburg zum Gedächtnis (privately printed, Darmstadt 1929)].
Professor Gombrich, who has looked at the diaries that Warburg kept during his illness, has reached a different conclusion:
Written in pencil in states of obvious excitement and anxiety, they are both hard to decipher and uninformative to the non-psychiatrist. They hardly sustain the legend which has grown up that the patient’s main preoccupations at that time were connected with his past researches into demonology and superstition.
It is not quite clear how a script which Professor Gombrich found hard to decipher and uninformative enabled him to dispose of an existing account as legendary. In any case, “the legend” did not “grow up” at random but was apparently started by Warburg himself. It could of course be argued that this may well have been Warburg’s way of looking back on his illness after he had recovered from it, and that during the illness itself he would have had other and perhaps less elevated preoccupations; but two facts speak against taking Warburg’s retrospective judgement too lightly. It is generally agreed, and Professor Gombrich admits, that Warburg’s astounding insight into the nature of his obsessions contributed to his cure; and it is known that the crucial test he proposed to his doctor, by which he hoped to show that he had freed himself of the terrors that beset him, was that he could manage to give a coherent lecture on “Pueblo Serpent Rituals” – and he delivered it to the patients of the hospital. By a strange irony, it is the only work of his that has appeared in English (translated by W.F. Mainland). He, of course, never published it himself.
In an essay Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, Nietzsche remarked that an apt cultivation of forgetfulness is indispensable to mental health. It is certain that Warburg was never mentally healthy in that respect. Although he knew the dangers of excessive empathy and of all-too-passionate recollection, he exercised these powers without thrift. Having entered deeply, as a witness of contemporary political history, into the spirit of a whole cluster of quite calamitous decisions that left the comity of nations in a shambles, this good European went out of his mind in 1918. and it took him six years to recover. During his illness Warburg wrote more or less constantly. In the hands of an experienced physician these papers ought to be an extremely valuable source for studying the progress and recovery of an exceptionally gifted psychotic. Professor Gombrich decided to leave those six years untouched, on the ground that he was not competent to deal with them. Warburg would not have favoured that decision: for he held, and always vigorously insisted, that whenever a scholar runs up against a problem which he has not the professional competence to handle, he must call in the help of an expert and make the work a joint investigation. It is fair to say that if those six years had been studied as they deserve to be, the darkness which has spread over the whole of Professor Gombrich’s presentation would have been concentrated in the right place.
Understandably, Professor Gombrich was unable to close his eyes and mind completely to some of those papers that he did not feel qualified to interpret. In a casual way he has even made some use of them. Thus his account of Warburg’s childhood rests in part on notes written by Warburg during his illness: that is, written some fifty years after the events on which they reflect, and under decidedly abnormal circumstances. As they stand, they impart to the chapter entitled “Prelude” a psychopathic ingredient that somehow sets the tone of the book. Professor Gombrich says, in the introduction, that “the precarious balance of Warburg’s mental health” has enabled “the biographer often to discern the reasons for his personal involvements more clearly than would be the case with more extrovert scholars”. To judge from this remark, and indeed from the book itself, the biographer’s terms of reference have not been kept free from medical connotations, and this makes it all the more regrettable that this province was not surrendered to more competent hands.
A few words must be said about the workmanship of Aby Warburg. The bibliographies are careless, even with regard to Warburg’s own writings (Gesammelte Schriften, for example, is listed without its title, Die Erneuerung der heidnischen Antike, and without the names of the editors: G. Bing assisted by F. Rougemont). Works published in periodicals are given without pagination, so that it is impossible to distinguish between major studies and short notes. The bibliography of writings about Warburg, besides omitting everything written before 1917, is also incomplete after that date. If a selective bibliography was intended here, a good deal could have been left out to make room for Boll-Bezold, Sternglaube und Sterndeutung, Ernst Robert Curtius’s European Literature and the Latin Middle Ages, Mesnil’s Botticelli, or Pauli’s reminiscences, to mention only a few works. The extracts from Warburg’s unpublished papers are printed without annotations. Thus, when Warburg reflects on “contemporary artists such as Philipp, Niels, Veth”, these obscure names are left unexplained. Where it is said that Warburg’s brothers bought “two paintings by Consul Weber”, it is more likely that they brought them from Consul Weber, who was a well-known collector in Hamburg. In one of the fragments from the Ninfa fiorentina, Warburg quotes a poetic phrase by Jean Paul (“auf Einem Stamme geimpfet blühte”); but no reference is here given to the text (Vorschule der Asthetik, II, IX, 50) or to the important role it played in Warburg’s later reflections on the nature of metaphor. The index not only fails to list this early quotation under the name of Jean Paul, but is altogether an uneven instrument, apparently omitting names on which the editorial work has been deficient. The illustrations at the end of the book are coarsely arranged. A plate on which a portrait of Warburg is juxtaposed to Max Liebermann’s painting of old-age pensioners in Amsterdam is unintentionally hilarious. Captions are often incomplete and occasionally incorrect: “Death of Alcestis” is inscribed under an image actually representing “The Death of Meleager”.
Professor Gombrich is content to cite Edmund Wilson, To the Finland Station, as his sole source for a ranting letter by Michelet, from which he quotes, inaccurately and lengthily, on the ground that it “might have been written by Warburg”. Fortunately it was not. An old and so far unverified supposition that Warburg’s famous adage, “Der liebe Gott steckt im Detail”, might be a translation from Flaubert is repeated here without any reference to an authentic sentence in Flaubert, whose writings are not inaccessible. Furthermore, while Professor Gombrich never misses an opportunity to inveigh against the notion of Zeitgeist, he continues to use the concept in the guise “period flavour”. Thus the aura of Isadora Duncan is supposed to be discernible in Warburg’s Ninfa fiorentina, an analogy so completely off-key that it is not surprising to learn from a footnote t hat Warburg found Isadora Duncan ludicrous; but this fact has not induced Professor Gombrich to question the pertinence of his construction. Indeed, the author’s certainties appear at times excessive. The truculent Karl Lamprecht, for example, whose historical courses Warburg attended for three terms in Bonn, is confidently declared to be the “one man who may be called Warburg’s real teacher”; but unlike Usener and Justi, whose lectures Warburg had likewise heard in Bonn, Lamprecht is not mentioned in any of Warburg’s publications. Can this fact be left out of the reckoning?
Misjudgements of scale occur quite regularly when analysis of personal motivations is attempted. Sentences like “he wanted to prove to himself, to his family, and to his in-laws that he had something to offer” belong, on the evidence of their vocabulary alone, to a mentality and a milieu that are smaller than Warburg’s; not to speak of the touch of humour in the Lilliputian statement that Warburg “never failed to attend congresses to counteract his isolation in the academic world” – a sentence that has the undeniable quality of “period flavour”. Warburg was in fact extremely proud of exercising the “adventurous prerogatives of the independent private scholar”. To suggest, as Professor Gombrich does twice without producing any evidence, that a momentary dissatisfaction with the Kunsthistorisches Institut in Florence, on whose board Warburg worked most energetically, would have “increased his eagerness to demonstrate through a rival institution how he saw matters” is not only out of character but objectively absurd, since Warburg never conceived of his own library and that of the Florentine institute as comparable, let alone as “rival undertakings”.
Another unfounded speculation, which turns historical order upside down, is that Warburg’s style was “probably influenced” by Carlyle’s Sartor Resartus, a book Warburg cherished because its ‘Philosophy of Clothes’ contained some penetrating remarks on the nature of symbols: for example, that in a good symbol, as in a good costume, concealment and revelation are combined. As for style, Warburg’s language, with its sharp twists and cumulative periods, belongs to a familiar tradition of German prose which Carlyle parodied in Sartor Resartus, drawing on his intimate knowledge of Jean Paul, “that vast World-Mahlstrom of Humour, with it heaven-kissing coruscations, which is now, alas, all congealed in the frost of death” [Sartor Resartus, I, IV]. As a parody this sort of language has its merits, but it is hardly a source of Warburg’s style. He was never tempted to imitate, even as a spoof, Carlyle’s brusque Germanic mannerisms. They are, indeed, notably absent from a cunningly phrased draft for a mock dedication, in which Warburg meant, with proper irony, to express his sense of affinity with the absurd professor of the philosophy of clothes:
Dem Andenken Thomas Carlyles in Ehrfurcht ein Weihgeschenk von Teufelsdröckh dem Jungeren.
Professor Gombrich, in discussing Warburg’s affection for Sartor Resartus, has made no use of this priceless piece, perhaps because it belongs to the “more volatile side of Warburg’s personality”.
There is a danger that, despite its shortcomings, the book will be used and quoted as a surrogate for Warburg’s own publications, which are still unavailable in English. A translation of those incomparable papers, lucid, solid, and concise, which Warburg himself committed to print, would have formed, if not a lighter, most certainly a shorter volume than the book under review. It appears, however, that among Warburg’s followers it has become a tradition to regard his literary formulations as a sort of arcanum, as an exceedingly fine but all too highly concentrated elixir of learning which should not be served to British consumers without an ample admixture of barley water. Though the chances of an English translation may now seem diminished by the sheer bulk of Professor Gombrich’s inadequate treatment, the set-back is not likely to be permanent. Since an authorized Italian translation has been published [La Rinascita del Paganesimo antico, ed. G. Bing and trans. by E. Cantimori (1966)] the justified desire to read Warburg undiluted in English cannot be ignored in perpetuity.
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English abstract
We present here a new Italian translation of Edgar Wind’s scathing the important review of Ernst H. Gombrich, Aby Warburg: An Intellectual Biography, London 1970, published on 25 June 1971 in “The Times Literary Supplement”. An edition with notes and references, added from Wind’s papers, was published in the essay collection E. Wind, The Eloquence of Symbols: Studies in Humanist Art, ed. J. Anderson, Oxford 1983, 106-113. In Italian, the text was published on the occasion of the edition of the same anthological volume of Wind’s writings for Adelphi: L’eloquenza dei simboli, Milano 1992, It. trans. by E. Colli, 161-173. The new translation aims to be more attentive, compared with the Adelphi edition, to delineating Warburg’s thought and studies, and the reference authors to whom Wind often refers both explicitly and implicitly. The original version of the review is also republished in the Appendix in order to allow a direct comparison with the English text, as is an apparatus of notes containing all Wind’s own references to Gombrich’s Intellectual Biography.
keywords | Edgar Wind; Ernst H. Gombrich; Aby Warburg; Intellectual Biography
To cite this article: E. Wind, Recensione a Ernst H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale [1971], trad. italiana di M.Centanni, A. Fressola,“La Rivista di Engramma” n. 171, gennaio-febbraio 2020, pp. 63-95 | PDF of the article