InDecorosa Mente
Il D.A.SPO e gli spazi urbani dilaniati tra sicurezza e jouissance
Barbara Biscotti, Anna Fressola, Nicolò Zanatta
Dessous les pavés c’est la plage | Sotto il selciato la spiaggia
(Anonimo, Sorbonne, maggio 1968)
Décroissance au beurre*
(Anonimo, muro di Parigi, maggio 2018)
English abstract
Le manifestazioni del 68, nelle aule delle scuole e delle università e nelle piazze, hanno messo in scena la centralità dello spazio pubblico e del suo libero uso da parte dei cittadini. Era la pretesa, radicale e scandalosa, di poter fare uso improprio degli spazi per i quali era prevista una singola funzione, una singola occupazione. Reversibilità e abuso rispetto alla funzione che quegli spazi avevano fino a quel momento ospitato. Anche questa è una provocazione che, dopo essere stata repressa, rimane inevasa; una richiesta che, dopo essere stata denegata, rimane sospesa. Ma resta, in traccia, il sospetto che qualcosa possa ancora cambiare e la conseguente mai sopita spinta da parte dell’ordine costituito verso una difesa ‘spontanea‘ dell'ordine e del decoro, messi in crisi dalla riappropriazione e risemantizzazione degli spazi. Tanto scandaloso era quel desiderio da lasciare traccianti e provocare anche conseguenti reazioni volte a scongiurare il ripetersi di quelle illuminazioni.
Il 21 aprile 2017 è stata pubblicata in “Gazzetta Ufficiale” la legge n. 48, di conversione con modificazioni del d.l. n. 42 del 20 febbraio 2017 del ministro dell’Interno Marco Minniti, approvato dal Senato il 18 aprile con voto di fiducia e recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza della città”. Il decreto legge “D.A.SPO. urbano” era nato come misura per contrastare la violenza negli stadi, da cui l’acronimo “Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive”; nella sua declinazione allargata, concede al sindaco di individuare aree sensibili all’interno del territorio comunale, alle quali, tramite provvedimenti amministrativi emessi dal questore, può essere impedito l’accesso a singoli individui per un lasso di tempo di 48 ore e anche, in caso di reiterazione della condotta, per un periodo più prolungato, sino a un massimo di 2 anni. Stabilisce, poi, sanzioni amministrative pecuniarie da 100 a 300 euro a carico di chi “ponga in essere condotte che impediscono la libera accessibilità e fruizione” di determinate infrastrutture.
Il fatto che si tratti di un provvedimento amministrativo potrebbe farlo apparire come una forma di sanzione attenuata rispetto a quella di rango penale, ma proprio la natura amministrativa (ovvero apparentemente ‘veniale’) aggrava il carattere repressivo del provvedimento: infatti, nonostante l'effetto sia una limitazione sostanziale alla libertà di movimento della persona colpita, il D.A.SPO. non promana dalla sfera giurisdizionale, cioè normalmente non è previsto al riguardo l'intervento di un magistrato.
La differenza è sostanziale. Facendo appello a categorie fondative del diritto, possiamo dire che, se la iurisdictio attiene al mondo della enunciazione dello stesso attraverso una valutazione ponderata dei comportamenti dei cittadini, che tiene conto di tutti gli interessi pubblici e privati in gioco in vista di un loro bilanciamento, il provvedimento amministrativo, invece, promana dall’antico concetto di imperium, che affonda le sue inequivocabili radici nel comando militare: una dimensione, quindi, nella quale lo Stato si rapporta ai cittadini manu militari attraverso ordini appunto ‘imperativi’, cui i secondi non possono che sottostare.
Gli effetti dell’applicazione di tale misura, puramente coercitiva, sono pertanto immediati e, anche nel caso in cui si volesse contestare il provvedimento, esso comunque andrebbe intanto rispettato nella totalità della sua durata. Si tratta di una stortura condizionante la percezione di quel che è lecito e facente capo a una ideologia ipersecuritaria, che tende a far rientrare nella categoria di ‘degrado’ o di diminuzione del ‘decoro’ qualsiasi rivendicazione della dimensione politica dello spazio pubblico.
Vale la pena soffermarsi brevemente su questo fumoso concetto di ‘decoro’, il primo di molte nozioni anfibologiche che si incontrano nell’accostarsi alla legge 48/2017 e alle dichiarazioni che l’hanno accompagnata. Se decor da un lato va a braccetto con l’idea di decenza/indecenza, con cui condivide la caratteristica di appartenere al novero di quei concetti culturalmente e storicamente determinati che rendono vecchie le leggi nel momento stesso in cui sono emanate, dall’altro sarà utile ricordare che esso è apparentato anche a dignus e quindi ha qualche cosa in comune con il principio di dignità.
In ogni caso l’idea-radicale attiene a ciò che si confà, che è appropriato, adatto. Allora alcuni dubbi sono inevitabili. Innanzitutto, a quale concetto di dignità, e di chi, va riferita la misura del decoro di un luogo? E ancora, se il decoro di un luogo esige che una persona ne sia esclusa, dobbiamo dedurne che quella persona è in-degna, cioè priva della dignità che le consentirebbe di stare in quel luogo, cioè ‘non adatta’. In effetti il termine comunemente utilizzato, rispetto alle persone cui, con il D.A.SPO., si pensa, è ‘disadattati’; ma forse, anche senza scomodare approfondite indagini sociologiche, è facile intuire che il non adattamento di tali persone, più che un ‘dis-adattamento’, cioè un allontanamento da una situazione adattiva, è un ‘in-adattamento’, cioè una privazione originaria della capacità adattiva stessa, causata dalle condizioni vissute ab initio. In questa prospettiva appare già evidente come l’allontanamento e l’esclusione certo non offrano molte possibilità alla costruzione di una capacità di adattamento di cui non si è mai avuto, né mai si potrà avere, esperienza.
Tuttavia così recita il testo del decreto legge stesso, teso a tutelare:
... il bene pubblico che afferisce alla vivibilità ed al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione e recupero delle aree e dei siti più degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile.
Conviene fermare l’attenzione su altri tre concetti, che si affiancano a quello di ‘decoro’.
Innanzitutto, la vivibilità (altra nozione tra le più ambigue e su cui si potrebbero scrivere trattati), insieme al decoro, costituirebbe un “bene pubblico”, le cui esigenze di tutela giustificano i provvedimenti di cui si è detto. Ci troviamo qui di fronte a un vecchio argomento, lo stesso che da trent’anni (e da ultimo nel Libro bianco del Ministero della Difesa del 2015) viene posto a fondamento dell’organizzazione della difesa militare, proposta appunto, nella versione del cosiddetto “modello integrato” italiano (in cui dimensione militare e civile sono collegate), come bene pubblico. L’evidente mortificazione dell’art. 11 della Costituzione è giustificata, formalmente, dalla pretesa funzione di mantenimento della pace, cui tale modello provvederebbe; in sostanza, dalle esigenze delle oligarchie industriali e finanziarie.
In secondo luogo, il richiamo al rispetto della legalità. Non è un esercizio inutile, dal momento che le leggi e la legalità costituiscono uno strumento volto ad assicurare la possibilità di convivenza, rinnovare costantemente: il dubbio circa l’efficacia del modo in cui esse vengono utilizzate per garantire davvero una buona coesistenza; la domanda circa i soggetti al servizio dei quali tali strumenti sono posti; la riflessione a proposito dell’effettivo mantenimento della loro funzione di servizio alla comunità, chiedendosi se piuttosto esse non abbiano subito uno slittamento verso la funzione di scudo formidabile, dietro cui occultare il sacrificio della libertà dei singoli e, conseguentemente, del bene della comunità al contempo.
Da ultimo il proposito di innalzamento della coesione sociale e della coesistenza civile. L’evocazione di tali concetti come obiettivo principale dell’intervento legislativo ammanta di un’aura positiva l’intero provvedimento solo a uno sguardo più che superficiale: se gli strumenti attraverso cui ci si prefigge di conseguire tale obiettivo sono la sanzione pecuniaria e l’esclusione, è chiaro che l’unica “riqualificazione” che si può ottenere è quella di spazi, forse più puliti e ordinati, riservati alle ‘persone perbene’ e ai margini dei quali premerà tuttavia inesorabilmente, con il suo agire ‘inqualificabile’, un’orda via via più consistente di persone sempre più ‘squalificate’, ‘dequalificate’ e infine appunto, naturalmente, loro stesse ‘inqualificabili’. Cioè gli ‘esclusi’.
Tuttavia, così ha risposto il ministro Minniti a chi, da sinistra (ovvero da quella che dovrebbe essere la sua stessa sponda politica), ha sollevato qualche dubbio:
È di destra un decreto che, per la prima volta nella storia repubblicana, risponde a una legittima richiesta di sicurezza con il solo strumento amministrativo, senza aumentare le pene o introdurre nuovi reati?
Rilevante è l'insistenza sulla “legittima richiesta di sicurezza”, un’emergenza che non risulta essere confermata dai dati comunicati negli ultimi anni dallo stesso Ministero dell’Interno, dai quali invece si evince una costante diminuzione dei numeri relativi ai delitti a cui si allude. Chiaro invece appare il quadro ideologico di riferimento: la tendenza a dotare le amministrazioni di strumenti repressivi extra-giudiziari, di fatto non sindacabili e non appellabili proprio in forza della loro natura di sanzioni “amministrative”, di fatto misure che sfiorano la discrezionalità.
Dietro a un provvedimento di questo tipo sta l'idea (e comunque una visione della realtà che produce una conseguente percezione) di vivere in una società posta sotto assedio da parte di “perturbatori della quiete pubblica” di varia provenienza e natura, e che gli strumenti già a disposizione di sindaci e questori non fossero sufficienti a contrastare “l’ondata di degrado” e a ripulire le città da ogni elemento che possa sporcarne l'immagine. Ma in chi si incarna questo degrado? Il ministro del governo sedicente “di centro-sinistra” si difendeva così:
Questa idea che il decreto serva ai sindaci per ripulire i centri storici delle città, confinando i marginali ancora più ai bordi, significa semplicemente non aver letto quel decreto. Il sindaco non ha nessun potere di disporre il daspo, vale a dire l'allontanamento amministrativo di un soggetto da una determinata area della città, perché quel potere è e resta dei questori. Il sindaco ha solo il potere di segnalare le aree urbane su cui concentrare gli sforzi di controllo del territorio. Inoltre, l'obiettivo di questo strumento non saranno i clochard o chi rovista in un cassonetto della spazzatura, ma, per dirne una, qualche spacciatore seduto davanti a una scuola o una discoteca, o magari un writer cui sarà chiesto di ripulire un bene comune che ha imbrattato.
Anche volendo tacere del bizantinismo nel distinguere i poteri riservati a sindaci e questori, il sindaco verrebbe comunque elevato a custode di quel “sistema immunitario reso spaziale” di cui scrive Peter Sloterdijk a proposito della città antica (Sloterdijk [1999] 2014, 286); nella quale peraltro l’azione ‘immunizzante’ era rivolta all’esterno, sul presupposto di un atteggiamento d’altra parte spiccatamente inclusivo, come evidenzia a proposito dell’Urbs prototipica Tito Livio:
Frattanto l’Urbe si ampliava, incorporando entro la cerchia delle mura sempre nuovi territori, poiché le mura venivano costruite in vista della popolazione futura, più che in rapporto a quella che v’era allora. In seguito, perché non fosse inutile tale ampiezza dell’Urbe, allo scopo di accrescere la popolazione secondo l’antico accorgimento dei fondatori di città, i quali attiravano a sé gente oscura e umile facendola passare per autoctona, offrì come asilo il luogo che ora, a chi vi sale [verso il Campidoglio], appare circondato da una siepe tra due boschi. Ivi si rifugiò dai popoli vicini, avida di novità, una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna tra liberi e servi e quello fu il primo nerbo dell’incipiente grandezza (Liv. I.8.4-6).
In vista di quello che lo storico Witold Kula chiama “la pressione della storia”, cioè “l’influenza delle immagini del passato sugli atteggiamenti e le azioni dei contemporanei” (Kula [1958] 1990, 137), sarà utile sottolineare la funzione di ‘asilo’ degli spazi pubblici cittadini, evidenziata da Livio come “primo nerbo dell’incipiente grandezza”.
A-sylía,‘senza diritto di rappresaglia’, era nozione condivisa da tutti i popoli mediterranei antichi, individuante ‘luoghi sicuri’, deputati, sotto l’egida di un divino trasversale, alla contaminazione tra culture e in cui etnie, religioni, costumi differenti potevano incontrarsi e ‘scambiarsi’ (merci, ma anche idee, atteggiamenti, visioni) in pace.
La nozione di civitas, dunque, riflette originariamente a un tempo la dimensione concreta, spaziale dell’Urbs, dell’individuazione di un luogo indiviso in cui la vita si svolge in comune e in pace, e quella simbolica dell’appartenenza, onori e oneri, diritti e doveri, dinanzi a una realtà cittadina che si connota precipuamente entro le coordinate giuridiche del ius civile, un diritto che è appunto anch’esso ‘dei cittadini’; questo diritto tutto riconducibile alla condizione di civis struttura e ristruttura continuamente, attraverso l’estensione della cittadinanza stessa, un popolo sin dall’origine privo di discendenza biologica comune.
Per questo motivo persino le mura fisiche della città, come i muri astratti che delimitano e indirizzano l’agire umano, ossia le regole giuridiche, vengono edificate, nel racconto dello storico patavino, “in vista della popolazione futura, più che in rapporto a quella che v’era”: muri (e spazi) per aprire, includere, accogliere, dunque, e non muri per chiudere o respingere.
Venuto meno il nemico esterno, tuttavia, nella città dell’era degli Stati la funzione immunizzante si è rivolta alla ricerca e individuazione dei nemici interni; prescindendo anche dalle mura, si edifica ora attraverso il diritto un ideale santuario politico del perbenismo, rispetto al quale il sindaco diverrebbe “re del culto presente” che “incarna il centro cittadino metafisico” (Sloterdijk [1999] 2014, 289).
Qui una certa storia dell’antichità riecheggia concretamente – e non auspicabilmente – nell’attuale: la narrazione liviana, infatti, si inscrive nel progetto narrativo dell’accorta politica augustea di apparente “ripristino” della res publica, che passa attraverso la conferma di un’identità plurale originaria del popolo romano, accanto alla quale tuttavia si può leggere una parallela preoccupazione di prevenzione rispetto a circostanze potenzialmente turbative dell’ordine pubblico urbano, in vista della garanzia di sicurezza.
Gli interventi di Augusto in proposito passano infatti, con mano leggera ma incisiva, attraverso l’istituzione di una rete capillare di gerarchie e organi istituzionali preposti a una funzione di controllo di luoghi pubblici ‘sensibili’, come circhi, anfiteatri e teatri, luoghi di spettacolo in genere, mercati, fori.
Sono questi gli scenari sullo sfondo dei quali prefetti che dipendono direttamente dall’imperatore, con un grado di autonomia non determinabile con certezza dalle fonti, organizzano l’attività di coorti dell’esercito, pretorie e urbane, allo scopo di “non incrinare il senso di sicurezza dei vari ordini della società” (Nippel [1988] 1995, 94).
Una strategia del controllo, dunque, che passa attraverso l’individuazione dei luoghi dell’insicurezza, dove le forze “pericolose” per l’impero potrebbero essere sollecitate ad res novas: un modo interessante di Svetonio (Aug. 49) per indicare con espressione neutra e quindi anfibologica quanto può turbare gli equilibri della civitas.
Ma di quali equilibri si tratta in una società di cui si rivendica l’identità originariamente includente e pluralistica? L’Istituzione (imperiale), invero, da un lato si autocelebra e legittima, tipicamente attraverso il ricorso alle origini, come referente ‘naturale’ di una dimensione civica aperta e multiforme; e dall’altro crea (o rinforza) altre istituzioni in vista della garanzia di una sicurezza preventiva, che passa attraverso forme di coercitio urbana la cui natura militare è indiscussa.
Significativamente, in correlazione a ciò, il ius liberamente prodotto nella fecondità della precedente epoca dalla autorevolezza dei giuristi repubblicani e la sua esplicazione in prospettiva giurisdizionale subiscono un’azione contenitiva via via più esplicita, a favore di una sempre più penetrante azione dell’imperium e dei suoi dispositivi.
Ma torniamo al D.A.SPO.: quanto ai potenziali soggetti a contrasto dei quali sarebbe pensato, non è chiaro se chi parla sia ispirato da faciloneria un po' cialtrona o da una sana intenzione repressiva che gioca volontariamente sull'equivoco. E va comunque sottolineato che, ammesso che clochard e senzatetto non fossero nei pensieri del ministro nel processo di scrittura del decreto, ciò non ha impedito che ne divenissero il bersaglio: gli “abusi” rispetto alle pie intenzioni sono stati, ovviamente, numerosi e immediati, in ossequio a quanto ben evidenziato dal sociologo Loïc Wacquant (Wacquant 2006, Premessa), a proposito di ogni politica di “sicurezza pubblica”:
In primo luogo, essa è pensata ed eseguita non per se stessa, ma con il preciso intento di essere esibita e vista, osservata, adocchiata: la priorità assoluta è fare spettacolo, nel vero senso della parola. Per questo, la parola e l’azione sicuritarie devono essere metodicamente messe in scena, esagerate, drammatizzate, persino ritualizzate (Wacquant 2006, Premessa).
Molte, infatti, le circostanze di applicazioni arbitrarie del decreto, ma il fatto che i casi di utilizzazione ‘anomala’ siano spesso relegati nelle pagine delle cronache locali di siti e quotidiani li rende non visibili nel loro insieme. E se da un lato le sparse notizie che si possono recuperare riconducono a un uso piuttosto creativo dello strumento, dall’altro il Ministero degli Interni non sembra essere particolarmente impegnato nel raccogliere e pubblicare dati sui D.A.SPO. Il numero di provvedimenti emessi non è mai scomposto in base ai profili dei soggetti colpiti dal provvedimento, cosicché sono accorpati in numeri grezzi D.A.SPO. rivolti contro senzatetto, writer e pusher, studenti indisciplinati e giocolieri di strada. In sostanza si tratta di in un’unica misura di contrasto al ‘degrado’, genericamente inteso. Non si tratta, dunque, di errori nella formulazione o nell'applicazione del provvedimento, né di storture causate da interpretazioni fantasiose della legge, quanto della manifestazione attuale del pensiero che un provvedimento come il D.A.SPO. urbano sottende; un pensiero spesso “frutto del culto dell’azione ideale più che dell’attenzione pragmatica al reale” (Wacquant 2006).
L'ideologia sottesa e propalata da vari media, dalla stampa connivente e sensazionalista alle piattaforme social che intercettano e catalizzano umori senza alcun filtro (né formale né di sostanza), è che il valore di riferimento del vivere comune sia appunto la sicurezza, paradossalmente presentata in binomio stretto con l'idea di ‘libertà’.
Una ben misera riduzione dei nostri desideri, la sicurezza, un surrogato della reale aspirazione di ogni essere alla felicità, termine che solo arditi come Thomas Sankara, nel suo discorso all’ONU del 4 ottobre 1984, hanno osato, scommettendoci sopra e perdendo la propria vita, introdurre nel discorso politico, contro i colonialismi di ogni sorta, le prevaricazioni interessate, i giochi politici a favore di pochi.
Ma tant’è, in gioco sarebbe dunque l’idea di libertà: il compito di gestione della sicurezza è ‘integrato’ nella città stessa in nome della libertà e del bene comune. Ancora Minniti:
Allora qualcuno mi risponda: è di destra una legge che sottrae la definizione delle politiche della sicurezza nelle nostre città alla competenza esclusiva degli apparati, trasformando la sicurezza in bene comune e chiamando alla sua cogestione i rappresentanti liberamente eletti dal popolo, vale a dire i sindaci?
La risposta – invero non richiesta dalla formulazione retorica della domanda – è: sì, se destra e sinistra hanno ancora un senso, l'ideologia della sicurezza è senz'altro di destra. È proprio del ‘dispositivo sicurezza’ che caratterizza l’età moderna – raccontava Foucault ai suoi studenti al Collège de France nel 1978 – lasciar fare, ovvero lasciar credere che le cose accadano secondo meccanismi propri della realtà" (Foucault [1978] 2005, 45). In questo senso la realtà – i suoi funzionamenti dati per ‘naturali’, i suoi meccanismi di limitazione e di auto-regolamentazione – è richiamata a sostenere l'architettura del potere:
Insomma, la legge vieta, la disciplina prescrive e la sicurezza, senza vietare o prescrivere, dotandosi eventualmente di qualche strumento di interdizione o di prescrizione, ha la funzione essenziale di rispondere a una realtà in maniera tale da annullarla o limitarla o frenarla o regolarla. Credo che la caratteristica fondamentale dei dispositivi di sicurezza sia proprio questa capacità di regolare stando dentro l’elemento della realtà (Foucault [1978] 2005, 47).
La strategia, insomma, è attivare un sonoro circolo vizioso: i dispositivi di sicurezza riescono a regolare direttamente dall’interno della realtà, precostituendo preventivamente una realtà ad hoc. Il D.A.SPO. infatti innesta una visione della realtà declinata secondo un perenne stato di eccezione, “categoria anticategoriale” (Agamben 2003) distorta a “paradigma ordinario di tecnica di governo” (Simoncini 2008), secondo la quale l’accesso a zone specifiche delle città può e deve essere regolamentato da chi sullo stato di eccezione sarebbe chiamato ‘democraticamente’ a decidere: in nome della sicurezza (che secondo l'assioma di partenza dovrebbe far coppia con la libertà), la libertà di circolazione dei cittadini è di fatto profondamente compromessa, e la fumisteria prodotta dal cortocircuito rende più invisibile il dispositivo di sicurezza stesso. Come un basso continuo, sembrano echeggiare di fondo, non realmente percepite, le terribili parole di Clinton Rossiter, nel suo saggio sulla dittatura costituzionale:
Nessun sacrificio è troppo grande per la nostra democrazia, meno che mai il temporaneo sacrificio della stessa democrazia (Rossiter [1948] 2009, 314).
Una dimensione funestata da fantasmi e da paure, in cui ognuno di noi diventa un potenziale poliziotto – si pensi anche alle ronde civiche di quartiere – verso l’altro e verso se stesso, nel tentativo illusorio di difendersi da una minaccia indefinita:
Tra cultura e paura si apre una faglia incolmabile: il “garantito”, il micro-benestante che ha tutto da perdere, e che sulle proprie basi materiali si era proiettato nei decenni precedenti un’immagine di sé come di un liberale democratico tollerante e fautore dei diritti, si trova all’improvviso di fronte a un orizzonte da fantascienza, con due archetipi opposti (il Miliardario Digitale e il Neo-Povero) che lo schiacciano e con nessuno dei quali sente di potersi identificare (Siti 2018, 126).
Così se da un lato si danno per coincidenti libertà e sicurezza, dall'altro – incoerentemente – si richiede di cedere parte della propria libertà e privacy in cambio della sicurezza. Si inizia dagli spazi pubblici sporcati da individui indisciplinati; via via si arriva al Panopticon, fino alla celebrata nascita, appunto, dei gruppi di “controllo di vicinato” (solo a titolo di esempio, si veda l'iniziativa “controllo del vicinato” promossa dal Comune di Venezia), formati ora da persone fisiche che ritengono proprio dovere mettersi al servizio della comunità per controllare che tutto si svolga secondo le regole, in adempimento di un compito che però presto sarà affidato all’intelligenza artificiale, come già sta accadendo in Cina (sugli artificial policemen in Cina: v. Botsman 2017 e Denyer 2016).
Un dispositivo estremamente efficace, se ha ragione Peter Sloterdijk, che in Stress e libertà scrive:
In effetti, il macrocorpo psicopolitico che chiamiamo ‘società’ non è altro che una comunità di preoccupazione messa in atto da temi generatori di stress indotti mediaticamente (Sloterdijk [2011] 2012, 45) .
La lente ottica che l'ideologia della sicurezza ha chiamato in causa è talmente efficace e onnipervasiva che resta soltanto un vago, inespresso, sentore di disagio, la sensazione – quasi inconfessabile di fronte al muro del consenso indiscriminato della opinione comune – che, ad esempio, ci sia qualcosa che non va nell’idea delle ronde, nello sgombero di edifici abbandonati ma abitati da senzatetto, nelle barricate contro gli immigrati. È la costruzione di un’atmosfera, a pelle leggermente urticante ma di fatto invisibile in quanto intangibile nella sua estensione. La stessa invisibilità che caratterizza gli algoritmi web di controllo.
Una opacità efficace, quella dei meccanismi di sicurezza e di controllo, descritta anche da Deleuze in un preveggente articolo pubblicato nel 1990 in “L’autre journal” in cui, riprendendo Foucault, segnala il passaggio da un potere individualizzante, massificante e legato alla moneta delle società disciplinari, a quello in cui l’individuo è profilo ‘dividuabile’ alle masse dei campioni e di modulazioni di cifre:
[Per] Deleuze e Guattari [...] dividuali sono quei dati frammentari che emergono dalle singole caratteristiche di ogni individuo e che vengono sfruttati dalle società di controllo [...] e che rappresentano precisamente l'arresto e la successiva degradazione o involuzione dell'individuazione psichica verso la perdita di legami con l'individuazione collettiva e la partecipazione alla transindividuazione. Tale dividuazione, che traduce i soggetti in ‘profili’, identificandoli attraverso flussi di dati, è da intendersi integrale, nel senso che comprende sia i corpi che le menti (Baranzoni, Vignola 2015, 165).
Normalizzare il mondo, fare pulizia da ogni sua eccedenza, per produrre ovunque, dal condominio alla città, spazi sterilizzati, corpi e atteggiamenti ‘composti’: tutto ciò, nella nuova grammatica che ci viene proposta come l'unica e vera grammatica del mondo, risponde anche al senso del ‘decoro’. Decus, la convenienza di una idea rispetto a una forma. O, di converso, la convenienza formale che sottende uno statuto dei comportamenti. Tutto ciò che non è conforme al decoro, va cacciato. Non deve avere più luogo, non potrà più essere di casa in città.
Come scrive Hannah Arendt in Vita activa, la società di massa moderna è caratterizzata da uno spostamento di asse dalla dimensione politica al comportamentismo che esclude la possibilità di azione. Ciò che ci si aspetta è piuttosto:
da ciascuno dei suoi membri un certo genere di comportamento, imponendo innumerevoli e svariate regole che tendono tutte a ‘normalizzarli’, a determinare la loro condotta, a escludere l’azione spontanea o imprese eccezionali (Arendt [1958] 2010, 38).
L'esito dell'operazione di controllo dei comportamenti è l'adeguamento conformista alla ‘normalità’ (come si è visto prodotta e indotta); sua sponda d'approdo è l'intolleranza:
La sgradevole verità del comportamentismo e la validità delle sue leggi consiste nel fatto che quante più sono le persone, tanto più probabile sarà l’adeguamento al comportamento di tutti, e meno probabile sarà la tolleranza al non conformismo (Arendt [1958] 2010, 38).
Al sicuro – e rassicurato sul fatto che senza sicurezza non si dà libertà – il cittadino perde l'allenamento alla libertà e, con esso, il valore della libertà stessa da garantire a se stesso e agli altri. A differenza di quanto insegna Jean-Luc Nancy, scatta la diffidenza, l'incapacità di conoscere l'altro. O la forma – concettualmente pessima – del “colonialismo inclusivo” che nega la stessa estraneità dell'altro:
L’intruso si introduce di forza, con la sorpresa o con l’astuzia, in ogni caso senza permesso e senza essere stato invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità. Se ha già diritto d’ingresso e di soggiorno, se è già aspettato e ricevuto senza che niente di lui resti al di là dell’attesa e dell’accoglienza, non è più l’intruso, ma non è più nemmeno lo straniero. Escludere quindi ogni intrusione dalla venuta dello straniero non è logicamente accettabile, né eticamente ammissibile. Una volta giunto, se resta straniero e per tutto il tempo che lo resta, invece di 'naturalizzarsi' semplicemente, la sua venuta non cessa. Continua a venire e la sua venuta resta in qualche modo un’intrusione. Rimane cioè senza diritto, senza familiarità e senza consuetudine: un fastidio e un disordine nell’intimità.
È questo che si tratta di pensare e quindi di praticare: altrimenti l’estraneità dello straniero viene riassorbita prima ancora che lui stesso abbia varcato la soglia; e non è più in questione. Accogliere lo straniero dev’essere anche provare la sua intrusione. Anche se per lo più non lo si vuole ammettere: il motivo dell'intruso è esso stesso un’intrusione nella nostra correttezza morale (è anche un esempio cruciale contro il politically correct). Eppure, è indissociabile dalla verità dello straniero. Questa correttezza morale presuppone che si riceva lo straniero annullando sulla soglia la sua estraneità: pretende quindi che non lo si sia affatto ricevuto. Ma lo straniero insiste e fa intrusione. È proprio questo che non è facile accettare e neppure forse concepire… (Nancy [2000] 2005, Premessa).
Fare i conti con gli altri, e sapere l'estraneità dell'altro, implica esposizione di sé, a volte contesa – comunque coraggio. È solo nel riconoscimento di ciascuno come straniero a se stessi, che si attiva la matrice arcaica del coraggio implicato dalla xenía greca, il dovere di accoglienza e ospitalità: a tal punto universalmente necessario da essere sotto il presidio di Zeus “Xenios”, ma a tal punto difficile e coraggioso da non poter prescindere dallo scambio materiale del symbolon, la pietra spezzata le cui due metà vengono condivise e conservate, a riprova futura di un legame artificialmente edificato, da coloro che altrimenti sono e resterebbero estranei.
L’inclusione dell’altro richiede coraggio e fatica. L’esclusione è un atto vigliacco e immaturo, con cui ci si illude che, semplicemente tagliandolo fuori, l’altro da noi sparisca dalla nostra vita. È l’atto ingiustificabile di bambini poco educati, che non vogliono fare entrare nel gioco l’altro, solo perché ancora non ne conosce le regole e perché troppo faticoso è spiegargliele; è l’atto di una comunità rimasta a uno stadio puerile, che non è capace di assumersi l’iniziativa e la responsabilità di mettere in campo ogni azione necessaria per far partecipare l’altro, magari con leggerezza e ironia, senza dubbio attraverso una narrazione esemplare, al grande gioco sociale.
Come scrive Edgar Morin nel volume collettaneo Mai 68. La Brèche, è proprio la dimensione ludica ad aver connotato il 68 in modo assoluto, esattamente al pari della dimensione politica (Morin [1968/1988] 2018): la possibilità di convocare la vita nei luoghi più inaspettati per celebrarla insieme è andata nel 68 di pari passo con la volontà di cambiarne sul piano politico le condizioni che sembravano immutabili; il coraggio di giocare un gioco in cui improvvisamente l’immaginazione poteva essere al potere e includere tutti.
Certo, l’inclusione costa più fatica e un impegno reale; ma è un investimento in vista di una convivenza pacifica. Nel “Capitalocene”, però, la logica della velocità del consumo, necessaria al profitto, non lo vede come tale e impone di escludere ciò che non è funzionale (Moore [2016] 2017): si fa prima a rimpiazzarlo che a ripararlo. Questo atteggiamento verso le cose ha cambiato anche quello nei confronti delle persone: si fa prima a cambiare compagni/amici/maestri eccetera, che a riparare il rapporto. Se, oltretutto, si tratta di persone ‘improduttive’, non ci si pensa su un momento.
Dall’es-clusione alla re-clusione, poi, ci corre solo un prefisso: due gradi molto vicini delle, assai primitive, antropotecniche della sicurezza, giocati sulla retorica dei rapporti tra politiche di sicurezza e pace. Ma sull’impossibilità di tale ultimo rapporto ha pronunciato parole definitive e universali – benché da lui declinate poi in una prospettiva teistica – il teologo protestante e pacifista Dietrich Bonhoeffer (ucciso dai nazisti per aver preso parte alla cospirazione contro Hitler), durante una conferenza ecumenica a Fanö (1934):
C’è una confusione generale di pace con sicurezza. Non c’è modo di giungere alla pace per la via della sicurezza. Poiché per la pace si deve arrischiare, è una grande temerarietà, e non si può mai stare sul sicuro. Pace è il contrario di sicurezza. Cercare sicurezza significa avere diffidenze, e queste generano a loro volta guerra (Bonhoeffer [1933-1945] 2009, 430).
Rischiare, essere temerari per costruire la pace sociale è in antitesi con la ricerca di sicurezza: il coraggio è la prima virtù del cittadino ed è quello che fa la differenza tra "un agglomerato di case” e una polis:
[Il profilo della città] era letteralmente un muro, senza il quale avrebbe potuto esserci un agglomerato di case, un borgo (asty), ma non una città, una comunità politica. Questa cinta, in cui si esprimeva la legge, era sacra, ma solo lo spazio da essa racchiuso era politico (Arendt [1958] 2010, 35).
L’ esistenza protetta, la sicurezza nell’ambito della vita domestica si contrappone “all’essere esposti senza alcuna protezione nella impietosa realtà della polis” – coraggio, “una delle più elementari virtù politiche":
Solo nella casa ci si poteva preoccupare della propria vita e sopravvivenza. Chiunque volesse accedere alla sfera politica doveva prima essere pronto a rischiare la vita, e un amore troppo grande per la vita impediva la libertà, era un segno di certo spirito servile. Il coraggio diventava quindi la virtù politica per eccellenza, e solo gli uomini che ne erano in possesso potevano essere ammessi a una comunanza che era politica nel contenuto e negli scopi e che pertanto trascendeva il mero essere insieme imposto a tutti – schiavi, barbari e greci – dalle urgenze della vita (Arendt [1958] 2010, 34-35).
Sulla soglia della casa è il passaggio dalla rassicurante dimensione domestica alla pericolosa dimensione politica, in cui vale tuttavia sempre la pena avventurarsi, solo che ci si ricordi del tuttora valido monito stoico che chi segue la giustizia e l’ordine razionale del cosmo non sarà mai schiavo né straniero, ma sarà sempre, ancor più che polites, kosmopolites, cittadino del mondo.
Sul piano concettuale è il passaggio dal bisogno (le “urgenze della vita” secondo la definizione di Arendt) all'eccedenza – profumata di libertà – del desiderio. Lì è la vera dimensione della libertà, che, una volta scoperta, rivela a chi la sperimenti “anche in sé una raggiungibilità quasi senza limiti ai richiami del reale” (Sloterdijk [2011] 2012, 67). Di qui, forzatamente, il coraggio dell’engagement di Jean-Paul Sartre:
Il soggetto libero non lo attende soltanto, gli va incontro. Il suo impegno non scaturisce né da una necessità espressiva né da un impulso né da una nevrosi né da una mancanza; è una conseguenza dell’esperienza della libertà (ancora Sloterdijk [2011] 2012, 68).
Bibliografia
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*Décroissance au beurre
(Anonimo,muro di Parigi, maggio 2018)
Si tratta di un intraducibile gioco di parole: décroissances significa letteralmente ‘decrescita’, ma nell’uso della parola si gioca appunto sulla presenza del sostantivo croissance, riferito al procedimento di lievitazione che dà il nome al croissant, il quale è notoriamente ‘al burro’. Il richiamo di quest’ultimo elemento, però, implica anche un riferimento alla sodomizzazione, che, agevolata dall’uso del burro secondo l’universale iconografia messa in campo in Ultimo tango a Parigi, non perde il suo carattere di abuso. Come a dire che la decrescita, non intesa in senso positivo ma come brutale battuta di arresto, è una realtà violenta, che ci viene imposta e fatta subire grazie all’uso di untuose tecniche.
English abstract
1968: the public space and its free use are at the center of the political and playful dimension of the sociality. 2018: in the name of ‘decorum’ and an alleged need for security, the urban D.A.SPO transforms public spaces in places of potential exclusion.
Keywords | 1968; Public security; Decorum;.
Per citare questo articolo / To cite this article: Barbara Biscotti, Anna Fressola, Nicolò Zanatta, InDecorosaMente. Il D.A.SPO e gli spazi urbani dilaniati tra sicurezza e jouissance, “La Rivista di Engramma” n. 156, maggio-giugno 2018, pp. 53-70 | PDF dell’articolo