Per comprendere come il teatro giochi un ruolo centrale nella filmografia di Marco Bellocchio basta adoperare come studio di caso anche un solo film, che chiaramente nel contesto di riferimenti incrociati, filmici e scenici, non resta mai isolato. E questo film, mediante il quale ricomporre il puzzle, potrebbe essere ad esempio l’ultimo in ordine di tempo, proprio Il traditore, che evoca scena dopo scena tutto l’universo bellocchiano in cui il teatro agisce dall’interno, rimesso in scena o chiamato in causa, in tutti i sensi, lo strumento con cui viene decostruito, smontato, invalidato l’effetto di realtà e piegato all’esigenza di una interpretazione sottile, provocatoria, liberatoria.
Ma per farlo occorre innanzitutto fare un passo indietro, o in avanti, a seconda dei punti di vista, cogliendo, tra le pieghe di quello che si prepara a diventare l’atto finale della storia italiana, come in un perfetto meccanismo di ‘recita della storia’, il bandolo della matassa di cui Il traditore si fa carico, cancellando e, a maggior ragione rafforzandola, l’unica indicazione teatrale che Giovanni Falcone lascia in eredità in una delle sue più clamorose interviste.
Falcone, citando espressamente Shakespeare, per primo staglia su un fondale di carta l’azione in corso sul fronte della lotta alla mafia, introducendo un elemento di insidia interna. Lo ‘strappo’ in quel ‘cielo di carta’ di pirandelliana memoria costituisce l’indizio centrale per comprendere profondamente lo stato delle cose e le ‘cose’ dello Stato, di tutti i tipi. Compresa ‘Cosa Nostra’. Per Falcone, tra le righe, fa testo la celebre seconda scena del secondo atto del Giulio Cesare di Shakespeare, in cui Cesare a Calpurnia, preoccupata dai presagi di morte, proclama: “Soltanto i vili muoion molte volte prima della lor morte; il valoroso solo una volta assapora la morte”.
A questo punto al magistrato palermitano non resta che citare/parafrasare la battuta nell’intervista filmata con Marcelle Padovani nel documentario La solitudine del Giudice Falcone del 1988 di Claude Goretta, andato in onda sulla tv svizzera nel 1990: “Il vigliacco muore più volte al giorno, il coraggioso [muore] una volta sola!”. La giornalista francese forse non ha colto la citazione shakespeariana, assegnandone la sostanza direttamente a Falcone, il quale a sua volta non la smentisce.
Giuseppe Ayala nel suo libro del 2008, Chi ha paura muore ogni giorno, sin dal titolo e dalla copertina dove viene ulteriormente riportata, attribuisce la citazione invece a Paolo Borsellino. Non è escluso che Falcone e Borsellino vi facessero entrambi ricorso, per farsi forza e accettare una morte, come spesso accade in Italia, ‘annunciata’.
Fatto sta che William Shakespeare, caro a Bellocchio per numero di ricorrenze non meno di Giuseppe Verdi, Luigi Pirandello, Giovanni Pascoli, Anton Čechov, Fëdor Dostoevskij, quindi il dramma o il melodramma come epitome degli eccessi teatrali della storia italiana, è parte integrante del discorso sottile che Il traditore sviluppa e sul quale vale la pena di intendersi. Serve entrare nel merito, cominciando, in linea con la struttura del film, con l’esterno della villa di Stefano Bontade dove stanno per brillare i fuochi per la festa di Santa Rosalia. Dentro capi e soldati di rango di ‘Cosa Nostra’ fanno invece le prove. Prove ‘teatrali’. Provano cioè, tra sorrisi tirati, mezze frasi, armi malcelate, danze e travestimenti vari, a scongiurare il crescendo tumultuoso della sanguinosa ‘seconda guerra di mafia’. Buscetta, perplesso,in posa per la foto ricordo di gruppo, un gruppo di imminenti morituri, chiede al suo capo-mandamento Bontade, sentendosi rispondere sottovoce: “Teatro”.
Nell’incipit de Il traditore, nel 1980, la simulazione di una pace recuperata in extremis cela l’avvio, di lì a poco, dell’inesorabile mattanza sillabata dal progressivo scorrere in sovraimpressione di numeri che offrono un’unica indicazione ugualmente scenica, l’unica possibile, in perfetta sintonia con le didascalie relative ai luoghi e alle date dei delitti. La cronologia, collegata alla geografia e topografia della conta inesorabile e inarrestabile dei morti, scandisce lo sterminio come, in ambito drammaturgico, la suddivisione in atti, parti e scene cadenza il procedimento spettacolare. I morti sono morti, la somma che li riguarda cresce a livello esponenziale. Anche piangerli fa parte del rituale, della scena, appunto, che si ripete, replica dopo replica. Sin dal principio, il ‘teatro’ è la chiave di volta del meccanismo scenico e conoscitivo. L’asse portante del divenire. Un divenire narrativo, storico, giudiziario, politico assai appariscente e sfrontato, drammatico e melodrammatico a un tempo, debordante di personaggi istrionici e situazioni sbalorditive.
Il giro di vite, anzi di morti, è talmente risaputo che l’indagine si concentra sul conguaglio funebre di una storia altrimenti troppo nota. Donde la necessità ne Il traditore, che consente a Bellocchio di recuperare la Sicilia ‘manzoniana’ provocatoriamente ‘mafiosa’ de Il regista di matrimoni, di spingersi oltre. Oltre l’evidenza probatoria, prediligendo ben altro genere di ‘prove’. Se il cinema e la televisione, bene o male, sul caso Buscetta hanno già dato, se ne sono, bene o male, occupati, non resta che restituire all’insieme un tocco, un ritmo, un andamento recitativo. Il tempo di occuparsene o preoccuparsi, nei modi in cui l’hanno fatto le inchieste cartacee e audiovisive pregresse, si è esaurito.
È giunto il momento, per Bellocchio alla guida di un tipo di spettatore smaliziato e smagato, di fare ancora i conti con il passato, privato e collettivo, quasi a voler chiudere con Il traditore una trilogia ideale sulla storia italiana contemporanea incompiuta e inconcludente, inaugurata da Buongiorno, notte e proseguita con Vincere. Un passato dal quale ‘provare’, in senso teatrale più che probatorio, per eccesso di evidenza (in inglese evidence: prova), a congedarsi per l’ennesima volta.
Bellocchio si congeda dal passato, realizzando Il traditore, esattamente come è costretto a fare il suo ‘traditore’ modello, Masino Buscetta, di cui Pino Arlacchi ha scritto nel 1994 una biografia con un’eco verdiana restituita dal titolo: Addio Cosa Nostra. L’“...addio del passato...” è un crocevia di ispirazioni, sulla falsariga della Violetta di Verdi. Specie se si considera che quello della medesima aria de La traviata è anche il titolo scelto poi da Bellocchio per il personale viaggio in forma documentaristica dentro le ossessioni verdiane contese da piacentini e parmigiani, seguendo una linea che risale all’altra celebre aria, Sempre libera degg’io, che chiudeva sia il primo atto dell’opera verdiana sia I pugni in tasca. Il duplice “...addio del passato...”, di Bellocchio e Buscetta, da Bellocchio a Buscetta e viceversa, all’unisono, saldati dalla coincidenza significativa delle iniziali dei nomi (propri: Marco; o diminutivi: Masino) e dei cognomi (Bellocchio; Buscetta), funziona come una specie di finale di partita. O regolamento di conti. Motivo in più, mediante Il traditore, per consumarsi in sincrono con il conteggio maniacale e prepotente dei morti ammazzati. Unico dato incontrovertibile, non equivoco.
Tutto torna ne Il traditore. Destini incrociati, corsi e ricorsi storici, cinematografici, biografici. Torna al punto di partenza che ipoteca il decorso della vicenda trasversale di Buscetta, flashback compresi, riletto da Bellocchio come materia da ‘teatro’, per forza di cose, cause e concause, interne ed esterne. Tanto che Bellocchio dal canto suo non ha neppure bisogno di inventare situazioni artificiose ad hoc. Sono già pronte, reali, agli atti, quelli giudiziari simili agli atti di un dramma. Ogni circostanza ufficiale o occasionale si presta allo scopo scenico. Non soltanto la consueta, ridicola, liturgica pantomima delle hostess al momento del decollo dell’aereo, ma il Maxiprocesso stesso di Palermo. Donde il brano musicale che accompagna i numeri della clamorosa sentenza di primo grado, in chiave liberatoria, di orgoglio autenticamente patrio: quella sorta di inno nazionale che è il Va pensiero nel Nabucco.
Come altro chiamare le cose se non con il loro nome? “Teatro patologico” commenta un giudice nell’Aula Bunker, allibito di fronte alla serie di esibizioni tragicomiche di detenuti e parenti. Il presidente della Corte d’Assise, interpretato da Bruno Cariello, l’ex ‘regista di matrimoni’ Baiocco/Bellocchio del film omonimo, rincara la dose: “Ma qui è un manicomio”. E aggiunge: “Qui è necessario un presidio psichiatrico permanente”. Teatro e psichiatria sono gli elementi che interagiscono ne Il traditore, come nello ‘spazio manicomiale’ in cui vive confinato il sedicente Enrico IV, o nella ‘prigione della/nella prigione’, una o più prigioni, in cui si trova Moro dopo il sequestro. La componente teatrale e quella psichiatrica si mescolano e contagiano a vicenda nella parabola siciliana, quindi italiana per estensione metaforica, de Il traditore come in tante circostanze pregresse di cui Bellocchio ha apposto il suo sigillo creativo. Il repertorio di riferimento già scritto, allestito e recitato del film entra quindi di diritto, diritto d’autore, inteso nel senso di copyright artistico declinato nei modi congeniali della finzione psichiatrica, ma anche diritto processuale nella medesima accezione.
La parabola de Il traditore, per una serie di motivi, concreti, canori e musicali, non fa differenza, rientra pertanto nelle corde di Bellocchio. Specialmente la “corda pazza”, non essendoci vie di mezzo, né “corda seria” né “corda civile”, o caute tappe propedeutiche in un’Italia predisposta alle rielaborazioni filmiche e teatrali o alle due cose insieme di Bellocchio. “Il dramma è tutto qui”, scriveva Sciascia ne L’affaire Moro, citando Pirandello. E Bellocchio che di Pirandello e di quell’affaire se ne intende, agisce di conseguenza. Ex post, tutto si presta all’enfasi e alla platea. Persino il titolo scelto, Il traditore, è singolare, di immediata ricezione operistica. Si presta al gioco, servendo da subito a identificare il dramma cantato di Buscetta, un non pentito che canta, da italiano o siciliano vero, sulla falsariga della celebre canzone nazional-popolare di Toto Cutugno nella ‘cover’ minacciosa recapitata/ri-cantata al diretto interessato, a sua volta, invano sotto ‘copertura’ (non c’è che dire: una ‘cover’ tira l’altra), negli Stati Uniti.
Il traditore suona infatti come Il trovatore, che Bellocchio ha evocato in Sorelle Mai nella versione dell’Orchestra e Coro della Corale “Giuseppe Verdi” di Parma, andata in scena il 22 luglio 2005 a Bobbio. Il richiamo non nasce da una pura assonanza. La suggestione interpretativa trova subito un puntuale riscontro dentro il film, come dettaglio emblematico all’interno del quadro, ‘cifra nel tappeto’: con il personaggio centrale e trasversale della vicenda, Pippo Calò, che nella gabbia durante il processo legge un giornale. Sul cui retro, ben visibile, in una sola ma eloquente inquadratura, il titolo è Il trovatore. Ovviamente non poteva spettare che a Pippo Calò il compito di indicare tra le pieghe del film questo bandolo della matassa. Il personaggio, in un’auspicabile lettura incrociata, offre molti spunti di approfondimento ai quali l’opera omnia di Bellocchio non si sottrae. Detto altrimenti, uno come Calò, in tutt’altre faccende affaccendato, a Roma, fa storia a sé. E il film si premura di sottolinearlo. L’idea pare essere quella di eccedere il raggio d’azione de II traditore innescando collegamenti a largo spettro che investono il contesto politico e il perimetro ‘esterno’ di Buongiorno, notte.
Insomma, Bellocchio non ‘cerca’. Non ne ha bisogno. Da buon ‘trovatore’ si imbatte non in un ‘traditore’ qualsiasi, ma in uno speciale esemplare di ‘traditore’, una figura verdiana per eccellenza, nazionale e internazionale: il Cigno di ‘Buscetta’. Un personaggio sopra le righe, meritevole di un debutto festivaliero, reticente e schietto a seconda delle circostanze e degli interlocutori, che conferma anche al processo la statura del ‘boss‘, involontario eroe dei ‘due mondi’. Da Festival dei “Due Mondi”, a Spoleto. Dove del resto è andata già in scena, quindi in campo, la recita storica e visionaria della strega informata dei fatti de La visione del sabba.
Ragionare sragionando serve a ripercorre con cognizione di ‘causa’, o per meglio dire ad effetto teatrale, sentieri storici di ordinaria irrazionalità, incredibilità, insostenibilità. Per procedere, lontano dalle aule di giustizia, alla giusta distanza temporale, occorre far leva sulla componente paradossale di fondo, implicita.
Bellocchio fa perciò con Il traditore un film di altro genere, tutt’altro che di genere, né d’azione né d’inchiesta: piuttosto un film ‘de-genere’, riflettendo e incamerando, davanti alla camera, cioè la macchina da presa, la degenerazione del contesto di riferimento. Trasforma questa normalizzazione del dato storico-conoscitivo in una soluzione computerizzata: sia perché l’inserimento dei dati sensibili, i dati e le date, i toponimi e i titoli di giornale che si rincorrono sullo schermo trovano nella tecnica del montaggio digitale la formula più consona per visualizzare varie, altre associazioni di idee, sia perché è al computo/calcolo, con l’ausilio del computer/calcolatore elettronico, che spetta l’ultima parola: la parata delle cifre. Cifre che si commentano da sole senza più l’ausilio di letture, interpretazioni, analisi.
I numeri, in un paese che ha dato e dà i numeri, sopperiscono a ogni chiosa, analisi retrospettiva o in prospettiva, ricerca tradizionale di verità. Sono lì, in bella vista, a testimoniare nemmeno l’evidenza, ma l’ovvietà. Ove mai ve ne fosse bisogno. Ammesso e non concesso che a qualcuno tutto ciò possa servire, non come fattore scomodo da rimuovere, confutare, sommergere. Bensì in quanto sintesi estrema di verità inammissibili. Verità concomitante, simili o connesse a quelle di cui sono fatti portavoce inascoltati o internati, volenti o nolenti, per una (s)ragione o per l’altra, ad esempio il protagonista assennato, attore di se stesso e perciò mascherato da re in Enrico IV, la strega lungimirante de La visione del sabba, l’Aldo Moro di Buongiorno, notte, Ida Irene Dalser in Vincere. E, ultimo in ordine di tempo, il Tommaso Buscetta de Il traditore. Sono tutti portatori (in)sani di verità sconvenienti, ove possibile a loro non ‘ascrivibili’.
A seconda dei casi e delle istanze specifiche, questi soggetti veritieri assoggettati vengono giudicati pazzi, o inattendibili per via di quel passato criminale perso per sempre. Comunque sia, buoni o cattivi, sono degli sventurati: indegni di essere creduti. L’eccesso di verità sconfina nell’opposto simmetrico e negativo. Ma la ragione ragionevolmente negata trova una sponda. E credito. Ad accreditarla è il massimo cineasta esperto in materia, Bellocchio, che film dopo film, spettacolo dopo spettacolo, si fa mentore, direttore di scena e capocomico di testimoni pregiudicati (Buscetta, letteralmente, è un ‘pre-giudicato’), passati in giudicato o giudicati inaffidabili o improponibili. Spetta a loro, quindi al cineasta che li riporta sullo schermo, farsi carico erga omnes di ‘cose’ e ‘Cose’ inaudite.
Quelle de Il traditore sono ‘Cose nostre’ di specie diversa, che non potevano mancare nella fitta teatro/filmografia di Bellocchio. Condividono con le ‘cose/Cose’ di Moro la circostanza processuale, quale che sia la forma e quali che siano gli attori del processo. Buscetta ammanettato, scortato, vigilato giorno e notte, come Moro potrebbe in pratica dire, al colmo del paradosso, “che io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”.
A Bellocchio interessa molto ogni anomala categoria concepibile di ‘traditori’, tutti traditori, Traditori di tutti, verrebbe voglia di dire prendendo in prestito il titolo del più complesso e insoluto romanzo noir di Giorgio Scerbanenco, il cui poliziotto protagonista Duca Lamberti è impotente di fronte alla verità e si limita a fare da spettatore della motivata catena di delitti. Da tempo, quasi da sempre, Bellocchio fa suoi spesso e volentieri i ‘traditori’: quelli che tradiscono i loro cari, i loro affetti, le loro famiglie, famiglie di sangue o mafiose, ugualmente sprofondate nel sangue.
Guai se non ci fossero, i ‘traditori’: quelli che tradiscono le diverse affiliazioni di provenienza o appartenenza, di partito, di movimenti, di cosche. Ha un debole per i traditori delle ideologie dominanti e dominate, autentiche ‘religioni storiche’ (centrale nell’opera di Bellocchio, ancora una volta sin dal titolo indicativo, è La religione della storia, film di montaggio, logico e ‘intellettuale’ in ogni senso).
Simili ‘religioni’ abbracciate da parenti, compagni, amici, colleghi vanno tradite per restare liberi, indipendenti, autonomi. Non si fa la Storia, con la maiuscola, senza i ‘traditori’ che rinnegano linee guida di pensiero, di modelli politici e sociali, di cure e indirizzi medici, dalla psicanalisi freudiana all’antipsichiatria declinata in ogni modalità, compresa l’adesione incondizionata, di tendenza, settaria. In senso lato, i ‘traditori’, certi ‘traditori’ sono preziosi. Non fanno il gioco di nessuno, salvo chiarire il quadro generale, qualora ciò dovesse ancora servire, prima o poi.
Poco importa se non riescono a ottenere risultati nell’immediato, nelle sedi appropriate, nel mondo esterno. I film, modellati secondo schemi teatrali marcati, possono però restituire loro spazio, voce, immagine, in quanto ‘cosa’ di tutti: ‘nostra’ in senso collettivo, con l’iniziale minuscola, laddove la maiuscola contrassegna l’altra ‘Cosa Nostra’. Quella che, ribaltando il significato proprio dei pronomi, è riservata ad altri, ‘loro/Loro’: la ‘Cosa Nostra/Loro’ è piuttosto un’esclusività mafiosa di vecchia data, smisurata, obliqua contro cui non resta che il gesto scomodo, provocatorio, sconsiderato dei ‘traditori’.
L’unica sponda per comprendere il grado di assurdità, la follia congenita, il delirio che si impossessa di quanto sta accadendo, nel film, o è accaduto, nella realtà, non resta che la pratica sopra le righe, i versi e le note del recitar cantando. La Sicilia delle famiglie mafiose e dei mandamenti che si preparano al ricambio al vertice della leadership è un teatro di ‘pagliacci’, presto ingabbiati. E Totò Riina, ‘capo dei capi’ particolarmente versato per trasformare quello siciliano in un teatro su misura, di guerra, altri non è che un novello Macbeth che guida il clan emergente e particolarmente feroce dei corleonesi. La sua vendetta nei confronti dell’avversario giudicante, Giovanni Falcone, sulla falsariga del Macbeth che dalla storia trascorre nell’omonimo dramma shakespeariano portato in scena da Bellocchio nel 2000 al Teatro India di Roma, poi attraverso la figura di Lady Macbeth in Sorelle Mai, necessita dell’adattamento operistico. Quindi del Preludio adoperato nella scena al Teatro Comunale di Piacenza in La Cina è vicina.
Eppure, mai come ne Il traditore, chiosando l’approssimarsi della devastante fine di Falcone, il minaccioso e solenne Preludio del Macbeth di Verdi era risultato così potente e ironico a un tempo in un film di Bellocchio. Il tema musicale preannuncia infatti la fine spettacolare dell’avversario istituzionale di Riina, Falcone, depositario delle rivelazioni dell’irriducibile ‘uomo d’onore’ Buscetta. A Falcone, grande ‘regista’ della scena del Maxiprocesso, viene preparata da Riina/Macbeth una morte esemplare, vista e vissuta dall’interno dell’abitacolo dell’automobile/feretro che salta, esplode, si infrange al suolo. Perché il primato è di Macbeth, prima ancora e più del Totò Riina di turno. Macbeth nelle sue forme teatrali condensa a futura memoria il desiderio di potere che lo porta al regicidio e all’eliminazione della progenie di ogni potenziale avversario, creando così il paradigma assoluto di ogni faida mafiosa successiva. E come Macbeth aveva i suoi emissari e sicari, anche Riina, contando sui contatti romani che Calò sta rinvigorendo, direttamente nella Capitale, può dunque proseguire nell’isola la strategia stragista/terroristica che, mutando all’occorrenza colore e pista, da ‘nera’ a ‘rossa’, informa di sé l’ampio, articolato e controverso quadro storico italiano a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Con il concorso di ‘Cosa Nostra’ e l’azione scellerata del Macbeth siciliano al vertice della Cupola.
Per comprendere in che modo, dentro la rete di riferimenti incrociati e allusioni a latere de Il traditore, funzioni il dispositivo della ‘recita della storia’, incastrando ‘l’attacco al cuore dello Stato’ con quelli della ‘seconda guerra di mafia’ , occorrerebbero le semplici istruzioni di un gioco della “Settimana Enigmistica”: seguendo le tracce e gli indizi contenuti nell’opera bellocchiana, basterebbe provare a unire i puntini che troviamo, tracciando linee che arrivano fino a Il traditore. Un’operazione complessa, se si vuole , ma elementare nell’esecuzione. Si va dal delitto Moro (Buongiorno, notte e tutto l’indotto moroteo messo a punto da Bellocchio nel corso di decenni), agli omicidi quasi simultanei di Antonio Varisco (Diavolo in corpo) e Boris Giuliano, preceduti da quello di Mino Pecorelli (chiamati in causa, Giuliano e Pecorelli, nella scena del processo Andreotti de Il traditore). Basta un lieve tratto di penna o uno sforzo.
Ma quest’esercizio utile di associazione di idee non può prescindere dall’altro che parallelamente agisce rendendo Il traditore una cassa di risonanza musicale e indiziaria. In cui è possibile accorgersi persino di come l’ennesimo ‘regime pieno e incontrollato’, mediante il sistema di telecamere a circuito chiuso, cui vengono anch’essi sottoposti i boss mafiosi catturati e condannati, ricordi di quello – lo si accennava - che di sua iniziativa e libertà artistica Bellocchio adotta nell’opera Pagliacci portata in scena al Teatro Petruzzelli di Bari il 21 maggio del 2014. I “pagliacci in carcere” di Bellocchio, mutuati dall’opera di Ruggero Leoncavallo, inseparabili a teatro dalla fine dell’Ottocento da Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, a proposito di vendette siciliane che si intrecciano, sono la prova generale de Il traditore. E naturalmente provengono da lontano, da La Cina è vicina, dove il ‘traditore’ trasformista Vittorio, candidandosi per pura ambizione personale, infischiandosene del rango di provenienza, nelle liste del Partito Socialista Italiano, si sente dire: “Vada via, pagliaccio”. Offeso, replica: “Pagliaccio a me? Come si permette?”.
Il traditore pullula di ‘pagliacci’, vigilati dai monitor o in mutande in un elegante atelier romano, ma sempre vigili nelle aule dove si celebrano i processi che li riguardano e dove l’argomento per screditare, attraverso il collegio difensivo, le dichiarazioni di Buscetta, sono i soldi. I ‘troppi’ soldi spesi, peggio: ‘sprecati’ dallo Stato per mantenere un ‘mafioso’, prefigurano quella che ai giorni nostri è la linea politica dominante dei partiti o movimenti populisti. I duecento milioni che lo Stato italiano ha ‘pagato’ a Buscetta durante il periodo di protezione diventa, nel momento in cui l’Italia ha dimenticato le stragi e i delitti eccellenti di ‘Cosa Nostra’, e dimenticato il ruolo stesso di Buscetta, l’unica, consolatoria, risentita pietra dello scandalo.
Lo scandalo, nel corso del processo Andreotti, come sottolinea il film, non è più l’asse politica-mafia o Cosa Nostra-Stato, ma lo ‘spreco’ di pubblico denaro per un ‘pentito’ che mai si era considerato tale e piuttosto cercando di avallare l’improbabile visione di una mafia d’onore, secondo la nota categoria storiografica della ‘invenzione della tradizione’. E questo la dice lunga sull’effetto genealogico che Il traditore, tra le righe o sopra le righe, senza soluzioni di continuità, cerca di istituire tra passato e presente, attivando anche un ulteriore congegno di combinazioni visive e memoriali che allineano i funerali di Stato di Moro con quelli di Falcone. Laddove Il traditore incontra Buongiorno, notte o Vincere o con essi combacia, in un punto, in una scena, grazie a una situazione minima o una connessione qualsiasi, la partita italiana di lunga durata registra un crescendo esponenziale di imbarazzo. Che innesca l’opera. Il teatro. Il cinema, come sintomi dell’extrema ratio di una disillusione sconsolata, a tempo indeterminato.
Non resta, in quest’opera - in senso lato: film e melodramma a più voci, un’opera molto personale, addirittura intima, insondabile, quasi un film familiare trasferito sul personaggio ‘altro’ di Buscetta - che notare come l’autore non smetta mai di cogliere di sbieco gli apparati alti, senza perciò scadere nella dietrologia corriva, ma seguendo tuttavia una linea politico-indiziaria che ricorre piuttosto al paradosso, all’irrisione, all’esibizione volontaria dell’indicibile o del non-detto. All’orizzonte, o sullo sfondo, di questo “Addio”, per quel che importa c’è l’oblio. E della cui gravità, profondamente tragica, teatrale oltre che logico-politica, si fa portavoce proprio il poliziotto e capo scorta Cesare (per non perdere di vista il filo rosso shakespeariano e storiografico nazionale del regicidio) interpretato da Pier Giorgio Bellocchio, alla vista della scarsa affluenza di giornalisti per la deposizione dell’ormai non più celebre ‘Boss dei due mondi’. Colui cioè che resta per ragioni di servizio e allusivamente di cuore al fianco di Buscetta, come un figlio accanto a una sorta di genitore putativo. Ma del nesso onomastico, volontario o involontario ai fini del processo creativo, tra il ‘traditore’ e il ‘trovatore’, ossia tra il Masino Buscetta che ha perso i suoi figli maggiori nella ‘guerra’ con i corleonesi e il metteur en scène e padre effettivo dell’attore Pier Giorgio, Marco Bellocchio, si è già detto.
Non si è detto invece, in questa sede, che per un curioso intreccio di concomitanze che dal teatro spesso cominciano o che il teatro intercettano tra le pieghe del racconto cinematografico il titolo stesso, Il traditore, riallaccia con il passato, ennesimo, affettuoso ‘addio del passato’ a un amico, un collega e tanto ancora. Il traditore ci riporta infatti sui sentieri battuti del rapporto di lunga durata tra Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci, spingendosi se possibile oltre la prematura scomparsa di quest’ultimo. Tra i due c’è sempre stata e continua ad esserci una segreta, sottile, sotterranea concomitanza che va ben al di là della conclamata e creata ad arte competizione o conflittualità. Una segreta corrispondenza piuttosto continua a legarli. E la prova tangibile è daccapo questo titolo, immediato e stratificato, letterale e pregnante, Il traditore, che riprende quello del racconto di Jorge Luis Borges, Tema del traditore e dell’eroe, da cui Bertolucci aveva appunto tratto Strategia del ragno.
Corrispondenza per corrispondenza, Bellocchio però non si limita a guardarsi indietro. Sottotraccia, il titolo riguarda anche la figura specifica del ‘traditore’ mafioso. Ovvero del ‘pentito’. Va ricordato a questo punto, per concludere, che Stefano Incerti si era dedicato nel suo film più dichiaratamente bellocchiano, cioè L’uomo di vetro, al primo pentito di Cosa Nostra, Leonardo Vitale, quindi alla sua intrinseca ‘follia’ e allo spazio manicomiale che lo riguardò. Ebbene, l’aggettivo ‘bellocchiano’ assume in questo ulteriore caso di destini incrociati una valenza diretta, concreta.
Come funziona la stretta relazione che si instaura tra i due? L’uomo di vetro è un film del 2007. Negli anni precedenti, Incerti condivide con Bellocchio il direttore della fotografia Pasquale Mari. Mari cura la fotografia di tutti i film di Incerti fino a Gorbaciof, quindi quelli di Bellocchio tra il 2002 e il 2006: L’ora di religione, Buongiorno, notte e Il regista di matrimoni. Quest’ultimo è oltretutto ambientato in Sicilia in un contesto manzoniano-mafioso di rara connotazione bellocchiana. Chiaramente Mari è il direttore della fotografia anche del documentario su Bellocchio e Buongiorno, notte che Incerti dirige nel 2003. In un certo senso, con Bertolucci e Incerti, il cerchio si chiude. Un ‘traditore’ tira l’altro, poi un altro e così via.
Ammesso e non concesso che un “traditore’ Bellocchio abbia voluto riportare sulla scena dei suoi ‘delitti e castighi’. Un ‘traditore” per così dire, poiché tale non è, salvo considerarne un’accezione diversa, sconcertante, rivelatrice, in cui a recitare sono (stati) in tanti la propria parte nel “gioco delle parti”. Pirandello, ancora, del resto è l’altro grande autore cui spesso e volentieri Bellocchio attinge adoperando il filtro teatrale per scardinare cinematograficamente con immagini che la dicono lunga. E la Sicilia rende molto bene, geograficamente e culturalmente, in termini pirandelliani, le dinamiche del potere di cui la mafia è (stata) intermediaria.
Riferimenti bibliografici
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G. Falcone, M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Milano 1991. - Jannuzzi 1986
L. Jannuzzi, Così parlo Buscetta, Milano 1986. - Lodato 1999
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M. Pellanda, Marco Bellocchio tra cinema e teatro, Venezia 2012.
Film e regie teatrali
- I pugni in tasca, di M. Bellocchio, 1965.
- La Cina è vicina, di M. Bellocchio, 1967.
- Enrico IV, di M. Bellocchio, 1984.
- Diavolo in corpo, di M. Bellocchio, 1986.
- La solitudine del giudice Falcone, di C. Goretta, M. Padovani, 1988.
- La visione del sabba, di M. Bellocchio, 1988.
- La religione della storia, di M. Bellocchio, F. Calvelli, 1988.
- L'ora di religione, di M. Bellocchio, 2002.
- “...addio del passato...”, di M. Bellocchio, 2002.
- Buongiorno, notte, di M. Bellocchio, 2003.
- Il regista di matrimoni, di M. Bellocchio, 2006.
- L’uomo di vetro, di S. Incerti, 2007.
- Vincere, di M. Bellocchio, 2009.
- Sorelle Mai, di M. Bellocchio, 2010.
- Pagliacci, Messa in scena dell’opera di Ruggero Leoncavallo, di M. Bellocchio, Teatro Petruzzelli, Bari 2014.
- Il traditore, di M. Bellocchio, 2019.
English abstract
To understand how theatre plays a central role in Marco Bellocchio's filmography, it is enough to use even a single film as a case study, which clearly in the context of cross-references, filmic and scenic, never remains isolated. And this film, by which to recompose the puzzle, could for example be the last in order of time? Il traditore, which evokes scene after scene the whole “bellocchiano” universe in which the theatre acts from the inside, like an instrument with which the reality effect is deconstructed, dismantled, invalidated and bent to the need for a subtle, provocative, liberating interpretation. But in order to do this, it is necessary first of all to take a step backward, or forwards, according to your point of view, taking in the folds of what is preparing to become the final act of Italian history, as in a perfect mechanism for "reciting history ”. The key to the skein that Il traditore takes on.
keywords | Melodramma; mafia; mask; theatre; politics.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma).
Per citare questo articolo / To cite this article: A.G. Mancino, Pagliacci, sorvegliati speciali, traditori..., “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 155-169 | PDF di questo articolo