"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Arianna e Dioniso nelle opere di Friedrich Nietzsche

a cura di Victoria Cirlot e Anna Fressola

English abstract

La testimonianza si trova scritta addirittura nei miei libri:
i quali, riga per riga, sono libri vissuti per una volontà di vita e con ciò stesso,
in quanto creazione, rappresentano un’aggiunta reale,
un di più di quella vita stessa.
Friedrich Nietzsche, Dionysos philosophos, 23 [14],1888

Introduzione*

Il mito di Arianna, nel “laboratorio di pensiero” che è Friedrich Nietzsche (Safranski [2000] 2008, 374), trova uno spazio proprio, nascosto ma ravvisabile per tracce, finché all’improvviso si rivela chiaramente visibile. A Karl Kerényi, uno dei massimi studiosi di Dioniso e del tema del labirinto, dobbiamo il riconoscimento dell’aforisma §60 del Libro II de La Gaia Scienza (1882), ‘Le donne e il loro effetto a distanza’, come prima messa in scena del mito di Arianna. Kerényi si sofferma sull’apparizione della nave, il veliero, interpretata come un’autentica epifania, accostabile alla famosa immagine del vaso François che Nietzsche non poté mai vedere [Fig. 5]. È evidente che diversi sono i tratti del mito che emergono in questo passo – il toro, il labirinto, il veliero dalle bianche vele – tutti colti nel mezzo del fragore assordante delle onde che si infrangono sulle rocce (si veda il testo 1). La domanda che allora inevitabilmente sorge è: perché Nietzsche ricrea lo scenario mitico ma, allo stesso tempo, lo nasconde non integrando i nomi di Arianna e Dioniso?

Il desiderio di non dichiarare espressamente i nomi del mito trova conferma in Così parlò Zarathustra dove, come indicato da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Nietzsche modificò il titolo dapprima assegnato a due capitoli della Parte terza, ‘Arianna’ e ‘Dioniso’, sostituendoli rispettivamente con Del grande anelito e con I sette sigilli (Ovvero: il canto ‘Sì e amen’) (testi 45); l’anonimato (o per meglio dire la decisione di non rivelare i nomi) è in contraddizione con le note preparatorie allo stesso Zarathustra, dove invece in due passaggi troviamo Arianna e Dioniso (novembre 1882-febbraio 1883, 4 [55]; estate 1883, 13 [1]). Nella versione data alle stampe uno di questi appunti confluì in parte (ma senza i nomi) nel capitolo I sublimi (testi 23).

Dunque, il mito di Arianna fa la sua apparizione nell’opera di Nietzsche già nel 1882, data di pubblicazione de La Gaia Scienza, e la sua presenza si intensifica in Zarathustra (1883-1885). Stranamente l’orizzonte che ci viene offerto è inverso a quello della vita del mito che, come sostiene Hans Blumenberg, consiste fondamentalmente nel porre nomi che attenuino il sentimento di terrore; secondo il filosofo, infatti, proprio dal terrore sorge l’impulso al mito il cui obiettivo è rendere più familiare il mondo. Quindi, per Blumenberg, la nominazione è l’atto decisivo e distintivo del mito, che in questo modo risponde all’“assolutismo della realtà”, con l’effetto conseguente della sua dissoluzione (Blumenberg [1979] 1991, 25-86). Nietzsche, al contrario, rimuove i nomi. In realtà rimuove il nome di Dioniso in relazione ad Arianna e rimuove propriamente il nome di Arianna, dato che fin da La nascita della tragedia di Dioniso aveva parlato, e molto. Si tratta quindi dell’occultamento di una nuova coppia di polarità, Dioniso e Arianna – polarità che andrà a sostituire le precedenti: Apollo e Dioniso, Dioniso e Socrate.

Che Nietzsche sia affatto cosciente di questa elisione si manifesta nel fatto che Arianna e Dioniso sono esplicitamente annunciati in Al di là del bene e del male (1886). Nell’aforisma §295, prima di introdurre in scena la nuova coppia, Nietzsche dichiara che fino a quel momento aveva occultato i nomi, domandandosi con ironia se è arrivato al punto di dimenticare se stesso tanto da non rammentarci il “suo” nome – il nome di Dioniso:

...ma che dico mai, amici? Di chi vi sto parlando? Ho dimenticato me stesso al punto da non rammentarvi neppure il suo nome? (v. la nota al testo 7).

Al di là del bene e del male introduce dunque una nuova inflessione nel trattamento del mito che consiste nel passaggio dal non nominato al nominato, e proprio a partire da questa opera Dioniso e Arianna saranno presenti sempre con i loro propri nomi. Il più delle volte sono scene fugaci, ma assolutamente vivide, giacché Nietzsche interagisce e dialoga con la coppia dionisiaca in una drammaturgia che si fa piena attualizzazione del mito. La drammatizzazione del mito fu esasperata da Peter Gast nell’edizione da lui curata dell’opera postuma di Nietzsche, il volume XIV del 1904: come segnalato da Erich Podach, ciò avviene in particolare per uno scritto risalente all’autunno 1887 sul progetto di un Satyrspiel, un dramma satiresco i cui protagonisti sono Teseo, Dioniso e Arianna (v. la nota al testo 8). Se è vera l’amplificazione operata da Gast, resta il fatto che Nietzsche abbozza una drammaturgia in cui dà voce ai personaggi mitici, e li fa discutere tra loro. Ma l’opera che più di tutte testimonia del ruolo intenso e profondo di Arianna e di Arianna e Dioniso nel pensiero di Nietzsche è il ditirambo di Dioniso che ha per titolo Klage der Ariadne (Lamento di Arianna), mutuato dal ‘Canto del mago’ (‘Der Zauberer’) del ‘Libro quarto e ultimo’ di Zarathustra per i Ditirambi di Dioniso, il nuovo scritto poetico dato alle stampe nel dicembre 1888, ossia l’ultima opera a cui Nietzsche si dedicò prima del suo crollo all’inizio del gennaio 1889 (v. la nota al testo 15). Nel Lamento di Arianna sono apportati cambiamenti significativi rispetto alla versione del ‘Canto del mago’: il passaggio dal maschile al femminile; l’apparizione finale di Dioniso; l’insistenza sul motivo delle “piccole orecchie” di Arianna, un elemento già presente nel Crepuscolo degli idoli, ne L’Anticristo e in uno scritto dello stesso anno (testi 9, 10, 11) – variazioni che trasformano radicalmente il significato iniziale della composizione del mago, che risulta ora “tradotto” nella forma del ditirambo.

Dunque, dal 1882 fino alla fine del 1888: nell’arco di questi sei anni il mito di Arianna sarà uno strumento di pensiero per Nietzsche, senza dubbio relazionato, come osservò Gilles Deleuze, con i grandi temi dell’ultima fase - l’eterno ritorno, la volontà di potenza, la trasvalutazione dei valori (Deleuze [1962] 1992; Deleuze [1963] 2020, Deleuze [1965] 1997, v. su questo numero di Engramma Maguolo 2020).

D’altra parte, altri linguaggi convivono in Nietzsche insieme a quello filosofico, e invitano ad altre forme di comprensione. Ad esempio, il linguaggio alchemico; così avverte Carl Gustav Jung:

Ho attribuito particolare importanza al fenomeno dell’assimilazione nell’alchimia perché, in un certo senso, esso costituisce un precedente del metodo di cui la psicologia empirica si serve per accostarsi alle idee dogmatiche, accostamento che Nietzsche aveva già pensato ed esposto con chiarezza. La psicologia in quanto scienza della natura considera il mondo delle rappresentazioni religiose sotto il profilo della sua fenomenologia psichica, senza toccarne il contenuto teologico. Essa fa rientrare queste immagini nell’ambito dei contenuti psichici che costituiscono il suo specifico terreno d’indagine (Jung [1955-1956] 1990, 335).

Questo “far rientrare” le immagini religiose – o le immagini alchemiche – “nell’ambito dei contenuti psichici” è un procedimento ben conosciuto da Nietzsche: non sarà quindi fuori luogo percepire nella coppia Arianna-Dioniso anche un simbolo di totalità, ossia di ciò che la psicologia chiama il “Sé”, attuato e raggiunto attraverso il matrimonio chimico o l’unione degli opposti, che nel linguaggio dell’alchimia sono i matrimoni di Sole e Luna, Re e Regina o zolfo e mercurio. Alois Maria Haas, il grande studioso del misticismo europeo, nel libro dedicato a Nietzsche ripropose l’idea dello stesso Nietzsche che dietro tutte le filosofie ci sia un’intuizione mistica (Haas 2003, 22). Da ricordare come i simboli del Mysterium Coniunctionis siano annunciati con chiarezza nel mito antico – l’unione matrimoniale, la corona, l’ascensione al cielo. Qui, tuttavia, il nostro interesse è concentrato su un altro tema: come il mito di Arianna sia stato concepito ed elaborato da Nietzsche.

Ben nota è l’androginia di Dioniso, rappresentato sia come dio adulto barbuto, sia con forme efebiche se non femminili, così come mostrato da busti di terracotta del IV secolo a.C. (Zolla [1980] 1989, 8; sulla doppia rappresentazione del dio, a partire dal frontone del Partenone, v. in Engramma Isler-Kerényi [2010] 2011). Dioniso è il dio che sfugge “all’impulso della determinazione individuale” e alla definizioni di genere, facendo oscillare ogni nettezza: “è nome dell’uno spezzato; ma è anche il nome della tensione che connette in implacata polarità i pezzi diversi” (Centanni 2007, 57-77; per le fonti 128-129). D’altra parte, il Romanticismo tedesco era profondamente interessato all’androginia, come attestano gli scritti di Johann Wilhelm Ritter, che nel suo libro Fragmente aus dem Nachlass eines jungen Physikers (1810) “aveva abbozzato tutta una filosofia dell’androgino”, o di Wilhelm von Humboldt che in Über die männliche und weibliche Form (1795) illustrò l’“androginia divina”; o, ancora, di Friedrich Schlegel, che sostenne che il “fine verso il quale dovrebbe tendere la specie umana è la reintegazione progressiva dei sessi fino a realizzare l’androginia” (Über die Diotima, 1795); e, ancora, di Franz von Baader, per il quale la principale fonte di pensiero sull’androginia fu il mistico e visionario Jacob Böhme, che a sua volta attinse all’alchimia e della cui terminologia si avvalse (Eliade [1958] 1995, 92-94). Così, secondo la tesi di Johann Bachofen,

La caduta delle società di Amazzoni, per cui le sacerdotesse furono costrette a passare le loro conoscenze agli uomini, come Medea a Giasone, segnò una generale trasformazione sociale e religiosa. Fu tuttavia una sacerdotessa (Diotima) l’iniziatrice di Socrate. I culti dionisiaci riaffermano il ruolo delle donne come iniziatrici in una società dominata dagli uomini (Zolla [1980] 1989, 32).

Che Nietzsche fosse vicino a queste idee è innegabile e si svela, in particolare, nel Sanctus Ianuarius, il Libro IV che concludeva la prima edizione de La Gaia Scienza con una forza espressiva straordinaria, stemperata nella seconda edizione dell’opera con l’aggiunta del Libro V (e, come abbiamo visto con Kérenyi, è proprio ne La Gaia Scienza che emerge per la prima volta il mito di Arianna). L’importanza del Libro IV si misura grazie a una lettera di Nietzsche all’amico Paul Rée, risalente alla fine di agosto del 1882, in cui confessa che nel Sanctus Ianuarius “è raccolta tutta la mia morale privata” (Nietzsche, von Salomé, Rée [1875-1884] 1999, 197). In apertura del poema si staglia poderosa l’immagine di una lancia di fuoco che infrange il gelo dell’anima – “Tu che con lancia di fuoco/ frangi il gelo dell’anima mia” (“Der du mit dem Flammenspeere/ Meiner Seele Eis zertheilt”) – accostabile all’immagine visiva e testuale disegnata da William Blake in For the Sexes: The Gates of Paradise (London 1793), commentata da Elémire Zolla, in cui lo Spirito del fuoco, androgino, impugna in realtà una lancia fiammeggiante [Fig. 1] (v. la nota al testo 15). La lancia di fuoco che penetra il gelo è un’immagine comune ai testi di Nietzsche e di Blake, che rivela la familiarità di Nietzsche con il linguaggio alchemico e conferma che le sue concezioni della vita e dell’universo affondano le radici anche in questa tradizione. E, in effetti, Nietzsche intitola Sanctus Ianuarius il libro finale de La gaia scienza. Al riguardo, Rüdiger Safranski ci offre una notizia importante, che conferma la relazione tra questo capitolo dell’opera e il Lamento di Arianna:

Quando Nietzsche appone al quarto libro della Gaia Scienza l’epigrafe “Sanctus Januarius”, si tratta di certo di una dichiarazione d’amore per questo mese gagliardo del 1882 a Genova, ma è altresì una dedica a un santo, il martire Sanctus Januarius. A Napoli, dove è particolarmente venerato con molte immagini e statue che Nietzsche conobbe nel 1876, è chiamato san Gennaro. Questo martire fu un uomo con alcune qualità femminili. Era di delicata bellezza e soffriva di periodici sanguinamenti. Nell’immaginazione, il sangue del suo martirio è mescolato con il mestruo. Era contemporaneamente uomo e donna, ed è potuto così diventare il santo degli androgini. Nella cappella sotterranea della chiesa principale di Napoli a lui intitolata, per questo fu conservata la testa del martire decapitato, assieme a due flaconcini del suo sangue, ritenuto miracoloso. A questo femminiello, a Napoli lo si chiama così, si rivolge la poesia con cui comincia il quarto libro della Gaia scienza (Safranski [2000] 2008, 260).

Per di più si tratta dell’inizio dell’anno, gennaio, il mese che in tutte le tradizioni è celebrato come il momento di un passaggio necessario per il rinnovamento, il ritorno al caos e la ri-unione con l’unità perduta: è lo stesso desiderio da cui nasce il mito dell’androginia, scaturito da quella sensazione di essere frammento e non totalità, alla quale essa aspira incessantemente (Eliade [1959] 1962, 183) [Fig. 2]. Dal Sanctus Ianuarius alla Klage der Ariadne sembra tracciarsi un circolo, un ouroboros, in cui tutto termina così come è iniziato. La lancia di fuoco simbolicamente equivale al lampo con cui appare Dioniso, l’androgino, che si unirà ora alla sua parte femminile che attraverso la figura di Arianna ha acquisito piena visibilità, allo stesso modo di Eva del Cristo androgino in molte antiche tradizioni (Jung [1955-1956] 1990, II, 379). La tortura e il martirio, ossia il tema della Klage, che è quanto Nietzsche dichiara di voler evitare nel Sanctus Ianuarius (FW §313, KSA 3, 548; OFN V, 2, 213-214), costituisce il punto di scarto tra le due opere (v. la nota al testo 15). Eppure, entrambe testimoniano l’aspirazione alla totalità a partire dal Mysterium Coniunctionis e dal mito dell’androgino. Nel finale del Lamento di Arianna l’autore rinuncia alle antiche immagini dell’unione di Arianna e Dioniso – l’ascensione al cielo e la corona boreale – per presentarci una scena terrena in cui irrompe la divina epifania di Dioniso. Le parole del dio suonano familiari a tutti i lettori di Nietzsche. In questo finale assolutamente nietzscheano, risuonano tuttavia anche immagini testuali e visive che rimandano a una scena nota alla tradizione cristiana, apportandovi nuovi significati. È la scena dell’Annunciazione, così come tradotta in immagine, fra i tanti, con eccezionale potenza iconografica da Filippo Lippi o Cosmè Tura. Nell’Annunciazione di Lippi un fascio di raggi dorati fuoriesce dalla colomba, ma un raggio unico, il raggio centrale, tocca Maria a livello dell’ombelico e penetra la sua veste attraverso un’asola [Fig. 3]. In quella che Cosmè Tura dipinse nel 1469 per decorare le ante dell’organo della Cattedrale di Ferrara, la colomba dello Spirito Santo è accostata all’orecchio della Vergine [Fig. 4], creando una sorta di messa in scena musicale dell’Annunciazione che enfatizzata la sonorità dell’inudibile (Arasse 1999, 151, 180).

*[Introduzione di Victoria Cirlot, traduzione dallo spagnolo di Anna Fressola].

1 | William Blake, Spirit of Fire, in For the Sexes: The Gates of Paradise, acquaforte, London 1973.
2 | Heinrich Khunrath, Amphiteatrum sapientiae, Antwerp 1609.
3 | Fra’ Filippo Lippi, Annunciazione, 1449–1459 ca., tempera su tavola, London, National Gallery, dettaglio.
4 | Cosmè Tura, Annunciazione, 1469, tempera su tela, ante dell'organo del duomo di Ferrara, Museo della cattedrale, dettaglio.

I testi selezionati dell’opera di Nietzsche che qui di seguito offriamo alla lettura sono frammenti della storia segreta di Arianna che attraversa l’opera di Nietzsche, a rintracciare la presenza del suo mito, dissimulato ma riconoscibile, e la formazione della nuova coppia Arianna/Dioniso, fino alla sua progressiva rivelazione e apoteosi finale. Ogni brano è introdotto da un commento che dà conto dell’arco cronologico in cui Nietzsche compose e lavorò su questi scritti, dal quale si evince l’intensità e l’ampiezza del pensiero su Arianna e Dioniso, e che, al contempo, si propone di illuminare parole e immagini con cui di volta in volta è descritta la coppia dionisiaca. Ogni testo è annunciato da un titolo che riporta quello pensato da Nietzsche per ciascuno degli aforismi, delle poesie e dei passaggi riportati, o del capitolo in cui questi sono inseriti. A concludere, le tracce di Arianna nelle “lettere della follia” del gennaio 1889.

Indice dei passi su Arianna e Dioniso nelle opere di Friedrich Nietzsche
  • 1. §60 ‘Die Frauen und ihre Wirkung in die Ferne’, Zweites Buch, Die fröhliche Wissenschaft, 1882, KSA 3, 424-425 / §60 ‘Le donne e il loro effetto a distanza’, Libro secondo, La gaia scienza, 1882, OFN V, 2, 93-94.
  • 2. ‘Mittag und Ewigkeit. Also sprach Zarathustra’, November 1882-Februar 1883, 4 [55]; ‘Zarathustra’s Heilige Gelächter’, Sommer 1883, 13 [1], Nachgelassene Fragmente, KSA 10, 125; 433 / ‘Meriggio ed eternità. Così parlò Zarathustra’, novembre 1882-febbraio 1883, 4 [55]; ‘Il sacro riso di Zarathustra’, estate 1883, 13 [1], Frammenti postumi, OFN VII, 1/1, 117; OFN VII, 1/2, 92.
  • 3. Von der Erhabenen, Zweiter Theil, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, 1883, KSA 4, 150-152 / Dei sublimi, Parte seconda, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, 1883, OFN VI, 1, 141-143.
  • 4. Von der grossen Sehnsucht, Dritter Theil, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, 1884, KSA 4, 278-281 / Del grande anelito, Parte terza, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, 1884, OFN VI, 1, 271-273.
  • 5. Die sieben Siegel (Oder: das Ja- und Amen-Lied), Dritter Theil, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, 1884, KSA 4, 287-291 / I sette sigilli (Ovvero: il canto ‘sì e amen’), Parte terza, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, 1884, OFN VI, 1, 279-283.
  • 6. ‘Moral und Physiologie’, Juni-Juli 1885, 37 [4], Nachgelassene Fragmente, KSA 11, 576-579 / ‘Morale e fisiologia’, giugno-luglio 1885, 37 [4], Frammenti postumi, OFN VII, 3, 256-259.
  • 7. §295, Neuntes Hauptstück: Was ist vornehm?, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft, 1886, KSA 5, 237-239 / §295, Capitolo nono: Che cos’è l’aristocratico?, Al di là del bene e del male. Preludio per una filosofia dell’avvenire, 1886, OFN VI, 2, 203-205.
  • 8. ‘Satyrspiel’. ‘Zu erwägen: Da s vollkommene Buch’, Herbst 1887, 9 [115], Nachgelassene Fragmente, KSA 12, 400-402 / ‘Dramma satiresco’. ‘Da considerare: Il libro perfetto’, autunno 1887, 9 [115], Frammenti postumi, OFN VIII, 2, 56-58.
  • 9. §19 ‘Schön und hässlich’, Streifzüge eines Unzeitgemässen, Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer philosophirt, 1888, KSA 6, 123-124 / §19 ‘Bello e brutto’, Scorribande di un inattuale, Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si fa filosofia col martello, 1888, OFN VI, 3, 120.
  • 10. ‘Aesthet[ica]. Grundeinsicht: was ist schön und hässlich’, Frühjahr-Sommer 1888, 16 [40], Nachgelassene Fragmente, KSA 13, 498-500 / ‘Aesthetica. Conoscenza fondamentale: che cosa è bello, che cosa è brutto’, primavera-estate 1888, 16 [40], Frammenti postumi, OFN VIII, 3, 287-290.
  • 11. ‘Vorwort’, Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum, 1888, KSA 6, 167-168 / ‘Prefazione’, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, 1888, OFN VI, 3, 167.
  • 12. ‘Vorwort’, 2, Ecce Homo. Wie man wird, was man ist, 1888, KSA 6, 257-258 / ‘Prologo’, 2, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, 1888, OFN VI, 3, 265-266.
  • 13. Warum ich so gute Bücher schreibe, 2, Ecce Homo. Wie man wird, was man ist, 1888, KSA 6, 301-302 / Perché scrivo libri così buoni, 2, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, 1888, OFN VI, 3, 310-311.
  • 14. Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, 4, 7, 8, Ecce Homo. Wie man wird, was man ist, 1888, KSA 6, 340-341; 345-347; 348-349 / Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, 4, 7, 8, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, 1888, OFN VI, 3, 349-351; 355-357; 358-359.
  • 15. Klage der Ariadne, Dionysos-Dithyramben, 1888-1889, KSA 6, 375-412 / Lamento di Arianna, Ditirambi di Dioniso, 1888-1889, OFN VI, 4, 46-53.
  • 16. Briefwechsel, 1889, KGB III/5, 442-579 / Lettere da Torino, 1889, OFN XX194-196; 202.

1. Le donne e il loro effetto a distanza

da La gaia scienza, Libro secondo, §60, 1882

L’8 maggio del 1882 Nietzsche scrive al suo editore: “In autunno riceverà un manoscritto dal titolo Die fröhliche Wissenschaft”. Già tra il 19 giugno e il 3 luglio il manoscritto fu inviato all’editore Ernst Schmeitzner e, poco prima del 20 agosto 1882, l’opera risulta essere stata pubblicata. Nel 1887 Nietzsche mette a punto una nuova edizione de La gaia scienza, aggiungendo un Prologo, il Libro V e il poema Canzoni del Principe Vogelfrei (Lieder des Prinzen Vogelfrei). Nonostante nel passaggio in esame non appaiano i nomi né di Arianna né di Dioniso, Karl Kerényi non dubita che ad echeggiare sia qui il mito di Arianna:

“Dobbiamo soffermarci su questo aforisma (FW §60). E non solo perché qui ascoltiamo la voce poetica più pura e intima di Nietzsche, ma anche perché, innominato, ignoto, appare qui Dioniso come il suo ‘io più felice’, il suo io ‘secondo, eternato’. È l’epifania di una nave, il veliero che oggi ben conosciamo grazie alla meravigliosa immagine del vaso greco che Nietzsche ancora non conosceva. Ed è qui che anche il senso dell’epifania è espresso in un modo che la nostra ricerca sul mito è arrivata a cogliere molto più tardi [...]. Così la mitologia greca emerge alla superficie non dalla filologia di Nietzsche, non dall’erudizione ma dal suo retroterra  [...]”  (Kerényi 1944, 406-407**, tr. it. delle autrici) [Fig. 5].

Emerge altresì una concezione della donna che si relaziona all’aforisma §339 del Libro IV del La Gaia Scienza dal titolo ‘Vita femina’, che conclude con l’esclamazione “Sì, la vita è una donna!” (“Ja, das Leben ist ein Weib!”): sarà questo uno dei significati che Arianna avrà per Nietzsche.

La scena si apre con il richiamo al dettaglio fisico dell’orecchio, uno degli elementi che qualificano l’estetica dionisiaca per Nietzsche (v. Klage der Ariadne nei DD, testo 15). Ma appaiono anche le figure del mito di Arianna: il toro, il labirinto, il veliero, le vele bianche. Queste si manifestano in mezzo al fragore e al tumulto, nel rumore assordante delle onde che si infrangono sulle rocce di una spiaggia – Naxos?

§60 | Die Frauen und ihre Wirkung in die Ferne
§60 | Le donne e il loro effetto a distanza

– Habe ich noch Ohren? Bin ich nur noch Ohr und Nichts weiter mehr? Hier stehe ich inmitten des Brandes der Brandung, deren weissen Flammen bis zu meinem Fusse heraufzüngeln: – von allen Seiten heult, droht, schreit, schrillt es auf mich zu, während in der tiefsten Tiefe der alten Erderschütterer seine Arie singt, dumpf wie ein brüllender Stier: er stampft sich dazu einen solchen Erderschütterer-Tact, dass selbst diesen verwetterten Felsunholden hier das Herz darüber im Leibe zittert.

– Ho ancora orecchi? Sono io soltanto orecchio e nulla più? Eccomi in mezzo al furore della risacca mentre le sue bianche fiamme guizzano alte fino a lambire i miei piedi – da ogni parte si levano contro di me ululati, minacce, grida, stridori, mentre nel più profondo dell’abisso il vecchio squassator della terra, cupo come un toro muggente, canta il suo ritornello, e intanto pesta un tempo tale da squassator della terra, che persino a questi mostri di roccia, rosi dalle tempeste, qui trema il cuore in corpo.

Da, plötzlich, wie aus dem Nichts geboren, erscheint vor dem Thore dieses höllischen Labyrinthes, nur wenige Klafter weit entfernt, – ein grosses Segelschiff, schweigsam wie ein Gespenst dahergleitend. Oh diese gespenstische Schönheit! Mit welchem Zauber fasst sie mich an! Wie? Hat alle Ruhe und Schweigsamkeit der Welt sich hier eingeschifft? Sitzt mein Glück selber an diesem stillen Platze, mein glücklicheres Ich, mein zweites vereweigtes Sebst? Nicht todt sein und doch auch nicht mehr lebend? Als ein geisterhaftes, stilles, schauendes, gleitendes, schwebendes Mittelwesen? Dem Schiffe gleichend, welches mit seinen weissen Segeln wie ein ungeheuer Schmetterling über das dunkle Meer hinlaüft! Ja! Ueber das Dasein hinlaufen! Das ist es! Das wäre es! –

Ed ecco che d’un tratto, come partorito dal nulla, appare dinanzi alla porta di questo labirinto d’inferno, a una distanza di poche braccia appena – un grande veliero che scivola via tacito come un fantasma. Che bellezza spettrale! Con quale incantesimo mi avvince! Come? Tutta la pace e il silenzio del mondo si sono imbarcati qui? In questo tacito luogo è assisa forse la mia felicità, il mio io più felice, un mio secondo io eternato? Non essere morto, e tuttavia non essere nemmeno più in vita? Come uno spettrale, placido, contemplante, scivolante, fluttuante essere intermedio? Simile al vascello che con le sue vele bianche, al pari di un’immensa farfalla, trascorre sul cupo mare! Sì! Trascorrere sopra l’esistenza! È così! Potrebbe essere così! –

– Es scheint, der Lärm hier hat mich zum Phantasten gemacht? Aller grosse Lärm macht, dass wir das Glück in die Stille und Ferne setzen. Wenn ein Mann inmitten seines Lärmes steht, inmitten seiner Brandung von Würfen und Entwürfen: da sieht er auch wohl stille zuberhafte Wesen an sich vorübergleiten, nach deren Glück und Zurückgezogenheit er sich sehnt, – es sind die Frauen. Fast meint er, dort bei den Frauen wohne sein besseres Selbst: an diesen stillen Plätzen werde auch die lauteste Brandung zur Todtenstille und das Leben selber zum Traume über das Leben. Jedoch! Jedoch! Mein edler Schwärmer, es giebt auch auf dem schönsten Segelschife so viel Geräusch und Lärm und leider so viel kleinen erbärmlichen Lärm! Der Zauber und die mächtigste Wirkung der Frauen ist, um die Sprache der Philosophen zu reden, eine Wirkung in die Ferne, eine actio in distans: dazu gehört aber, zuerst und vor Allem – Distanz!

KSA 3, 424-425

– Si direbbe che il tumulto di questo luogo mi abbia messo addosso delle fantasticherie! Ogni gran tumulto fa sì che riponiamo la felicità nel silenzio e nella lontananza. Se un uomo sta in mezzo al suo tumulto, in mezzo alla sua risacca di sortite e progetti: ecco vede passar scivolando, sotto i suoi occhi, placidi, incantevoli esseri e anela alla loro felicità e riservatezza: sono le donne. È quasi sul punto di credere che laggiù presso le donne dimori il suo io migliore: in quei taciti luoghi, anche la più tumultuosa risacca diventerebbe un silenzio di morte e la vita stessa un sogno al di sopra della vita. Eppure! Eppure! Mio nobile sognatore, anche sul veliero più bello c’è molta gazzarra e tumulto e anche, purtroppo, tanto piccolo, miserabile tumulto! L’incanto e il più potente effetto delle donne è, per usare il linguaggio del filosofo, un effetto a distanza, una actio in distans: ma ci vuole appunto, in primo luogo e soprattutto – distanza!

OFN V, 2, 93-94

5 | Vaso François, cratere attico a figure nere, da Chiusi, primo quarto del VI sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale, dettaglio.

2. Meriggio, eternità e il sacro riso di Zarathustra

dai Frammenti postumi, novembre 1882-febbraio 1883, 4 [55]; estate 1883, 13[1]

Abbozzi, progetti e aforismi scritti tra il luglio 1882 e l’autunno del 1885 – raccolti in ordine cronologico nei due volumi Kritische Studienausgabe 10 e 11 (tr. it. OFN VII, 1, parte 1 e 2) – sono parte delle note preparatorie alle quattro parti di Zarathustra. Nei Nachgelassene Fragmente il passo in cui compare Arianna, composto tra novembre 1882 e febbraio 1883 (4 [55]), è raccolto sotto il titolo Meriggio ed eternità. Così parlò Zarathustra (Mittag und Ewigkeit. Also sprach Zarathustra). Se qui viene stabilito un parallelismo tra il labirinto e Arianna, in uno scritto più tardo, risalente all’autunno del 1887, Dioniso affermerà che Arianna è un labirinto, e nel Lamento di Arianna (1888-9) che egli è il suo labirinto (testi 8 e 15). Nietzsche disegna così le corrispondenze simboliche tra i personaggi del mito, enfatizzando l’intercambiabilità e la complementarietà di Dioniso e Arianna e l’elemento centrale, il labirinto, di ricco significato in tutta la sua opera. E così drammatizza le idee che queste figure dischiudono, presentandole in una successione che fa scaturire le scintille di diversi gradi di tensione (v. Deleuze [1965] 1997, 37). Arianna, insieme a Dioniso, torna in uno scritto dell’estate 1883 (13 [1]) inserito in una raccolta di frasi e sentenze intitolata Il sacro riso di Zarathustra (Zarathustra’s Heilige Gelächter): si tratta di una variante del finale del capitolo Dei sublimi della Parte seconda di Zarathustra (testo 3), con la differenza che in questo passaggio sono in scena i nomi della coppia dionisiaca.

4 [55]

Der Anblick des naiven Menschen ist eine Wollust, wofern er ein Natürlicher ist und Geist hat.

Die schlauen Menschen sind gewöhnlich einfache und nicht complicirte Menschen.

Labyrinth.
Ein labyrinthischer Mensch sucht niemals die Wahrheit, sondern immer nur seine Ariadne –was er uns auch sagen möge.

KSA 10, 125

4 [55]

La vista di una persona ingenua è un piacere, posto che sia naturale che abbia spirito.

Le persone furbe sono di solito persone semplici e non complicate.

Labirinto.
Un uomo labirintico non cerca mai la verità, bensì sempre e soltanto la sua Arianna – qualunque cosa voglia farci credere.

OFN VII, 1/1, 117

13 [1]

Dionysos auf einem Tiger: der Schädel einer Ziege: ein Panther. Ariadne träumend:  „vom Helden verlassen träume ich den Über-Helden”. Dionysos ganz zu verschweigen!

KSA 10, 433

13 [1]

Dioniso su di una tigre: il cranio di una capra: una pantera. Arianna che sogna: “abbandonata dall’eroe, sogno il super eroe”. Tacere del tutto Dioniso!

OFN VII, 1/2, 92

3. Dei sublimi

da Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Parte seconda, 1883

Nietzsche inviò il manoscritto della prima parte del Zarathustra il 14 febbraio 1883 da Genova all’editore Ernst Schmeitzner, ed è pertanto verosimile che concluse l’opera il 13 febbraio, giorno della morte di Wagner, come afferma in Ecce Homo: “fu compiuta esattamente nell’ora sacra in cui Richard Wagner morì a Venezia” (EH, OFN VI, 3, 344). Questa, che non comparve inizialmente come “Parte prima” bensì con il titolo Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen Venne, vide la stampa alla fine di aprile del 1883. La seconda parte risale alla primavera e all’estate del 1883: al principio di luglio Nietzsche giunse a Sils-Maria, e alla metà dello stesso mese spedì il manoscritto all’editore. Tra la fine dell’estate 1883 e l’inizio del 1884 si dedicò alla terza parte, in principio pensata come il finale del suo Zarathustra, e pubblicata alla fine di marzo 1884. L’ultima parte, composta nell’inverno 1884-1885, fu inizialmente concepita come prima parte di un’opera dal titolo Meriggio e eternità (Mittag und Ewigkeit) che avrebbe dovuto comprenderne tre. In seguito ad una rottura con Schmeitzner, non trovando altri editori e a causa di difficoltà finanziarie, il progetto fu abbandonato. Tra la metà di marzo e la metà aprile, Nietzsche fece stampare a sue spese a Leipzig con il tipografo Costantin Georg Naumann, in solo 40 copie in parte distribuite ad amici e conoscenti, la “Parte quarta e ultima”. Come evidenziato da Colli e Montinari, da progetti posteriori datati fino al 1888 si evince come Nietzsche per alcuni anni non abbandonò l’idea e il piano di un altro scritto di Zarathustra che comprendesse quest’ultima parte. Sarà nel 1892 la prima edizione completa di Zarathustra (due anni dopo che la quarta parte fu resa pubblica), quando invece una edizione che riunisse le prime tre parti dell’opera apparve nel 1886 per l’editore E.W. Fritzsch (Leipzig) (Colli e Montinari in OFN VI, 1, 412 e 415-418).

Il capitolo Dei sublimi (Von der Erhabenen) termina con una frase in cui risuona il frammento 13 [1] dell’estate 1883 (testo 2) – il periodo di composizione della Parte seconda di Zarathustra –, lì dove Arianna sogna il super-eroe: “Arianna che sogna: ‘abbandonata dall’eroe, sogno il super eroe’”. Arianna appare come l’anima che viene abbandonata dall’eroe (Teseo) affinché il super-eroe (Dioniso) le se avvicini. Nietzsche si riferisce alla trasformazione necessaria dall’eroe al super-eroe che consiste nel “disimparare” (verlernen) la propria “volontà eroica” (Helden-Willen). Da essere un sublime (Erhabener) deve divenire un elevato (Gehobener): non basta soggiogare mostri né risolvere enigmi, perché la questione centrale sta nel redimere (erlösen) i propri mostri ed enigmi, “trasformarli in figli del cielo”. Così, la sua conoscenza non gli ha ancora insegnato a sorridere né a non essere geloso – tema centrale, quello della gelosia, nel ‘Dialogo di Nasso’ dell’autunno 1887 (testo 8). Nietzsche descrive tra le altre cose il gesto con cui l’eroe “dovrebbe superare anche il suo riposarsi” (Ausruhen): “col braccio appoggiato sulla testa” (Den Arm uber das Haupt gelegt). È questo il gesto della trasformazione, intesa come mistero dell’anima – lo stesso gesto dell’Arianna/Cleopatra dormiente dei Musei Vaticani (v. su questo stesso numero di Engramma, Cirlot 2020) [Fig. 6].

Von der Erhabenen

Still ist der Grund meines Meeres: wer erriethe wohl, dass er scherzhafte Ungeheuer birgt!
Unerschütterlich ist meine Tiefe: aber sie glänzt von schwimmenden Räthseln und Gelächtern.
Einen Erhabenen sah ich heute, einen Feierlichen, einen Büsser des Geistes: oh wie lachte meine Seele ob seiner Hässlichkeit!
Mit erhobener Brust und Denen gleich, welche den Athem an sich ziehn: also stand er da, der Erhabene, und schweigsam:
Behängt mit hässlichen Wahrheiten, seiner Jagdbeute, und reich an zerrissenen Kleidern; auch viele Dornen hiengen an ihm – aber noch sah ich keine Rose.
Noch lernte er das Lachen nicht und die Schönheit. Finster kam dieser Jäger zurück aus dem Walde der Erkenntniss.
Vom Kampfe kehrte er heim mit wilden Thieren: aber aus seinem Ernste blickt auch noch ein wildes Thier – ein unüberwundenes!
Wie ein Tiger steht er immer noch da, der springen will; aber ich mag diese gespannten Seelen nicht, unhold ist mein Geschmack allen diesen Zurückgezognen.
Und ihr sagt mir, Freunde, dass nicht zu streiten sei über Geschmack und Schmecken? Aber alles Leben ist Streit um Geschmack und Schmecken!
Geschmack: das ist Gewicht zugleich und Wagschale und Wägender; und wehe allem Lebendigen, das ohne Streit um Gewicht und Wagschale und Wägende leben wollte!
Wenn er seiner Erhabenheit müde würde, dieser Erhabene: dann erst würde seine Schönheit anheben, – und dann erst will ich ihn schmecken und schmackhaft finden.
Und erst, wenn er sich von sich selber abwendet, wird er über seinen eignen Schatten springen – und, wahrlich! hinein in seine Sonne.
Allzulange sass er im Schatten, die Wangen bleichten dem Büsser des Geistes; fast verhungerte er an seinen Erwartungen.
Verachtung ist noch in seinem Auge; und Ekel birgt sich an seinem Munde. Zwar ruht er jetzt, aber seine Ruhe hat sich noch nicht in die Sonne gelegt.
Dem Stiere gleich sollte er thun; und sein Glück sollte nach Erde riechen und nicht nach Verachtung der Erde.
Als weissen Stier möchte ich ihn sehn, wie er schnaubend und brüllend der Pflugschar vorangeht: und sein Gebrüll sollte noch alles Irdische preisen!
Dunkel noch ist sein Antlitz; der Hand Schatten spielt auf ihm. Verschattet ist noch der Sinn seines Auges.
Seine That selber ist noch der Schatten auf ihm: die Hand verdunkelt den Handelnden. Noch hat er seine That nicht überwunden.
Wohl liebe ich an ihm den Nacken des Stiers: aber nun will ich auch noch das Auge des Engels sehn.
Auch seinen Helden-Willen muss er noch verlernen: ein Gehobener soll er mir sein und nicht nur ein Erhabener: – der Aether selber sollte ihn heben, den Willenlosen!
Er bezwang Unthiere, er löste Räthsel: aber erlösen sollte er auch noch seine Unthiere und Räthsel, zu himmlischen Kindern sollte er sie noch verwandeln.
Noch hat seine Erkenntniss nicht lächeln gelernt und ohne Eifersucht sein; noch ist seine strömende Leidenschaft nicht stille geworden in der Schönheit.
Wahrlich, nicht in der Sattheit soll sein Verlangen schweigen und untertauchen, sondern in der Schönheit! Die Anmuth gehört zur Grossmuth des Grossgesinnten.
Den Arm über das Haupt gelegt: so sollte der Held ausruhn, so sollte er auch noch sein Ausruhen überwinden.
Aber gerade dem Helden ist das Schöne aller Dinge Schwerstes. Unerringbar ist das Schöne allem heftigen Willen.
Ein Wenig mehr, ein Wenig weniger: das gerade ist hier Viel, das ist hier das Meiste.
Mit lässigen Muskeln stehn und mit abgeschirrtem Willen: das ist das Schwerste euch Allen, ihr Erhabenen!
Wenn die Macht gnädig wird und herabkommt in’s Sichtbare: Schönheit heisse ich solches Herabkommen.
Und von Niemandem will ich so als von dir gerade Schönheit, du Gewaltiger: deine Güte sei deine letzte Selbst-Überwältigung.
Alles Böse traue ich dir zu: darum will ich von dir das Gute.
Wahrlich, ich lachte oft der Schwächlinge, welche sich gut glauben, weil sie lahme Tatzen haben!
Der Säule Tugend sollst du nachstreben: schöner wird sie immer und zarter, aber inwendig härter und tragsamer, je mehr sie aufsteigt.
Ja, du Erhabener, einst sollst du noch schön sein und deiner eignen Schönheit den Spiegel vorhalten.
Dann wird deine Seele vor göttlichen Begierden schaudern; und Anbetung wird noch in deiner Eitelkeit sein!
Diess nämlich ist das Geheimniss der Seele: erst, wenn sie der Held verlassen hat, naht ihr, im Traume, – der Über-Held.

Also sprach Zarathustra.

KSA 4, 150-152

Dei sublimi

Placido è il fondo del mio mare: chi potrebbe indovinare che esso nasconde mostri scherzosi!
Incrollabile è la mia profondità: ma essa luccica di guizzanti enigmi e risate.
Oggi ho visto un sublime, un solenne, un penitente dello spirito: oh, come la mia anima ha riso della sua bruttezza!
Col petto sollevato, simile a quelli che aspirano fiato: così se ne stava il sublime, tacitamente:
Tutto addobbato di verità brutte, la sua preda di caccia, e ricco di vesti stracciate; molte spine aveva anche indosso – ma non ho visto ancora una rosa.
Egli non ha ancora imparato il riso e la bellezza. Tetro fu il ritorno di questo cacciatore dalla foresta della conoscenza.
Dalla battaglia tornava a casa, con belve feroci: ma dalla sua tetraggine fa capolino ancora una belva feroce – non ancora vinta!
Egli sta là ancora, come una tigre che voglia spiccare un balzo; ma a me queste anime tese non piacciono, questi ritratti su se stessi non sono di mio gusto.
E voi dite, amici, che non si ha da discutere sul gusto e sul sapore? Ma tutta la vita è una disputa su gusto e sapore!
Gusto: è il peso e insieme la bilancia e colui che pesa; e guai a ogni essere vivente che volesse vivere senza la contesa per il peso, la bilancia e coloro che pesano!
Se si stancasse della sua sublimità, questo sublime: allora avrebbe inizio la sua bellezza – e allora lo gusterei e lo troverei saporoso.
E solo quando si distoglierà da se stesso, salterà al di là della sua stessa ombra – e, davvero! nel suo sole.
Troppo a lungo il penitente dello spirito sedette all’ombra e le sue guance sono smunte; quasi l’ha còlto l’inedia per le sue attese.
Disprezzo è ancora nel suo occhio; e la nausea si cela sulla sua bocca. Adesso riposa, è vero, ma il suo riposo non ha ancora conosciuto il sole.
Come il toro dovrebbe fare; e la sua felicità dovrebbe odorare di terra, non di disprezzo della terra.
Lo vorrei vedere come un candido toro, sbuffante e muggente mentre precede il vomere: e il suo muggito dovrebbe essere la lode di tutte le cose terrene!
Cupo è ancora il suo viso; su di esso scherza l’ombra della mano. Ancora adombrato è il senso della sua vista.
La sua azione stessa è l’ombra su di lui: la mano oscura colui che agisce. Egli non ha ancora superato la sua azione.
Certo, di lui io amo la nuca taurina: ma vorrei vedere anche l’occhio angelico.
Deve ancora disimparare la sua volontà eroica: un elevato egli ha da essere e non soltanto un sublime: – l’etere stesso dovrebbe sollevarlo, senza volontà!
Ha soggiogato mostri, ha risolto enigmi: ma egli dovrebbe liberare anche i suoi mostri e i suoi enigmi, dovrebbe trasformarli in figli del cielo.
La sua conoscenza non ha ancora imparato a sorridere e a essere senza gelosia; la sua scrosciante passione non si è ancora acquietata nella bellezza.
In verità, non nella sazietà dovrebbe tacere e immergersi la sua brama, ma nella bellezza! La grazia appartiene alla magnanimità di colui che ha grandi sensi.
Col braccio appoggiato sulla testa: così dovrebbe riposare l’eroe, così dovrebbe egli superare anche il suo riposarsi.
Ma proprio per l’eroe la bellezza è di tutte le cose la più ardua. Irraggiungibile è la bellezza per ogni volontà violenta.
Un po’ più, un po’ meno: proprio questo è qui molto, è qui il massimo.
Stare in piedi coi muscoli rilassati e con la volontà staccata: questa è la cosa più ardua per voi tutti, o sublimi!
Quando la potenza diventa clemente e scende giù nel visibile: un tale scendere giù, io lo chiamo bellezza.
E da nessun altro come da te, o possente, io voglio appunto la bellezza: la tua bontà sia il tuo supremo sopraffare te stesso.
So che sei capace di ogni malvagità: perciò da te voglio la bontà.
Davvero, spesso ho riso dei rammolliti che si credono buoni perché non hanno artigli!
Alla virtù della colonna aspira! – più bella essa diventa e sempre più delicata, ma di dentro più dura e più robusta, quanto più ascende.
Sì, o sublime, per te verrà il momento di essere anche bello e di specchiarti nella tua stessa bellezza.
Allora l’anima ti rabbrividirà di brame divine; e persino nella tua vanità sarà adorazione!
Questo infatti è il segreto dell’anima: solo quando l’eroe l’ha lasciata, le si avvicina, in sogno, – il super-eroe.

Così parlò Zarathustra.

OFN VI, 1, 141-143

6 | Francisco de Hollanda, La fontana di Cleopatra / Ninfa dormiente, disegno, 1538-1539, Madrid, El Escorial.

4. Del grande anelito

da Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Parte terza, 1884

Questo capitolo, in un sommario precedente, aveva per titolo ‘Arianna’ (Rs – Z II, 4, 130). Si tratta di una invocazione all’anima che, come si è visto nella frase conclusiva del capitolo Dei sublimi e nelle note preparatorie a Zarathustra, è identificabile con Arianna (Colli, Montinari 1988, 324, testi 2 e 3). A fianco dell’immagine dell’anima si affaccia quella della vite: l’anima innaffiata di ogni saggezza, di vini nuovi e forti e di una vecchiezza immemorabile, diventa vite traboccante. Una amante comprensiva e vasta come nessun altra, che anela all’arrivo di un misterioso vignaiuolo, signore di una “libera navicella” che, accompagnato da un corteo di animali che vanno su piedi “leggeri e stravaganti”, viene con un falcetto di diamante, così come lo vediamo nella kylix di Exekias [Fig. 7] (Podach 1963, 124). L’anima, Arianna, si trova in uno stato a cui Nietzsche assegna un colore, quello appunto della “melanconia purpurea” (pupurne Schwermuth), da “sfogare” o con le lacrime o con il canto.

Von der grossen Sehnsucht
Del grande anelito

Oh meine Seele, ich lehrte dich „Heute“ sagen wie „Einst“ und „Ehemals“ und über alles Hier und Da und Dort deinen Reigen hinweg tanzen.
Oh meine Seele, ich erlöste dich von allen Winkeln, ich kehrte Staub, Spinnen und Zwielicht von dir ab.
Oh meine Seele, ich wusch die kleine Scham und die Winkel-Tugend von dir ab und überredete dich, nackt vor den Augen der Sonne zu stehn.
Mit dem Sturme, welcher „Geist“ heisst, blies ich über deine wogende See; alle Wolken blies ich davon, ich erwürgte selbst die Würgerin, die „Sünde“ heisst.
Oh meine Seele, ich gab dir das Recht, Nein zu sagen wie der Sturm und Ja zu sagen wie offner Himmel Ja sagt: still wie Licht stehst du und gehst du nun durch verneinende Stürme.
Oh meine Seele, ich gab dir die Freiheit zurück über Erschaffnes und Unerschaffnes: und wer kennt, wie du sie kennst, die Wollust des Zukünftigen?
Oh meine Seele, ich lehrte dich das Verachten, das nicht wie ein Wurmfrass kommt, das grosse, das liebende Verachten, welches am meisten liebt, wo es am meisten verachtet.
Oh meine Seele, ich lehrte dich so überreden, dass du zu dir die Gründe selber überredest: der Sonne gleich, die das Meer noch zu seiner Höhe überredet.
Oh meine Seele, ich nahm von dir alles Gehorchen Kniebeugen und Herr-Sagen; ich gab dir selber den Namen „Wende der Noth“ und „Schicksal“.
Oh meine Seele, ich gab dir neue Namen und bunte Spielwerke, ich hiess dich „Schicksal“ und „Umfang der Umfänge“ und „Nabelschnur der Zeit“ und „azurne Glocke“.
Oh meine Seele, deinem Erdreich gab ich alle Weisheit zu trinken, alle neuen Weine und auch alle unvordenklich alten starken Weine der Weisheit.
Oh meine Seele, jede Sonne goss ich auf dich und jede Nacht und jedes Schweigen und jede Sehnsucht: – da wuchsest du mir auf wie ein Weinstock.
Oh meine Seele, überreich und schwer stehst du nun da, ein Weinstock mit schwellenden Eutern und gedrängten braunen Gold-Weintrauben: –
– gedrängt und gedrückt von deinem Glücke, wartend vor Überflusse und schamhaft noch ob deines Wartens.
Oh meine Seele, es giebt nun nirgends eine Seele, die liebender wäre und umfangender und umfänglicher! Wo wäre Zukunft und Vergangnes näher beisammen als bei dir?
Oh meine Seele, ich gab dir Alles, und alle meine Hände sind an dich leer geworden: – und nun! Nun sagst du mir lächelnd und voll Sehwermuth: „Wer von uns hat zu danken? –
– hat der Geber nicht zu danken, dass der Nehmende nahm? Ist Schenken nicht eine Nothdurft? Ist Nehmen nicht – Erbarmen?“ –
Oh meine Seele, ich verstehe das Lächeln deiner Schwermuth: dein Über-Reichthum selber streckt nun sehnende Hände aus!
Deine Fülle blickt über brausende Meere hin und sucht und wartet; die Sehnsucht der Über-Fülle blickt aus deinem lächelnden Augen-Himmel!
Und wahrlich, oh meine Seele! Wer sähe dein Lächeln und schmölze nicht vor Thränen? Die Engel selber schmelzen vor Thränen ob der Über-Güte deines Lächelns.
Deine Güte und Über-Güte ist es, die nicht klagen und weinen will: und doch sehnt sich, oh meine Seele, dein Lächeln nach Thränen und dein zitternder Mund nach Schluchzen.
„Ist alles Weinen nicht ein Klagen? Und alles Klagen nicht ein Anklagen?“ Also redest du zu dir selber, und darum willst du, oh meine Seele, lieber lächeln, als dein Leid ausschütten.
– in stürzende Thränen ausschütten all dein Leid über deine Fülle und über all die Drängniss des Weinstocks nach Winzer und Winzermesser!
Aber willst du nicht weinen, nicht ausweinen deine purpurne Schwermuth, so wirst du singen müssen, oh meine Seele! – Siehe, ich lächle selber, der ich dir solches vorhersage:
– singen, mit brausendem Gesange, bis alle Meere still werden, dass sie deiner Sehnsucht zuhorchen, –
– bis über stille sehnsüchtige Meere der Nachen schwebt, das güldene Wunder, um dessen Gold alle guten schlimmen wunderlichen Dinge hüpfen: -
– auch vieles grosse und kleine Gethier und Alles, was leichte wunderliche Füsse hat, dass es auf veilchenblauen Pfaden laufen kann, –
– hin zu dem güldenen Wunder, dem freiwilligen Nachen und zu seinem Herrn: das aber ist der Winzer, der mit diamantenem Winzermesser wartet, –
– dein grosser Löser, oh meine Seele, der Namenlose dem zukünftige Gesänge erst Namen finden! Und wahrlich, schon duftet dein Athem nach zukünftigen Gesängen, –
– schon glühst du und träumst, schon trinkst du durstig an allen tiefen klingenden Trost-Brunnen, schon ruht deine Schwermuth in der Seligkeit zukünftiger Gesänge! –
Oh meine Seele, nun gab ich dir Alles und auch mein Letztes, und alle meine Hände sind an dich leer geworden: – dass ich dich singen hiess, siehe, das war mein Letztes!
Dass ich dich singen hiess, sprich nun, sprich: wer von uns hat jetzt – zu danken? – Besser aber noch: singe mir, singe, oh meine Seele! Und mich lass danken! –

Also sprach Zarathustra.

KSA 4, 278-281

Anima mia,  io ti insegnai a dire ‘oggi’ come se fosse ‘un giorno’ e ‘un tempo’, e a danzare al di sopra di ogni ‘qui’ e ‘lì’ e ‘là’ la tua danza circolare.
Anima mia, io ti redensi da tutte le penombre; io spazzai via da te polvere, ragni e luce crepuscolare.
Anima mia, io ti nettai della piccola vergogna e della virtù meschina, e ti convinsi a star nuda davanti al sole.
Con la tempesta chiamata ‘spirito’, soffiai sui flutti del tuo mare; ne cacciai via tutte le nuvole, e strangolai perfino la strangolatrice chiamata ‘colpa’.
Anima mia, io ti conferii il diritto di dire no come la tempesta, e di dire sì come il cielo sereno dice di sì: immota come la luce, tu ristai, e vai ora attraverso tempeste di negazione.
Anima mia, io ti restituii la libertà su tutte le cose create e increate: e chi conosce, come tu la conosci, la voluttà di ciò che verrà?
Anima mia, io ti insegnai il disprezzo che non si annida come un tarlo, il grande disprezzo per amore, che più ama là dove più disprezza.
Anima mia, io ti insegnai a convincerti in modo tale, da convincere a te stessa le tue ragioni profonde: simile al sole che convince il mare ad elevarsi alla sua propria altezza.
Anima mia, io ti liberai da ogni obbedienza, riverenza e soggezione verso gli altri; io ti detti il nome ‘curva della necessità’ e ‘destino’.
Anima mia, io ti detti nomi nuovi e variopinti balocchi, io ti chiamai ‘destino’ e ‘contorno dei contorni’ e ‘cordone ombelicale del tempo’ e ‘campana azzurra’.
Anima mia, alla tua zolla detti da bere ogni saggezza, tutti i vini nuovi e anche tutti i forti vini della saggezza, vecchi di immemorabile vecchiezza.
Anima mia, io ti innaffiai con ogni sole e notte e silenzio e anelito: – e così tu crescesti per me come una vite.
Anima mia, ora sei traboccante di ricchezza e greve, una vite dalle gonfie mammelle e dai grappoli densi, bruni come l’oro: –
– densa e compressa di felicità, in attesa per la tua sovrabbondanza, e vergognosa perfino del tuo aspettare.
Anima mia, in nessun luogo vi è ora un’anima, che possa essere più amante, più comprensiva e più vasta! Dove il futuro e il passato potrebbero trovarsi più vicini, che in te?
Anima mia, tutto io ti ho dato, e le mie mani si sono vuotate per te: – e ora! Ora tu mi dici sorridendo, piena di melanconia: “Chi di noi deve ringraziare? –
– non deve, forse, colui che dà ringraziare colui che prende, perché ha preso? Donare, non è forse un bisogno? E prendere, non è forse – pietà?”. –
Anima mia, io intendo il sorriso della tua melanconia: la tua stessa sovrabbondante ricchezza ora tende le mani desiderose!
La tua pienezza guarda al di sopra di mari mugghianti, e cerca e attende; l’anelito della pienezza traboccante guarda dal cielo del tuo occhio sorridente!
E, in verità, anima mia! Chi potrebbe vedere il tuo sorriso, senza struggersi di lacrime? Gli angeli stessi si struggono di lacrime per la bontà traboccante del tuo sorriso.
La tua bontà, la tua traboccante bontà, non vuole lamentarsi né piangere: e tuttavia, anima mia, il tuo sorriso anela le lacrime, e la tua bocca tremante il singhiozzo.
“Non è ogni pianto un lamento? E ogni lamento un’accusa?”. Così parli a te stessa, e perciò, anima mia, preferisci sorridere che sfogare il tuo dolore
– sfogare in lacrime scroscianti tutto il tuo dolore per la tua pienezza e per il tormento della vite, che vuole il vignaiuolo e il falcetto del vignaiuolo!
Ma se non vuoi piangere, se non vuoi sfogare nelle lacrime la tua melanconia purpurea, allora dovrai cantare, anima mia! – Vedi, anche io sorrido, io che ti predìco:
– cantare un canto mugghiante, finché tutti i mari ammutoliscano, per ascoltare il tuo anelito, –
– finché, su muti mari anelanti, galleggi la navicella d’oro meravigliosa, attorno a cui saltellano guizzanti tutte le buone malvagie stravaganti cose: –
– e anche molti animali grandi e piccoli e tutto quanto vada su piedi leggeri e stravaganti, tanto da poter camminare su sentieri di azzurro violetto, –
– verso la meraviglia d’oro, la libera navicella e il suo signore: questi però è il vignaiuolo, che attende col suo falcetto di diamante, –
– il tuo grande liberatore, anima mia, il senza nome – – cui canti futuri troveranno un nome! E, in verità, il tuo respiro ha già il profumo di canti futuri, –
– già tu ardi e sogni, già bevi assetata a tutte le profonde sonore sorgenti di consolazione, già la tua mestizia riposa nella beatitudine di canti futuri! – –
Anima mia, tutto io ti ho dato e anche le mie ultime cose, e tutte le mie mani si sono vuotate per te: – ordinarti di cantare, ecco, questa fu la mia ultima cosa!
Ordinarti di cantare – e ora parla, di’: chi di noi due, adesso, ha da ringraziare? – O meglio ancora: canta per me, canta, anima mia! E lascia che io ringrazi! –

Così parlò Zarathustra.

OFN VI, 1, 271-273

7 | Exekias, kylix di Dioniso, 540-530 a.C., München, Staatliche Antikensammlungen.

5. I sette sigilli (Ovvero: il canto ‘Sì e amen’)

da Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Parte terza, 1884

In un sommario precedente all’edizione finale, Nietzsche aveva intitolato questo capitolo, l’ultimo della Parte terza, ‘Dioniso’ (Rs – Z II, 4, 130; Colli, Montinari 1988, 324), a creare un connubbio con il capitolo Del grande anelito, inizialmente intitolato ‘Arianna’ (testo 4), da cui è separato da La seconda canzone di danza (Das andere Tanz). Ne I sette sigilli emergono elementi che preannunciano la smeraldina apparizione di Dioniso nel Lamento di Arianna (gold-smaragdenes Entzücken sprang). L’ich – Dioniso, nella versione anteriore alla modifica del titolo – è in attesa della donna dalla quale desidererà avere figli, assimilata all’eternità amata, così come si ripete nel ritornello che appare alla fine di ognuna delle sette parti di cui è formato il capitolo. Eternità che ha la forma di ‘anello nuziale’ (Ring der Ringe): è l’anello dell’eterno ritorno (dem Ring der Wiederkunft).

Die sieben Siegel (Oder: das Ja- und Amen-Lied)
I sette sigilli (Ovvero: il canto ‘Sì e amen’)

1

Wenn ich ein Wahrsager bin und voll jenes wahrsagerischen Geistes, der auf hohem Joche zwischen zwei Meeren wandelt, –
zwischen Vergangenem und Zukünftigem als schwere Wolke wandelt, – schwülen Niederungen feind und Allem, was müde ist und nicht sterben, noch leben kann:
zum Blitze bereit im dunklen Busen und zum erlösenden Lichtstrahle, schwanger von Blitzen, die Ja! sagen, Ja! lachen, zu wahrsagerischen Blitzstrahlen: –
– selig aber ist der also Schwangere! Und wahrlich, lange muss als schweres Wetter am Berge hängen, wer einst das Licht der Zukunft zünden soll! –
oh wie sollte ich nicht nach der Ewigkeit brünstig sein und nach dem hochzeitlichen Ring der Ringe, – dem Ring der Wiederkunft!
Nie noch fand ich das Weib, von dem ich Kinder mochte, es sei denn dieses Weib, das ich liebe: denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!
Denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!

1

Se io sono un profeta, pieno di quello spirito profetico che incede sull’alto giogo posto in mezzo a due mari, –
come una nube greve incede in mezzo, tra passato e futuro, – ostile alle bassure afose, e a tutto quanto è stanco e non è capace di morire né di vivere:
già pronta al fulmine nel petto tenebroso e al raggio di luce liberatore, gravida di fulmini che dicono ‘sì!’, ridono ‘sì’, ai luminosi sprazzi profetici del fulmine: –
– beato colui che sopporta una tale gravidanza! E, in verità, colui che un giorno dovrà appiccare l’incendio della luce avvenire deve incombere a lungo sul monte, come una cupa burrasca! –
come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno!
Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché ti amo, Eternità!
Perché ti amo, Eternità!

2

Wenn mein Zorn je Gräber brach, Grenzsteine rückte und alte Tafeln zerbrochen in steile Tiefen rollte:
Wenn mein Hohn je vermoderte Worte zerblies, und ich wie ein Besen kam den Kreuzspinnen und als Fegewind alten verdumpften Grabkammern:
Wenn ich je frohlockend sass, wo alte Götter begraben liegen, weltsegnend, weltliebend neben den Denkmalen alter Welt-Verleumder: –
– denn selbst Kirchen und Gottes-Gräber liebe ich, wenn der Himmel erst reinen Auges durch ihre zerbrochenen Decken blickt; gern sitze ich gleich Gras und rothem Mohne auf zerbrochnen Kirchen –
Oh wie sollte ich nicht nach der Ewigkeit brünstig sein und nach dem hochzeitlichen Ring der Ringe, – dem Ring der Wiederkunft?
Nie noch fand ich das Weib, von dem ich Kinder mochte, es sei denn dieses Weib, das ich liebe: denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!
Denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!

2

Se la mia collera mai scoperchiò sepolcri, rimosse pietre di confine e fece franare antiche tavole infrante in baratri scoscesi:
Se mai il mio dileggio spazzò via parole ammuffite, e io venni come una scopa per ragni crociati e come una ventata che sgombrava antichi avelli intanfiti:
Se mai sedetti giubilante là dove antichi dèi giacciono sepolti, benedicendo e amando il mondo, lì accanto ai monumenti di antichi calunniatori del mondo: –
– giacché io amo perfino le chiese e i sepolcri degli dèi, ma quando, con l’occhio suo puro, il cielo penetra dai loro soffitti in rovina; volentieri sto a sedere, come erba e rosso papavero, su chiese in rovina –
Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno?
Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché ti amo, Eternità!
Perché ti amo, Eternità!

3

Wenn je ein Hauch zu mir kam vom schöpferischen Hauche und von jener himmlischen Noth, die noch Zufälle zwingt, Sternen-Reigen zu tanzen:
Wenn ich je mit dem Lachen des schöpferischen Blitzes lachte, dem der lange Donner der That grollend, aber gehorsam nachfolgt:
Wenn ich je am Göttertisch der Erde mit Göttern Würfel spielte, dass die Erde bebte und brach und Feuerflüsse heraufschnob: –
– denn ein Göttertisch ist die Erde, und zitternd von schöpferischen neuen Worten und Götter-Würfen: –
Oh wie sollte ich nicht nach der Ewigkeit brünstig sein und nach dem hochzeitlichen Ring der Ringe, – dem Ring der Wiederkunft?
Nie noch fand ich das Weib, von dem ich Kinder mochte, es sei denn dieses Weib, das ich liebe: denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!
Denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!

3

Se mai a me giunse un soffio del soffio creatore e di quella celeste necessità, che costringe anche le casualità a danzare in un girotondo di stelle:
Se mai io risi col riso del fulmine creatore, cui il cupo lungo tuono dell’azione segue, collerico ma obbediente:
Se mai mi assisi al tavolo divino della terra, per giocare ai dadi con gli dèi, sì che la terra sussultò e si spaccò e sbuffò fiumi di fuoco: –
– perché la terra è un tavolo divino, fremente per nuove parole creatrici e per divini lanci di dadi: –
Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno?
Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché ti amo, Eternità!
Perché ti amo, Eternità!

4

Wenn ich je vollen Zuges trank aus jenem schäumenden Würz- und Mischkruge, in dem alle Dinge gut gemischt sind:
Wenn meine Hand je Fernstes zum Nächsten goss und Feuer zu Geist und Lust zu Leid und Schlimmstes zum Gütigsten:
Wenn ich selber ein Korn bin von jenem erlösenden Salze, welches macht, dass alle Dinge im Mischkruge gut sich mischen: –
– denn es giebt ein Salz, das Gutes mit Bösem bindet; und auch das Böseste ist zum Würzen würdig und zum letzten Überschäumen: –
Oh wie sollte ich nicht nach der Ewigkeit brünstig sein und nach dem hochzeitlichen Ring der Ringe, – dem Ring der Wiederkunft?
Nie noch fand ich das Weib, von dem ich Kinder mochte, es sei denn dieses Weib, das ich liebe: denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!
Denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!

4

Se mai io bevvi a lunghi sorsi dall’odoroso boccale spumeggiante, in cui tutte le cose buone si trovano in buona mescolanza:
Se mai la mia mano annaffiò di cose remote le più vicine, di fuoco lo spirito, di piacere il dolore, di estrema cattiveria la bontà estrema:
Se io stesso sono un granello di quel sale  liberatore, per il quale tutte le cose si trovano in buona mescolanza in quel boccale: –
– perché vi è un sale che lega il buono col cattivo; e anche la più malvagia delle cose è degna di essere adoperata come aroma, e degna dell’ultima effusione: –
Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno?
Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché ti amo, Eternità!
Perché ti amo, Eternità!

5

Wenn ich dem Meere hold bin und Allem, was Meeres-Art ist, und am holdesten noch, wenn es mir zornig widerspricht:
Wenn jene suchende Lust in mir ist, die nach Unentdecktem die Segel treibt, wenn eine Seefahrer-Lust in meiner Lust ist:
Wenn je mein Frohlocken rief: „die Küste schwand, – nun fiel mir die letzte Kette ab –
– das Grenzenlose braust um mich, weit hinaus glänzt mir Raum und Zeit, wohlan! wohlauf! altes Herz!“ –
Oh wie sollte ich nicht nach der Ewigkeit brünstig sein und nach dem hochzeitlichen Ring der Ringe, – dem Ring der Wiederkunft?
Nie noch fand ich das Weib, von dem ich Kinder mochte, es sei denn dieses Weib, das ich liebe: denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!
Denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!

5

Se io sono amico del mare e di tutto quanto è di specie marina, e soprattutto amico, quando mi oppone la sua collera:
Se in me è quella voglia di cercare, che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante:
Se mai gridai giubilante: “la costa scomparve, – ecco anche la mia ultima catena è caduta –
– il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio! vecchio cuore!” –
Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno?
Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché ti amo, Eternità!
Perché ti amo, Eternità!

6

Wenn meine Tugend eines Tänzers Tugend ist, und ich oft mit beiden Füssen in gold-smaragdenes Entzücken sprang:
Wenn meine Bosheit eine lachende Bosheit ist, heimisch unter Rosenhängen und Lilien-Hecken:
– im Lachen nämlich ist alles Böse bei einander, aber heilig und losgesprochen durch seine eigne Seligkeit: –
Und wenn Das mein A und O ist, dass alles Schwere leicht, aller Leib Tänzer, aller Geist Vogel werde: und wahrlich, Das ist mein A und O! –
Oh wie sollte ich nicht nach der Ewigkeit brünstig sein und nach dem hochzeitlichen Ring der Ringe, – dem Ring der Wiederkunft!
Nie noch fand ich das Weib, von dem ich Kinder mochte, es sei denn dieses Weib, das ich liebe: denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!
Denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!

6

Se la mia virtù è la virtù di un danzatore, e spesso io balzai con ambedue i piedi in un’estasi d’oro e smeraldo:
Se la mia cattiveria è una cattiveria ridente, che soggiorna tra pendii di rose e cespugli di gigli:
– perché nella risata si trova adunata tutta la cattiveria, ma santificata e assolta dalla sua stessa beatitudine: –
E se il mio Alfa e Omega è che tutte le cose grevi divengano lievi, tutti i corpi danzanti, tutti gli spiriti uccello: e davvero questo è il mio Alfa e Omega! –
Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno!
Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché ti amo, Eternità!
Perché ti amo, Eternità!

7

Wenn ich je stille Himmel über mir ausspannte und mit eignen Flügeln in eigne Himmel flog:
Wenn ich spielend in tiefen Licht-Fernen schwamm, und meiner Freiheit Vogel-Weisheit kam: –
– so aber spricht Vogel-Weisheit: „Siehe, es giebt kein Oben, kein Unten! Wirf dich umher, hinaus, zurück, du Leichter! Singe! sprich nicht mehr!
– „sind alle Worte nicht für die Schweren gemacht? Lügen dem Leichten nicht alle Worte! Singe! sprich nicht mehr!“ –
Oh wie sollte ich nicht nach der Ewigkeit brünstig sein und nach dem hochzeitlichen Ring der Ringe, – dem Ring der Wiederkunft?
Nie noch fand ich das Weib, von dem ich Kinder mochte, es sei denn dieses Weib, das ich liebe: denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!
Denn ich liebe dich, oh Ewigkeit!

KSA 4, 287-291

7

Se mai tesi al di sopra di me cieli immoti, e volai con le mie ali nei miei cieli:
Se nuotai senza fatica in profonde lontananze di luce, e l’uccello ‘saggezza’ della mia libertà giunse: –
– ma l’uccello ‘saggezza’ parla così: “Ecco, non c’è sopra né sotto! Slanciati e vola: in giro, in avanti, all’indietro, tu che sei lieve! Canta! non parlare più!
– non sono le parole, tutte, fatte per i grevi? Non mentono tutte le parole per chi è lieve! Canta! non parlare più!”. –
Come non dovrei anelare all’eternità e al nuziale anello degli anelli, – l’anello del ritorno?
Ancora non trovai donna da farmi desiderare figli, se non questa donna, che io amo: perché ti amo, Eternità!
Perché ti amo, Eternità!

OFN VI, 1, 279-283

6. Morale e fisiologia

dai Frammenti postumi, giugno-luglio 1885, 37 [4]

La repentina apparizione di Arianna in questo passaggio dell’estate 1885, in dialogo con il narratore – presumibilmente lo stesso Nietzsche, che si trova per la prima volta sull’isola di Nasso ed è interrotto e accusato di parlare il “tedesco dei porci” –, potrebbe rispondere, come sottolinea Adrian Del Caro, alla necessità di incarnare in questa figura un’autocritica rispetto gli scritti precedenti, in cui Nietzsche non aveva ancora preso le distanze da Wagner: “Arianna è colei che muove questa critica perché, essendo indietro di due millenni nella sua formazione filosofica, resta dionisiaca. Sta giocherellando impazientemente con il filo a segnalare che Nietzsche stesso ora deve rivolgersi al labirinto” (Del Caro 1988, 148, tr. it. delle autrici). Arianna si esprime in un tono grottesco, che corrisponde alla tendenza di Nietzsche a caricaturizzare e far indossare maschere tanto ai personaggi che animano la sua filosofia dionisiaca (come per esempio Richard Wagner) quanto a se stesso.

37 [4] Moral und Physiologie
37 [4] Morale e fisiologia

Wir halten es für eine Voreiligkeit, daß gerade das menschliche Bewußtsein so lange als die höchste Stufe der organischen Entwickelung und als das Erstaunlichste aller irdischen Dinge, ja gleichsam als deren Blüthe und „Ziel“ angesehen wurde. Das Erstaunlichere ist vielmehr der Leib: man kann es nicht zu Ende bewundern, wie der menschliche Leib möglich geworden ist: wie eine solche ungeheure Vereinigung von lebenden Wesen, jedes abhängig und unterthänig und doch in gewissem Sinne wiederum befehlend und aus eignem Willen handelnd, als Ganzes leben, wachsen und eine Zeit lang bestehen kann –: und dieß geschieht ersichtlich nicht durch das Bewußtsein! Zu diesem „Wunder der Wunder“ ist das Bewußtsein eben nur ein „Werkzeug“ und nicht mehr – im gleichen Verstande, in dem der Magen ein Werkzeug dazu ist. Die prachtvolle Zusammenbindung des vielfachsten Lebens, die Anordnung und Einordnung der höheren und niederen Thätigkeiten, der tausendfältige Gehorsam welcher kein blinder, noch weniger ein mechanischer sondern ein wählender, kluger, rücksichtsvoller, selbst widerstrebender Gehorsam ist – dieses ganze Phänomen „Leib“ ist nach intellectuellem Maaße gemessen unserem Bewußtsein, unserem „Geist,“ unserem bewußten Denken, Fühlen, Wollen so überlegen, wie Algebra dem Einmaleins. Der „Nerven- und Gehirnapparat“ ist nicht, um überhaupt Denken, Fühlen, Wollen hervorzubringen, so fein und „göttlich“ construirt: vielmehr dünkt mich daß gerade dazu, zum Denken, Fühlen, Wollen, an sich noch gar kein „Apparat“ nöthig ist, sondern daß dies, eben dies – „die Sache selbst“ ist. Vielmehr wird eine solche ungeheure Synthesis von lebendigen Wesen und Intellekten, welche „Mensch“ heißt, erst leben können, wenn jenes feine Verbindungs- und Vermittlungs-System und dadurch eine blitzartig schnelle Verständigung aller dieser höheren und niederen Wesen geschaffen ist – und zwar durch lauter lebendige Vermittler: dies aber ist ein moralisches, und nicht ein mechanistisches Problem! Von der „Einheit,“ von der „Seele,“ von der „Person“ zu fabeln, haben wir uns heute untersagt: mit solchen Hypothesen erschwert man sich das Problem, so viel ist klar. Und auch jene kleinsten lebendigen Wesen, welche unseren Leib constituiren (richtiger: von deren Zusammenwirken das, was wir „Leib“ nennen, das beste Gleichniß ist –), gelten uns nicht als Seelen-Atome, vielmehr als etwas Wachsendes, Kämpfendes, Sich-Vermehrendes und Wieder-Absterbendes: so daß ihre Zahl unbeständig wechselt, und unser Leben wie jegliches Leben zugleich ein fortwährendes Sterben ist. Es giebt also im Menschen so viele „Bewußtseins“ als es Wesen giebt, in jedem Augenblicke seines Daseins, die seinen Leib constituiren. Das Auszeichnende an dem gewöhnlich als einzig gedachten „Bewußtsein“, am Intellecte, ist gerade, daß er vor dem unzählig Vielfachen in den Erlebnissen dieser vielen Bewußtseins geschützt und abgeschlossen bleibt und, als ein Bewußtsein höheren Ranges, als eine regierende Vielheit und Aristokratie, nur eine Auswahl von Erlebnissen vorgelegt bekommt, dazu noch lauter vereinfachte, übersichtlich und faßlich gemachte, also gefälschte Erlebnisse, – damit er seinerseits in diesem Vereinfachen und Übersichtlichmachen, also Fälschen fortfahre und das vorbereite, was man gemeinhin „einen Willen“ nennt, – jeder solche Willensakt setzt gleichsam die Ernennung eines Diktators voraus.

Riteniamo avventato che si sia così a lungo considerata proprio la coscienza umana come il grado più alto dello sviluppo organico e come la più meravigliosa di tutte le cose terrene, anzi quasi come il loro fiore e il loro fine. Ciò che è più meraviglioso è invece il corpo: non si finisce mai di am­mirare, considerando come il corpo umano sia dive­nuto possibile; come una tale enorme unione di esseri viventi, ciascuno dipendente e sottomesso, e tuttavia in certo senso a sua volta imperante e agente con vo­lontà propria, possa vivere, crescere e sussistere per qualche tempo come un tutto; e ciò avviene chiara­mente non grazie alla coscienza! Per questo “miracolo dei miracoli” la coscienza è appunto solo uno “stru­mento” e niente più – nello stesso senso in cui lo sto­maco è un altro strumento. Il magnifico collegamento della vita più molteplice, l’ordine e il coordinamento delle attività superiori e inferiori, le mille forme di obbedienza, che non è un’obbedienza cieca, e ancor meno meccanica, ma un’obbedienza selettiva, intel­ligente, piena di riguardo e finanche riluttante – tutto questo fenomeno “corpo” è, misurato dal punto di vista intellettuale, tanto superiore alla nostra coscienza, al nostro “spirito”, al nostro consapevole pensare, sentire e volere, quanto l’algebra alla tavola pitago­rica. L’“apparato nervoso e cerebrale” non è, per produrre in genere il pensiero, il sentire e il volere, così finemente e “divinamente” costruito; mi sem­bra anzi che proprio per questo, per il pensare, sentire e volere, non ci voglia affatto un “apparato”, ma che tutto ciò, ed esso soltanto, sia “la cosa stessa”. Al con­trario, una tale enorme sintesi di esseri e intelletti viventi, che si chiama “uomo”, potrà vivere solo quando sarà creato quel sottile sistema di collegamento e di comunicazione, e in tal modo un’intesa rapida come il lampo fra tutti questi esseri superiori e inferio­ri – e precisamente a opera di soli mediatori viventi: ma questo è un problema morale e non un problema di meccanica! Di favoleggiare dell’“unità”, del­l’“anima”, della “persona”, ce lo siamo oggi vietato: tali ipotesi servono solo a rendere il problema più dif­ficile, questo è chiaro. E anche quei piccolissimi esseri viventi che costituiscono il nostro corpo (o meglio: del cui cooperare ciò che chiamiamo “corpo” è la migliore immagine), non sono per noi atomi spiri­tuali, ma qualcosa che cresce, lotta, si accresce e a sua volta muore: sicché il loro numero muta in modo va­riabile, e la nostra vita è, come qualunque vita, in pari tempo un continuo morire. Ci sono dunque nel­l’uomo tante “coscienze” quanti sono gli esseri – in ogni istante della sua esistenza – che costituiscono il suo corpo. Ciò che distingue quella che è abitualmente pensata come l’unica “coscienza”, l’intelletto, è pro­prio che essa rimane protetta e staccata dall’infinita varietà delle vicende di queste molte coscienze, e, co­me coscienza di rango superiore, come pluralità e ari­stocrazia dominante, ha a che fare solo con una scelta di esperienze, per di più solo esperienze semplificate, rese perspicue e intelligibili, e dunque falsate, – per­ché l’intelletto continui da parte sua in questo sem­plificare e rendere perspicuo, e dunque falsare, prepa­rando ciò che si chiama comunemente “una volontà”. Ogni siffatto atto di volontà presuppone per così dire la nomina di un dittatore.

Das aber, was unserem Intellecte diese Auswahl vorlegt, was schon die Erlebnisse vorher vereinfacht, angeähnlicht, ausgelegt hat, ist jedenfalls nicht eben dieser Intellect: ebensowenig, wie er das ist, was den Willen ausführt, was eine blasse, dünne und äußerst ungenaue Werth- und Kraft-Vorstellung aufnimmt und in lebendige Kraft und genaue Werthe-Maaße übersetzt. Und gerade dieselbe Art von Operation, welche hier sich abspielt, muß sich auf allen tieferen Stufen, im Verhalten aller dieser höheren und niederen Wesen zueinander, fortwährend abspielen: dieses selbe Auswählen und Vorlegen von Erlebnissen, dieses Abstrahiren und Zusammendenken, dieses Wollen, diese Zurückübersetzung des immer sehr unbestimmten Wollens in bestimmte Thätigkeit. Am Leitfaden des Leibes wie gesagt, lernen wir daß unser Leben durch ein Zusammenspiel vieler sehr ungleichwerthigen Intelligenzen und also nur durch ein beständiges tausendfältiges Gehorchen und Befehlen – moralisch geredet: durch die unausgesetzte Übung vieler Tugenden – möglich ist. Und wie dürfte man aufhören, moralisch zu reden! – – Dergestalt schwätzend gab ich mich zügellos meinem Lehrtriebe hin, denn ich war glückselig, Jemanden zu haben, der es aushielt, mir zuzuhören.

Ma ciò che presenta questa scelta al nostro intelletto, ciò che ha già in precedenza semplificato, assimilato e interpretato le esperienze, in ogni caso non è appunto questo intelletto: non più di quanto lo sia ciò che esegue la volontà, ciò che accoglie una pallida, esigua ed estremamente imprecisa rappresentazione di valore e di forza, e la traduce in forza viva e in precisi criteri di valore. E proprio la stes­sa specie di operazione che si svolge qui si deve svolgere in tutti i gradi inferiori, continuamente, nel reciproco comportamento di tutti questi esseri superiori e inferiori: questo stesso scegliere e presentare le esperienze, questo astrarre e pensare insieme, questo volere, questo ritradurre il sempre indeterminatissimo volere in at­tività determinata. Seguendo il filo conduttore del cor­po, come si è detto, apprendiamo che la nostra vita è possibile grazie al concerto di molte intelligenze di valore assai disuguale, e quindi solo grazie a un costante e svariatissimo comandare e obbedire – o per parlare in termini morali: grazie all’ininterrotto eser­cizio di molte virtù. E come si potrebbe mai cessare di parlare moralmente! – – Così chiacchierando, mi ab­bandonai sfrenatamente al mio istinto pedagogico, perché ero felice di avere qualcuno che riuscisse ad ascoltarmi.

Doch gerade an dieser Stelle hielt Ariadne es nicht mehr aus – die Geschichte begab sich nämlich bei meinem ersten Aufenthalte auf Naxos –: „aber mein Herr, sprach sie, Sie reden Schweinedeutsch!“ – „Deutsch, antwortete ich wohlgemuth, einfach deutsch! Lassen Sie das Schwein weg, meine Göttin! Sie unterschätzen die Schwierigkeit, feine Dinge deutsch zu sagen!“ – „Feine Dinge! schrie Ariadne entsetzt auf: aber das war nur Positivismus! Rüssel-Philosophie! Begriffs-Mischmasch und -Mist aus hundert Philosophien! Wo will das noch hinaus!“ – und dabei spielte sie ungeduldig mit dem berühmten Faden, der einstmals ihren Theseus durch das Labyrinth leitete. – Also kam es zu Tage, daß Ariadne in ihrer philosophischen Ausbildung um zwei Jahrtausende zurück war.

KSA 11, 576-579

Ma proprio a questo punto Arianna non ne poté più – la storia si svolge infatti al tempo del mio primo soggiorno a Nasso –: “Ma Signore, disse Arianna, Lei parla il tedesco dei porci!”. – “Il tedesco, risposi io gaiamente, semplicemente il tedesco! Lasci stare i porci, mia dea! Lei sottovaluta la difficoltà di dire cose sottili in tedesco!”. – “Cose sottili! escla­mò Arianna strabiliata: ma quello era solo positivismo! Filosofia che grugnisce! Poltiglia e sterco di concetti arraffati da cento filosofie! Dove può mai portare ciò?”. – E giocherellava intanto impazientemente con il famoso filo che guidò un giorno il suo Teseo attra­verso il Labirinto. Dunque venne in luce che, nella sua formazione filosofica, Arianna era indietro di due millenni.

OFN VII, 3, 256-259

7. Che cos’è l’aristocratico

da Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, Capitolo nono: Che cos’è l’aristocratico, § 295, 1886

La prima elaborazione di Al di là del bene e del male risale all’epoca di pubblicazione de La Gaia Scienza. Inizialmente pensato come la preparazione all’opera, mai compiuta, Wille zur Macht, il manoscritto fu terminato nell’inverno 1885-1886 e vide la stampa alla fine del mese di agosto 1886 per l’editore C.G. Naumann (Leipzig), a spese dello stesso Nietzsche (Colli, Montinari 1988, 345-346). Se, come sottolinea Colli, è a partire dal 1885 che la “filosofia di Dioniso” dà avvio a un nuovo orientamento del pensiero nietzschiano (G. Colli in KSA 11, 722), Dioniso appare nell’aforisma §295 come dio filosofo. Entrano in scena un narratore, Dioniso e Arianna: il narratore rievoca un dialogo passato con Dioniso, di cui si dichiara “ultimo discepolo e iniziato” – nel ‘Prologo’ di EH sarà lo stesso Nietzsche a dirsi discepolo del dio filosofo (testo 12) –, che avviene alla presenza di Arianna. E a lei Dioniso allude quando confessa la sua sensibilità per i mortali – “in certi momenti io amo l’uomo”. È questa la prima, esplicita, apparizione dell’amante di Dioniso nelle opere pubblicate di Nietzsche. Spicca, inoltre, quanto sembra essere un riferimento all’uso di occultare i nomi di Arianna e Dioniso: “Ma che dico mai, amici? Di chi vi sto parlando? Ho dimenticato me stesso al punto da non rammentarvi neppure il suo nome?”. Se infatti Nietzsche cita ampiamente Dioniso fin dalla sua prima opera, La nascita della tragedia, diversamente accade per la coppia divina Arianna e Dioniso, che fino a questo momento era rimasta nascosta e che andrà a sostituire le coppie precedenti (Apollo e Dioniso; Socrate e Dioniso). Le figure si presentano insieme all’autore in una messa in dramma del mito, frequente nei diversi scritti di Nietzsche, volta a dar accesso al mito stesso. Un mito così attualizzato, in cui l’autore interviene e si mette a conversare con i suoi personaggi.

§ 295
§ 295

Das Genie des Herzens, wie es jener grosse Verborgene hat, der Versucher-Gott und geborene Rattenfänger der Gewissen, dessen Stimme bis in die Unterwelt jeder Seele hinabzusteigen weiss, welcher nicht ein Wort sagt, nicht einen Blick blickt, in dem nicht eine Rücksicht und Falte der Lockung läge, zu dessen Meisterschaft es gehört, dass er zu scheinen versteht – und nicht Das, was er ist, sondern was Denen, die ihm folgen, ein Zwang mehr ist, um sich immer näher an ihn zu drängen, um ihm immer innerlicher und gründlicher zu folgen: – das Genie des Herzens, das alles Laute und Selbstgefällige verstummen macht und horchen lehrt, das die rauhen Seelen glättet und ihnen ein neues Verlangen zu kosten giebt, – still zu liegen wie ein Spiegel, dass sich der tiefe Himmel auf ihnen spiegele –; das Genie des Herzens, das die tölpische und überrasche Hand zögern und zierlicher greifen lehrt; das den verborgenen und vergessenen Schatz, den Tropfen Güte und süsser Geistigkeit unter trübem dickem Eise erräth und eine Wünschelruthe für jedes Korn Goldes ist, welches lange im Kerker vielen Schlamms und Sandes begraben lag; das Genie des Herzens, von dessen Berührung Jeder reicher fortgeht, nicht begnadet und überrascht, nicht wie von fremdem Gute beglückt und bedrückt, sondern reicher an sich selber, sich neuer als zuvor, aufgebrochen, von einem Thauwinde angeweht und ausgehorcht, unsicherer vielleicht, zärtlicher zerbrechlicher zerbrochener, aber voll Hoffnungen, die noch keinen Namen haben, voll neuen Willens und Strömens, voll neuen Unwillens und Zurückströmens….. aber was thue ich, meine Freunde? Von wem rede ich zu euch?

Vergass ich mich soweit, dass ich euch nicht einmal seinen Namen nannte? es sei denn, dass ihr nicht schon von selbst erriethet, wer dieser fragwürdige Geist und Gott ist, der in solcher Weise gelobt sein will. Wie es nämlich einem Jeden ergeht, der von Kindesbeinen an immer unterwegs und in der Fremde war, so sind auch mir manche seltsame und nicht ungefährliche Geister über den Weg gelaufen, vor Allem aber der, von dem ich eben sprach, und dieser immer wieder, kein Geringerer nämlich, als der Gott Dionysos, jener grosse Zweideutige und Versucher Gott, dem ich einstmals, wie ihr wisst, in aller Heimlichkeit und Ehrfurcht meine Erstlinge dargebracht habe – als der Letzte, wie mir scheint, der ihm ein Opfer dargebracht hat: denn ich fand Keinen, der es verstanden hätte, was ich damals that. Inzwischen lernte ich Vieles, Allzuvieles über die Philosophie dieses Gottes hinzu, und, wie gesagt, von Mund zu Mund, – ich, der letzte Jünger und Eingeweihte des Gottes Dionysos: und ich dürfte wohl endlich einmal damit anfangen, euch, meinen Freunden, ein Wenig, so weit es mir erlaubt ist, von dieser Philosophie zu kosten zu geben? Mit halber Stimme, wie billig: denn es handelt sich dabei um mancherlei Heimliches, Neues, Fremdes, Wunderliches, Unheimliches.

Schon dass Dionysos ein Philosoph ist, und dass also auch Götter philosophiren, scheint mir eine Neuigkeit, welche nicht unverfänglich ist und die vielleicht gerade unter Philosophen Misstrauen erregen möchte, – unter euch, meine Freunde, hat sie schon weniger gegen sich, es sei denn, dass sie zu spät und nicht zur rechten Stunde kommt: denn ihr glaubt heute ungern, wie man mir verrathen hat, an Gott und Götter. Vielleicht auch, dass ich in der Freimüthigkeit meiner Erzählung weiter gehn muss, als den strengen Gewohnheiten eurer Ohren immer liebsam ist? Gewisslich gieng der genannte Gott bei dergleichen Zwiegesprächen weiter, sehr viel weiter, und war immer um viele Schritt mir voraus.... Ja ich würde, falls es erlaubt wäre, ihm nach Menschenbrauch schöne feierliche Prunk- und Tugendnamen beizulegen, viel Rühmens von seinem Forscher- und Entdecker-Muthe, von seiner gewagten Redlichkeit, Wahrhaftigkeit und Liebe zur Weisheit zu machen haben.

Aber mit all diesem ehrwürdigen Plunder und Prunk weiss ein solcher Gott nichts anzufangen. „Behalte dies, würde er sagen, für dich und deines Gleichen und wer sonst es nöthig hat! Ich – habe keinen Grund, meine Blösse zu dekken!“ – Man erräth: es fehlt dieser Art von Gottheit und Philosophen vielleicht an Scham? – So sagte er einmal: „unter Umständen liebe ich den Menschen – und dabei spielte er auf Ariadne an, die zugegen war –: der Mensch ist mir ein angenehmes tapferes erfinderisches Thier, das auf Erden nicht seines Gleichen hat, es findet sich in allen Labyrinthen noch zurecht. Ich bin ihm gut: ich denke oft darüber nach, wie ich ihn noch vorwärts bringe und ihn stärker, böser und tiefer mache, als er ist“. – „Stärker, böser und tiefer?“ fragte ich erschreckt. „Ja, sagte er noch Ein Mal, stärker, böser und tiefer; auch schöner“ – und dazu lächelte der Versucher-Gott mit seinem halkyonischen Lächeln, wie als ob er eben eine bezaubernde Artigkeit gesagt habe. Man sieht hier zugleich: es fehlt dieser Gottheit nicht nur an Scham –; und es giebt überhaupt gute Gründe dafür, zu muthmaassen, dass in einigen Stücken die Götter insgesammt bei uns Menschen in die Schule gehn könnten. Wir Menschen sind – menschlicher...

KSA 5, 237-239

Il genio del cuore, quale lo possiede quel grande occulto, il dio-tentatore e l’innato acchiappatore di topi per coloro che sono sicuri, colui la cui voce sa scendere fin nell’oltretomba di ogni anima, che non pronuncia parola né rivolge sguardo in cui non sia riposta un’attenzione e un’increspatura di adescamento, alla cui maestria si compete il saper apparire – e non così come egli è, ma come una costrizione di più in coloro che sono al suo seguito, per stringersi sempre più vicini a lui, per seguirlo sempre più intimamente e radicalmente – il genio del cuore che fa ammutolire ogni voce troppo sonora e ogni compiacimento di sé e insegna a porsi in ascolto, che leviga le anime scabre e infonde loro un nuovo desiderio da assaporare – quello di starsene taciturne come uno specchio affinché in esse si rispecchi il profondo cielo; il genio del cuore, che insegna alla mano maldestra e precipitosa l’indugio e una maggior delicatezza nell’afferrare: che sa divinare il tesoro occulto e obliato, la goccia di bontà e di dolce spiritualità sotto un ghiaccio torbido e spesso, ed è una bacchetta magica per ogni granello d’oro che a lungo sia restato sepolto nel carcere di molto fango e sabbia; il genio del cuore, dal cui tocco ognuno si diparte più ricco, non graziato e stupito, non beneficato e oppresso come da un bene estraneo, sibbene più ricco di sé, più nuovo che per l’innanzi, dissigillato, alitato e spiato da un vento australe, forse più insicuro, più delicato, più fragile, più infranto, ma colmo di speranze che non hanno ancora un nome, colmo di un volere e di un fluire nuovo, colmo di una nuova riluttanza e di un nuovo riflusso... ma che dico mai, amici? Di chi vi sto parlando? Ho dimenticato me stesso al punto da non rammentarvi neppure il suo nome?

A meno che non l’abbiate già indovinato da voi, chi è questo spirito e questo dio problematico, che vuole essere lodato a questo modo. Come accade infatti a chiunque, fin dalla più tenera età, sia stato sempre in viaggio e in contrade straniere, anche a me è capitato d’incontrare, strada facendo, parecchi spiriti singolari e tutt’altro che innocui, ma soprattutto quello di cui appunto parlavo, costui sono tornato sempre a incontrarlo, nientemeno, cioè, che il dio Dionysos, quel grande dio ambiguo e tentatore, a cui un tempo, come sapete, ho offerto in tutta segretezza e venerazione le mie primizie – l’ultimo, mi sembra, ad avergli offerto un sacrificio, poiché non ho trovato nessuno che avesse compreso quel che io feci allora. Nel frattempo imparai per giunta molte cose, troppe cose sulla filosofia di questo dio, e, come si dice, di bocca in bocca – io, l’ultimo discepolo e iniziato del dio Dionysos: e non mi sarà ben concesso, infine, cominciare una buona volta a far gustare a voi, amici, un poco, quel tanto che m’è permesso, di questa filosofia? A mezza voce, come è giusto: giacché si tratta di molte cose misteriose, nuove, prodigiose, inquietanti.

Già il fatto che Dionysos è un filosofo e che quindi anche gli dèi filosofeggino mi pare una novità tutt’altro che scevra d’insidie e che forse potrebbe suscitare della diffidenza proprio in mezzo a filosofi – in mezzo a voi, amici, ha già contro di sé una minor diffidenza, se non fosse che tale novità vien troppo tardi e non al momento giusto: giacché voi oggi non amate credere, come mi è stato rivelato, in dio e negli dèi. Non potrà darsi, forse, che nella franchezza del mio discorso io debba spingermi più oltre di quanto non sia ognor gradito alle severe consuetudini delle vostre orecchie? Durante i colloqui a due di questo genere non v’è dubbio che il menzionato iddio andava oltre, notevolmente oltre, e mi precedeva sempre di molti passi... Anzi, se fosse lecito, gli attribuirei, secondo il costume umano, molti nomi belli e solenni, di magnificenza e di virtù, e molto avrei da glorificare il suo coraggio d’indagatore e di scopritore, la sua ardimentosa lealtà, veracità e il suo amore per la sapienza.

Ma di tutte queste venerabili, pompose anticaglie un tale iddio non sa che farsene. “Tientele per te – mi direbbe – e per i tuoi simili e per chiunque altro ne abbia bisogno! Io – non ho alcun motivo per coprire le mie nudità!”. – Lo si indovina: manca forse di pudore questa specie di divinità e di filosofo? – Così disse una volta: “In certi momenti io amo l’uomo,” – e con ciò alludeva ad Arianna che era presente – “l’uomo è per me un animale gradevole, coraggioso, ingegnoso, che non ha pari sulla terra, in ogni labirinto si sente ancora a suo agio. Gli sono benigno: penso spesso a come portarlo ancora innanzi e renderlo più forte, più malvagio e più profondo di quanto già sia”. – “Più forte, più malvagio e più profondo?” chiesi spaventato. “Sì – disse lui ancora una volta – più forte, più malvagio e più profondo, e anche più bello” – e sorrise il dio tentatore del suo sorriso alcionio, come se avesse appunto detto una incantevole gentilezza. È ora chiaro al tempo stesso che questa divinità manca non soltanto di pudore –; ed esistono in genere buone ragioni per supporre che in alcune cose gli dèi tutti potrebbero venire a prender lezione da noi uomini. Noi uomini siamo – più umani...

OFN VI, 2, 203-205

8. Il libro perfetto. Dramma satiresco

dai Frammenti postumi, autunno 1887, 9 [115]

Una scena di conversazione tra Arianna, Dioniso e Teseo. Arianna critica la virtù di Teseo e il suo essere eroico: è quella l’essenza che deve perire e che il dio, Dioniso, supera. E far perire l’eroe è l’estremo amore di Arianna, ormai stanca della pietà, dal cui accumulo deriva quella compassione che, “ostile alla vita”, “conserva ciò che è maturo per il tramonto” (AD §7, OFN VI, 3, 172-173). Allo stesso modo è da superare la gelosia – tema trattato anche nel capitolo Dei sublimi di Zarathustra: “La sua conoscenza non ha ancora imparato a sorridere e a essere senza gelosia; la sua scrosciante passione non si è ancora acquietata nella bellezza” (testo 3). Dioniso identifica Arianna come labirinto (“du bist ein Labyrinth”), mentre nella Klage der Ariadne sarà lo stesso Dioniso ad essere labirinto per Arianna: “Io sono il tuo labirinto” (“ich bin dein Labyrinth”; sul labirinto v. la nota al testo 2). Erich Podach criticò le modalità in cui questi passaggi furono predisposti da Peter Gast nel XIV volume dell’opera postuma di Nietzsche edita nel 1904; l’amico-editore eccitato dalla scoperta delle identificazioni dei personaggi – Nietzsche: Dioniso; Wagner: Teseo; Cosima: Arianna –, convinto che Nietzsche avesse in mente una “drammatizzazione dei suoi sogni ad occhi aperti risalenti al periodo delle visite a Tribschen”, introdusse pure alcune variazioni testuali, così come ad esempio il titolo Naxos (Podach 1963,107).

9 [115] Zu erwägen:
Das vollkommene Buch. –
9 [115] Da considerare:
Il libro perfetto. –

1 | die Form, der Stil

Ein idealer Monolog. Alles Gelehrtenhafte aufgesaugt in die Tiefe
alle Accente der tiefen Leidenschaft, Sorge, auch der Schwächen, Milderungen, Sonnen stellen, – das kurze Glück, die sublime Heiterkeit –
Überwindung der Demonstration; absolut persönlich. Kein „ich“...
eine Art mémoires; die abstraktesten Dinge am leibhaftesten und blutigsten
die ganze Geschichte wie persönlich erlebt und erlitten (– so allein wird’s wahr)
gleichsam ein Geistergespräch; eine Vorforderung, Herausforderung, Todtenbeschwörung möglichst viel Sichtbares, Bestimmtes, Beispielsweises, Vorsicht vor Gegenwärtigem.
alles Zeitgemässe
Vermeiden der Worte „vornehm“ und überhaupt aller
Worte, worin eine Selbst-In-Scenesetzung liegen könnte.
Nicht „Beschreibung“; alle Probleme ins Gefühl, übersetzt, bis zur Passion –

1 | la forma, lo stile:

Un monologo ideale. Ogni erudizione assorbita dalla profondità;
tutti gli accenti della profonda passione, della premura, anche delle debolezze e attenuazioni, dei luoghi soleggiati – la breve felicità, la sublime serenità;
superamento della dimostrazione; assolutamente personale.
Nessun “io”…
una specie di mémoires; le cose più astratte espresse nel modo più corposo e sanguigno;
tutta la storia come vissuta e sofferta personalmente (solo così diventa vera);
per così dire un dialogo tra spiriti; una citazione in giudizio, una sfida, un’evocazione dei morti;
il più possibile di visibile, determinato, esemplificativo, cautela verso il presente. Tutto attuale.
Evitare le parole “aristocratico” e in genere tutte le parole che potrebbero implicare un mettersi in mostra.
Non “descrizione”; tutti i problemi tradotti nel sentimento, fino alla passione –

2 | Sammlung ausdrücklicher Worte. Vorzug für militärische W[orte].
Ersatzworte für die philosophischen Termini: womöglich deutsch und zur Formel ausgeprägt.
sämmtliche Zustände der geistigsten Menschen darstellen; so dass ihre Reihe im ganzen Werke umfasst ist.

2 | Raccolta di parole più espressive. Preferenza per i termini militari.
Parole per sostituire i termini filosofici: possibilmente tedesche e coniate in una formula.
Raffigurare tutti gli stati degli uomini più spirituali; in modo che la loro serie sia percorsa in tutta l’opera.

(– Zustände des Legislator[s]
des Versuchers
des zur Opferung Gezwungenen, Zögernden –
der grossen Verantwortlichkeit
des Leidens an der Unerkennbarkeit
des Leidens am Scheinen-Müssen
des Leidens am Wehthun-Müssen,
der Wollust am Zerstören).

(Stati del legislatore,
dello sperimentatore,
di chi è costretto a sacrificare, di chi esita –
della grande responsabilità,
del dolore dell’inconoscibilità,
del dolore del dover sembrare,
del dolore del dover far male,
della voluttà di distruggere).

3 | Das Werk auf eine Katastrophe hin bauen
Einleitung herzunehmen von dem Willen zum Pessimismus. Nicht als Leidender, Enttäuschter reden.
„Wir, die wir nicht an die Tugend und die schönen Schwellungen glauben.“

3 | Costruire l’opera su una catastrofe.
Ricavare l’introduzione dalla volontà di pessimismo.
Parlare non come un sofferente, un deluso. “Noi che non crediamo alla virtù e ai pavoneggiamenti”.

Satyrspiel
Am Schluss

Dramma satiresco
In conclusione

Einmischen: kurze Gespräche zwischen Theseus, Dionysus und Ariadne.

– Theseus wird absurd, sagte Ariadne, Theseus wird tugendhaft –
Eifersucht des Theseus auf Ariadne’s Traum.
der Held sich selbst bewundernd, absurd werdend.
Klage der Ariadne
Dionysus ohne Eifersucht: „Was ich an Dir liebe, wie könnte das ein Theseus lieben?“…
Letzter Akt. Hochzeit des Dionysus und der Ariadne
„man ist nicht eifersüchtig, wenn man Gott ist, sagte Dionysus: es sei denn auf Götter“.

Frammezzare: brevi dialoghi tra Teseo, Dioniso e Arianna.

– Teseo diventa assurdo, disse Arianna, Teseo diventa virtuoso –
Gelosia di Teseo per il sogno di Arianna.
L’eroe che ammira se stesso, che diventa assurdo. Lamento di Arianna.
Dioniso senza gelosia: “Ciò che io amo in te, come potrebbe amarlo un Teseo?”…
Ultimo atto. Nozze di Dioniso e Arianna.
“Non si è gelosi, quando si è Dio, disse Dioniso, se non di altri dèi”.

„Ariadne, sagte Dionysus, du bist ein Labyrinth: Theseus hat sich in dich verirrt, er hat keinen Faden mehr; was nützt es ihm nun, dass er nicht vom Minotauros gefressen wurde? Was ihn frisst, ist schlimmer als ein Minotauros.“ Du schmeichelst mir, antwortete Ariadne, aber ich bin meines Mitleidens müde, an mir sollen alle Helden zu Grunde gehen: das ist meine letzte Liebe zu Theseus: „ich richte ihn zu Grunde“.

KSA 12, 400-402

“Arianna, disse Dioniso, tu sei un labirinto: Teseo si è smarrito in te, non ha più un filo; a che gli giova adesso il non essere stato divorato dal Minotauro? Ciò che lo divora è peggio di un Minotauro”. Tu mi aduli, rispose Arianna, ma io sono stanca della mia pietà, per me dovranno perire tutti gli eroi; questo è il mio estremo amore per Teseo: “lo faccio perire”.

OFN VIII, 2, 56-58

8 | Satyrspiel (in alto a destra) nel Quaderno W II 1 di Friedrich Nietzsche, 53; riprodotta in Erich Podach, Ein Blick in Notizbücher Nietzsches. Ewige Widerkunft, Wille zur Macht, Ariadne. Eine schaffensanalytische Studie, Heidelberg 1963, Abb. II.

9. Bello e brutto

dal Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si fa filosofia col martello, Scorribande di un inattuale, §19, 1888

“Questi scritti [1888] suonano come un ‘finale’ tempestoso: precipitandosi, incalzandosi in una successione serrata, che poi d’improvviso si tronca nel silenzio definitivo”: così Giorgio Colli descrive le fitte pubblicazioni delle opere composte nel 1888 (Colli 1980, 449). Sono proprio questi gli scritti in cui Arianna fa la sua trionfale epifania nel teatro delle figure di Nietzsche. È il tempo che lo stesso Nietzsche, in una lettera a Franz Overbeck del 18 ottobre 1888, descrive felicemente così: “è il periodo della mia grande vendemmia. Tutto mi diventa facile, tutto mi riesce” (OFN, XX, 47-48); è il periodo in cui, nota Gilles Deleuze, “succede proprio come se le facoltà creative di Nietzsche si esasperassero, prendessero un nuovo slancio prima del crollo finale” (Deleuze [1965] 1997, 17).

Il Crepuscolo degli idoli, il cui titolo allude ironicamente al dramma musicale Crepuscolo degli dei (Götterdämmerung) di Richard Wagner, vide la stampa al principio di novembre del 1888, e verso il 25 novembre Nietzsche ricevette quattro esemplari del volume pubblicati da C.G. Naumann a Lipsia (Colli in OFN VI, 3, 488-489). L’aforisma §19 del capitolo Scorribande di un inattuale si conclude con una scena giocosa che si svolge a Nasso, in cui Arianna si lamenta perché il suo filosofo amante, Dioniso, le tira le orecchie. Ad Arianna, il dio risponde scherzando sulle sue orecchie troppo piccole. Il dialogo della coppia dionisiaca si relaziona direttamente al finale della Klage der Ariadne in cui le orecchie giocano una parte fondamentale (v. le note ai testi 11, 15 e Cirlot 2020).

Il passaggio è citato da Guillaume Apollinaire in La peinture nouvelle, saggio pubblicato nel 1912 nel terzo numero della rivista letteraria da lui fondata, “Les Soirées de Paris”. L’artista, analogamente all’amico Giorgio de Chirico che nello stesso anno avviava la sua ‘serie di Arianna’, vede in Nietzsche il fondamento filosofico della pittura moderna: “L’arte greca aveva della bellezza un concetto puramente umano. Assumeva l’uomo quale misura della perfezione. L’arte dei pittori nuovi prende l’universo infinito come ideale e a questo ideale si deve una misura nuova della perfezione che permette al pittore di assegnare all’oggetto proporzioni conformi al grado di plasticità cui egli desidera condurlo. Nietzsche aveva presentito la possibilità di un’arte tale. ‘O Dioniso divino, perché mi tiri le orecchie?’ chiede Arianna al suo filosofico amante in un celebre dialogo sull’Isola di Nasso. ‘C’è qualcosa di piacevole e di divertente nelle tue orecchie. Arianna: perché non sono ancora più lunghe?’. Nietzsche, nel riportare l’aneddoto, fa per bocca di Dioniso il processo all’arte greca” (Apollinaire [1912] 1945, 90-91). Apollinaire è anche l’autore del poema Le Musicien de Saint-Merry (1913) in cui compare la figura di Arianna, e che costituirà un riferimento per de Chirico. Per entrambi, la fonte della rielaborazione del mito di Arianna è Nietzsche.

§ 19
§ 19

Schön und hässlich. – Nichts ist bedingter, sagen wir beschränkter, als unser Gefühl des Schönen. Wer es losgelöst von der Lust des Menschen am Menschen denken wollte, verlöre sofort Grund und Boden unter den Füssen. Das „Schöne an sich“ ist bloss ein Wort, nicht einmal ein Begriff. Im Schönen setzt sich der Mensch als Maass der Vollkommenheit; in ausgesuchten Fällen betet er sich darin an. Eine Gattung kann gar nicht anders als dergestalt zu sich allein Ja sagen. Ihr unterster Instinkt, der der Selbsterhaltung und Selbsterweiterung, strahlt noch in solchen Sublimitäten aus. Der Mensch glaubt die Welt selbst mit Schönheit überhäuft, – er vergisst sich als deren Ursache. Er allein hat sie mit Schönheit beschenkt, ach! nur mit einer sehr menschlich-allzumenschlichen Schönheit... Im Grunde spiegelt sich der Mensch in den Dingen, er hält alles für schön, was ihm sein Bild zurückwirft: das Urteil „schön“ ist seine Gattungs-Eitelkeit... Dem Skeptiker nämlich darf ein kleiner Argwohn die Frage in’s Ohr flüstern: ist wirklich damit die Welt verschönt, dass gerade der Mensch sie für schön nimmt? Er hat sie vermenschlicht: das ist Alles. Aber Nichts, gar Nichts verbürgt uns, dass gerade der Mensch das Modell des Schönen abgäbe. Wer weiss, wie er sich in den Augen eines höheren Geschmacksrichters ausnimmt? Vielleicht gewagt? vielleicht selbst erheiternd? vielleicht ein wenig arbiträr?...

Bello e brutto. – Nulla è più condizionato, diciamo pure più limitato, del nostro sentimento del bello. Chi volesse pensarlo scevro dal piacere che l’uomo ha dell’uomo, perderebbe subito il terreno sotto i piedi. Il “bello in sé” è soltanto una parola, neppure un concetto. Nel bello l’uomo pone se stesso come norma della perfezione; in particolari casi egli si adora in esso. Una specie non può affermare esclusivamente se stessa in alcun altro modo che in questo. Il suo infimo istinto, quello della conservazione e dell’incremento di sé, diffonde i suoi raggi anche in tali sublimi altezze. L’uomo crede il mondo stesso sovraccarico di bellezza – dimentica d’esserne egli stesso la causa. È stato unicamente lui a donargli bellezza, ah!, una bellezza molto umana – troppo umana!… L’uomo in fondo si rispecchia nelle cose, considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine, il giudizio “bello” è la sua specifica vanità... Infatti un piccolo sospetto può sussurrare all’orecchio dello scettico la domanda: davvero il mondo è divenuto bello, perché appunto l’uomo lo ritiene tale? L’uomo lo ha umanizzato: questo è tutto. Ma nulla, proprio nulla ci garantisce che precisamente l’uomo valga come modello di bellezza. Chissà come egli apparirebbe agli occhi di un più alto giudice del gusto? Forse come amante del rischio? Forse persino divertente? forse leggermente incline al capriccio?...

„O Dionysos, Göttlicher, warum ziehst du mich an den Ohren?“ fragte Ariadne einmal bei einem jener berühmten Zwiegespräche auf Naxos ihren philosophischen Liebhaber.

“O Dioniso, divino, perché mi tiri le orecchie?” chiese una volta Arianna al suo filosofo amante in uno di quei famosi dialoghi di Nasso.

„Ich finde eine Art Humor in deinen Ohren, Ariadne: warum sind sie nicht noch länger?“

KSA 6, 123-124

“Trovo nelle tue orecchie un certo spirito faceto, Arianna: perché non sono ancora più lunghe?”

OFN VI, 3, 120

10. Aesthetica

dai Frammenti postumi, primavera-estate 1888, 16 [40]

Il dialogo tra Dioniso e Arianna che anima il secondo paragrafo di questo scritto è una variante dell’aforisma §19 del Crepuscolo degli idoli (testo 9). Entrambi i passaggi sono insertiti in un contesto dedicato all’estetica, che tratta del sentimento della bellezza e della bruttezza.

16 [40] Aesthet[ica]
Grundeinsicht: was ist schön und hässlich.
16 [40] Aesthetica
Conoscenza fondamentale: che cosa è bello, che cosa è brutto.

Nichts ist bedingter, sagen wir bornirter als unser Gefühl des Schönen. Wer es losgelöst denken wollte von der Lust des Menschen am Menschen, verlöre sofort Grund und Boden unter den Füßen. Im Schönen bewundert sich der Mensch als Typus: in extremen Fällen betet er sich selbst an. Es gehört zum Wesen eines Typus, daß er nur an seinem Anblick glücklich wird, – daß er sich und nur sich bejaht. Der Mensch, wie sehr er auch die Welt mit Schönheiten überhäuft sieht, er hat sie immer nur mit seiner eignen „Schönheit“ überhäuft: das heißt, er hält Alles für schön, was ihn an das Vollkommenheits-Gefühl erinnert, mit dem er als Mensch zwischen allen Dingen steht. Ob er wirklich damit die Welt verschönert hat?... Und sollte zuletzt in den Augen eines höheren Geschmacksrichters der Mensch vielleicht gar nicht schön sein?... Ich will nicht hiermit sagen unwürdig, aber ein wenig komisch?...

Nulla è più condizionato, diciamo anzi limitato del nostro sentimento del bello. Chi volesse pensarlo distaccato dal piacere che l’uomo prova per l’uomo stesso, perderebbe immediatamente il terreno sotto i piedi. Nel bello l’uomo ammira se stesso come tipo: in casi estremi egli adora se stesso. Fa parte dell’essenza di un tipo provare felicità solo nella visione di se stesso, che esso ammiri e affermi soltanto se stesso. L’uomo, per quanto veda il mondo sovraccarico di bellezza, lui solo l’ha sovraccaricato della propria “bellezza”: ciò vuol dire che egli ritiene bello tutto quanto gli ricorda il sentimento di perfezione con cui, in quanto uomo, si trova in mezzo alle cose. Ma in tal modo ha egli veramente abbellito il mondo?... E non potrebbe darsi che, agli occhi di un giudice dal gusto superiore, l’uomo finisse per non essere bello?... Non voglio dire con ciò indegno, ma un po’ comico?...

2

– Oh Dionysos, Göttlicher, warum ziehst Du mich an den Ohren? Ich finde eine Art Humor in deinen Ohren, Ariadne: warum sind sie nicht noch länger?...

2

– O Dioniso, divino, perché mi tiri le orecchie? “Trovo nelle tue orecchie un certo spirito faceto, Arianna: perché non sono ancora più lunghe?...”.

3

„Nichts ist schön: nur der Mensch ist schön“ Auf dieser Naivetät ruht alle unsere Aesthetik: sie sei deren erste „Wahrheit“.
Fügen wir die complementäre „Wahrheit“ sofort hinzu, sie ist nicht weniger naiv: daß nichts häßlich ist als der mißrathene Mensch.
Wo der Mensch am Häßlichen leidet, leidet er am Abortiren seines Typus; und wo er auch am Entferntesten an ein solches Abortiren erinnert wird, da setzt er das Prädikat „häßlich“ an. Der Mensch hat die Welt mit Häßlichem überhäuft: das will sagen immer nur mit seiner eignen Häßlichkeit... Hat er die Welt wirklich dadurch verhäßlicht?...

3

“Nulla è bello: l’uomo soltanto è bello”. Su questa ingenuità si basa ogni nostra estetica: questa sia la sua prima “verità”. Aggiungiamoci subito anche la “verità” complementare, questa è meno ingenua: che nulla è brutto salvo l’uomo malriuscito.
Quando l’uomo soffre della bruttezza, soffre per l’abortire del suo stesso tipo; e dove anche solo lontanissimamente gli si ricorda un tale abortire, egli stabilisce il predicato di “brutto”. L’uomo ha sovraccaricato il mondo di bruttezza: vale a dire sempre e soltanto della sua propria bruttezza... Ha egli in tal modo veramente imbruttito il mondo?...

4

Alles Häßliche schwächt und betrübt den Menschen: es erinnert ihn an Verfall, Gefahr, Ohnmacht. Man kann den Eindruck des Häßlichen mit dem Dynamometer messen. Wo er niedergedrückt wird, da wirkt irgend ein Häßliches. Das Gefühl der Macht, der Wille zur Macht – das wächst mit dem Schönen, das fällt mit dem Häßlichen.

4

Ogni bruttezza indebolisce e offusca l’uomo: gli rammenta decadenza, pericolo, impotenza. Si può misurare col dinamometro l’effetto del brutto. Quando è depresso è in azione qualche cosa di brutto. Il senso della potenza, la volontà di potenza: tutto ciò aumenta col bello, viene a mancare col brutto.

5

Im Instinkt und Gedächtniß ist ein ungeheures Material aufgehäuft: wir haben tausenderlei Zeichen, an denen sich uns die Degenerescenz des Typus verräth. Wo an Erschöpfung, Müdigkeit, Schwere, Alter, oder an Unfreiheit, Krampf, Zersetzung, Fäulniß auch nur angespielt wird, da redet sofort unser unterstes Werthurtheil: da haßt der Mensch das Häßliche...
Was er da haßt, es ist immer der Niedergang seines Typus. In diesem Haß besteht die ganze Philosophie der Kunst.

5

Nell’istinto e nella memoria è accumulato un materiale immenso: noi abbiamo migliaia di segni dai quali ci si rivela la degenerazione del tipo. Là dove anche soltanto si allude a esaurimento, stanchezza, pesantezza, vecchiaia, o a mancanza di libertà, crampo, decomposizione, corruzione, parla immediatamente il nostro istinto di valore più profondo: là l’uomo odia la bruttezza
Ciò che odia è sempre la decadenza del suo tipo. In questo odio consiste tutta la filosofia dell’arte [tr. it. delle autrici].

6

Wenn meine Leser darüber zur Genüge eingeweiht sind, daß auch „der Gute“ im großen Gesammt-Schauspiel des Lebens eine Form der Erschöpfung darstellt: so werden sie der Consequenz des Christenthums die Ehre geben, welche den Guten als den Häßlichen concipirte. Das Christenthum hatte damit Recht. –
An einem Philosophen ist es eine Nichtswürdigkeit zu sagen: das Gute und das Schöne sind Eins: fügt er gar noch hinzu „auch das Wahre“, so soll man ihn prügeln. Die Wahrheit ist häßlich: wir haben die Kunst, damit wir nicht an der Wahrheit zu Grunde gehn.

6

Se i miei lettori sono sufficientemente iniziati sul fatto che anche “il buono” rappresenta, nel grande spettacolo globale della vita, una forma di esaurimento, faranno onore alla coerenza del cristianesimo, che concepì l’uomo buono come l’uomo brutto. Il cristianesimo aveva in ciò ragione.
Per un filosofo è già un’indegnìtà dire: il buono e il bello fanno tutt’uno. Ma se poi aggiunge “e anche il vero”, bisogna bastonarlo. La verità è brutta: abbiamo l’arte per non perire a causa della verità.

7

Über das Verhältniß der Kunst zur Wahrheit bin ich am frühesten ernst geworden: und noch jetzt stehe ich mit einem heiligen Entsetzen vor diesem Zwiespalt. Mein erstes Buch [war] ihm geweiht; die Geburt der Tragödie glaubt an die Kunst auf dem Hintergrund eines anderen Glaubens: daß es nicht möglich ist mit der Wahrheit zu leben; daß der „Wille zur Wahrheit“ bereits ein Symptom der Entartung ist...
Ich stelle die absonderlich düstere und unangenehme Conception jenes Buches hier noch einmal hin. Sie hat den Vorrang vor anderen pessimistischen Conceptionen, daß sie unmoralisch [ist]: – sie ist nicht wie diese von der Circe der Philosophen, von der Tugend, inspirirt. –

Die Kunst in der „Geburt der Tragödie“.

KSA 13, 498-500

7

È stato sui rapporti tra arte e verità che io sono diventato serio prima che in ogni altra questione: e ancora adesso mi trovo con sacro orrore davanti a questo dissidio. [Fu] a esso dedicato il mio primo libro; la Nascita della tragedia crede nell’arte sullo sfondo di un’altra credenza: che non sia possibile vivere con la verità; che la “volontà di verità” sia già un sintomo di degenerazione...
Propongo qui, ancora una volta, la concezione straordinariamente fosca e sgradevole di quel libro. Essa ha, rispetto ad altre concezioni pessimistiche, il vantaggio di essere immorale – non è, come quelle, ispirata dalla Circe dei filosofi, dalla virtù.

L’arte nella “Nascita della tragedia”.

OFN VIII, 3, 287-290

11. Prefazione a L’Anticristo

da L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, 1888

Il 30 settembre 1888 Nietzsche conclude L’Anticristo e, il 26 novembre 1888, scrive a Paul Deussen: “La mia Trasvalutazione di tutti i valori, che ha come titolo principale L’anticristo, è pronta” (Lettere da Torino, 95). Nietzsche apre l’opera affermando come la condizione della sua comprensione dipenda da un particolare tipo di orecchio. Reclama “nuove orecchie per una nuova musica”, avvertendo del pericolo della crescita delle orecchie e confermando così che un ruolo importante, qui ancora una volta dietro le quinte, è affidato alla figura di Arianna, alternativa a coloro “a cui vanno crescendo orecchie” e che nella Klage svelerà di avere “piccole orecchie”, le uniche capaci di sentire (sull’orecchio dell’asino v. Cirlot 2020, in particolare le figure 9 e 10 della Conférence sur l’expression generale di Charles le Brun (1668) e dei Physiognomische Fragmente di Johann Kaspar Lavater del 1778). Un’altra immagine importante per la comprensione è quella relativa alla predestinazione al labirinto (“die Vorherbestimmung zum Labyrinth”; v. la nota al testo 2).

Vorwort
Prefazione

Dies Buch gehört den Wenigsten. Vielleicht lebt selbst noch Keiner von ihnen. Es mögen die sein, welche meinen Zarathustra verstehn: wie dürfte ich mich mit denen verwechseln, für welche heute schon Ohren wachsen? – Erst das Übermorgen gehört mir. Einige werden posthu[m] geboren.

Questo libro si conviene ai pochissimi. Forse di questi non ne vive ancora neppure uno. Potrebbero essere quelli che comprendono il mio Zarathustra: come potrei confondermi con coloro per i quali già oggi vanno crescendo orecchi? – A me si confà unicamente il giorno seguente al domani. C’è chi è nato postumo.

Die Bedingungen, unter denen man mich versteht und dann mit Nothwendigkeit versteht [, –] ich kenne sie nur zu genau. Man muss rechtschaffen sein in geistigen Dingen bis zur Härte, um auch nur meinen Ernst, meine Leidenschaft auszuhalten. Man muss geübt sein, auf Bergen zu leben – das erbärmliche Zeitgeschwätz von Politik und Völker-Selbstsucht unter sich zu sehn. Man muss gleichgültig geworden sein, man muss nie fragen, ob die Wahrheit nützt, ob sie Einem Verhängniss wird... Eine Vorliebe der Stärke für Fragen, zu denen Niemand heute den Muth hat; der Muth zum Verbotenen; die Vorherbestimmung zum Labyrinth. Eine Erfahrung aus sieben Einsamkeiten. Neue Ohren für neue Musik. Neue Augen für das Fernste. Ein neues Gewissen für bisher stumm gebliebene Wahrheiten. Und der Wille zur Ökonomie grossen Stils: seine Kraft, seine Begeisterung beisammen behalten... Die Ehrfurcht vor sich; die Liebe zu sich; die unbedingte Freiheit gegen sich...

Le condizioni alle quali mi si comprende – e mi si comprende, allora, per necessità – le conosco fin troppo bene. Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza, per poter anche soltanto sopportare la mia serietà, la mia passione. Si deve essere addestrati a vivere sui monti – a vedere sotto di sé il miserabile ciarlare di politica ed egoismo-dei-popoli, proprio del nostro tempo. Si deve essere diventati indifferenti, non si deve mai domandare se la verità sia utile, se essa diventi per qualcuno una fatalità... Una predilezione della forza per quei problemi per cui oggi nessuno ha il coraggio; il coraggio del proibito; la predestinazione al labirinto. Un’esperienza di sette solitudini. Nuove orecchie per nuova musica. Nuovi occhi per il più lontano. E una nuova coscienza per verità restate fino a oggi mute. E la volontà dell’economia in grande stile; mantenere compatta la propria forza, la propria esaltazione... Rispetto di sé; amore di sé; libertà assoluta verso di sé...

Wohlan! Das allein sind meine Leser, meine rechten Leser, meine vorherbestimmten Leser: was liegt am Rest? – Der Rest ist bloss die Menschheit. – Man muss der Menschheit überlegen sein durch Kraft, durch Höhe der Seele, – durch Verachtung...

KSA 6, 167-168

Suvvia! Questi soltanto sono i miei lettori, i miei giusti lettori, i miei predestinati lettori: che mi importa del resto? – Il resto è semplicemente l’umanità. – Si deve essere superiori all’umanità per forza, per altezza d’animo – per disprezzo...

OFN VI, 3, 167

12. Prologo di Ecce Homo

da Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, 1888

I principali manoscritti preparatori di Ecce Homo risalgono ai mesi tra l’ottobre e il dicembre del 1888. Delle bozze conservate, una, su cui Nietzsche appose l’imprimatur, è datata da lui stesso “Turin, den 18. Dez. 1888”, mentre le ultime correzioni riportano le date del 29 dicembre 1888 e del 2 gennaio 1889 (Colli, Montinari 1988, 459). Nel secondo paragrafo del ‘Prologo’ è riaffermato il pensiero, sviluppato a partire dal 1885 (JGB §295, qui testo 7), di Dioniso filosofo, del quale Nietzsche si presenta come discepolo.

Vorwort
2
Prologo
2

Ich bin zum Beispiel durchaus kein Popanz, kein Moral-Ungeheuer, – ich bin sogar eine Gegensatz-Natur zu der Art Mensch, die man bisher als tugendhaft verehrt hat. Unter uns, es scheint mir, dass gerade Das zu meinem Stolz gehört. Ich bin ein jünger des Philosophen Dionysos, ich zöge vor, eher noch ein Satyr zu sein als ein Heiliger. Aber man lese nur diese Schrift. Vielleicht gelang es mir, vielleicht hatte diese Schrift gar keinen andren Sinn, als diesen Gegensatz in einer heitren und menschenfreundlichen Weise zum Ausdruck zu bringen. Das Letzte, was ich versprechen würde, wäre, die Menschheit zu „verbessern“. Von mir werden keine neuen Götzen aufgerichtet; die alten mögen lernen, was es mit thönernen Beinen auf sich hat. Götzen (mein Wort für „Ideale“) umwerfen – das gehört schon eher zu meinem Handwerk. Man hat die Realität in dem Grade um ihren Werth, ihren Sinn, ihre Wahrhaftigkeit gebracht, als man eine ideale Welt erlog... Die „wahre Welt“ und die „scheinbare Welt“ – auf deutsch: die erlogne Welt und die Realität... Die Lüge des Ideals war bisher der Fluch über der Realität, die Menschheit selbst ist durch sie bis in ihre untersten Instinkte hinein verlogen und falsch geworden – bis zur Anbetung der umgekehrten Werthe, als die sind, mit denen ihr erst das Gedeihen, die Zukunft, das hohe Recht auf Zukunft verbürgt wäre.

KSA 6, 257-258

Per esempio, io non sono affatto uno spauracchio, un mostro morale – anzi, sono una natura opposta a quella specie di uomo che fino a oggi è stata venerata come virtuosa. Detto fra noi, mi pare che proprio questo faccia parte della mia fierezza. Io sono un discepolo del filosofo Dioniso, preferirei essere un satiro piuttosto che un santo. Ma leggete questo scritto. Forse ci sono riuscito, a esprimere questo contrasto in modo sereno e amorevole, forse questo scritto non aveva altro senso. “Migliorare” l’umanità sarebbe l’ultima cosa che io mai prometterei. Non sarò io a elevare nuovi idoli, e quanto ai vecchi, comincino a imparare che vuol dire avere i piedi di argilla. Rovesciare idoli (parola che uso per dire “ideali”) – questo sì è affar mio. La realtà è stata destituita del suo valore, del suo senso, della sua veracità, nella misura in cui si è dovuto fingere un mondo ideale… Il “mondo vero” e il “mondo apparente” – in altre parole: il mondo finto e la realtà… Fino a oggi pesava sulla realtà la menzogna dell’ideale, la maledizione che ha penetrato l’umanità fin nei suoi istinti più riposti per farla diventare menzognera e falsa – fino al punto di farle adorare i valori inversi di quelli che soli potrebbero garantire la crescita, l’avvenire, il sovrano diritto all’avvenire.

OFN VI, 3, 265-266

13. Perché scrivo libri così buoni

da Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, Perché scrivo libri così buoni, par. 2, 1888

Nietzsche attribuisce a se stesso “le orecchie più piccole fra tutte”, le stesse piccole orecchie di Dioniso e di Arianna (v. Klage der Ariadne, testo 15), opposte alle lunghe orecchie dell’asino, proprie del cristianesimo (v. le note introduttive ai testi 9, 11, 15).

Warum ich so gute Bücher schreibe
Perché scrivo libri così buoni
2

Dies war für Deutsche gesagt: denn überall sonst habe ich Leser – lauter ausgesuchte Intelligenzen, bewährte, in hohen Stellungen und Pflichten erzogene Charaktere; ich habe sogar wirkliche Genies unter meinen Lesern. In Wien, in St. Petersburg, in Stockholm, in Kopenhagen, in Paris und New-York – überall bin ich entdeckt: ich bin es nicht in Europa’s Flachland Deutschland... Und, dass ich es bekenne, ich freue mich noch mehr über meine Nicht-Leser, solche, die weder meinen Namen, noch das Wort Philosophie je gehört haben; aber wohin ich komme, hier in Turin zum Beispiel, erheitert und vergütigt sich bei meinem Anblick jedes Gesicht. Was mir bisher am meisten geschmeichelt hat, das ist, dass alte Hökerinnen nicht Ruhe haben, bevor sie mir nicht das Süsseste aus ihren Trauben zusammengesucht haben. So weit muss man Philosoph sein...

Questo l’ho detto per i Tedeschi: perché altrove ho lettori dappertutto – tutte intelligenze ricercate, caratteri provati, educati alle alte posizioni e agli alti doveri; ho perfino dei veri e propri geni fra i miei lettori. A Vienna, a San Pietroburgo, a Stoccolma, a Copenaghen, a Parigi e a New York – dovunque mi scoprono: ma non nel paese piatto d’Europa, la Germania… E, lo confesso, mi rallegrano ancor più i miei non lettori, quelli che non hanno mai udito il mio nome, né la parola filosofia; ma dovunque io arrivi, per esempio qui a Torino, ogni faccia si rasserena e si addolcisce al vedermi. Nulla mi ha lusingato tanto finora come certe vecchie fruttivendole che non hanno pace finché non sono riuscite a scegliermi i grappoli più dolci della loro uva… Fino a questo punto bisogna essere filosofi…

Man nennt nicht umsonst die Polen die Franzosen unter den Slaven. Eine charmante Russin wird sich nicht einen Augenblick darüber vergreifen, wohin ich gehöre. Es gelingt mir nicht, feierlich zu werden, ich bringe es höchstens bis zur Verlegenheit... Deutsch denken, deutsch fühlen – ich kann Alles, aber das geht über meine Kräfte... Mein alter Lehrer Ritschl behauptete sogar, ich concipirte selbst noch meine philologischen Abhandlungen wie ein Pariser romancier – absurd spannend. In Paris selbst ist man erstaunt über „toutes mes audaces et finesses“ – der Ausdruck ist von Monsieur Taine –; ich fürchte, bis in die höchsten Formen des Dithyrambus findet man bei mir von jenem Salze beigemischt, das niemals dumm – „deutsch“ – wird, esprit... Ich kann nicht anders. Gott helfe mir! Amen. – Wir wissen Alle, Einige wissen es sogar aus Erfahrung, was ein Langohr ist. Wohlan, ich wage zu behaupten, dass ich die kleinsten Ohren habe. Dies interessirt gar nicht wenig die Weiblein –, es scheint mir, sie fühlen sich besser von mir verstanden?... Ich bin der Antiesel par excellence und damit ein welthistorisches Unthier, – ich bin, auf griechisch, und nicht nur auf griechisch, der Antichrist

KSA 6, 301-302

Non per niente si dice che i Polacchi sono i Francesi fra gli Slavi. Una russa affascinante non si ingannerà un solo momento sulle mie origini. Non mi riesce di diventare solenne, tutt’al più prendo un’aria imbarazzata… Pensare alla tedesca, sentire alla tedesca – posso fare qualunque cosa, ma questo proprio supera le mie forze… Il mio vecchio maestro Ritschl affermava addirittura che io ideavo i miei lavori filologici come una romancier parigino – avvincenti fino all’assurdo. Persino a Parigi sono stupiti da “toutes mes audaces et finesses” – i termini sono di Monsieur Taine –; ho paura che fin nelle forme supreme del ditirambo si trovi in me un bel po’ di quel sale che non diventa mai sciocco – “tedesco” –, l’esprit… Non posso fare diversamente. Dio mi aiuti! Amen. – Noi tutti sappiamo, alcuni poi lo sanno per esperienza, che cos’è un animale dalle orecchie lunghe. Bene, io oso affermare che ho le orecchie più piccole fra tutte. Questo ha non poco interesse per le femmine – mi pare, forse che si sentano meglio comprese da me?... Io sono l’antiasino par excellence, e perciò un mostro nella storia universale – in greco, e non solo in greco, io sono l’Anticristo

OFN VI, 3, 310-311

14. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno

da Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, par. 4, 7, 8, 1888

Nel paragrafo 4 del capitolo di Ecce Homo dedicato a Zarathustra, Nietzsche riferisce le circostanze e il luogo di composizione del “canto più solitario che esista”, il Canto della notte (Der Nachtlied) introdotto nella Parte seconda di Zarathustra: in una loggia che dà su piazza Barberini a Roma, da dove si sente, in sottofondo, “lo scrosciare della fontana”. La relazione di questo canto con il mito di Arianna è commentata nei successivi paragrafi 7 e 8 (v. Cirlot 2020).

Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen
4
Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno
4

Ich lag ein Paar Wochen hinterdrein in Genua krank. Dann folgte ein schwermüthiger Frühling in Rom, wo ich das Leben hinnahm – es war nicht leicht. Im Grunde verdross mich dieser für den Dichter des Zarathustra unanständigste Ort der Erde, den ich nicht freiwillig gewählt hatte, über die Maassen; ich versuchte loszukommen, – ich wollte nach Aquila, dem Gegenbegriff von Rom, aus Feindschaft gegen Rom gegründet, wie ich einen Ort dereinst gründen werde, die Erinnerung an einen Atheisten und Kirchenfeind comme il faut, an einen meiner Nächstverwandten, den grossen Hohenstaufen-Kaiser Friedrich den Zweiten. Aber es war ein Verhängniss bei dem Allen: ich musste wieder zurück. Zuletzt gab ich mich mit der piazza Barberini zufrieden, nachdem mich meine Mühe um eine antichristliche Gegend müde gemacht hatte. Ich fürchte, ich habe einmal, um schlechten Gerüchen möglichst aus dem Wege zu gehn, im palazzo del Quirinale selbst nachgefragt, ob man nicht ein stilles Zimmer für einen Philosophen habe. – Auf einer loggia hoch über der genannten piazza, von der aus man Rom übersieht und tief unten die fontana rauschen hört, wurde jenes einsamste Lied gedichtet, das je gedichtet worden ist, das Nachtlied; um diese Zeit gieng immer eine Melodie von unsäglicher Schwermuth um mich herum, deren Refrain ich in den Worten wiederfand „todt vor Unsterblichkeit...“ Im Sommer, heimgekehrt zur heiligen Stelle, wo der erste Blitz des Zarathustra-Gedankens mir geleuchtet hatte, fand ich den zweiten Zarathustra. Zehn Tage genügten; ich habe in keinem Falle, weder beim ersten, noch beim dritten und letzten mehr gebraucht. Im Winter darauf, unter dem halkyonischen Himmel Nizza’s, der damals zum ersten Male in mein Leben hineinglänzte, fand ich den dritten Zarathustra – und war fertig. Kaum ein Jahr, für’s Ganze gerechnet. Viele verborgne Flecke und Höhen aus der Landschaft Nizza's sind mir durch unvergessliche Augenblicke geweiht; jene entscheidende Partie, welche den Titel „von alten und neuen Tafeln“ trägt, wurde im beschwerlichsten Aufsteigen von der Station zu dem wunderbaren maurischen Felsenneste Eza gedichtet, – die Muskel-Behendheit war bei mir immer am grössten, wenn die schöpferische Kraft am reichsten floss. Der Leib ist begeistert: lassen wir die „Seele“ aus dem Spiele... Man hat mich oft tanzen sehn können; ich konnte damals, ohne einen Begriff von Ermüdung, sieben, acht Stunden auf Bergen unterwegs sein. Ich schlief gut, ich lachte viel –, ich war von einer vollkomm[n]en Rüstigkeit und Geduld.

Dopodiché giacqui malato per due settimane a Genova. Seguì poi una melanconica primavera a Roma, vi accettai la vita – non fu facile. In fondo questo luogo, il più indecente fra tutti sulla terra per il poeta di Zarathustra, luogo che non avevo scelto liberamente, mi infastidiva oltre misura; tentavo di evadere – volevo andare all’Aquila, l’antitesi di Roma, fondata in odio a Roma, come il luogo che un giorno io fonderò, in ricordo di un ateo e nemico della Chiesa comme il faut, uno degli esseri a me più affini, il grande imperatore Federico II di Svevia. Ma in tutto questo c’era un destino: dovetti tornare indietro. Stanco di sforzarmi a cercare una terra anticristiana, mi contentai alla fine della piazza Barberini. Nei miei tentativi di sfuggire il più possibile ai cattivi odori, temo di aver chiesto una volta addirittura al palazzo del Quirinale se non avevano una camera tranquilla per un filosofo. – In una loggia, che dà sulla piazza suddetta, da dove si domina Roma e si sente, giù in fondo, il crosciare della fontana, fu composto il canto più solitario che esista, il Canto della notte; in quei giorni mi circondava sempre una melodia indicibilmente melanconica, di cui ho ritrovato il refrain nelle parole “morto di immortalità…”. Nell’estate, tornato al sacro luogo dove aveva brillato per me il primo lampo del pensiero di Zarathustra, io trovai il secondo Zarathustra. Mi bastarono dieci giorni; non ce ne sono mai voluti di più, né per il primo, né per il terzo, né per l’ultimo. L’inverno seguente, sotto il cielo alcionio di Nizza, che splendeva allora per la prima volta sulla mia vita, trovai il terzo Zarathustra – e avevo finito. Neppure un anno per il tutto. Molti recessi e alture dei dintorni di Nizza sono per me consacrati da momenti indimenticabili; quella parte decisiva che porta il titolo “Di antiche tavole e nuove” fu composta durante la faticosissima ascesa dalla stazione al meraviglioso villaggio moresco di Eza, annidato fra le rocce, – avevo sempre la mia massima scioltezza muscolare quando la più ricca forza creativa scorreva in me. Il corpo è entusiasmato: lasciamo l’“anima” da parte… Spesso mi hanno visto ballare: ero capace, allora, di andare su per i monti per sette, otto ore, senza sentire mai un qualche senso di stanchezza. Dormivo bene, ridevo molto – il mio vigore e la mia pazienza erano perfetti.

KSA 6, 340-341

OFN VI, 3, 349-351

Nietzsche si presenta come l’inventore del ditirambo, identificandosi così con Dioniso (v. il ditirambo di Dioniso, Klage der Ariadne, testo 15). La trasformazione della melanconia in “ditirambo” è facoltà di Dioniso, ma anche dell’anima/Arianna come si rivela nel capitolo Del grande anelito di Zarathustra: “Ma se non vuoi piangere, se non vuoi sfogare nelle lacrime la tua melanconia purpurea, allora dovrai cantare, anima mia!” (testo 4). In questo paragrafo di Ecce Homo è riportato interamente il ‘Canto della notte’ che, in Zarathustra, era seguito dai capitoli Il canto della danza (Das Tanzlied), Il canto dei sepolcri (Das Grablied), Della vittoria su se stessi (Von der Selbst-Ueberwindung) e Dei sublimi, con riferimenti ai motivi del mito di Arianna, della fonte, dell’anima, della vita e della donna, della morte, della trasformazione e della resurrezione.

7

– Welche Sprache wird ein solcher Geist reden, wenn er mit sich allein redet? Die Sprache des Dithyrambus. Ich bin der Erfinder des Dithyrambus. Man höre, wie Zarathustra vor Sonnenaufgang (III, 18) mit sich redet: ein solches smaragdenes Glück, eine solche göttliche Zärtlichkeit hatte noch keine Zunge vor mir. Auch die tiefste Schwermuth eines solchen Dionysos wird noch Dithyrambus; ich nehme, zum Zeichen, das Nachtlied, die unsterbliche Klage, durch die Überfülle von Licht und Macht, durch seine Sonnen-Natur, verurtheilt zu sein, nicht zu lieben.

7

– In quale linguaggio parlerà un tale spirito, quando parla da solo con se stesso? Il linguaggio del ditirambo. Io sono l’inventore del ditirambo. Ascoltiamo come Zarathustra si parla, prima che il sole ascenda (III, 18): prima di me, nessun linguaggio aveva avuto una tale felicità smeraldina, una tale divina tenerezza. Anche la più profonda melanconia di questo Dioniso riesce a diventare ditirambo; ne prendo come segno il Canto della notte – il lamento immortale di essere condannato, per sovrabbondanza di luce e potenza, per la propria natura solare, a non amare.

Nacht ist es: nun reden lauter alle springenden Brunnen. Und auch meine Seele ist ein springender Brunnen.
Nacht ist es: nun erst erwachen alle Lieder der Liebenden. Und auch meine Seele ist das Lied eines Liebenden.
Ein Ungestilltes, Unstillbares ist in mir; das will laut werden. Eine Begierde nach Liebe ist in mir, die redet selber die Sprache der Liebe.
Licht bin ich: ach, dass ich Nacht wäre! Aber diess ist meine Einsamkeit, dass ich von Licht umgürtet bin.
Ach, dass ich dunkel wäre und nächtig! Wie wollte ich an den Brüsten des Lichts saugen!
Und euch selber wollte ich noch segnen, ihr kleinen Funkelsterne und Leuchtwürmer droben! – und selig sein ob eurer Licht-Geschenke.
Aber ich lebe in meinem eignen Lichte, ich trinke die Flammen in mich zurück, die aus mir brechen.
Ich kenne das Glück des Nehmenden nicht; und oft träumte mir davon, dass Stehlen noch seliger sein müsse, als Nehmen.
Das ist meine Armuth, dass meine Hand niemals ausruht vom Schenken; das ist mein Neid, dass ich wartende Augen sehe und die erhellten Nächte der Sehnsucht.
Oh Unseligkeit aller Schenkenden! Oh Verfinsterung meiner Sonne! Oh Begierde nach Begehren! Oh Heisshunger in der Sättigung!
Sie nehmen von mir: aber rühre ich noch an ihre Seele? Eine Kluft ist zwischen Geben und Nehmen; und die kleinste Kluft ist am letzten zu überbrücken.
Ein Hunger wächst aus meiner Schönheit: wehethun möchte ich denen, welchen ich leuchte, berauben möchte ich meine Beschenkten,– also hungere ich nach Bosheit.
Die Hand zurückziehend, wenn sich schon ihr die Hand entgegenstreckt; dem Wasserfall gleich, der noch im Sturze zögert: – also hungere ich nach Bosheit.
Solche Rache sinnt meine Fülle aus, solche Tücke quillt aus meiner Einsamkeit.
Mein Glück im Schenken erstarb im Schenken, meine Tugend wurde ihrer selber müde an ihrem Überflüsse!
Wer immer schenkt, dessen Gefahr ist, dass er die Scham verliere; wer immer austheilt, dessen Hand und Herz hat Schwielen vor lauter Austheilen.
Mein Auge quillt nicht mehr über vor der Scham der Bittenden; meine Hand wurde zu hart für das Zittern gefüllter Hände.
Wohin kam die Thräne meinem Auge und der Flaum meinem Herzen? Oh Einsamkeit aller Schenkenden! Oh Schweigsamkeit aller Leuchtenden!
Viel Sonnen kreisen im öden Räume: zu Allem, was dunkel ist, reden sie mit ihrem Lichte, – mir schweigen sie.
Oh diess ist die Feindschaft des Lichts gegen Leuchtendes, erbarmungslos wandelt es seine Bahnen.
Unbillig gegen Leuchtendes im tiefsten Herzen, kalt gegen Sonnen – also wandelt jede Sonne.
Einem Sturme gleich wandeln die Sonnen ihre Bahnen, ihrem unerbittlichen Willen folgen sie, das ist ihre Kälte.
Oh, ihr erst seid es, ihr Dunklen, ihr Nächtigen, die ihr Wärme schafft aus Leuchtendem! Oh ihr erst trinkt euch Milch und Labsal aus des Lichtes Eutern!
Ach, Eis ist um mich, meine Hand verbrennt sich an Eisigem! Ach, Durst ist in mir, der schmachtet nach eurem Durste!
Nacht ist es: ach dass ich Licht sein muss! Und Durst nach Nächtigem! Und Einsamkeit!
Nacht ist es: nun bricht wie ein Born aus mir mein Verlangen, – nach Rede verlangt mich.
Nacht ist es: nun reden lauter alle springenden Brunnen. Und auch meine Seele ist ein springender Brunnen.
Nacht ist es: nun erst erwachen alle Lieder der Liebenden. Und auch meine Seele ist das Lied eines Liebenden. –

È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche l’anima mia è una zampillante fontana.
È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche l’anima mia è il canto di un amante.
Qualcosa di insaziato, insaziabile è in me; e vuol farsi sentire. Una brama d’amore è in me; anch’essa parla il linguaggio dell’amore.
Luce io sono: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, che io sia recinto di luce.
Ah, fossi oscuro e notturno! Come vorrei succhiare alle mammelle della luce!
E allora vorrei benedire anche voi, piccole stelle scintillanti e lucciole lassù! – ed essere beato dei vostri doni di luce.
Ma io vivo nella luce mia propria, io ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono.
Io non conosco la felicità di colui che prende; e spesso ho sognato che nel rubare, più che nel prendere, dovesse essere beatitudine.
Questa è la mia povertà, che la mia mano mai si riposi dal donare; questa la mia invidia, che io veda occhi in attesa e le notti rischiarate del desiderio.
Oh, infelicità di tutti coloro che donano! Oh, eclisse del mio sole! Oh, brama di bramare! Oh, famelicità nella sazietà!
Essi prendono da me: ma riesco io a toccare la loro anima? Un abisso è tra dare e prendere; e l’abisso più stretto è anche il più difficile da superare.
Una fame cresce dalla mia bellezza: io vorrei far male a coloro pei quali riluco, vorrei derubare coloro che hanno accolto i miei doni: – tanta è la mia fame di cattiveria.
Ritrarre la mano, quando già le si protende una mano; esitare come la cascata che precipitando esita ancora: – tanta è la mia fame di cattiveria.
Questa è la vendetta che la mia abbondanza sogna; questa perfidia sgorga dalla mia solitudine.
La mia felicità nel donare si estinse nel donare, la mia virtù divenne stanca di se stessa, del suo sovrabbondare!
Il pericolo di colui che sempre dona è di perdere il pudore; chi sempre distribuisce, la sua mano e il suo cuore si incalliscono a forza di donare.
Il mio occhio non trabocca più per la vergogna di coloro che chiedono; la mia mano divenne troppo dura per il tremito di mani ricolme.
Dov’è ormai la lacrima del mio occhio e il pudore del mio cuore? Oh, solitudine di tutti coloro che donano! Oh, taciturnità di tutti coloro che rilucono!
Molti soli si aggirano nello spazio deserto: a tutto quanto è oscuro essi parlano con la loro luce, – per me tacciono.
Oh, questa è l’inimicizia della luce contro ciò che riluce, senza pietà essa corre le sue orbite.
Ingiusto nell’intimo del cuore verso ciò che riluce: freddo verso i soli, – così corre ciascun sole.
Simili a una tempesta volano i soli le loro orbite, questo è il loro andare. Essi seguono la loro volontà inesorabile, questa è la loro freddezza.
Oh, voi, voi oscuri, voi notturni, vi create calore da ciò che luce! Oh, voi solamente bevete latte e ristoro dalle mammelle della luce!
Ahimè, ghiaccio è intorno a me, la mia mano si brucia al gelo! Ahimè, sete è in me, assetata della vostra sete!
È notte: dover essere luce! E sete di notturno! E solitudine!
È notte: ecco, il mio desiderio erompe da me come una sorgente – il mio desiderio è di parlare.
È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche l’anima mia è una zampillante fontana.
È notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti.
E anche l’anima mia è il canto di un amante. –

KSA 6, 345-347

OFN VI, 3, 355-357

Il ‘Canto della notte’ è associato alle figure di Dioniso e Arianna – l’unica, quest’ultima, a essere capace di rispondere a tale ditirambo. Nietzsche introduce quindi un’esclamazione tanto enigmatica per il lettore, quanto lo è per lui stesso l’enigma di Arianna: non si domanda infatti chi sia, quanto piuttosto “cos’è Arianna” (“was Ariadne ist”). Alle qualità della natura dionisiaca – lievità, danza, risa, gioco, ebbrezza… – si aggiunge ora la durezza (Härte) simile al martello, un riferimento certo al sottotitolo del Crepuscolo degli idoli. Così in Ecce Homo, l’opera che tratta “con grande audacia” di Nietzsche stesso e dei suoi scritti (lettera a Heinrich Koselitz del 30 ottobre del 1888, Lettere da Torino, 59), l’autore rivela quanto nello Zarathustra era rimasto segreto: l’importanza del significato di Arianna.

8

Dergleichen ist nie gedichtet, nie gefühlt, nie gelitten worden: so leidet ein Gott, ein Dionysos. Die Antwort auf einen solchen Dithyrambus der Sonnen-Vereinsamung im Lichte wäre Ariadne... Wer weiss ausser mir, was Ariadne ist!... Von allen solchen Räthseln hatte Niemand bisher die Lösung, ich zweifle, dass je Jemand auch hier nur Räthsel sah. – Zarathustra bestimmt einmal, mit Strenge, seine Aufgabe – es ist auch die meine –, dass man sich über den Sinn nicht vergreifen kann: er ist jasagend bis zur Rechtfertigung, bis zur Erlösung auch alles Vergangenen.

8

Niente di simile è stato mai poetato, mai provato, mai sofferto: così come soffre un dio, un Dioniso. La risposta a un ditirambo come questo, dell’isolamento solare nella luce, sarebbe Arianna… Chi, all’infuori di me, sa che cos’è Arianna!... Mai finora qualcuno ha conosciuto la soluzione di tutti questi enigmi, e dubito che qualcuno abbia mai anche solo visto degli enigmi in tutte queste cose. – Una volta Zarathustra determina con rigore il suo compito – è anche il mio –, dicendo che non ci si può ingannare sul suo senso: che il suo dire sì va fino alla giustificazione, fino alla redenzione anche di tutto il passato.

Ich wandle unter Menschen als unter Bruchstücken der Zukunft: jener Zukunft, die ich schaue.
Und das ist all mein Dichten und Trachten, dass ich in Eins dichte und zusammentrage, was Bruchstück ist und Räthsel und grauser Zufall.
Und wie ertrüge ich es Mensch zu sein, wenn der Mensch nicht auch Dichter und Räthselrather und Erlöser des Zufalls wäre?
Die Vergangnen zu erlösen und alles „Es war“ umzuschaffen in ein „So wollte ich es!“ das hiesse mir erst Erlösung.

Io passo in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti dell’avvenire: di quell’avvenire che io contemplo.
E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità.
E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità?
Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni “così fu” in un “così volli che fosse!” – solo questo può essere per me redenzione!

An einer andren Stelle bestimmt er so streng als möglich, was für ihn allein „der Mensch“ sein kann – kein Gegenstand der Liebe oder gar des Mitleidens – auch über den grossen Ekel am Menschen ist Zarathustra Herr geworden: der Mensch ist ihm eine Unform, ein Stoff, ein hässlicher Stein, der des Bildners bedarf.

In un altro passo egli determina col massimo rigore possibile ciò che per lui solamente può essere “l’uomo” – non un oggetto di amore o magari di compassione – Zarathustra ha dominato anche la grande nausea per l’uomo; per lui l’uomo è un essere senza forma, un materiale, una brutta pietra che ha bisogno dello scultore.

Nicht-mehr-wollen und Nicht-mehr-schätzen und Nicht-mehr-schaffen: oh dass diese grosse Müdigkeit mir stets ferne bleibe!
Auch im Erkennen fühle ich nur meines Willens Zeuge- und Werdelust; und wenn Unschuld in meiner Erkenntniss ist, so geschieht dies, weil Wille zur Zeugung in ihr ist.
Hinweg von Gott und Göttern lockte mich dieser Wille: was wäre denn zu schaffen, wenn Götter – da wären?
Aber zum Menschen treibt er mich stets von Neuem, mein inbrünstiger Schaffens-Wille; so treibt's den Hammer hin zum Steine.
Ach, ihr Menschen, im Steine schläft mir ein Bild, das Bild der Bilder! Ach, dass es im härtesten, hässlichsten Steine schlafen muss!
Nun wüthet mein Hammer grausam gegen sein Gefängniss. Vom Steine stäuben Stücke: was schiert mich das!
Vollenden will ich’s, denn ein Schatten kam zu mir, – aller Dinge Stillstes und Leichtestes kam einst zu mir!
Des Übermenschen Schönheit kam zu mir als Schatten: was gehen mich noch – die Götter an!…

Non più volere e non più valutare e non più creare: ah, rimanga sempre da me lontana questa grande stanchezza!
Anche nel conoscere io sento la mia volontà che gode di generare e di divenire; e se nella mia conoscenza è innocenza, ciò accade perché in essa è volontà di generare.
Via da Dio e dagli déi mi ha allettato questa volontà: che cosa mai resterebbe da creare, se gli dèi – esistessero!
Ma la mia ardente volontà creatrice mi spinge sempre di nuovo verso l’uomo; così il martello viene spinto verso la pietra.
Ah, uomini, nella pietra è addormentata un’immagine, l’immagine delle mie immagini! Ah, che essa debba dormire nella pietra più dura e più informe!
E ora il mio martello infuria crudelmente contro la sua prigione. Dalla pietra un polverio di frammenti: che mi importa?
Io voglio compiere la mia opera: un’ombra venne infatti a me – la più silenziosa e lieve di tutte le cose è venuta una volta da me!
La bellezza del superuomo venne a me come un’ombra: che mai possono importarmi ancora – gli dei!…

Ich hebe einen letzten Gesichtspunkt hervor: der unterstrichne Vers giebt den Anlass hierzu. Für eine dionysische Aufgabe gehört die Härte des Hammers, die Lust selbst am Vernichten in entscheidender Weise zu den Vorbedingungen. Der Imperativ „werdet hart!“, die unterste Gewissheit darüber, dass alle Schaffenden hart sind, ist das eigentliche Abzeichen einer dionysischen Natur. –

KSA 6, 348-349

Voglio mettere in rilievo un ultimo punto di vista: me ne dà lo spunto il versetto sottolineato. Un presupposto decisivo per un compito dionisiaco è la durezza del martello, il piacere stesso del distruggere. L’imperativo “diventate duri!”, la più riposta certezza che tutti i creatori sono duri, è il vero segno distintivo di una natura dionisiaca. –

OFN VI, 3, 358-359

15. Lamento di Arianna

dai Ditirambi di Dioniso, 1888-1889

Fino alla fine del 1888, Nietzsche si dedica alla composizione dei suoi ultimi poemi, che confluirono nei Ditirambi di Dioniso: Il sole declina (Die Sonne sinkt); Tra uccelli di rapina (Zwischen Raubvögeln); Sulla povertà di chi è il più ricco (Von der Armuth Reichsten); Gloria ed eternità (Ruhm und Ewigkeit); Il fuoco del faro (Das Feuerzeichen). Alla metà di novembre 1888, quando aveva già terminato la prima versione di Ecce Homo, il titolo della raccolta risulta Die Lieder Zarathustras. A questo stesso periodo risale una lettera in cui Nietzsche propone a un editore sconosciuto di pubblicare sei canzoni di Zarathustra (27 novembre 1888). Alla metà del dicembre 1888, fino al principio di gennaio 1889, il destino dei canti di Zarathustra è strettamente legato alla storia del processo di creazione di Ecce Homo e di Nietzsche contra Wagner (Colli, Montinari 1988, 513).

Il 16 dicembre 1888, Nietzsche invia il manoscritto di Nietzsche contra Wagner a Lipsia, e scrive a Peter Gast: “Alla fine appare qualcosa di cui neppure il mio amico Köselitz potrebbe avere un’idea: un canto (o in qualsiasi modo Lei lo voglia chiamare...) di Zarathustra intitolato Sulla povertà di chi è il più ricco – sa, una piccola settima beatitudine e ancora un ottavo in più… musica…” (Lettere da Torino, 139).

Al 22 dicembre risale invece una lettera, sempre destinata a Gast, in cui Nietzsche dichiara di non voler più pubblicare l’opera: “Non vogliamo stampare lo scritto N. contra W. Ecce contiene tutto l’essenziale su questo rapporto […]. Forse vi aggiungerò pure il canto di Zarathustra – si intitola: Sulla povertà di chi è il più ricco. Come intermezzo tra 2 capitoli (OFN, XX, 160)”. Ma tre giorni dopo, quando riceve dal tipografo le 24 pagine dello scritto, gli pare di dover accettare il fatto compiuto della pubblicazione.

Il 29 dicembre invia a Lipsia un’altra canzone di Zarathustra, Gloria ed eternità (Ruhm und Ewigkeit), e il giorno successivo scrive, sempre a Gast: “Ieri ho spedito in tipografia il mio non plus ultra, intitolato Gloria ed eternità, composto al di là del settimo cielo. Costituisce il finale di Ecce Homo. – si potrebbe morire se lo si legge impreparati” (Lettere da Torino, 186). Tra la fine del 1888 e il 2 gennaio 1889, Nietzsche cambia nuovamente idea sul destino delle due canzoni di Zarathustra, e chiede all’editore Naumann di rispedirgliele indietro. In questi ultimissimi giorni, in cui aumentano i segni del crollo spirituale di Nietzsche, appaiono i Ditirambi di Dioniso nella versione attuale: è proprio ora che mette a punto il manoscritto.

Nella prima pagina dell’opera compare il titolo Dionysos-Dithyramben, e nell’ultima l’indice elaborato da Nietzsche con i titoli dei nove ditirambi dell’opera, che consistono nei sei sopra citati canti di Zarathustra e in altri tre ditirambi che derivano dalla “Parte quarta e ultima” dello Zarathustra, su cui l’autore interviene con alcune modifiche: Il Canto della melanconia (Das Lied der Schwermuth) ora compare con il titolo Soltanto giullare! Soltanto poeta! (Nur Narr! Nur Dichter!), mentre il canto Il mago (Der Zauberer) è ora Lamento di Arianna (Klage der Ariadne). Il 3 gennaio l’opera dovrebbe essere già stampata: Nietzsche annuncia l’evento a Cosima Wagner in una delle cosiddette “lettere della follia” – lettere pubblicate la prima volta da Curt von Westernhagen nella sua biografia di Wagner (1956), e oggi conservate a Bayreuth. Nella busta della lettera scritta a Cosima intorno ai ditirambi, si legge “Madame Cosima feu Wagner / Bayreuth / Allemagne”; il timbro riporta “Torino / Ferrovia / 3.1.89”; il testo dice: “Mi si racconta che un certo divino pagliaccio in questi giorni ha terminato i Ditirambi di Dioniso…” (OFN, XX, 103). Il 2 gennaio 1889 Nietzsche aveva dedicato i Ditirambi di Dioniso a Catulle Mendès (Colli, Montinari 1988, 514-515).

Il canto Der Zauberer (Il mago) (KSA 4, 313-320; OFN VI, 1, 305-312), inserito nella Parte quarta e ultima dello Zarathustra, fu concepito da Nietzsche come poesia nell’autunno 1884 con il titolo di Der Dichter. – Die Qual des Schaffenden (Il poeta. – La tortura del creatore); una seconda versione presenta altri due titoli: Aus der siebenten Einsamkeit (Della settima solitudine) e Der Gedanke (Il Pensiero). Nei Ditirambi di Dioniso, il canto è trasformato dal passaggio dal maschile al femminile e dall’aggiunta del finale – con l’apparizione di Dioniso. In questi ultimi versi il tema ricorrente dell’orecchio e della sua morfologia, relazionato alla comprensione e alla saggezza (“Steck ein kluges Wort hinein! –”), trova la sua somma espressione e costituisce il segno identificativo di Arianna, Dioniso (“Du hast kleine Ohren, du hast meine Ohren”) e, per estensione, dello stesso Nietzsche (v. Cirlot 2020).

Il ditirambo dà voce al lamento di Arianna per la tortura e il martirio, ai quali è esposta da colui a cui è dato il nome di “dio sconosciuto”. Nel Sanctus Januarius del Libro IV – l’ultimo nella prima edizione – de La Gaia Scienza, Nietzsche aveva rifiutato espressamente di introdurre immagini di martirio: “§313. Nessun quadro di martirio. Voglio fare come Raffaello e non dipingere più un quadro di martirio. Ce n’è abbastanza di cose sublimi, perché si debba andare a cercare la sublimità laddove essa vive con la crudeltà in un rapporto di sorella a sorella; la mia ambizione non ne trarrebbe soddisfazione alcuna, qualora mi volessi trasformare in un sublime torturatore” (KSA 3, 548; OFN V, 2, 213-214). Qui, invece, inserisce quelle immagini all’interno di una iconografia intimamente relazionata alla devozione e alla mistica, come è, per esempio, per la scala che sale al cuore, che rimanda a immagini visive come quella riprodotta e studiata dal medievista Jeffrey F. Hamburger, presente nell’abbazia di St. Walburg a Eichstätt (v. Hamburger 1997). La relazione della Klage con il Sanctus Januarius appare rilevante a partire dal carattere androgino di San Gennaro – con le due ampolle che conservano il sangue versato durante il martirio e il sangue mestruale – e l’androginia di Dioniso, là dove Arianna è proiezione visibile della polarità femminile (v. l’Introduzione a questa antologia).

Il lampo che manifesta Dioniso può così tessere una relazione con la “lancia di fuoco” del poema che apre il Libro IV (“Tu che con lancia di fuoco / frangi il gelo dell’anima mia”), scritto a Genova nel gennaio del 1882. Si tratta peraltro di un’immagine che presenta similitudini (lancia di fuoco e spada fiammeggiante; gelo) con un’altra immagine, quella dello Spirito del fuoco nel poema For the Sexes. Gates of Paradise di William Blake [Fig. 1], così commentato da Elémire Zolla: “William Blake diede voce a una tradizione diffusa e particolarmente viva presso gli alchimisti, immaginando che la materia visibile sia preceduta da una fermentazione invisibile, nel corso della quale il principio maschile della luce e del tempo ruota come una ‘spada fiammeggiante’ entro il velo di neve e ghiaccio del principio femminile, che rappresenta l’essenza dello spazio. Il gelido velo o la solida crosta dell’aspetto femminile della materia primordiale costituisce l’aspetto visibile del reale, l’illusione cosmica o maya” (Zolla (1980) 1989, 95). Nella tradizione alchemica il verde è il colore dello Spirito Santo, in cui, come si legge nel commento di Jung al globo di Heinrich Khunrath [Fig. 2], è integrata la polarità di maschile e femminile: “A Iride, all’arcobaleno in quanto fenomeno cromatico, corrisponde la cauda pavonis, un oggetto iconografico prediletto dalle stampe e dai manoscritti antichi, in cui tuttavia compare non solo la coda, ma il pavone tutto intero. Dato che esso significa ‘omnes colores’, ossia l’integrazione di tutte le qualità, un’illustrazione dell’Amphitheatrum sapientiae di Khunrath lo pone logicamente sulle due teste del Rebis, del quale esso rappresenta evidentemente l’unità. È indicato come l’‘uccello di Ermete’ e come benedicta viriditas, epiteti che rimandano entrambi allo Spirito Santo, o al Ruach Elohim, che tanta importanza riveste in Khunrath. Il verde è il colore dello Spirito Santo. La cauda pavonis viene anche chiamata ‘anima del mondo, natura, quintessenza, che fa germogliare tutte le cose’. Il pavone si trova qui collocato nella posizione più elevata, come simbolo dello Spirito Santo, in cui è integrata la suprema polarità di maschile e femminile rappresentata dall’ermafrodito e dal Rebis” (Jung [1955-1956] 1990, 300).

9 | Scala che sale al cuore, sec. XV, St. Walburg, Eichstätt.

Klage der Ariadne
Lamento di Arianna

Wer wärmt mich, wer liebt mich noch?
Gebt heisse Hände!
gebt Herzens-Kohlenbecken!
Hingestreckt,schaudernd,
Halbtodtem gleich, dem man die Füsse wärmt,
geschüttelt ach! Von unbekannten Fiebern,
zitternd vor spitzen eisigen Frostpfeilen,
von dir gejagt, Gedanke!
Unnennbarer! Verhüllter! Entsetzlicher!
Du Jäger hinter Wolken!
Darnieder geblitzt von dir,
du höhnisch Auge, das mich aus Dunklem anblickt!
So liege ich,
biege mich, winde mich, gequält
von allen ewigen Martern,
getroffen
von dir, grausamster Jäger,
du unbekannter – Gott

Chi mi riscalda, chi mi ama ancora?
Date mani ardenti,
date bracieri per il cuore!
Giù prostrata, inorridita,
quasi una moribonda cui si scaldano i piedi,
squassata, ahimè!, da febbri ignote,
tremante per gelidi dardi pungenti, glaciali,
incalzata da te, pensiero!
Innominabile! Velato! Orrendo!
Tu cacciatore dietro le nubi!
Fulminata a terra da te,
occhio beffardo che dall’oscuro mi guardi!
Eccomi distesa,
mi piego, mi dibatto, tormentata
da tutte le torture eterne,
colpita,
da te, crudelissimo cacciatore,
sconosciuto – dio...

Triff tiefer!
Triff Ein Mal noch!
Zerstich, zerbrich dies Herz!
Was soll dies Martern
mit zähnestumpfen Pfeilen?
Was blickst du wieder
der Menschen-Qual nicht müde,
mit schadenfrohen Götter-Blitz-Augen?
Nicht tödten willst du,
nur martern, martern?
Wozu – mich martern,
Du schadenfroher unbekannter Gott?

Colpisci più in fondo!
Colpisci una volta ancora!
Trafiggi, infrangi questo cuore!
A che questa tortura
con frecce spuntate?
Perché guardi di nuovo
inappagato del tormento umano,
con maligni, divini occhi lampeggianti?
Non vuoi uccidere,
torturare solo, torturare?
A che – torturarmi,
tu maligno dio sconosciuto?

Haha!
Du schleichst heran
bei solcher Mitternacht?...
Was willst Du?
Sprich!
Du drängst mich, drückst mich,
Ha! Schon viel zu nahe!
Du hörst mich athmen,
Du behorchst mein Herz,
Du Eifersüchtiger!
– worauf doch eifersüchtig?
– Weg! Weg!
wozu die Leiter?
willst du hinein,
ins Herz, einsteigen,
in meine heimlichsten
Gedanken einsteigen?
Schamloser! Unbekannter Dieb!
Was willst du dir erstehlen?
Was willst du dir erhorchen?
Was willst du dir erfoltern,
Du Folterer!
Du – Henker-Gott!
Oder soll ich, dem Hunde gleich,
Vor dir mich wälzen?
Hingebend, begeistert ausser mir
Dir Liebe – zuwedeln?

Ah! Ah!
Ti avvicini furtivo
proprio in questa mezzanotte?...
Che vuoi?
Parla!
Mi stringi, mi opprimi,
ah! troppo vicino!
Mi ascolti respirare,
il tuo orecchio spia il mio cuore,
o geloso
– ma di che geloso?
– Via, via!
perché la scala?
vuoi salire
sin dentro, nel cuore,
nei miei più segreti
pensieri salire?
Svergognato! Ignoto! Ladro!
Che speri di rubare?
Che speri di scoprire spiando?
che speri di estorcere,
torturatore!
tu – dio carnefice!
Oppure devo, come il cane,
dinanzi a te voltolarmi?
Devota, rapita fuori di me
scodinzolarti – amore?

Umsonst!
Stich weiter!
Grausamster Stachel!
Kein Hund –dein Wild nur bin ich,
grausamster Jäger!
deine stolzeste Gefangene,
du Räuber hinter Wolken…
Sprich endlich!
Du Blitz-Verhüllter! Unbekannter! sprich!
Was willst du, Wegelagerer, von – mir? …

È inutile!
Trafiggi ancora,
spina crudelissima!
Non sono un cane – solo la tua preda sono,
crudelissimo cacciatore!
la più superba tua prigioniera,
tu rapitore dietro le nubi...
Parla infine!
Tu velato dal fulmine! Ignoto! parla!
Che vuoi, predone, da – me?...

Wie?
Lösegeld?
Was willst du Lösegelds?
Verlange Viel – das räth mein Stolz!
und rede kurz – das räth mein andrer Stolz!

Come?
Prezzo di riscatto?
Quanto vuoi per riscattarmi?
Chiedi molto – consiglia il mio orgoglio,
e parla poco – consiglia l’altro mio orgoglio!

Haha!
Mich – willst du mich?
Mich – ganz?...

Ah! Ah!
Me – vuoi? me?
me – tutta?...

Haha!
Und marterst mich, Narr, der du bist,
zermarterst meinen Stolz?
Gieb Liebe mir – wer wärmt mich noch?
Wer liebt mich noch?
gieb heisse Hände,
gieb Herzens-Kohlenbecken,
gieb mir, der Einsamsten,
die Eis, ach! siebenfaches Eis
nach Feinden selber,
nach Feinden schmachten lehrt,
gieb, ja ergieb
grausamster Feind,
Mir – dich! ...

Ah! Ah!
E mi torturi, folle che sei,
martirizzi il mio orgoglio?
amore a me – chi mi scalda ancora?
chi mi ama ancora?
dà mani ardenti,
dà bracieri per il cuore,
dà a me, la più solitaria,
cui ghiaccio, ah! sette strati di ghiaccio
a bramare nemici insegnano,
persino nemici,
dà a me – te,
nemico crudelissimo,
anzi arrenditi a me!...

Davon!
Da floh er selber,
mein einziger Genoss,
mein grosser Feind,
mein Unbekannter,
mein Henker-Gott!...
Nein!
komm zurück!
Mit allen deinen Martern!
All meine Thränen laufen
zu dir den Lauf
und meine letzte Herzensflamme
dir glüht sie auf.
Oh komm zurück,
mein unbekannter Gott! mein Schmerz!
mein letztes Glück!...

È andato!
Ecco anche lui fuggì,
il mio unico compagno,
il mio grande nemico,
il mio sconosciuto,
il mio dio carnefice!...
No!
torna indietro!
Con tutte le tue torture!
Tutte le lacrime mie
corrono a te
e l’ultima fiamma del mio cuore
s’accende per te.
Oh torna indietro,
mio dio sconosciuto! dolore mio!
felicità mia ultima!...

Ein Blitz. Dionysos wird in smaragdener Schönheit sichtbar.

Un lampo – Dioniso si manifesta con una bellezza smeraldina.

Dionysos:

Sei klug, Ariadne!...
Du hast kleine Ohren, du hast meine Ohren:
Steck ein kluges Wort hinein! –
Muss man sich nicht erst hassen, wenn man sich lieben soll?...
Ich bin dein Labyrinth…

KSA 6, 375-412

Dioniso:

Sii saggia Arianna!...
Hai piccole orecchie, hai le mie orecchie:
metti là dentro una saggia parola! –
Non ci si deve prima odiare, se ci si vuole amare?...
Io sono il tuo Labirinto...

OFN VI, 4, 46-53

10 | Johannes Schilling, Quadriga di Dioniso e Arianna, 1838-1842, Dresden, Semperoper.

16. Lettere della follia

dall’Epistolario, gennaio 1889

Il crollo di Nietzsche si manifesta nelle lettere inviate gli ultimi giorni del 1888 e i primi giorni del 1889 (Wahnsinnszettel). Nella corrispondenza si moltiplicano le considerazione sull’importanza della sua opera e sulla sua persona. Cosima Wagner è identificata con Arianna e Nietzsche stesso con “Dionysos” – che diventa in questo periodo la sua firma abituale, insieme a “Der Antichristus” (l’anticristo) e “Der Gekreuzigter” (il crocifisso). Ma, come abbiamo tentato di dimostrare in questa antologia, tale assimilazione non esaurisce il significato di Arianna, rintracciabile almeno a partire da La Gaia Scienza (1882).

Nella lettera del 3 gennaio destinata a Cosima/Arianna, Nietzsche elenca le varie figure, da Buddha a Napoleone, che è stato nel passato, per annunciarsi ora come un Dioniso “vittorioso, che renderà la terra un giorno di festa”. Si rifà qui anche all’essere stato “appeso alla croce”, evocando l’immagine di Dioniso crocifisso. A Cosima/Arianna, lo stesso giorno, in un biglietto molto noto, dichiara il suo dionisiaco amore. Del giorno successivo è una lettera al wagneriano Hans von Bülow, primo marito di Cosima, a cui Nietzsche si presenta come “terzo” amante – dopo lo stesso von Bülow e Wagner – della “Veuve Clicquot-Arianna”, richiamando l’innovativa e audace imprenditrice di champagne francese, vedova Clicquot, assimilata ora ad Arianna. Von Bülow, a sua volta, è condannato ad essere divorato dal “Leone di Venezia”, in un gioco di doppi sensi che rimandano alla lettera del 10 agosto 1988 in cui Nietzsche raccomandava al celebre direttore d’orchestra l’opera Il leone di Venezia dell’amico Peter Gast e su cui non ebbe risposta (v. la lettera del 9 ottobre 1988 e la rispettiva nota in Lettere da Torino, 43 e 209). La coppia Dioniso-Arianna torna nelle lettere del 4 e del 6 gennaio destinate a Jacob Burckhardt.

Turin, 3 Januar 1889 | Brief an Cosima Wagner
Torino, 3 gennaio 1889 | A Cosima Wagner

An die Princeß Ariadne, meine Geliebte.
Es ist ein Vorurtheil, daß ich ein Mensch bin. Aber ich habe schon oft unter den Menschen gelebt und kenne Alles, was Menschen erleben können, vom Niedrigsten bis zum Höchsten. Ich bin unter Indern Buddha, in Griechenland Dionysos gewesen, – Alexander und Caesar sind meine Inkarnationen, insgleichen der Dichter des Shakesperare Lord Bakon. Zuletzt war ich noch Voltaire und Napoleon, vielleicht auch Richard Wagner... Dies Mal aber komme ich als siegreiche Dionysos, der die Erde zu einem Festtag machen wird... Nicht daß ich viel Zeit hätte... Die Himmel freuen sich, daß ich da bin... Ich habe auch am Kreuze gehangen…
(KGB III/5, 442-579)

Alla principessa Arianna, la mia amata.
È un pregiudizio che io sia un uomo. Ma ho spesso vissuto tra gli uomini e conosco tutte le esperienze che gli uomini possono fare, dalle più basse alle più alte. Tra gli indiani sono stato Buddha, in Grecia Dioniso – Alessandro e Cesare sono le mie incarnazioni, come pure il poeta di Shakespeare Lord Bacon. Da ultimo sono stato ancora Voltaire e Napoleone, forse anche Richard Wagner... Ma questa volta vengo come Dioniso il vittorioso, che renderà la terra un giorno di festa... Non che io abbia molto tempo... I cieli gioiscono per il fatto che sono qui... Sono stato anche appeso alla croce…
(OFN, XX, 194)

Turin, vermutlich 3 Januar 1889 | Brief an Cosima Wagner
Torino, probabilmente 3 gennaio 1889 | A Cosima Wagner

Ariadne, ich liebe Dich!
Dionysos
(KGB III/5, 442-579)

Arianna, ti amo!
Dioniso
(OFN, XX, 194)

Turin, 4 Januar 1889 | Brief an Hans von Bülow
Torino, 4 gennaio 1889 | A Hans von Bülow

Herrn Hans von Bülow
In Anbetracht, dass Sie angefangen haben und der erste Hanseat gewesen, ich, in aller Beschiedenheit, bloss der Dritte Veuve Clicquout-Ariadne, darf ich Ihnen schon nicht das Spiel verderben: viel mehr verurtheile ich Sie zum „Löwen von Venedig“ – der mag Sie fressen…
Dionysos
(KGB III/5, 442-579)

Al signor Hans von Bülow...
Considerando che ha cominciato Lei, ed è stato il primo membro della Lega anseatica, mentre io, in tutta modestia, sono solo il terzo Veuve Clicquout-Arianna, non posso rovinarLe il gioco: la condanno piuttosto al Leone di Venezia – che possa divorarla...
Dioniso
(OFN, XX, 195)

Turin, 4 Januar 1889 | Brief an Jacob Burckhardt
Torino, 4 gennaio 1889 | A Jacob Burckhardt

Meinem verehrungswürdigen Jacob Burckhardt
Das war der kleine Scherz, dessentwegen ich mir die Langweile, eine Welt geschaffen zu haben, nachsehe. Nun sind Sie – bist Du – unser grosser grösster Lehrer: denn ich, zusammen mit Ariadne, habe nur das goldne Gleichgewicht aller Dinge zu sein, wir haben in jedem Stücke Solche, dir über uns sind...
Dionysos
(KGB III/5, 442-579)

Al mio venerabile Jacob Burckhardt
Questo è stato il piccolo scherzo a causa del quale mi perdono la noia di aver creato un mondo. Ora è Lei – sei tu – il nostro grande, grandissimo maestro: dato che io, insieme con Arianna, devo soltanto essere l’equilibrio aureo di tutte le cose, io ogni cosa abbiamo alcuni che stanno al di sopra di noi...
Dioniso
(OFN, XX, 195-196)

Turin, 6 Januar 1889 | Marginalia – Brief an Jacob Burckhardt
Torino, 6 gennaio 1889 | Marginalia – a Jacob Burckhardt

Morgen kommt mein Sohn Umberto mit der lieblichen Margherita, die ich aber auch nur hier in Hemdsärmeln empfange. Der Rest für Frau Cosima… Ariadne… Von Zeit zu Zeit wird gezaubert…
Ich gehe überall hin in meinem Studentenrock, schlage hier und da Jemandem auf die Schulter und sage: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura…
Ich habe Kaiphas in Ketten legen lassen; auch bien ich voriges Jahr von den deutschen Ärzten auf eine sehr langwierige Weise gekreuzigt worden. Wilhelm, Bismarck und alle Antisemiten abgeschafft.
Sie können von diesen Brief jeden Gebrauch machen, der mich in der Achtung der Basler nicht heruntersetzt. -
(KGB III/5, 442-579)

Domani arriva mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, ma anche qui li riceverò solo in maniche di camicia. Il resto per la signora Cosima… Arianna… Di tanto in tanto si fanno degli incantesimi…
Vado ovunque col mio vestito da studente, ogni tanto do una pacca sulla spalla a qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura…
Ho fatto mettere Caifa in catene; e l’anno scorso sono stato crocefisso a lungo dai medici tedeschi. Wilhelm Bismarck e tutti gli antisemiti eliminati.
Di questa lettera potrà farne qualsiasi uso, purchè non mi screditi nelle considerazioni dei basileesi. –
(OFN, XX, 202)

11 | Lettera di Friedrich Nietzsche a Jacob Burckhardt, Torino, 4 gennaio 1889.

**Kerényi 1944, 406-407: “Wir müsse hier innehalten. Nicht nur, weil wir da die reinste und eigenste dichterische Stimme Nietzsches hören, sondern weil da ungenannt und nicht gewusst als sein “glücklicheres Ich”, sein “zweites verewigtes Selbst” – Dionysos erscheint. Es ist eine Schiffepiphanie, heute schon von einem wundervollen griechischen Vasenbild, das für Nietzsche kaum noch existierte, allgemein bekannt. Und es ist hier auch der Sinn dieser Ephipanie so ausgesprochen, wie ihn unsere Mythenforschung erst viel später zu fassen wagte [...] So taucht griechische Mythologie nicht aus Nietzsches Philologie, sondern aus seinen nicht-gelehrten Hintergründen auf. 

Sigle delle opere di Friedrich Nietzsche secondo l’edizione Colli-Montinari

  • AC
    Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum
  • DD
    Dionysos-Dithyramben
  • EH
    Ecce Homo. Wie man wird, was man ist
  • FW
    Die fröhliche Wissenschaft
  • GD
    Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer philosophirt
  • JGB
    Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft
  • KGB
    Kritische Gesamtausgabe Briefwechsel
  • KSA
    Kritische Studienausgabe
  • NS
    Nachgelassene Fragmente
  • NW
    Nietzsche contra Wagner
  • OFN
    Opere di Friedrich Nietzsche
  • Za
    Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen
     
Bibliografia
Opere di Friedrich Nietzsche
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  • F. Nietzsche, Dionysos-Dithyramben [1888-1889], Kritische Studienausgabe 6, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, de Gruyter, Berlin 1967-1988; tr. it. Ditirambi di Dioniso, Opere di Friedrich Nietzsche VI, 4, ed. it. condotta sul testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, versione di G. Colli, Adelphi, Milano 1970, 3-71.
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English abstract

The contribution proposes for the reading a selection of texts from Friedrich Nietzsche’s works that show the presence of the myth of Ariadne, its secret, hidden but recognizable history, the formation of the new couple Ariadne and Dionysus, up to its progressive revelation and final apotheosis. Each passage is introduced by a commentary that aims to illuminate words and figures that through time portray the Dionysian couple, and provides an account of the chronological arc in which Nietzsche composed and worked on these writings, starting from The Gay Science published in 1882 to his final collapse in 1889.

keywords | Friedrich Nietzsche; myth of Ariadne; Ariadne and Dionysus; Dionysian couple.

Per citare questo articolo: Victoria Cirlot, Anna Fressola (a cura di), Arianna e Dioniso nelle opere di Friedrich Nietzsche, “La Rivista di Engramma” n. 173, maggio-giugno 2020, pp. 15-139 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.173.0023