Libri quos mari transmisi Venetias
Busbecq, Prodromos Petra e i giacimenti librari costantinopolitani al tempo di Solimano il Magnifico
Silvia Ronchey
English abstract
Al dotto diplomatico fiammingo Augier Ghislain de Busbecq (1522-1592), passato alla storia per le due missioni che lo portarono a Costantinopoli prima nel 1554 e poi tra la fine del 1555 [1] e il 1562 quale ambasciatore di Ferdinando I d’Asburgo presso la corte ottomana, sono stati riconosciuti fino ad oggi vari meriti, che includono l’accordo sui confini tra i due imperi nell’area della Transilvania e l’invio nei Paesi Bassi di alcuni bulbi di tulipano e di una serie di altre piante allora sconosciute al mondo occidentale [2]. Due gli sono valsi l’eterna gratitudine degli studiosi: l’avere condotto con sé a Costantinopoli il pittore Melchior Lorichs, permettendogli di produrre la più bella e celebre veduta mai tracciata della Città, e l’avere reperito e acquisito per l’imperatore d’Austria quello straordinario codice miniato del VI secolo contenente il De materia medica di Dioscoride, che da allora in poi è conosciuto come il Dioscoride di Vienna [3].
Dell’intraprendenza antiquaria di Busbecq e del suo interesse, oltre che per l’attualità politica della corte ottomana, anche per il passato bizantino e le sue vestigia è testimonianza l’epistolario, che, pubblicato per la prima volta in latino alla fine del Cinquecento [4], fu recuperato e reso celebre alla metà del XVIII secolo dalla traduzione dell’Abbé de Foy, che ne fece uno dei testi sacri per i viaggiatori orientalisti dell’Ottocento [5].
Fondamentale testimonianza dei suoi interessi bibliofili, delle sue operazioni di acquisto e dei tempi e modi dell’esportazione dei codici è in particolare la cosiddetta quarta lettera turca [6]. Da questa apprendiamo che durante la sua seconda missione alla corte di Solimano il Magnifico Busbecq aveva trattato per acquistare il Dioscoride, dapprima conservato nella biblioteca di Prodromos Petra (a partire dal 1406, quando era stato affidato a Giovanni Cortasmeno per essere restaurato e rilegato [7]) e di qui passato all’ambiente della corte sultaniale. Alla fine Busbecq era stato costretto a lasciarlo a Costantinopoli, perché il prezzo di 100 ducati richiesto dal “figlio dell’ebreo Amon”, già medico di corte del sultano, era troppo alto per la sua tasca (“Is [sc. Dioscorides] est penes Iudęum Hamonis dum viveret Suleimanni medici filium, quem ego emptum cupivissem, sed me deterruit pretium. Nam centum ducatis indicabatur, summa Cęsarei, non mei marsupii. Ego instare non desinam, donec Cęsarem impulero ut tam pręclarum auctorem ex illa servitute redimat”), se non per quella imperiale [8], che tuttavia Ferdinando d’Asburgo non impegnava volentieri [9].
Comunque, dopo l’avvento al trono di Massimiliano II, successore di Ferdinando I e già pupillo di Busbecq [10], il nostro avrebbe portato a termine la transazione e il codice sarebbe entrato nella biblioteca imperiale di Vienna, dove ancora è conservato sotto la segnatura di Vindobonensis Medicus graecus 1. Che l'acquisto del Dioscoride sia dovuto a Busbecq in persona, per la somma di 100 ducati ungheresi, il 24 aprile 1576, sembra evincersi dallo scambio epistolare tra il botanico Charles de l'Écluse (1526-1609) e l'umanista Johannes Krafft (1519-1585) nonché della lettera indirizzata da Hugo Blotius a Massimiliano II (“Dioscoridem quendam vetustissimum, Constantinopoli, ni fallor, ab Augerio a Busbecke 100 aureis emptum in Bibliotheca […]”) [11].
Tre lustri prima, nel corso della sua missione, Busbecq aveva investito la totalità delle sue personali sostanze in una massiccia “spigolatura” (Busbecq usa la parola ‘spicilegium’) di quanto restava del patrimonio librario costantinopolitano. Aveva acquistato altri “quasi duecentoquaranta manoscritti greci”, come leggiamo sempre nella quarta lettera turca: “Sunt credo libri haud multo infra ducentos quadraginta”, scrive Busbecq, “quos mari transmisi Venetias, ut inde Viennam deportentur. Nam Cęsareae bibliothecę eos destinavi” [12]. Poco prima di lasciare Costantinopoli aveva dunque spedito per nave a Venezia [13], con destinazione finale Vienna, quello che può essere considerato il più ingente carico librario che mai avesse, fino ad allora, solcato i mari [14].
In realtà solo molto dopo, nel 1576, Busbecq trasmise ufficialmente alla biblioteca imperiale vindobonense la sua donazione di manoscritti greci, in numero di duecentosettantasette [15]. Il conteggio complessivo sembra registrare quindi un incremento dei codici di Busbecq tra il 1562 e il 1576. Ci si domanda se il passaggio da Venezia non possa avere determinato modifiche nella composizione del carico [16] – a meno che la discrepanza non sia da attribuirsi, come ritenuto da Christian Gastgeber, a una semplice “sottovalutazione” di Busbecq [17]. Nulla si sa a tutt’oggi delle sue vicende negli anni successivi, durante i quali si può supporre che Busbecq abbia tenuto la sua biblioteca privata con sé, quanto meno dopo il periodo spagnolo (1562-1565) [18]: così sembra indicare almeno la sua lettera del 1569 a Masius [19].
In ogni caso, sulla piazza costantinopolitana i più certi interlocutori commerciali di Busbecq furono i fratelli Giovanni e Manuele Malaxos [20]. È anche altrimenti noto il loro rapporto, forse non confinato alla sfera bibliografico-antiquaria ma esteso a quella politica e politico-ecclesiastica, con l’ambasciatore di Ferdinando I d’Asburgo, così come con gli altri dotti diplomatici occidentali inviati come osservatori dell’enclave cristiano-ortodossa di Costantinopoli nei due decenni successivi la metà del XVI secolo. Particolarmente stretto fu quello dei Malaxoi con Stephan Gerlach, chierico protestante allievo di Crusius [21], fra il 1573 e il 1578 attaché diplomatico alla delegazione di Massimiliano II d’Asburgo guidata da David Ungnad presso la Sublime Porta, meticolosa figura di spia [22]. L’istituzione patriarcale, all’ombra della quale si sviluppavano gli interessi dei Malaxoi e della loro cerchia, era infatti cruciale nei rapporti tra l’impero asburgico e quello ottomano e un centro di informazioni sensibili per gli inviati del suo governo.
All’ambiente del patriarcato apparteneva un altro cruciale interlocutore del personale diplomatico occidentale inviato presso la Sublime Porta, Giovanni Zigomala. Questo notabile ecclesiastico, filologo, bibliofilo nonché copista, era un ottimo conoscitore dell’eredità libresca della capitale nonché, insieme al figlio Teodosio [23], un attento cercatore di manoscritti dentro e anche fuori Costantinopoli [24]. Attorno ai codici che entravano nella sua disponibilità tesseva un’attività di mediazione commerciale tanto oculata quanto, stando alle proteste di Gerlach, gelosa ed esosa [25]. Sono le testimonianze di Gerlach ad attestare la frequentazione tra gli Zigomala e “Herr Augerius” [26], il che induce a ritenere mediata anche da costoro l’acquisizione dei codici del carico di quest’ultimo. Nella quarta lettera turca si legge:
Adhaec librorum graecorum manuscriptorum tota plaustra, totas naves. […] Sunt aliquot non contemnendi, communes multi. Converri omnes angulos, ut quicquid restabat huiusmodi mercis tanquam novissimo spicilegio cogerem [27].
“Ho frugato ogni angolo”, scrive Busbecq, usando la prima persona. Ma la maggioranza se non la totalità delle ricerche dovette essere affidata, quindi, all’intraprendenza e alle entrature degli Zigomala, dei Malaxoi e di quegli altri conoscitori del patrimonio librario della Polis che facevano capo al quartiere patriarcale, dove l’opera di studio, catalogazione, conservazione e perpetuazione di quanto ne restava si affiancava a una routine di insegnamento grammaticale svolta anch’essa sub patriarcheio oltre che a una bene organizzata commercializzazione [28].
Soltanto per due dei manoscritti che Busbecq spedì da Costantinopoli a Venezia nel 1562 e che oggi si conservano a Vienna si può documentare la provenienza certa dai Malaxoi [29], mentre per nessuno risultano finora prove dirette di una mediazione di Zigomala. Abbiamo però certezza che Zigomala vendette a Gerlach “un Eustazio”, di cui mantenne riservata la provenienza, chiedendo all’inizio l’esorbitante somma di 20 ducati per poi accontentarsi di 6 talleri [30]. Il manoscritto in questione va a nostro avviso identificato, in base alle vicende della tradizione manoscritta eustaziana, con l’attuale Vat. gr. 1409, antigrafo del Vind. Theol. gr. 208 [31], quest’ultimo copiato per Busbecq da una mano riconducibile alla più ristretta cerchia dei Malaxoi [32]. La circostanza, oltre a indicare che il Vat. gr. 1409 non fece parte del carico di Busbecq [33] ma giunse in Italia nel decennio successivo [34], conferma l’usanza di Zigomala, riferita da Gerlach, di approntare o commissionare copie tratte dai migliori manoscritti venuti nelle sue mani e di conservare per sé l’originale [35]. Per gli acquisti di Busbecq non sembra quindi possibile, almeno in alcuni casi, distinguere la mediazione dei Malaxoi da quella di Zigomala: entrambi i soggetti probabilmente costituivano, nella cerchia patriarcale, un’unica joint venture commerciale. Dalla quale provenne, è lecito supporre, la maggior parte del “novissimum spicilegium” di Busbecq.
Tra i dati raccolti tramite Gerlach può leggersi anche una vivida descrizione di Manuele Malaxos e delle sue condizioni di vita e di insegnamento:
Malaxo autem […] tantum ex Gerlachio cognovi. Est is admodum senex: pueros et adolescentulos Graecos, sub Patriarcheio, in parvula et misera casa docet: pisces sicatos, in ea suspensos habet, quibus vescitur, ipse coquens; libros precio describit, vino, quicquid lucratur, insumit; pinguis et robustus est [36].
Che il carico di manoscritti di Busbecq possa essere stato accompagnato proprio da Manuele Malaxos è circostanza insondabile ma non da escludere in linea di principio, considerato il fatto che quest’ultimo, in perenne transito fra Costantinopoli e l’Italia, fu a Venezia a partire dal 1563, anno in cui ebbe fra l’altro inizio la sua collaborazione con Andreas Darmarios. Manuele aveva peraltro già soggiornato a Roma prima del 1549, quando era stato copista per la Biblioteca Vaticana, e poi tra il 1559 e il 1561, sempre in ambiente vaticano ma con almeno una puntata a Venezia.
Abbiamo visto che la provenienza dei manoscritti venduti a Busbecq in maniera più o meno diretta dai Malaxoi e/o dagli Zigomala è resa oscura, se non misteriosa, dalla loro stessa elusività [37]. La circostanza induce Gastgeber a concludere che “die Provenienz offensichtlich sehr vielfältig und nicht auf eine Quelle beschränkt ist” [38]. Il che è senz’altro verosimile, così come è possibile che alcuni dei manoscritti acquistati da Busbecq provenissero da monasteri provinciali [39] ed altri da soggetti privati occidentali [40]. Ma ciò non toglie che il serbatoio originario dei codici disponibili nella cerchia patriarcale costantinopolitana cinquecentesca e dunque nell’offerta commerciale della Polis dovesse comunque in maggioranza essere stato la riserva di libri costituita dalla medesima grande biblioteca in cui era conservato a suo tempo anche il Dioscoride: quella di Prodromos Petra.
Non possiamo affermare con certezza dove esattamente i molti e preziosi codici, grazie ai quali la biblioteca era stata famosa in tutto il mondo nel XV secolo, fossero conservati un secolo e mezzo dopo, al tempo della missione di Busbecq. Né sappiamo se a quest’ultimo, come ai suoi predecessori occidentali quattrocenteschi [41], una parte almeno degli acquisti librari provenisse fisicamente ancora da quel monastero – pur attraverso i mediatori della cerchia patriarcale – o da biblioteche personali in cui quella di Prodromos Petra si fosse scissa [42], o infine dalla “piccola” biblioteca del patriarcato esistente nella Pammakaristos, che pure poteva avere accolto i codici di Petra [43]. In ogni caso, il patrimonio di Prodromos Petra, se anche una sua parte era stata provvisoriamente o definitivamente trasferita ad altre biblioteche, al tempo della missione di Busbecq doveva essere rimasto almeno in parte disponibile nel bacino librario del quartiere patriarcale [44].
Del resto il monastero era certamente sopravvissuto alla conquista turca. La continuazione della vita monastica è attestata anzitutto dal registro catastale ottomano del 1455, il primo dopo la conquista, recentemente pubblicato da Halil Inalcik, in cui Prodromos Petra risulta il maggior monastero costantinopolitano [45]. È vero che nessuna testimonianza diretta conferma che avesse mantenuto la sua biblioteca. Ma va sottolineato, con Peter Schreiner, che
[...] the story of the fall of Constantinople is dominated by Greek historiography and its ideological perspective - understandable for the contemporaries, since the City’s fall meant the loss of national independence. Looking at the events from our modern viewpoint, however, we should keep a certain distance, and not just in terms of time [46].
La disponibilità di libri rivelata dallo ‘spicilegium’ di Busbecq parla in favore di una continuità dello studio del passato, sotto l’egida dell’ortodossia, e di una conservazione dell’eredità culturale greca, sotto il dominio ottomano, più estesi di quanto presupposto dalla vulgata storiografica [47]. A conferma di quel sostanziale rispetto per Costantinopoli, i suoi monumenti e le sue tradizioni, che fin dall’inizio fu mostrato dall’autorità oltreché dall’ambiente sultaniale.
Possiamo a questo scopo sottolineare che nel 1463 un firmano di Mehmet II, conservato nel tesoro del patriarcato greco ortodosso di Istanbul al Fanario [48], cedette il monastero di Prodromos Petra a una potente e pia dama cristiana, la madre del “visir dei visir del diwan” Mahmud Pasha Angelović Mihailoğlu, rinnegato di origine serba e personaggio cruciale della prima corte ottomana [49]. Maria [50], aristocratica esponente dell’élite turcofila, figlia di uno Iagaris, cognata di Giorgio Amirutzes, forse imparentata anche con la famiglia dei Cantacuzeni [51], aveva vaste entrature [52] e ampie disponibilità finanziarie [53]. Il passaggio del complesso in mani private non dovette pertanto comportare né la sua decadenza materiale [54] né la scomparsa della sua biblioteca: al contrario, la nuova proprietà dovette salvaguardarla [55].
Se già Otto Volk ipotizzava pur cautamente che la biblioteca di Prodromos Petra avesse mantenuto la sua attività e la sua funzione di riferimento anche dopo la conquista ottomana, una conferma è a nostro avviso fornita dal codice Panaghia 48 del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, proveniente dal monastero della Panaghia di Chalki, che compare nel catalogo recentemente pubblicato da Matoula Kouroupou e Paul Géhin [56] e che le annotazioni marginali e la sottoscrizione autografa dei ff. 69v e 157v rivelano affidato dall’ex patriarca Gennadio Scolario alla biblioteca di Prodromos Petra nel 1462-1463 [57]. Dunque, negli anni ‘60 del Quattrocento, la biblioteca non solo continuava ad esistere ma anche ad essere un punto di riferimento per l’intelligencija costantinopolitana.
Se l’esistenza e, a grandi linee, la storia di questo monastero e delle sue istituzioni culturali erano già note da tempo [58], la sua ubicazione e soprattutto la sua funzione di ultimo grande giacimento librario costantinopolitano sono state solo recentemente, ancorché tuttora solo parzialmente, ricostruite dagli studiosi, dando luogo a una vera e propria “sindrome di Petra” che ha contagiato filologi e paleografi, storici di Bisanzio e del Rinascimento, moltiplicando le ricerche e i contributi che sempre più spesso attribuiscono alla sua biblioteca e/o al suo scriptorium l’appartenenza, quando non anche la stesura, di codici di cruciale importanza per la storia della tradizione manoscritta dei testi classici e di alcuni tra i più eminenti e rari testi bizantini, come, ad esempio, il Parisinus graecus 1712, unico testimone integrale della Cronografia di Michele Psello [59], o l’originale, oggi perduto nell’incendio della biblioteca dell’Escorial ma la cui intestazione e il cui pinax sono sopravvissuti nelle descrizioni di Turrianus, di quello che può considerarsi l’ultimo e più prezioso tomo della cosiddetta mitteralterliche Eustathiosedition, ossia dell’edizione ‘ufficiale’, basata su linee editoriali risalenti all’autore e allestita dalla sua scuola, degli opera omnia di Eustazio [60].
Due testimonianze principali descrivono il complesso di Prodromos Petra nel XV secolo, quando, dopo il declino degli altri διδασκαλεῖα e delle altre biblioteche monastiche, doveva costituire la massima istituzione culturale e riserva bibliografica costantinopolitana. Nell’ottobre del 1403 Ruy Gonzales de Clavijo contemplò il monastero in quello che si direbbe essere stato il massimo del suo splendore [61]. A vent’anni di distanza Cristoforo Buondelmonti lo raffigurò come uno degli edifici principali nella sua mappa di Costantinopoli, a sud-est delle Blacherne [62], e questa sua testimonianza è fondamentale, perché Buondelmonti è anche il primo a parlare, includendola al primo posto tra le cisterne costantinopolitane, di una “cisterna di San Giovanni in Petra” vicino al monastero, identificabile con la “cisterna di Aezio” di cui parlano le note di possesso dei codici di Prodromos Petra [63].
La biblioteca della Pammakaristos, il complesso in cui il patriarca si era insediato dal 1456, era peraltro, come abbiamo visto dalle testimonianze in nostro possesso, quanto mai esigua. Anche in considerazione di questo dato è ipotizzabile che si fosse formato, sub patriarcheio, un unico bacino librario, cui la componente greca della Polis, e ancora un secolo dopo la cerchia dei Malaxoi, attingesse per un’attività di studio, copia e commercializzazione protratta fino almeno agli anni ‘60 del Cinquecento, all’interno di un circuito ecclesiastico costantinopolitano compreso nello stesso quartiere in contigue cinte murarie. Gerlach nella sua lettera a Crusius (7 marzo 1578) sottolinea in effetti la contiguità tra il patriarcheion e il monastero del Prodromos (“Patriarchatui contiguum est Monasteriolum Ioann. Baptistae Graecis Sanctimonialibus inhabitatum” [64]), che ne delimitava la cinta muraria a nordovest, probabilmente a ridosso, dunque, dell’edificio della Pammakaristos, come risulta dall’ulteriore testimonianza, orale, ricavata da Crusius “ex familiari inter nos, post reditum eius, sermone”, secondo cui “ad Occasum, Boream uersus, Prodromi μονή est, olim Πέτρα” [65]. Nonostante il perdurante disaccordo degli studiosi sull’esatta ubicazione del Prodromo di Petra, la sua estrema vicinanza con la Pammakaristos apparirebbe, dunque, confermata.
Né la querelle sull’identificazione delle vestigia superstiti del monastero né le più recenti e attendibili conclusioni degli esperti di topografia costantinopolitana contraddicono la nostra ipotesi [66]. Le ultime ricerche riferiscono la vasta superficie occupata dal complesso, che includeva orti e vigneti oltre che i vari e vasti edifici e i loro annessi, all’area topografica attualmente compresa tra la Kasım Ağa Camii, la Odalar Camii, la Ipek Bodrum Sarnicı a sud [67] e a nord al di là della Kefeli Mescidi sino forse al cosiddetto Boğdan Sarayi, situato all’interno del vasto appezzamento che il gospodaro di Moldavia aveva acquistato nel XVI secolo per alloggiare la propria rappresentanza diplomatica presso il sultano [68]: era forse una delle cappelle funerarie di Prodromos Petra la piccola chiesa nota come Ἅγιος Νικόλαος τοῦ Βογδανσαράγι, descritta e raffigurata nella seconda metà dell’Ottocento da Alexandros Paspatis [69] e ancora oggi parzialmente visibile nel sottosuolo di un modesto esercizio commerciale non distante dalla Karyie Camii [70].
Almeno due attendibili viaggiatori occidentali cinquecenteschi testimoniano d’altronde come ancora al tempo dei rispettivi soggiorni il complesso di Petra, benché architettonicamente mutilo, fosse tuttavia in funzione, abitato e in possesso di almeno parte dei suoi tesori. Fra il 1537 e il 1540 Pierre Gilles descrive le vestigia di un perdurante splendore architettonico, pur lamentando la progressiva scomparsa delle colonne marmoree [71]. Sia Gilles sia Gerlach vedono la struttura in decadenza, ma ancora ricca di mosaici, affreschi e icone [72]. Secondo quanto riferito dallo stesso Gerlach nella lettera del 7 marzo 1578 a Martin Crusius, è in questo preciso momento che la chiesa di Prodromos Petra viene chiusa dai turchi per la vicinanza di una moschea [73]. In ogni caso le celle continuavano a essere abitate: Gerlach parla di una piccola comunità monastica femminile, che viveva delle elemosine dei maggiorenti greci e del patriarca [74], avendo sostituito o forse solo affiancato i monaci [75]. Era comunque uno ieromonaco ad assicurare la liturgia [76]. È ipotizzabile che la biblioteca di Petra si sia definitivamente smembrata proprio in quest’epoca, ossia negli anni ‘60 del Cinquecento, e che da tale smembramento finale provenga almeno una parte degli acquisti librari effettuati da Ghislain Augier de Busbecq [77].
Quello di Gerlach è l’ultimo avvistamento di Prodromos Petra. Possiamo ritenere che il monastero abbia cessato di esistere durante la turchizzazione del quartiere sotto Murad III, nella forbice temporale compresa tra la chiusura della chiesa τοῦ Προδρόμου nel 1578, la consacrazione della Pammakaristos al culto islamico nel 1593/94 e il trasferimento del quartiere patriarcale negli anni ‘90 [78]. È in ogni caso certo, come anticipato, che almeno qualcuno dei codici conservati nel Quattrocento a Prodromos Petra si ritroverà nell’isola di Chalki, come conferma il sinassario Panaghia 48; anche se non dobbiamo pensare né a un passaggio diretto da Prodromos Petra a Chalki [79], né che il patrimonio librario di Chalki si sia formato dal ‘trasloco’ di una biblioteca patriarcale propriamente detta [80].
Questa pur veloce riflessione sulle modalità dello ‘spicilegium’ condotto da Busbecq e sulla provenienza del carico di libri da lui inviato per mare nel 1562 a Venezia evidenzia elementi storici di qualche rilevanza: più di un secolo dopo la sua caduta, o conquista, Costantinopoli manteneva un’ampia disponibilità di manoscritti, che si possono congetturare almeno in parte provenienti, più che dall’esigua disponibilità libresca della Pammakaristos, da una residua parte della vicina se non addirittura adiacente biblioteca di Petra; l’attività di studio e copia non era cessata sotto il dominio ottomano, ma aveva continuato a perpetuare, sia pure in condizioni materiali modeste come quelle descritte da Gerlach nel suo ritratto di Manuele Malaxos, il patrimonio bibliografico e la conoscenza antiquaria di Bisanzio; non erano andati distrutti né i giacimenti bibliografici, né le sedi in cui venivano conservati; se non un vero e proprio umanesimo greco costantinopolitano, quanto meno un ‘ellenismo’ postbizantino e una cultura antiquaria greca autoctona erano sopravvissuti nella Polis finché esistette il quartiere patriarcale [81].
L’ultima e più consistente mandata di beni librari uscì da Costantinopoli nella seconda metà del Cinquecento, collocandosi nella forbice temporale compresa tra i due ultimi avvistamenti di Prodromos Petra da parte di Gilles e Gerlach e il definitivo abbandono del monastero, certamente avvenuto prima della data in cui il patriarcato lasciò la sede della Pammakaristos, consacrata al culto islamico nel 1593/94. Il passaggio del testimone alle biblioteche di Chalki, che si posero come principali depositarie del residuo patrimonio librario bizantino e le cui strutture dovettero finire di assorbire quello rimasto disponibile nel quartiere patriarcale, avvenne in concomitanza con la pervasiva islamizzazione della capitale che la storia ufficiale dell’occidente attribuisce a Mehmet II ma che in realtà non si compì né sotto il suo regno né per tutta la durata di quello di Solimano il Magnifico, bensì solo con l’inizio del declino dello stato ottomano, crescentemente incalzato dalle potenze occidentali, alla fine del Cinquecento.
Come ha scritto Peter Schreiner:
From 1453 onwards the Patriarchate became the center for all Greek things in the City. This ‘Hellenism’ moved closer and closer to the notion of Orthodoxy, but we know relatively little about the continuation of interest in antiquity. Only a multy-layered approach can provide us with a more comprehensive idea of Hellenism – i.e., of a Greekness deeply rooted in the classical tradition – during the decades after the capture of Constantinople [82].
È in questa continuazione dell’interesse per l’antico che si inserisce la storia dell’ultimo carico di Busbecq. Ed è a questa ricerca a più strati delle complesse ramificazioni di una tradizione classica ancora radicata nella Polis nella prima età ottomana, dei suoi circuiti, dei suoi trasbordi dall’arca libraria di Prodromos Petra, che le informazioni fornite dalle storie dei suoi libri contribuiscono in modo essenziale. Il loro successivo destino non è meno importante: il grande convoglio che Busbecq trasferì via mare da oriente a occidente completò fisicamente la Rückwanderung dell’ellenismo da Bisanzio all’Europa, facendo scoccare nel mondo delle corti, e non più solo nelle cerchie dei dotti, la scintilla del Rinascimento.
Note
- [1] Per la corretta datazione delle missioni di Busbecq e in generale per una sua sintetica quanto documentata biografia cfr. ora Gastgeber 2020, 153-154. Nell’inagibilità delle biblioteche durante i primi mesi dell’anno in corso, il testo di questo nuovo e cruciale saggio ci è stato fornito per litteras dall’autore, che teniamo a ringraziare.
- [2] Sul personaggio cfr. (con cautela) Dalle 2008; vd. anche Arrighi 2007 e Arrighi 2011; Le Bourdelles 1991; Rousseau 1991; ma soprattutto, e in particolare per quanto riguarda la sua biblioteca e la sua attività di collezionista librario, Gastgeber 2020, 153-154; nonché gli studi di Zweder von Martels, a partire dalla sua tesi di dottorato (von Martels 1989, in part. 406-423), basata, oltreché sull’analisi della genesi delle quattro lettere turche, sullo spoglio di quasi altre 470 epistole inedite o poco note di Busbecq, in latino, italiano, francese e tedesco, e sulla corrispondenza di Michael Zernovitz, agente segreto di Ferdinando d’Asburgo, conservata nello Haus-, Hof- und Staatsarchiv di Vienna; cfr. inoltre almeno von Martels 1992.
- [3] All’interno della vasta letteratura su questo manoscritto segnaliamo, per i nuovi dati forniti e per la bibliografia, il contributo di Gastgeber 2014.
- [4] Busbecq 1581 (prime due lettere); l’edizione cinquecentesca completa, e da allora più diffusa, sarà Busbecq 1589 (che le contiene tutte e quattro).
- [5] Le lettere di Busbecq possono leggersi nella traduzione inglese di Thornton Forster, Blackburne Daniell 1881, I, 76-418, e in quella francese di Arrighi 2010, 35-379: a entrambe faremo da qui in poi riferimento. È ora disponibile, in Gastgeber 2020, un florilegio dei più rilevanti stralci riguardanti la ricerca di testi antichi e i contatti con il mondo culturale costantinopolitano, in cui il testo latino è affiancato da un’aggiornata traduzione tedesca. Per un’analisi storica e letteraria del complesso dell’epistolario di Busbecq, oltre ad Arrighi 2006 e Arrighi 2011, cfr. Gomez Geraud 1991; von Martels 1993; von Martels 1995; Lebel 2000; ulteriore bibliografia in Arrighi 2010, 398-400.
- [6] Riprodotta in Thornton Forster 1881, I, 315-418, e in Arrighi 2010, 279-379.
- [7] Sulle testimonianze in proposito di Aurispa e Tortelli (che quasi certamente si riferiscono al codice originale e non alla sua copia oggi alla Pierpont Library di New York) cfr. Cataldi Palau 2008a, 204-206, e Cataldi Palau 2008c, 228-230, 251-253. Sull’originaria provenienza del Dioscoride da Prodromos Petra vd. anche de Premerstein 1906, 19-27.
- [8] Thornton Forster, Blackburne Daniell 1881, 416; Arrighi 2010, 378-379; vd. anche Gastgeber 2020, 156.
- [9] Sui riluttanti finanziamenti imperiali a Busbecq, gli esborsi dell’ambasciatore e la sua situazione finanziaria al momento della partenza da Costantinopoli vd. Dalle 2008, 211, con bibliografia e fonti in nota. Sull’avversione di Ferdinando all’acquisto del Dioscoride vd. von Martels 1989, 409.
- [10] Su questo sovrano e il suo rapporto con Busbecq cfr. Edelmayer, Kohler 1992.
- [11] Così von Martels 1989, 409. Gli estratti della corrispondenza in oggetto sono riportati in de Premerstein 1906, 30-33. Notizia dell’acquisto da parte di Busbecq di “due antichi codici dioscoridei”, uno dei quali “appartenuto ad Antonio Cantacuzeno”, è fornita inoltre dal senese Pietro Andrea Mattioli nell'edizione veneziana di Dioscoride del 1565: vd. de Premerstein 1906, 28, n. 4; von Martels 1989, 411.
- [12] Busbecq 1589, f. 162v.
- [13] Perplessità sullo scalo veneziano e addirittura sull’effettiva spedizione del carico di libri via mare sono state espresse per litteras da von Martels; non vi è tuttavia a nostro avviso ragione di considerare puramente retorico o metaforico il riferimento a un loro viaggio “per terra e per mare” contenuto nella lettera di Busbecq a Hugo Blotius dell’8 novembre 1579 oltre che nella quarta lettera turca, in cui Venezia è esplicitamente menzionata.
- [14] Un regesto completo e documentato dei manoscritti greci di Busbecq, ordinato per segnatura e completo di datazione e sommario del contenuto di ciascuno, aggiornato e affinato rispetto alla catalogazione di Hunger, Kresten, Lackner e Hannick, può trovarsi ora in appendice a Gastgeber 2020, 170-181. Per una loro analisi tematica vd. Gastgeber 2020, 159-163.
- [15] Il numero complessivo è quello risultante da Hunger 1961; Hunger, Kresten 1961; Hunger, Kresten 1976; Hunger, Kresten, Hannick 1984; Hunger, Lackner, Hannick 1992; cfr. anche Menhardt 1957, 21 (edizione critica della più antica catalogazione, quella di Blotius, che include peraltro i due manoscritti medici poi passati alla Bibliothèque Nationale de France nel 1809 durante il conflitto napoleonico). Sulla data di accesso dei codici busbecquiani nella biblioteca imperiale vd. anche Unterkircher 1968, 72.
- [16] Anche se non abbiamo notizia di commercializzazione di lacerti del carico di Busbecq, il mercato veneziano metabolizzava alacremente i codici approdati in questi decenni dal Levante, secondo una dinamica ricorrente e studiata a fondo da Giuseppe De Gregorio (sulla collaborazione Darmarios-Malaxos-Turrianos vd. in part. De Gregorio 1995, 123). Da questa piazza dovette giungere a Fulvio Orsini, tramite Matteo Devaris, il manoscritto eustaziano Vat. gr. 1409, di cui è apografo il busbecquiano Vind. Theol. gr. 208 e che fu dunque conservato a Costantinopoli fin dopo il 1563 (sulla sua compravendita vd. più sotto, nota); così come, precedentemente e per altra via, Diego Hurtado de Mendoza era entrato in possesso, forse in vista del concilio di Trento, del suo antigrafo β, ossia il deperditus Scorialensis Λ.II.11: cfr. Ronchey 2014, 253*-272*.
- [17] Gastgeber 2020, 159.
- [18] Secondo l’opinione comunicataci per litteras da Zweder von Martels.
- [19] Menzionata in von Martels 1989, 411-412. Ricordiamo anche, nella lettera del 1579 a Blotius, la lamentela di Busbecq su una presunta svendita di codici della sua collezione, in epoca tuttavia successiva all’ingresso nella biblioteca imperiale, di cui Blotius era allora custode: vd. Bick 1912, 144.
- [20] Lo testimoniano i Vindd. Theol. gr. 107 e 143 (De Gregorio 1991, 11, sulla scorta di Hunger, Kresten, Hannick 1984, 22-23 e 159-161; De Gregorio 1995, 111 e 114), cui può aggiungersi l’attuale Vind. Theol. gr. 3, con le omelie 45-90 di Giovanni Crisostomo in Matthaeum, come documentato in De Gregorio 2000a, 327, n. 1. Quanto al già menzionato manoscritto eustaziano Vind. Theol. gr. 208, con ogni probabilità espressamente copiato per Busbecq, la sua stesura si deve a un copista Γεώργιος altrimenti ignoto, il cui modulo grafico si riconduce tuttavia con certezza all’ambiente dei Malaxoi, come già riconosciuto da Herbert Hunger (in particolare per il tratto del χ Hunger, Lackner, Hannick 1992, 32, indica un parallelo nel Vind. phil. gr. 296) e la cui mano richiama quella di un altro suo membro eminente, Simeone Karnanios/Cabasila, anche se non è identificabile con essa, come suggerito per litteras da Giuseppe De Gregorio. Almeno in questo caso, la mediazione commerciale poté essere condivisa con Giovanni Zigomala, come si vedrà più sotto, n. 29. Bibliografia aggiornata su Simeone Cabasila e sugli altri copisti identificati, oltre ai Malaxoi, nel circolo patriarcale dell’epoca in Gastgeber 2020, 164, nn. 46-49.
- [21] Ambedue fra l’altro in contatto con la cerchia dei Malaxoi: cfr. Schreiner 2001, 214, n. 39.
- [22] Gerlach 1674, 455. Sul compito di informatore politico-ecclesiastico fin dall’inizio affidato a Gerlach, allievo dell’accademia di teologia di Tubinga incaricato di promuovere un ravvicinamento della chiesa ortodossa a quella protestante, cfr. de Clerq 1967, 211.
- [23] In generale su Giovanni e Teodosio Zigomala, oltre al classico Legrand 1889, cfr. De Gregorio 2000b e Perentidis, Steiris 2009; sul rapporto con Busbecq e il quasi certo contributo alla costituzione del suo carico di libri vd. ora Gastgeber 2020, 157-159.
- [24] Su un viaggio di Teodosio Zigomala alla ricerca di manoscritti “in die Inseln under Asien fortsetzen und unterwegs die 3 alten Bibliothecken im Pathmo, in Pisidia und in Caesarea” vd. Gerlach 1674, 249, riportato in Gastgeber 2020, 159, il quale, sulla scorta di questa testimonianza, avanza l’ipotesi che i libri del carico di Busbecq non provenissero solo da Costantinopoli: Gastgeber 2020, 158.
- [25] Stando al già menzionato brano di Gerlach 1674, 193, Zigomala era stato in affari con “i predecessori del suo signore” (ossia dell’ambasciatore David Ungnad), con allusione, dunque, a Busbecq, come rilevato da Gastgeber 2020, 158, n. 35. Il brano di Gerlach testimonia vividamente il modus operandi di Zigomala, la sua reticenza a rivelare la fonte delle acquisizioni librarie che proponeva, i suoi mercanteggiamenti sul prezzo di vendita, l’uso di approntare e smerciare copie dei migliori codici giunti in suo possesso trattenendoli presso di sé in vista di ulteriori guadagni (in particolare la vendita a stampatori).
- [26] Gerlach 1674, 193.
- [27] Busbecq 1589, f. 162v; cfr. Thornton Forster, Blackburne Daniell, I, 416; Arrighi 2010, 378.
- [28] Tra il 1549 e il 1559 l’attività di Manuele Malaxos a Costantinopoli fu strettamente legata alla conservazione e allo studio del patrimonio librario, quale copista e restauratore di codici, alcuni dei quali certamente conservati nella biblioteca del patriarcato (cfr. De Gregorio 1996, 103), come nel caso degli attuali mss. Tyb. Mb. 7, Tyb. Mb. 18, Vind. Theol. gr. 107 e Vind. Theol. gr. 143, questi ultimi poi acquisiti, come si è visto, dallo stesso Augier de Busbecq: De Gregorio 1991, 10; De Gregorio 1995, 111; vd. anche De Gregorio 1996, 260; sul Vind. Hist. gr. 29, interamente vergato da Manuele, vd. De Gregorio 1995, 115. Almeno tra il 1574 e il 1581 Manuele Malaxos svolse attività di docente sub patriarcheio, in qualità di γραμματικός, e fu inoltre compilatore di testi storici, storico-ecclesiastici e giuridici sempre “all’ombra dell’istituzione patriarcale”: De Gregorio 1995, 100, 122. Anche Giovanni Malaxos, ἀναγνώστης presso la Panaghia Χρυσοπηγή di Galata (De Gregorio 1996, 190), forse monaco, come congetturato da Gamillscheg, Harlfinger 1981, 98, n. 170 (Ἰωάννης Μαλαξός), fu attivo presso il patriarcato, nella stessa cerchia di Manuele, dopo il 1540, ed è ancora attestato con certezza a Costantinopoli nel 1571 (De Gregorio 1996, 192). A differenza che per Manuele, non si conoscono a tutt’oggi viaggi in occidente di Giovanni (De Gregorio 1996, 190-192). Raccoglitore, nella Polis turchizzata (e forse anche altrove), di reperti testuali di eccezionale valore storico e archeologico quali le iscrizioni e gli epigrammi contenuti nel Vat. Reg. gr. 166, ora studiati, commentati e pubblicati in edizione diplomatica in Rhoby, Schreiner 2018 (tra cui la celebre iscrizione della Porta bronzea del nartece di Santa Sofia e quella del fregio dell’architrave della chiesa dei SS. Sergio e Bacco, che avevano già a suo tempo attirato l’attenzione di Mercati: cfr. Rhoby, Schreiner 2018, 608, 613 e nn.), come Manuele, in collaborazione col quale copiò codici, fu in stretto contatto con il patrimonio librario costantinopolitano. Nel prezioso Vind. Hist. gr. 98, da lui vergato e contenente le sue celebri Antiquitates Constantinopolitanae (cfr. Schreiner 2001, 207; De Gregorio 1996, 231-235; Gastgeber 2020,147), si trovano elenchi attestanti un totale di 555 manoscritti, presentati, non sappiamo quanto veridicamente, come inventari di otto biblioteche “private” ancora esistenti nella Polis negli anni ‘60 del Cinquecento. Che di certe almeno l’esistenza fosse “simply a hoax” è affermato da Lauxtermann 2013, 275-276. Maggiore credito alla testimonianza sembra dare Gastgeber 2020, 147, che alle pagine 148-150 fornisce anche accurati diagrammi della composizione tematica delle otto biblioteche menzionate nel Vind. Hist. gr. 98 (oltreché di quella patriarcale). Qualunque fosse la provenienza dei codici elencati da Giovanni Malaxos, e che le identità dei loro possessori fossero reali o di comodo, se non addirittura fittizie, il catalogo era probabilmente, come suggerito da Giuseppe De Gregorio, destinato al mercato librario occidentale, e conferma dunque la complementare se non primaria vocazione commerciale dell’attività della cerchia dei Malaxoi.
- [29] I già menzionati Vind. Theol. gr. 107 e Vind. Theol. gr. 143. Quanto al codice eustaziano Vind. Theol. gr. 208, vd. qui sotto.
- [30] Gerlach 1674, 193, cit. in Gastegeber 2020, 158, n. 35.
- [31] Non solo l’evidenza critico-testuale indica il Vindobonensis descriptus del Vaticanus (Ronchey 2014, 274*), ma in margine al f. 71r di quest’ultimo si ritrova una glossa vergata dalla mano del copista del primo (Ronchey 2014, 194*).
- [32] Cfr. supra, n. 20.
- [33] Come congetturato da Ronchey 2014, 197*-200*.
- [34] Terminus ante quem per la sua acquisizione da parte di Fulvio Orsini è il 1581, fornito dalla datazione dell’intervento di restauro da parte di Pietro Devaris: Ronchey 2014, 199*-200*. Che l’Eustazio venduto da Zigomala a Gerlach potesse essere il già citato deperditus Scorialense Λ.II.11, antigrafo del precedente, è escluso poiché risulta già in possesso di Mendoza nel 1550, come si evince dalla descrizione del codice contenuta nella lista della sua biblioteca copiata in quell’anno a Roma da Jean Matal: cfr. Ronchey 2014, 270*.
- [35] Così Gerlach 1674, 193.
- [36] Crusius 1584, 185.
- [37] Alla reticenza di Giovanni Zigomala, testimoniata da Gerlach (cfr. Gerlach 1674, 193: supra, n. 28), si aggiunge, come abbiamo visto, la possibile aleatorietà di almeno alcuni degli inventari forniti da Giovanni Malaxos nel Vind. Hist. gr. 98 (cfr. supra, n. 30).
- [38] Gastgeber 2020, 169.
- [39] Sul viaggio di Teodosio Zigomala a Patmos e in altri monasteri insulari o microasiatici vd. supra, n. 22.
- [40] Gastgeber 2020, 167-169, suggerisce fra l’altro, sulla base di note di possesso, scriptiones e altri indizi derivanti dall’analisi codicologica, che una parte dei manoscritti di Busbecq provenisse, direttamente o indirettamente, da “Italienische Bezugsquellen” presenti a Costantinopoli vuoi all’epoca, vuoi in precedenza (tornati poi, in quest’ultimo caso, in mani greche).
- [41] Sui numerosi e prestigiosi clienti quattrocenteschi di Prodromos Petra vd. Cataldi Palau 2008c, con n. 135.
- [42] Come ad esempio le biblioteche private o sedicenti tali del codice Vind. Hist. gr. 98: la certa presenza di titoli fittizi, specchietti per le allodole destinati ad attirare l’attenzione dei clienti occidentali (così Peter Schreiner, per litteras), non impedisce che i cataloghi di Malaxos si riferissero all’ottanta o novanta per cento a libri reali e ancora esistenti a Costantinopoli.
- [43] Che questa biblioteca fosse “di pochi libri” è testimoniato da Stephan Gerlach, secondo quanto riportato nella Turcograecia di Martin Crusius (Crusius 1584, 189), nell’ambito della descrizione del patriarcheion: “servat [...] Bibliothecam paucorum librorum”. Se in data 21 gennaio 1576 Gerlach riferiva nel suo Tagebuch di avere visto al patriarcato alcuni manoscritti greci (“Den 21 bin ich in dem Patriarchat gewesen und hab etliche Griechische bücher gesehen”), di cui elenca titoli e contenuti (Gerlach 1674, 154), il 18 giugno dell’anno seguente menziona circa 150 codici, anche questi essenzialmente patristici, avvistati nella biblioteca patriarcale (ivi, 360), pur non essendo chiaro se si riferisca alla biblioteca del patriarcato o a quella di Geremia II, come ci segnala per litteras Matthieu Cassin, che ringraziamo anche per la segnalazione della testimonianza in proposito di Teodosio Zigomala, sui cui incontri con Gerlach vd. in primis Legrand 1889, 114-119 e da ultimo Gastgeber 2020, 157-159. Cfr. anche Volk 1954, 51-52; Janin [1953] 1969, 211-213. Sui soli 51 mss. attribuiti alla Pammakaristos da Giovanni Malaxos nel già menzionato Vind. Hist. gr. 98 vd. Schreiner 2001, 212, nn. 29-30, con riferimento a Papazoglu 1983, 409-412, ma soprattutto De Gregorio 1996, 231-235, che corregge la datazione (tra il 1562 e il 1564) e l’interpretazione di Papazoglu.
- [44] Potrebbe essere forse questa la risposta alla domanda posta da Gastgeber all’inizio del suo saggio: “Was konnte man an griechischen Handschriften um die Mitte des 16. Jahrhunderts noch im Osten, und ganz besonders in Konstantinopel, erwerben?” (Gastgeber 2020, 145).
- [45] Inalcik 2012, 495.
- [46] Schreiner 2001, 204.
- [47] Sulla continuità dello studio di manoscritti greci dall’epoca di Mehmet il Conquistatore fino agli ultimi decenni del XVI secolo vd. Schreiner 2009, in part. 36-37.
- [48] Stavrides 2001, 92-93.
- [49] Stavrides 2001, 93, n. 87. Calia 2010, 52-53, chiarisce: “Nel documento [...] Meḥemmed specifica che il monastero viene ceduto alla madre del visir in piena proprietà (mülklüye verdim) e non solo in cessione temporanea, come avveniva invece per i vaqf, amministrati ma non posseduti dal mütewelli, carica amministrativa ereditaria”.
- [50] Il suo primo nome è rivelato da una nota del ms. Patm. 285, ff. 36v-37r, come segnalato da Calia 2010, 52-53.
- [51] Così Cazacu 1984, 106-107. La migliore analisi della questione della genealogia materna di Mahmud Pasha, che resta comunque intricatissima, è quella di Stavrides 2001, 78-93.
- [52] Come segnala Calia 2010, 53, Mahmud Pasha era fra l’altro pronipote di Alessio Angelo Philantropenos (PLP 29750), signore di Tessaglia, il quale aveva raggiunto accordi con gli ottomani dopo la prima conquista turca della Macedonia, nel 1387: cfr. Setton 1978, 293, n. 88; Stavrides 2001, passim; Necipoğlu 2009, 90, 94.
- [53] La sua agiatezza è confermata dal fatto che riscattò inoltre dal sultano per mille ducati le tre chiese della Pammakaristos, di San Giorgio e della Theotokos di Petrion: cfr. Janin [1953] 1969, 424-425.
- [54] Come sembra implicare invece Janin [1953] 1969, 424.
- [55] Di quest’opinione appare, cautamente, già Volk 1954, 65: “[…] im Jahre 1463 übergab es Mehmed II. der christlichen Mutter des Grossvezirs Mahmud Pascha. Trotz der zahlreichen Einzelheiten aus der Geschichte dieses Klosters sind nur ganz wenige in direkten und sichtbaren Zusammenhang mit der Geschichte seiner Bibliothek zu bringen, für die uns vorerst als Quellen nur die verhältnismässig vielen erhaltenen Handschriften zur Verfügung stehen. Das im Vergleich zu den anderen Klöstern günstige Geschick bei der Einnahme Konstantinopels hat wohl auch die Bibliothek vor einer sofortigen Zersplitterung und Vernichtung bewahrt”.
- [56] Ms. Istanbul, Panaghia 48 (Synaxarium mensium Septembris-Februarii), ff. 69v-70r, 157v-158r, 275r (marginalia di Scolario) e 69v, 157v (sua sottoscrizione autografa): cfr. Kouroupou, Géhin 2008a, 167-169 e pl. 271 (monogramma paleologo nel ms.). Cfr. anche Blanchet 2008, 218-219; Kouroupou, Géhin 2008b, 269-286.
- [57] Come si evince dalle note di Scolario e in particolare dall’annotazione al f. 275 (“Δέδοκα τὸ παρ(ὸν) […] ἐν τῇ μονῇ τοῦ τιμίου Προδρόμου τῆς Πέτρας κτλ.”) riprodotta in Kouropou, Géhin 2008a, pl. 75; cfr. ivi, 169: “De ces notes il ressort que le manuscrit a appartenu à la fondation du mégas doux Alexis Apokaukos (PLP 1180) à Sélymbria et qu'il a été rapporté au Prodrome de Pétra en 1462-63 par l'ex-patriarche Gennade Scholarios”. In seguito, nel corso del XVI sec., prima di pervenire alla Panaghia di Chalki, il ms. passò alla chiesa (non localizzata) del Cristo Pleroforeta, come si evince dalla nota al f. 275v e come segnalatoci per litteras da Matthieu Cassin. Maggiori e forse determinanti informazioni sulla circolazione di manoscritti greci dentro e fuori le biblioteche costantinopolitane della prima età ottomana si presagiscono reperibili nei saggi raccolti in Binggeli, Cassin, Detoraki 2020, volume che si annuncia prezioso e che tuttavia le difficoltà intervenute nei primi mesi del 2020 ci hanno impedito di consultare: ne daremo conto in altra e prossima sede.
- [58] La complessiva vicenda storica del monastero è stata di recente tratteggiata da Malamut 2001 e nel puntuale contributo di De Gregorio 2001, 139-149, con ulteriore bibliografia alla n. 80 sulla fase mediobizantina. Per un’utile sintesi sullo stato delle ricerche sulla biblioteca di Prodromos Petra vd. ora Bianconi, Orsini 2013, 21, nn. 3-7, con essenziali e aggiornate referenze bibliografiche. La prima menzione del καθολικὸν μουσεῖον di Prodromos Petra è in Francesco Filelfo: vd. Fuchs 1926, 71-72; cfr. anche Gamillscheg 1977, 225-226. In età paleologa il καθολικὸν μουσεῖον di Prodromos Petra si trovava vicino al cosiddetto ξενὼν τοῦ Κράλου, ospedale fondato dal re (kral) serbo Stefano Uroś II all’inizio del XIV secolo, con la cui scuola di medicina (che vediamo sullo sfondo della miniatura raffigurante una lezione di Giovanni Argiropulo nel ms. Oxon. Baroccianus gr. 87, f. 33v) sia lo scriptorium di Prodromos Petra sia il suo μουσεῖον erano e sarebbero stati in stretto rapporto: donde l’ubicazione nella biblioteca di Prodromos Petra del Dioscoride di Vienna. Su questo, e in genere sul passaggio dall’area teologico-patristica a quella scientifica, medica e filosofica dei mss. copiati a Prodromos Petra a partire dal XIV sec., cfr. Cataldi Palau 2008a, 204-206, e Cataldi Palau 2008c, 228-230, 251-252; in part. sullo ξενὼν τοῦ Κράλου vd. Birchler, Argyros 1988 e più recentemente Mondrain 2000, 227-240, e Mondrain 2010.
- [59] Cfr. Reinsch 2014, xix-xxiii, in part. xx, n. 64.
- [60] La sua esistenza è stata postulata da Wirth 1972. Si tratta del già menzionato Scorialensis Λ.II.11: cfr. Ronchey 2014, 228*-229* e 263*-269*; Ronchey 2017. In base all’analisi della tradizione manoscritta dell’ultima opera eustaziana in esso contenuta e alla critica del suo testo, il codice dev’essere identificato con il subarchetipo β, che doveva trovarsi a Prodromos Petra, nelle mani di Giorgio Baioforo, nei primi decenni del XV secolo, proprio come il Parisinus di Psello: cfr. Ronchey 2014, 279*-280*, n. 457.
- [61] Siamo all’indomani delle grandi donazioni fatte da Manuele II, che accrescono ulteriormente la ricchezza e il prestigio del monastero: vd. Janin [1953] 1969, 423-424 e nn. “San Giovanni della Pietra” è la prima delle meraviglie costantinopolitane mostrate alla legazione di Enrico III di Castiglia: “E la primera cosa que les fueron mostrar fue una iglesia de san Juan Baptista, que llaman San Juan de la Piedra, la cual iglesia está cerca del palacio del imperador”: López Estrada 1999, 34. Oltre alle straordinarie risorse artistiche della chiesa, Clavijo descrive l’ampiezza del complesso monastico: “Y allende deste chapitel está luego un gran corral cercado alderredor de casas sobradadas con sus portales, y en él muchos árboles y cipreses … Dentro en este monasterio ay muchas huertas y viñas y otras cosas assaz que se no podrían escribir en breve”, ivi, 36.
- [62] Dei vari esemplari delle mappe di Buondelmonti, reperibili in ben 73 manoscritti, cfr. in part. quella, dotata di scritte esplicative, del Par. N.A. lat. 2383, f. 34v.
- [63] Cfr. Cataldi Palau 2008b, 211 e tav. 1; vd. Barsanti 2001, 225.
- [64] Crusius 1584, 189.
- [65] Crusius 1584, 189-190.
- [66] Il più recente contributo è quello di Barsanti 2013, 487-490, con un bilancio dei precedenti studi e bibliografia in nota.
- [67] Secondo Asutay-Effenberger 2008 la Odalar Camii (in passato erroneamente identificata con la chiesa latina di Santa Maria di Costantinopoli) segnerebbe il sito del katholikon del monastero e tra le vestigia dell'odierna Kasım Ağa Camii si riconoscerebbero i resti della celebre torre che conteneva le sue reliquie. Sull’associazione della Ipek Bodrum Sarnici o cisterna n. 10 con la cisterna di Aezio vd. in part. Barsanti 2013, 487-488.
- [68] Contrario a questa localizzazione Janin [1953] 1969, 42. Sul Boğdan Sarayi cfr. Müller-Wiener 1977, 108.
- [69] Paspates 1877, 360-361, con tav. fuori testo.
- [70] King 1999, 17 e 19. L’indirizzo del negozio in questione, un magazzino di pneumatici automobilistici, è attualmente Draman Caddesi 32.
- [71] Gylles 1561, IV, 4, pagina 198: pur parzialmente saccheggiato dai turchi (“aedes diui Ioannis Baptistae, quam etiam nunc Graeci vulgo vocant Prodromi, […] a Turcis maxima ex parte diruta”), che hanno asportato gran parte delle colonne marmoree, solo alcune delle quali sopravvivono (“aliquot columnae marmoreae extremam rapinam metuentes supersunt, sed paucę ex multis ablatis”), il complesso mostra ancora le vestigia dei fasti passati (“quam autem illa sumptuosa fuisset […] alia vestigia indicant”).
- [72] Nel Tagebuch Gerlach menziona presenti nel portico immagini raffiguranti, fra gli altri, Giovanni Battista, Giovanni Crisostomo e San Basilio: Gerlach 1674, 455. Nella lettera del 7 marzo 1578 si legge: “In προπυλαίῳ/ esse elegantes picturas τοῦ Προδρόμου, Eremitarum, Patruum Graecorum” (Crusius 1584, 190). Nella stessa lettera Gerlach menziona anche la presenza di raffigurazioni imperiali: “Cuius Templum adhuc reliquum, pulcherrimis picturis imperatorum Graecorum, et Sanctorum, exornatum […]”. Se quelle dei santi, come interpretato da Janin, erano probabilmente vere e proprie icone, le immagini imperiali, così come il Cristo in trono con l’iscrizione Πέτρα (“Christi, aureae sellae insidentis, cum inscriptione Πέτρα) erano verosimilmente affreschi o mosaici, della serie descritta da Clavijo.
- [73] “Mihi perscripsit […] hodie uero negari usui Graecorum, propter templum Turcicum uicinum”: Crusius 1584, 190; cfr. Janin [1953] 1969, 424-425.
- [74] Crusius 1584, 190: “Manere etiam cellulas, a Sanctimonialibus Graecis habitatas: quae elemosyna Patriarchae, et reliquorum Graecorum alantur”; Gerlach 1674, 455.
- [75] Forse, le monache provenivano proprio dalla Pammakaristos; anche se stando al Chronicon maius e alle altre fonti il patriarca Gennadio nel 1455, al momento del trasferimento della sede patriarcale dai Santi Apostoli alla Pammakaristos, fece spostare le religiose che la abitavano nel monastero di San Giovanni Battista in Trullo e non in quello di Petra: cfr. Janin [1953] 1969, 209, n. 7. Inoltre già Antonio di Novgorod, nel 1200, parla di ben duecento monache (di clausura) all’interno di Prodromos Petra, e questo in un tempo in cui la comunità monastica maschile era di certo ampia e attiva: Majeska 1984, 341; Janin [1953] 1969, 422, ipotizza che il pellegrino russo abbia confuso il monastero con un altro dei conventi femminili del quartiere. Ma il ricorrere dell’elemento monastico femminile nella descrizione di Gerlach fa pensare non già a un subentro ma all’eventuale accrescimento di una componente già insediata per tradizione, pur nella discrezione della clausura, all’interno del complesso.
- [76] Gerlach 1674, 455.
- [77] Nel carico inviato da Busbecq nel 1462, come abbiamo visto, era sicuramente presente almeno un codice di Prodromos Petra: De Gregorio 2000a, 327, n. 1. Al processo di smembramento della biblioteca di Prodromos Petra potrebbe fors’anche riferirsi il già menzionato censimento, o ‘catalogo’, affidato da Giovanni Malaxos all’attuale Vind. Hist. gr. 98.
- [78] Asutay-Effenberger 2007; vd. anche Runciman [1968] 1985, 189.
- [79] Come si è visto, prima di approdare alla Panaghia di Chalki il sinassario 48 fece almeno una tappa presso la chiesa del Cristo Pleroforeta.
- [80] Sulla formazione della biblioteca del monastero della Santa Trinità di Chalki, già nel 1540 rifondato da Metrofane, sulla provenienza dei codici che la compongono e sui loro itinerari, la cui ricostruzione appare fondamentale per una più approfondita conoscenza della dislocazione del residuo patrimonio librario costantinopolitano nel XVI secolo, si veda ora l’utilissimo Binggeli, Cassin, Cronier, Kouroupou 2019. In particolare sulle fonti di approvvigionamento di Metrofane, Matthieu Cassin (per litteras) ritiene il problema aperto: “Pour les sources de Métrophane, c'est encore pour nous une question ouverte et non résolue; il a visiblement glané et acheté, mais où et dans quelles circonstances? Ce qui semble acquis, c'est qu'il n'a pas pillé une hypothétique ‘bibliothèque patriarcale’. Les rapprochements établis par Papazoglou entre l'inventaire R. Domini Patriarchae et la bibliothèque de la Sainte-Trinité ne sont pas probants”. La già lamentata mancata consultazione di Binggeli, Cassin, Detoraki 2020 ci impedisce, per ora, un approfondimento.
- [81] Di un ‘ellenismo’ protratto nell’ambiente ortodosso del patriarcato dopo la caduta di Costantinopoli parla Schreiner 2001, 204, riportato infra.
- [82] Schreiner 2001, 204.
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English abstract
This paper focuses on the Greek manuscripts, now part of the Österreichische Nationalbibliothek, acquired in Constantinople by the Hasburgic diplomat Oghier Ghislain de Busbecq during his two missions to the court of Soleiman the Magnificent (1554, 1556-1562). Building on previous scholarship, it mainly focusses on aspects such as Busbecq’s purchases as librarian, and the role played by scholars, scribes and trading merchants (such as the Malaxoi and the Zigomalas, who were active in Constantinople’s patriarchal quartier between the mid fifteenth century and the mid sixteenth century) in the accumulating the diplomat’s supply of manuscripts. The author argues that Busbecq’s cargo could have belonged at least in part to that last stronghold of book assets that was the monastery of Prodromos Petra between the Late Byzantine and First Ottoman period. This paper will show that after the Turkish conquest until the 1570s, Byzantium still offered a large reserve of manuscripts, and that its local antiquarian Greek culture well survived the City’s fall.
keywords | Busbecq; Greek manuscripts; Malaxoi; Zigomalas; Prodromos Petra; sixteenth-century Istanbul.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo: Silvia Ronchey, Libri quos mari transmisi Venetias. Busbecq, Prodromos Petra e i giacimenti librari costantinopolitani al tempo di Solimano il Magnifico, “La Rivista di Engramma” n. 174, luglio/agosto 2020, pp. 199-229. | PDF dell’articolo