"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

175 | settembre 2020

97888948401

“Domus” e le altre. Le riviste di architettura fra guerra e dopoguerra

Intorno a una lettera di Gio Ponti

Michela Maguolo

English Abstract

Anche a questo sono servite le riviste: a moltiplicare e complicare i significati.
Roberto Calasso, Come ordinare una biblioteca

Nel febbraio del 1948, in vista dell’uscita di “Domus”, di cui ha ripreso la direzione dopo sette anni, Gio Ponti scrive a Giovanni Astengo, allora giovane architetto che ha imboccato con determinazione la strada dell’urbanistica, invitandolo a collaborare con la rivista. Ad Astengo, Ponti propone di far parte di un “comitato di cooperazione”, un gruppo di architetti e artisti “che significativamente e nobilmente rappresentino le diverse tendenze, oppure siano, con il loro prestigio, al di sopra della tendenza” e del gruppo così illustra la possibile geografia:

Per Torino chiedo il Suo nome, quello di Levi Montalcini e di Mollino; per Bologna ho scritto a Bega e a Vaccaro; per Roma a Libera e a Nervi (e un altro); per Napoli ho scritto a Cosenza; per Firenze a Michelucci (e a un altro); per Milano cerco Belgioioso, Lingeri, Asnago, Figini e Pollini (Ponti, Lettera ad Astengo del 10 febbraio 1948).

Spiega che il suo intento è di “rifare di ‘DOMUS’ una rivista informativa dell’architettura e della casa, del costume”, dopo l’ammirevole impegno di Ernesto Nathan Rogers per una “rivista di tendenza”, che però, “appunto per il suo carattere tendenziale, professionalmente rivolto agli interessi intellettuali di una cerchia ristretta di architetti”, aveva una tiratura assai limitata. Una rivista per formare non tanto gli architetti, come altre riviste fanno, quanto i committenti, e con l’appoggio delle “grandi produzioni d’arte e di serie e delle industrie maggiori”; accenna infine alle caratteristiche della rivista e allega il sommario del primo numero. Il fatto che Ponti si rivolga ad Astengo, che ha all’attivo una proposta per il piano di Torino e del Piemonte e una manciata di pubblicazioni, accostandone il nome a quelli dei più noti progettisti italiani del tempo, è abbastanza strano e potrebbe ricondursi a una segnalazione di Emilio Pifferi, architetto torinese, amico di entrambi. Nonostante la prestigiosa opportunità, Astengo declina l’invito, spiegando che fa già parte del consiglio direttivo di “Metron” e che il suo interesse principale è l’urbanistica, di cui nel sommario proposto da Ponti non v’è traccia. I rapporti tra i due non avranno ulteriori sviluppi, se non in sporadici incontri, e le loro attività seguiranno vie parallele, Ponti alla direzione di “Domus” fino alla sua scomparsa nel 1979, Astengo per 24 anni alla guida di “Urbanistica”, il giornale nato come organo ufficiale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, rifondato da Adriano Olivetti nel 1949 che lo dirigerà fino al 1953.

Al di là del suo esito infruttuoso, la lettera di Ponti ad Astengo, inedita e conservata nel Fondo Giovanni Astengo dell’Archivio Progetti Iuav, è un documento interessante per gli spunti di riflessione che offre sulle riviste italiane di architettura del dopoguerra. Tramite questi, si può seguire una traccia all’interno delle vicende di questo particolare settore dell’editoria periodica, un filo che si svolge attorno alle due riviste di Ponti, “Domus” e “Stile”, dove spesso si incrociano i protagonisti di quelle vicende, le loro posizioni.

“Nell’accingermi a dirigere ‘DOMUS’ mi sono trovato per la terza volta a dover ricominciare un’impresa editoriale”

1 | Copertine di “Domus”: il primo numero del 1928, il n. 156, ultimo diretto da Ponti prima dell’abbandono nel 1940, il n. 226, numero del ritorno nel 1948.

1. La prima volta è nel 1928, con la fondazione di “Domus”, rivista che si occupa, come spiega il sottotitolo, di “Architettura e arredamento dell’abitazione moderna in città e in campagna”. Non una rivista specialistica, di critica architettonica, per addetti ai lavori, ma un giornale che, occupandosi della casa, ne considera tutti gli aspetti che la riguardano e la rendono il luogo in cui si vive. Si rivolge a un pubblico vasto, al quale offre informazioni e suggerimenti non solo sulla casa come luogo costruito e sulla sua sistemazione interna, ma anche su tutto ciò che la plasma e la rende abitazione, e dunque le arti minori, “l’ornamento”, il giardinaggio, la cucina, la gestione pratica della casa: la “casa all’Italiana”, specifica Ponti nel presentare il primo numero nel gennaio del 1928 (Ponti 1928, 7). Un tema che, affermando orgogliosamente un modello abitativo radicato nella cultura e nel paesaggio ed evocato nel titolo stesso della rivista – “Domus” – troverà eco in quell’idea di mediterraneità che di lì a poco (alla Prima Mostra dell’Architettura Razionale del 1928, per esempio) verrà rivendicata come carattere proprio dell’architettura italiana e declinata in vario modo, ma che era idea di importazione, già presente da alcuni anni nel dibattito internazionale.
Non una forma costruttiva, dunque, ma un modo di vivere.

La casa all’italiana, si legge in quella breve dichiarazione d’intenti, non è né il rifugio dalle intemperie dell’abitazione d’oltralpe, essendo luogo in cui si godono le bellezze delle nostre terre, né una machine à habiter. Il riferimento è ovviamente alla casa-strumento che Le Corbusier descrive nel 1923 in Vers une architecture – “sana (anche moralmente) e bella dell’estetica degli strumenti di lavoro che accompagnano la nostra esistenza” (Le Corbusier [1923] 1973, XLI), ma Ponti sembra avere in mente soprattutto un’immagine di casa funzionale che sintetizza in un ‘comfort’ come rispondenza “alle cose di necessità, ai bisogni, ai comodi della nostra vita ed alla organizzazione dei servizi”. A questo, contrappone un ‘conforto’ che sta “nel darci con l’architettura una misura per i nostri stessi pensieri”, “con la sua semplicità una salute per i nostri costumi”, “con la sua larga accoglienza il senso di una vita confidente e numerosa” (Ponti 1928, 7).

“Domus” si inserisce nel dibattito sull’architettura razionale e sull’abitazione moderna – lo fa per esempio nel 1934 pubblicando Punto e a capo per l’architettura di Edoardo Persico (Persico 1934) – ma a modo suo, poiché l’obiettivo resta quello di occuparsi di tutto quanto definisce l’abitare, nonché di far conoscere alla borghesia italiana degli anni Venti e Trenta non tanto l’architettura moderna, la dialettica razionalismo/funzionalismo, ma il vivere moderno. A quella borghesia, quindi, la rivista impartisce lezioni di saper vivere, le insegna come ricevere, le suggerisce come arredare la propria abitazione, cosa collezionare, cosa leggere, che opere d’arte apprezzare (Pica 1973).

In questa missione, l’arte assumerà un ruolo sempre più importante e infatti dal secondo anno entrerà a far parte dei temi trattati dalla rivista, accanto all’arredamento e al giardinaggio. Anzi: dal numero 20, agosto 1929, tutto diventa arte, come annuncia il nuovo sottotitolo: “L’arte nella casa”. E attraverso l’arte, “Domus” si impegna a formare il ‘gusto’ di quella borghesia. Si assume il compito di diffondere fra gli strati alti della società, quel gusto come “espressione di civiltà”, che secondo Lionello Venturi (citato da Persico in quel lungo, e cruciale, testo) gli architetti devono imparare a sentire. Un’idea di gusto strettamente intrecciata con quella di stile su cui dai primi anni Trenta, come ha ben ricostruito Cecilia Rostagni, Ponti riflette, definendolo “carattere comune e diffuso che rende riconoscibili opere e oggetti di un dato paese, di una data epoca” (Ponti 1932, 323), “‘figura spirituale e materiale’ della nazione e misura della sua Civiltà” (Rostagni 2016, 10). Rostagni avvicina la posizione di Ponti proprio a quella di Persico, che, come l’autrice ricorda, aveva dato inizio su “Casabella” a una rubrica intitolata Stile. Un modo di essere e aveva definito quello propugnato da Ponti uno “stile concretamente moderno”.

Uno stile che egli si sforza di riportare alla concretezza della realtà, sottraendolo alle mani degli “esteti”. Scrive infatti nel 1937, nella prefazione all’opera su Melchiorre Bega:

Le avventure stilistiche suscitate da estetismi di formazione intellettuale hanno esaurito il loro ciclo di esistenza […]. La civiltà attuale si specchia in realtà ormai universali: quelle dove viene manifestata la vita delle grandi collettività (Ponti 1937, 52).

La questione dello stile è in effetti centrale in quegli anni, sentita e affrontata da più parti, ma in modo particolare fra i sostenitori dell’architettura moderna per i quali lo stile può essere solo quello del proprio tempo. Ponti declina in termini pragmatici e pone sul piano materiale il concetto di stile che altri negli stessi anni propongono al pubblico in una dimensione ideale e critica. E non sono solo gli storici e i critici d’arte a occuparsi dell’argomento: il gruppo BBPR, per esempio, realizza Stile, un raffinato fascicolo, pubblicato nel 1936 dall’Editoriale Domus (la stessa casa editrice che pubblica l’omonima rivista) dove sono illustrate le “espressioni della civiltà” di ognuna delle epoche passate, dagli Egei agli impressionisti, come sintesi di istanze morali e pratiche. Gli stili, si legge, “sono coerenti alla coscienza morale delle epoche nelle quali nacquero” e “come nel campo fisico essi non servono più ai nostri bisogni pratici, così nel campo spirituale essi non rispondono più all’imperativo della nostra coscienza” (Rogers 2010, 156). Per Ponti, come Persico e per i BBPR, è urgente sottrarre lo stile all’ambito dell’estetica, affermarlo come manifestazione concreta e morale del tempo, per poter dimostrare che lo stile dell’epoca presente non può che essere moderno, nuovo.

2 | Copertine di “Stile”: copertina della prima uscita; il n. 7 del 1941; una pagina del n. 14 del 1942.

2. “Stile”, o più esattamente, come era denominata alla sua nascita “lo Stile”, è la seconda rivista cui Ponti dà vita, nel 1941, pubblicata da Aldo Garzanti che ha da poco rilevato la casa editrice Treves (v. Martignoni 2002). Ponti lascia “Domus” per divergenze con Gianni Mazzocchi, l’amministratore di Editoriale Domus, probabilmente in relazione al carattere molto più raffinato – e costoso – che voleva imprimere alla rivista. Con Garzanti riesce a realizzare il suo ambizioso progetto; i temi sono i medesimi – l'architettura, i mobili, le arti applicate, l'arte – ma spostati sul piano del lusso, della bellezza in ogni cosa, del gusto in tutte le sue declinazioni, evitando, con l’abilità e il pragmatismo propri di Ponti, le ricadute estetizzanti.

Il filo conduttore, ciò che unisce in un dialogo continuo articoli su ville al mare e palazzi in città, scritti di De Chirico, rubriche di cinema, fotografia, recensioni di libri è la ricercatezza visiva e tattile. Le carte di diverso spessore e consistenza, talora di differente colore, le grafie studiate, l'impaginato arioso, la presenza di fogli ripiegati: tutto questo permette di porre sullo stesso piano e di cogliere come parti di un tutto, indizi di un medesimo stile, una villa di Luigi Vietti, un arredamento di Banfi Belgioioso e Peressutti (il nome di Rogers, la “R” del gruppo BBPR, è bandito dai progetti così come dalle pubblicazioni, dopo le leggi razziali del 1938), un dipinto di Campigli e uno di Guttuso, tessuti artigianali da arredamento, mobili di serie e oggetti in vetro.

L’intento è evidente se si confrontano i primi numeri di “Stile” sia con gli ultimi della “Domus” di Ponti sia con quelli della successiva direzione. I sommari appaiono simili, la sequenza architettura arredamento arte arti applicate letteratura musica cinema si ripete quasi identica. Anche i nomi ritornano: Carlo Emilio Rava, per esempio, che scrive di cinema e architettura per la “Domus” di Ponti e per “Stile”, e di architettura coloniale per la “Domus” di Bontempelli, Pagano, Bega; o Lina Bo e Carlo Pagani che scrivono di architettura d’interni per entrambe. Ma a “Domus” mancano la ricchezza, la varietà compositiva, l’eleganza che rendono “Stile” molto glamour e popolare fra il pubblico. Ponti nei primi anni di guerra avvolge la sua rivista in un’atmosfera di leggerezza, le dà un senso di leggiadra noncuranza in cui trova riscontro il desiderio, diffuso nell’élite cosmopolita cui Ponti guarda, di un’evasione colta, raffinata.

Dal ’43, l’impostazione grafica si fa più asciutta, geometrica, i temi più consoni alla drammaticità del momento, e al sottotitolo, che passa da un omnicomprensivo “Architettura Arti Lettere Arredamento Casa” al più essenziale “Architettura Arti Arredamento”, si aggiunge “Rivista per la ricostruzione”. Nelle austere copertine appare una banda trasversale con indicati i temi: “Un fascicolo dedicato alle più ardenti questioni degli architetti, alla composizione per elementi della casa popolare rurale, ad un settore primario delle arti italiane di suprema tradizione: quello dell’arte sacra”, si legge nel numero 12 del dicembre 1944. Ma già dai numeri successivi alla Liberazione, il clima comincia a farsi meno severo e anche i problemi della ricostruzione sono trattati con una serietà più distaccata.

3 | Copertine di “Domus”: il primo numero diretto da Bontempelli, Pagano, Bega; numeri della direzione Bega e Ulrich e del solo Bega.

3. Una digressione sulla “Domus” post-Ponti è necessaria, per annodare alcuni fili delle vicende di “Stile”. All’abbandono di Ponti, “Domus” viene affidata da Gianni Mazzocchi a Massimo Bontempelli, Giuseppe Pagano e Melchiorre Bega. Una strana terna di protagonisti della scena culturale e architettonica del tempo. Massimo Bontempelli, letterato, accademico d’Italia è il fondatore nel 1929, con Curzio Malaparte, di “Novecento. Cahiers d’Italie et d’Europe” e poi nel 1933, con Pier Maria Bardi, di “Quadrante”, la rivista di architettura che nei suoi tre anni di vita ha saldato e veicolato il nesso fra fascismo e architettura razionale e si è scagliata contro l’architettura passatista. Bontempelli, nel 1940, ha appena riottenuto la libertà di esercitare l’attività pubblicistica, dopo l’espulsione dal partito nel 1938 e l’interdizione per un anno, quando viene chiamato alla guida di “Domus” con Giuseppe Pagano.

L’architetto torinese assume l’incarico, continuando a dirigere “Casabella” da dove conduce la sua battaglia ostinata e implacabile per l’affermazione dell’architettura moderna, contro le “false tradizioni” e le “ossessioni monumentali”. Ai due, è affiancato Melchiorre Bega, affermato architetto, soprattutto d’interni, designer, imprenditore, “attivissimo e fattivissimo”, come lo definisce l’amico Gio Ponti sulle pagine di “Stile”. Confermata la centralità dell’architettura, il nuovo corso immaginato per “Domus” è sintetizzato nel sottotitolo che non è più “L’arte nella casa”, bensì “Le arti nella casa” – una declinazione al plurale che amplia e articola ulteriormente lo sguardo, travalicando la dimensione materiale della casa:

Accanto ai problemi della casa vogliamo estendere il nostro programma anche a quegli altri argomenti – sociali, morali, filosofici – che, con la casa sono intimamente legati e che determinano in definitiva lo stile non solo delle abitazioni ma anche, e soprattutto, lo stile e il gusto dei suoi abitanti (“Domus” 157, 1).

Nel primo numero, scritti di storia e critica d’arte, affidati a Giulio Carlo Argan e Agnoldomenico Pica, si affiancano a racconti, versi, partiture di Francesco Malipiero e un romanzo a puntate di Paola Masino, e convivono con proposte di arredo per case in affitto di Banfi, Belgioioso e Peressutti. La vis polemica di Bontempelli e Pagano (l’editoriale di “Costruzioni-Casabella” del febbraio ’41, Occasioni perdute, causa il sequestro per un mese della rivista) è confinata nella rubrica Affissioni, dove brevi ma pungenti commenti accompagnano articoli di altri giornali sui temi che più premono, le arti contemporanee, l’architettura nuova.

Pagano lascia la rivista nel luglio del ’42. Rientrato dall’Albania, dove combatteva da volontario, si dimette a marzo dalla scuola di mistica fascista, di cui dirigeva la sezione artistica, e a dicembre lascia il partito. Richiamato alle armi e stanziato a Cuneo, continua la sua battaglia su “Casabella”, divenuta “Costruzioni-Casabella”, e progetta nuove iniziative editoriali: “Quaderni di architettura”, per esempio, che sta predisponendo con Emilio Pifferi e Giancarlo Palanti come ulteriore spazio dove affrontare le questioni dell’architettura e soprattutto della città e della pianificazione (temi sempre più urgenti e al centro di uno dei più importanti provvedimenti presi dal regime, la legge urbanistica del 1942), come scrive a Giovanni Astengo l’8 luglio ’43. In questa lettera, l’ultima di un breve carteggio con Astengo (inedito e custodito nel fondo Giovanni Astengo dell’Archivio Progetti Iuav) – che aveva appena pubblicato su “Costruzioni” un suo progetto e su “Architettura italiana” due articoli – Pagano, facendo riferimento a Carlo Cattaneo e alle sue Considerazioni sulle cose d’Italia nel 1848, appena ripubblicato a cura di Cesare Spellanzon da Einaudi nel 1942, indica la nuova collana, e lo scrivere su quei temi, come il modo

[...] di tener sempre vivo il nostro filo conduttore, di non fissarci in dogmatismi chiusi ma di indagare piuttosto con serietà di giudizio e con coerenza di gusto, su quella strada che ci ha condotto fin qua e che ci dovrà sempre condurre più avanti senza incertezze artificiose, senza debolezze settarie o abuliche. Dobbiamo, in certo modo, far la storia di noi stessi, della nostra cronaca e dei nostri propositi (Pagano, Lettera ad Astengo dell’8 luglio 1943).

Se questo è lo spirito che anima gli scritti di quel periodo, per esempio Presupposti per un programma di politica edilizia, uscito su “Costruzioni-Casabella” nel giugno del 1943, dopo il 25 luglio, scrivere e pubblicare non sono più sufficienti e il riferimento a Cattaneo, assume contorni diversi. In La nostra posizione lancia un appello a colleghi e amici a impegnare “tutta la nostra vita e tutta la nostra arte a quel bel modo di ‘pagar di persona’ che i nostri uomini del Risorgimento, da Cattaneo a Pisacane, ci hanno opportunamente insegnato” (Pagano [1943] 1976, 182). Subito si dimette dalla rivista e, disertando, si unisce ai partigiani, ma sarà presto arrestato, in novembre. “Costruzioni-Casabella” a seguito del suo arresto, viene sequestrata e chiusa. Ritornerà per soli tre numeri nel 1946, diretta da Franco Albini e Giancarlo Palanti, per uscire nuovamente nel 1953 con la direzione di Ernesto Nathan Rogers.

4 | Copertine di “Stile” dopo il 1943. 

4. Nel numero di agosto-ottobre di “Stile”, la rubrica Stile di è dedicata, come preannunciato nel numero precedente, a Giuseppe Pagano. Stile di è un appuntamento quasi costante della rivista, con cui Ponti intende far conoscere lo stile dei singoli artisti “onde poter trarre dalla loro opera dei canoni da sviluppare e diffondere”, spiega Rostagni che su questa serie di articoli ha incentrato il suo libro, pubblicando copertine e pagine della rivista altrimenti quasi impossibile da consultare (Rostagni 2016, 21). Dal maggio 1942, gli articoli riguardano giovani architetti italiani di cui Ponti illustra ampiamente il lavoro, con un suo testo interpretativo e molte immagini. Dopo Adalberto Libera, Mario Paniconi e Giulio Pediconi, i BBPR, Melchiorre Bega e Mario Ridolfi, si occupa, appunto, di Pagano. 

Pagano fantastico, Pagano tecnico, Pagano metafisico, Pagano architetto (Ponti 1943a) è la lettura critica di Ponti sull’opera dell’architetto torinese e, in effetti, come sottolineano Alberto Bassi e Laura Castagno, il “primo bilancio dell’attività – non era dato sapere che si sarebbe trattato in sostanza di quello definitivo – e ‘attestato di stima’ di chi non ne aveva sempre condiviso le posizioni” (Bassi Castagno 1994, 137). “Stile” sarà anche la prima rivista nell’estate del ’45 (l’unica, insieme a “Urbanistica” ancora attiva negli ultimi mesi di guerra) a ricordare Pagano dopo la morte a Mauthausen, con un articolo di Vittorio Bini, intimo amico dell’architetto torinese. Ad apertura del servizio sullo stile di Pagano, nel numero 32-34 del 1943, un testo di quest’ultimo, senza un titolo specifico, solo Pagina di Pagano, con l’avvertenza: “Questo scritto di Pagano va letto attentamente: la sua data, maggio 1943, ne documenta il significato e il valore”, ripresa sul fondo in stampatello. Il testo è una breve sintesi di Presupposti, dove i tre temi che Pagano indicava nell’articolo uscito a giugno, come le priorità del dopoguerra – i materiali e i metodi edilizi, il problema della casa per tutti, il restauro dei monumenti – sono analizzati in modo molto stringato ma efficace, e particolarmente significativo dopo il 25 luglio e l’inizio dei bombardamenti che proseguiranno implacabili in particolare su Milano fino all’8 settembre e di cui la sede della Garzanti, dove “Stile” veniva stampato, sarà una delle vittime.

Inevitabilmente gli eventi di quei mesi imprimono una svolta alla rivista. “Stile” cambia registro: come si è accennato, da raffinato periodico d’arte, si fa giornale al servizio della futura ricostruzione. Dal febbraio 1944, Il titolo perde l’articolo, il sottotitolo diventa “Rivista per la ricostruzione”, cui poi si aggiungerà “e per la casa di domani”. I temi più diffusamente affrontati sono quelli dell’unificazione edilizia e della casa per tutti, ma non verrà meno l’attenzione alle questioni dell’arte: già nel ’42, Ponti ribadisce e continua poi a ripetere, che “i segni più duraturi d’ogni conquista di ogni civiltà, sono quelli dell’Arte”.

Il nuovo corso di “Stile” è aperto da due articoli che escono sul numero 35, del novembre 1943, a firma di Emilio Pifferi e di Gio Ponti e annunciati da un riquadro in copertina: “Politica dell’architettura”. Pifferi, architetto torinese, direttore nell’ultimo anno di vita, fra il 1942 e il 1943, della rivista “Architettura Italiana”, storica rivista nata nel 1905 e nel 1942 acquisita da Editoriale Domus, scrive un Appello agli architetti di segno opposto a quello che Pagano aveva pubblicato tre mesi prima, ma riprendendo il programma di Presupposti. Non chiede di “pagare di persona”, ma di unirsi per affrontare la ricostruzione; ai temi della standardizzazione, unificazione e industrializzazione edilizia, e al principio della casa per tutti, aggiunge la pianificazione urbanistica “perché l’urbanistica è una delle basi sostanziali del rinnovamento sociale”:

Gli architetti devono quindi concentrare tutte le loro forze (…) concorrere tutti a potenziare la loro organizzazione professionale (…) per meglio resistere alle forze che vorrebbero impedire il cammino d’una nuova architettura (…): il campo da ordinare è l’intera nazione e l’oggetto della sua attività è l’intero popolo (Pifferi 1943, 1)

Ponti nel suo Politica dell’architettura – un testo di dichiarazioni non sempre coerenti fra loro – afferma in sintesi che l’architettura moderna è architettura sociale, che lo stile dell’architettura è “stile della vita degli uomini, non uno stile degli edifici”, e che l’architettura moderna insegna che “dobbiamo attrezzare l’uomo, la sua vita, la sua cultura, la sua civiltà, la sua moralità. Dobbiamo profetare l’uomo” (Ponti 1943b, 3-6 passim).

Alla fine del 1944, “Domus” sospende le pubblicazioni e “Stile” resta di fatto, fino alla liberazione, l’unica rivista di architettura a livello nazionale. Oltre a “Costruzioni” e “Architettura italiana”, chiudono “Architettura”, la rivista del sindacato fascista degli architetti, “Rassegna di architettura” (già nel 1940), “Edilizia moderna”. Ponti dirige “Stile” fino alla metà del 1947, e, quando all’inizio del 1948 riprende la guida di “Domus”, la rivista, privata del suo carismatico regista, chiude.

La “nuova impresa editoriale” segnata dall’indicazione “volume primo” del fascicolo 226, riporta “Domus”, dopo la parentesi rogersiana, nell’alveo tracciato da Ponti, dove una serrata sequenza di esempi di architettura, opere d’arte, mobili, prodotti artigianali racconta un’operosità sulla quale la ripresa della vita, dell’economia, la rifondazione del paese può contare. Le questioni morali e sociali sollevate da Rogers, si risolvono nella concretezza del fare, “sul piano del lavoro”, come si legge nel primo editoriale della nuova serie.

La “Domus” di Rogers, “una rivista di tendenza”

5 | Copertine di “Domus” fra il 1946 e il 1947. 

Alla ripresa delle pubblicazioni, dopo l’interruzione per l’intero 1945, “Domus” è diretta da Ernesto Nathan Rogers, rientrato in Italia dalla Svizzera, dopo la liberazione. Il suo programma, il senso che intende dare alla rivista sta tutto nel sottotitolo scelto: “La casa dell’uomo”. Una distanza ovviamente siderale da quel “Casa all’Italiana”, che Ponti aveva posto al centro del suo programma nel 1928, teso a dimostrare la specificità dell’abitare e la raffinatezza del gusto nostrani. E invece una stretta prossimità con tutte le istanze sorte intorno al problema sociale della casa sollevato immediatamente prima e durante la guerra – case per il popolo, casa orizzontale, casa per tutti, casa a ciascuno – ma scrutato attraverso una lente antropologica che riconosce alla casa un significato che supera quello puramente funzionale del riparo, dell’igiene, della salubrità, e include i bisogni spirituali dell’uomo:

Una casa non è casa se non è calda d’inverno, fresca d’estate, serena in ogni stagione per accogliere in armoniosi spazi la famiglia.
Una casa non è casa se non racchiude un angolo per leggere poesie, un’alcova, una vasca da bagno, una cucina.
Questa è la casa dell’uomo.
E un uomo non è veramente uomo finché non possiede una simile casa (Rogers 1946, 3)

Una visione che sottintende come presupposto imprescindibile le dichiarazioni di Giuseppe Pagano, Ireneo Diotallevi e Franco Marescotti sulla casa orizzontale e la casa per tutti, già diffuse dal 1940 e ribadite per esempio sulle pagine di “Domus” nel 1944 (Diotallevi e Marescotti 1944a), e accoglie le riflessioni di Le Corbusier e François Pierrefeu sulla casa degli uomini (La maison des hommes, pubblicato da Plon nel 1942), sulla necessità di città umane, cui ancora Diotallevi e Marescotti dedicano un ampio articolo nel 1944 (Diotallevi Marescotti 1944b). Ma si differenzia necessariamente dalla campagna intrapresa da Ponti su “Stile”, nell’affermare il diritto di tutti a una casa come casa di proprietà, come indipendenza di ogni individuo, contro le case assegnate da uno stato padrone (“Stile” n. 11 (47), novembre 1944, 4: [Gio Ponti], Libertà – Proprietà – casa – famiglia). 

Sulla questione Rogers è intervenuto pochi mesi prima, nell’ottobre del 1945, con un articolo per “Il Politecnico” di Elio Vittorini, dove ricordando il significato sociale del problema della casa, ne denunzia il carattere politico, di cui tutti debbono occuparsi, “come del pane, della pace e della guerra” e per il quale servono “riforme sociali e innanzitutto una revisione spregiudicata dell’istituto della proprietà” (Rogers [1945] 2010, 291). Il problema troverà, come si sa, una soluzione ‘politica’ nel 1948 nei “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia”, con l’istituzione dell’Ina-Casa. Nel presentare la sua “Domus”, Rogers però va oltre, spostando l’attenzione su chi abiterà quella casa, su ciò che trasforma un alloggio in casa – in un angolo dove leggere poesie. In questo, Rogers riprende alcune riflessioni sulla casa ideale scritte per “Domus” pochi anni prima.

Nell’atmosfera sospesa del secondo anno di guerra, con la forzata stasi dell’edilizia residenziale, “Domus” crea una parentesi e invita gli architetti a raccontare la propria casa ideale, come occasione per il progettista di elaborare una propria idea senza i condizionamenti del committente, e di far conoscere al lettore l’architetto in quanto artista, e la “libertà della sua creativa immaginazione” (“Domus” 1942, 312) – e come momento di sospensione dalle preoccupazioni, in cui potersi permettere di sognare. Nove in tutto sono le testimonianze, le prime, nel numero 176, di Banfi, Belgioioso, Peressutti, Marco Zanuso, e dell’“anonimo”, presenza quasi costante sulle pagine della rivista. In Esperienza dell’architettura, come ricorda Serena Maffioletti, Rogers ne svela l’identità, spiegando come un giorno del 1941 Pagano aveva accolto la sua proposta di scrivere anonimamente sulla rivista (Rogers 2010, 207).

6 | La casa ideale di Peressutti, Banfi e Belgioioso nel n. 176 di “Domus”.

Le confessioni di un anonimo del XX secolo – considerazioni sull’uomo, la sua identità e riconoscibilità, nel tempo, nello spazio, nell’arte – si protraggono per nove puntate, di cui La casa dell’anonimo è l’ultima. Accanto alle suggestive e a un tempo dettagliate proposte dei suoi soci, serissime evasioni, sogni con la concretezza dei particolari costruttivi, lo scritto di Rogers è una riflessione sul significato della casa: sull’“angoscioso problema della casa dell’uomo” e sull’idea di casa:

La mia casa è un corpo, come il mio corpo, custodia ai dolori e alle gioie, accanto al tuo confine (…) Madre mi è la casa come il grembo che protesse prima ch’io venissi al mondo, affettuoso asilo, tiepida dimora, alimentato da un solo impulso d’amore e dal medesimo sangue. Così ogni uomo abbia la sua casa per lo stesso diritto di natura che gli dato una mamma e per il dovere di ripetere il prodigio nei figli (E. N. Rogers, Confessioni di un Anonimo del XX secolo. 9 – La casa dell’Anonimo, “Domus” 176 1942, 333, ora in Rogers 2010, 226).

Un ‘diritto alla casa’, dunque, che trascende l’istanza sociale e l’epoca, per farsi diritto di natura, in nome di un’umanità che forse non è estranea al razionalismo critico e la “critica anti-intellettualista” di Antonio Banfi, docente di Rogers (v. Papi 2012, 387-391), e che sicuramente troverà riscontro nel rapporto con Enzo Paci e il suo approccio alla fenomenologia relazionistica. E l’uomo, la cui casa è al centro della “Domus” rogersiana, non potrebbe riconoscersi, o anche solo essere consapevole, di quell’uomo totale, “totalmente impegnato e totalmente libero” di cui parla Jean-Paul Sartre nel suo programma di “Les Temps Modernes”, ospitato ne “Il Politecnico” di Vittorini nello stesso gennaio 1946 quando esce il primo fascicolo della nuova “Domus”?

In tutto questo, ciò che ha sempre contraddistinto la rivista è il rapporto con l’arte – che Ponti continuerà a indicare al singolare anche in “Stile” – o con le arti – segno di discontinuità e di una concezione pluralistica, introdotto da Bontempelli, Pagano, Bega e che Rogers riprenderà nel sottotitolo. Questo rapporto diventa una questione di umanità e bellezza: “Perché rinunciare agli uomini? perché agli dei? perché alla bellezza che spesso sostituisce le virtù nel fare da tramite?” (Rogers 1946a, 2). Una bellezza che scaturisce dagli stessi convincimenti morali che guidano la rivista e che non lascia spazio all'estetizzazione della comunicazione. Una bellezza intrinseca, che si rintraccia nella grafica curatissima, ma scevra da autocompiacimenti, nelle copertine dove dialogano nitide immagini fotografiche e astratti quadrati colorati, nelle diverse combinazioni consentite dalla griglia ortogonale che scandisce la superficie della pagina.

L’esperimento dura poco, due anni, diciannove numeri. Scarso il numero di copie vendute, accuse di essere troppo “borghesi” e “progressisti”, come osserva Marco Mulazzani sicuramente un progetto complesso difficile da comunicare (Mulazzani 1997, 432): Rogers nonostante un tentativo di cambio di rotta al termine del primo anno, è costretto, alla fine del secondo, a lasciare.

“Rivista di tendenza” la definisce Ponti in quella lettera a Giovanni Astengo citata all’inizio, e per questo destinata, a suo giudizio, all’insuccesso:

Negli ultimi due anni “Domus” era stata diretta e redatta ammirevolmente da Rogers come rivista di tendenza con una condotta di rigore culturale, critico e tecnico che è da stimare altamente, ma che appunto per il suo carattere tendenziale, professionalmente rivolto agli interessi intellettuali di una cerchia ristretta di architetti, aveva ridotto paurosamente l’espansione editoriale della pubblicazione, espansione che è la condizione di vita di una rivista (Ponti, Lettera ad Astengo).

Ma è proprio la tendenzialità, l’assumere una posizione precisa, lo schierarsi da una parte, quella ritenuta l’unica eticamente e umanamente accettabile, che caratterizza l’operato di Rogers, ed è condizione imprescindibile all’azione e al confronto. Spiega infatti nell’editoriale del dicembre ’46 – “la tendenza consiste appunto nell’assumersi la responsabilità d’indicare questi orizzonti laddove a volte v’è solo uno spiraglio di luce” (Rogers 1946b, 2) e ribadisce in quello di commiato, nell’ottobre-dicembre ’47:

Una rivista di tendenza, d’accordo, e ci siamo più volte assunti la responsabilità del limite, nella convinzione che la particolarità d’un punto di vista, anziché negare un principio universale, lo rende possibile con lo stabilire le coordinate d’un più preciso ragionamento dove le proprie opinioni e le altrui, definendosi, si presentano a una più onesta comprensione (Rogers 1947, 2).

Ponti dunque riassume la direzione della rivista, rinsaldandone il carattere a quella che aveva lasciato e ottenendo subito quel successo di pubblico che era mancato a Rogers. In fondo, per entrambi, lo scopo della rivista è “formare un gusto”, ma per Ponti ciò è possibile solo attraverso esempi concreti, realizzati e realizzabili, e una diffusione il più possibile capillare della rivista stessa. Come osserva Giulio Carlo Argan, l’obiettivo della rivista per Ponti è migliorare il livello del gusto, educare il pubblico (Argan 1973). Per Rogers, invece, il gusto non può disgiungersi da tecnica e morale, come “termini di una stessa funzione”, perché si tratta di “costruire una società”, in una visione per la quale cultura e società non possono essere disgiunte. La rivista è allora “strumento, staccio per stabilire il criterio di scelta” per stabilire quale sia la società da costruire (Rogers 1946a, 2). I suoi interlocutori possono per il momento essere solo coloro che in Italia come all’estero, sono deputati alla costruzione della società, quelli di Ponti sono i committenti, senza i quali l’opera dell’architetto e dunque la forma della società non si realizza.

La “Domus” di Ponti sarà ancora “inclusiva e non partigiana”, secondo la definizione che Giorgio Ciucci da di “Stile” (Ciucci 2015, 32), aperta a tutte le tendenze, in nome di una solidarietà che lo spingerà a immaginare un “comitato di cooperazione” del quale, però, indica nomi precisi, e fra essi non compaiono lo stesso Rogers, ma neanche Bruno Zevi e Piero Bottoni, per esempio.

“Mentre riviste come “Strutture”, “Metron”, “La nuova città”, operano altamente e formativamente ‘fra’ architetti…”

7 | Le riviste “Strutture” e “La nuova città” e il primo numero de “Il Politecnico”. 

8 | Copertine di “Metron”.

Ponti estende le sue osservazioni sul carattere elitario e esclusivista ad altre riviste che a guerra conclusa si affacciano sulla ribalta del dibattito architettonico, attribuendo anche a loro il carattere di specialismo che le rende meritorie sul piano formativo di una cultura architettonica, ma inadatte a diffondere in tutta la società questa cultura. Occorre invece “un organo che ponga l’opera dell’architetto in contatto col grande pubblico”. Le tre riviste che cita, “Strutture”, “Metron” e “La nuova città” sono indubbiamente settoriali.

“Strutture”, fondata nel 1947 da Carlo Cestelli Guidi, Adalberto Libera e Pierluigi Nervi, si occupa del rapporto fra architettura e ingegneria strutturale, riprendendo, nel sottotitolo “Rivista di scienza e arte del costruire”, il titolo, posto da Nervi in forma di domanda due anni prima, “Scienza o arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato” (Roma, 1945). Dopo solo quattro numeri, la rivista chiuderà nel gennaio ’48.

“Metron”, la rivista di Piero Bottoni, Cino Calcaprina, Luigi Figini, Eugenio Gentili, Enrico Peressutti, Luigi Piccinato, Silvio Radiconcini, Mario Ridolfi e Enrico Tedeschi, e, ufficialmente solo dal n. 10 (ma in realtà dalla fondazione) Bruno Zevi, nasce a Roma nell’agosto del 1945, una delle prime nell’Italia liberata. Si occupa di ricostruzione urbana e edilizia, di legislazione urbanistica, di prefabbricazione, riportando i dettagli costruttivi di abitazioni prefabbricate. Le dimensioni ridotte, inusuali per una rivista di architettura, insieme all’aspetto frugale – carta ruvida, copertina monocolore, impaginato essenziale, poche fotografie e invece molti disegni tecnici – il ritmo serrato degli articoli, gli esempi di architettura riportati, la indicano immediatamente come strumento di informazione e aggiornamento critico per i progettisti. Già con la terza serie, dal marzo 1948, l’aspetto cambia, con un formato più grande, copertine fotografiche, carta patinata, senza tuttavia perdere il carattere di rivista esclusivamente dedicata all’architettura e all’urbanistica. Continuerà a uscire fino al 1954, finanziata negli ultimi anni, dalle Edizioni di Comunità.

“La nuova città” di Giovanni Michelucci, il cui primo numero si situa a cavallo fra il 1945 e il 1946, nasce intorno alla Facoltà di Architettura di Firenze, come luogo di incontro fra architetti, docenti, studenti e esponenti di rilievo della cultura e dell’arte –  evento anomalo in un panorama accademico non ancora rinnovato – e, come avvisa il sottotitolo, i temi di riferimento sono architettura, urbanistica arredamento, concentrandosi però sulla questione della ricostruzione, al centro di un dibattito particolarmente acceso a Firenze e in termini polemici sull’architettura organica come punto d’approdo del movimento moderno; è la stessa ipotesi avanzata da Bruno Zevi nel suo Verso un’architettura organica.

Estremamente sobria nella copertina e nell’impaginato, la rivista è punto di riferimento per architetti e cultori della materia, ma il suo ruolo aggregativo si esaurirà nell’arco di un anno, quel complicato 1946 in cui diventa evidente che la ricostruzione prenderà una piega assai diversa da quella immaginata e propugnata da “La nuova città”, ma anche da “Metron” e “Domus” e lo stesso spirito di cooperazione si sfilaccia e perde compattezza.

Ne fa le spese anche “La città”, la rivista che Giuseppe De Finetti fonda a Milano nel dicembre 1945 (ma la numerazione ha inizio con il primo numero del gennaio successivo), per affrontare i temi del futuro delle città e di Milano in particolare, ma che si arresta dopo soli cinque mesi, al numero 2.

Un esperimento, brevissimo, di settimanale dedicato all’architettura è “A. Attualità architettura abitazione arte” che Lina Bo con Carlo Pagani e Bruno Zevi fondano nel febbraio 1946, pubblicata da Editoriale Domus. Bo e Pagani erano stati vicedirettori di “Domus” fino al 1944, quando Melchiorre Bega era rimasto come unico direttore, Zevi aveva appena partecipato alla fondazione di “Metron”, ma l’idea di questa rivista è di portare la gente comune a interessarsi di architettura e ricostruzione, e per farlo, declina in termini di vita quotidiana, anche con ironia, le questioni urbanistiche, sociali e politiche che gli altri giornali affrontano in modo complesso. Per tenere insieme obiettivi così diversi, il linguaggio visivo è molto articolato: il colore dell’intestazione, diverso per ogni numero, ricorre nelle pagine interne, ‘legando’ fra loro i temi e le immagini fotografiche condividono lo spazio in tutte le pagine con vignette satiriche e disegni colorati. Un articolo di Zevi sul controllo delle nascite pare sia il motivo (Brunetti [1983?] 2018) che induce Mazzocchi a chiudere improvvisamente la rivista dopo qualche mese di vita.

Le riviste di architettura, occupandosi di programmazione economica, strategie industriali, legislazione, questioni sociali e lavorative, mostrano che la disciplina ha travalicato i confini costruttivi, progettuali che tradizionalmente erano di sua pertinenza per farsi impegno civile e politica. Un compito che comporta un nuovo ruolo per l’architetto e il suo lavoro intellettuale e che si può registrare guardando da una prospettiva opposta, quella dei periodici di cultura e politica che hanno una sezione o ospitano interventi dedicati all’architettura e all’urbanistica. Fra questi, “Il Politecnico. Settimanale di cultura contemporanea”, fondato nel settembre 1945, diretto da Elio Vittorini e pubblicato da Giulio Einaudi, e di “Comunità”, il “Giornale mensile di politica e cultura”, poi “Rivista del Movimento Comunità” di Adriano Olivetti, che inizia ad uscire nel marzo 1946. Se, come accennato, Rogers scriverà sul giornale di Vittorini già nell’ottobre del 1945, la sezione che “Comunità” dedica a urbanistica e architettura diventa spazio importante dove si sviluppa il dibattito, incentrato soprattutto sull’architettura e la pianificazione delle comunità. 

L’elevato numero di riviste di architettura che subito dopo la guerra e nei due anni successivi compare sulla scena culturale italiana – e a quelle citate, sono da aggiungere “Edilizia moderna” che riprende le pubblicazioni nel 1947 e “Urbanistica” che come “Bollettino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica” ha continuato ad uscire durante gli anni del conflitto e nel 1949 viene rifondata da Olivetti per “raccogliere in un primo urgente appello le forze ancora disperse” – coniuga la consapevolezza della centralità dei temi dell’architettura, della casa, delle costruzioni, della città, con l’esigenza di luoghi di discussione aperti, extra-accademici per gli intellettuali, di luoghi ove sia possibile prendere la parola, dopo anni di interdizione, confrontarsi sulle idee, lasciandole fluire liberamente ed evitarne la cristallizzazione, il precoce consolidamento.

Nel loro presentarsi come un insieme sfaccettato, le riviste appaiono, in quel momento storico, come una polivocità necessaria, che permette di rifrangere e moltiplicare il senso dei temi che l’architettura, nella sua accezione ampliata, pone, nel dialogo fra i contributi diversi in un numero di una rivista, in quello fra i diversi numeri, o fra le diverse riviste.

Già negli anni Cinquanta, questa vivacità viene meno, la situazione si assesta, e l’urgenza di far conoscere molteplici punti di vista si incanala in direzioni precise e il panorama diventa molto meno variegato: “Domus”, “Casabella”, “L’architettura cronache e storia” e “Urbanistica” domineranno la scena con la loro identità ben delineata, l’ambito di riferimento riconoscibile.

9 | Prime pagine di “A. Attualità architettura abitazione arte”. 

10 | Copertine di “Urbanistica”.

Riferimenti bibliografici
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Fonti
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  • Ponti 1948
    G. Ponti, Lettera a Giovanni Astengo, 10 febbraio 1948, Iuav - Archivio Progetti, Fondo Giovanni Astengo, Corrispondenza.

English Abstract 

“As I’m preparing to direct “Domus”, I find myself starting a publishing enterprise for the third time”, Gio Ponti observes in a letter addressed to Giovanni Astengo, in February 1948. The letter, from Astengo’s archive at the Archivio Progetti of Iuav University, offers some interesting hints for a re-reading of the debate in Italian architectural journals during and shortly after the second world war. After founding “Domus” in 1928, Ponti left it in 1940 and started a new review, “Stile” which he directed for 4 years, while “Domus” was assigned to different directors – Massimo Bontempelli, Giuseppe Pagano, Melchiorre Bega, Ernesto Nathan Rogers – before being reprised by Ponti. The passages from one direction to another implied different critical positions on central issues like the concepts of habitation, of style, of the political role of architecture and architects, which can be observed in the pages of the two magazines. In particular, the sense and goals of an architectural journal, that Gio Ponti expresses in terms of spreading through the vastest public a generally modern taste, while for others, like Rogers, the aim is to establish a tendency. The large number of journals flourishing in Italy soon after the war is a demonstration of both the need for expressing different viewpoints and the identification of periodicals as the only possible places where evolving, fluid ideas can emerge. As a whole, the periodicals appear, in that particular historical moment, as a necessary polyvocality reflecting and multiplying the significance of the themes that architecture, in the broader and more complex sense, poses. As Roberto Calasso puts it in his Come ordinare una biblioteca, the reviews had also this aim, to multiply and complicate meanings.

keywords | Architectural reviews; “Domus”; “Stile”; “Costruzioni-Casabella”; Gio Ponti; Ernesto Nathan Rogers; Giuseppe Pagano; post-war Italy.

Gio Ponti, Lettera a Giovanni Astengo*

Milano 10 febbraio 1948

Redazione Domus = GP/ig

Caro Astengo

Nell’accingermi a dirigere “Domus” mi sono trovato per la terza volta a dover ricominciare un’impresa editoriale. Negli ultimi due anni “Domus” era stata diretta e redatta ammirevolmente da Rogers come rivista di tendenza con una condotta di rigore culturale, critico e tecnico che è da stimare altamente, ma che appunto per il suo carattere tendenziale, professionalmente rivolto agli interessi intellettuali di una cerchia ristretta di architetti, aveva ridotto paurosamente l’espansione editoriale della pubblicazione, espansione che è la condizione di vita di una rivista.

Dato ciò, il mio sforzo è di rifare di “Domus” una rivista informativa dell’architettura e della casa, del costume, delle arti e della cultura, capace di penetrare in tutti gli ambienti e di raggiungere una vitale tiratura.

Mentre riviste come “Strutture”, “Metron”, “La nuova città”, operano altamente e formativamente ‘fra’ architetti (e noi architetti dobbiamo sostenerle) occorre assolutamente un organo che ponga l’opera dell’architetto in contatto col grande pubblico per trovargli o meglio formargli ed educargli quel committente senza il quale l’opera dell’architetto non si realizza.

Dobbiamo ricordare che anteguerra solo fra “Domus” e “Stile” si arrivava alle 30.000 copie mensili di pubblicazioni che mettevano in contatto il pubblico con l’opera, il nome, il pensiero degli architetti. Erano 360.000 copie all’anno. Non le voglio dire, con queste nostre pubblicazioni d’oggi che escono anche irregolarmente a che miserande copie siamo ora. C’è tutto da riguadagnare, e questo è appunto quello che mi propongo di fare con “Domus”, organo e nome adatto a ciò, e che voglio aperto assolutamente a tutte le tendenze ed a tutti i nomi più vivi degli architetti italiani, per ricostituire una solidarietà indispensabile.

È a questo scopo che vorrei vedere formato attorno a “Domus” un Comitato di cooperazione composto di architetti di ogni centro importante che significativamente e nobilmente rappresentino le diverse tendenze, oppure siano, con il loro prestigio, al di sopra della tendenza. Così farò con gli artisti.

Per Torino chiedo il Suo nome, quello di Levi Montalcini e di Mollino; per Bologna ho scritto a Bega e a Vaccaro; per Roma a Libera e a Nervi (i); per Napoli ho scritto a Cosenza; per Firenze a Michelucci (i); per Milano cerco Belgioioso, Lingeri, Asnago, Figini e Pollini.

Alla rivista voglio anche assicurare la cooperazione delle grandi produzioni d’arte e di serie e delle industrie maggiori.

Le unisco il sommario del primo numero. La rivista sarà bimestrale ed avrà 80/90 pagine di testo, 10 e più tricromie, e – per penetrare concretamente - costerà solo 500/ 600 lire. Porterà indirizzari degli architetti

Mi dica quel che pensa e mi abbia

Suo Ponti

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Michela Maguolo, “Domus” e le altre. Le riviste di architettura fra guerra e dopoguerra. Intorno a una lettera di Gio Ponti, “La Rivista di Engramma” n. 175, settembre 2020, pp. 259-286 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.175.0008