“In questa cassa piena di chiodi”
La Danae di Tiziano da Montecassino a Carinhall, da Altaussee alla Farnesina*
Elena Pirazzoli
English abstract
Bella era l’arca. Ma quando / fu travolta dal mare / mosso da raffiche di vento, /
lei fu colta dal terrore / e con le guance rigate / dalle lacrime, strinse tra le braccia / Perseo e gli disse: Quanta angoscia /
figlio! Ma tu dormi, dormi il tuo sonno / in questa cassa piena di chiodi, / steso supino nella notte oscura / in questo buio orrendo [...]
Simonide, Lamento di Danae
Il mare s’ingrossava, su ogni onda se ne infrangeva un’altra e… non c’era in loro né coscienza né morale.
Le forze del mare… e della Storia sono così: senza coscienza… senza morale.
Aleksandr Sokurov, Francofonia, 2015
In fuga dalla guerra
Nelle sale della villa Farnesina a Trastevere, il 9 novembre 1947 il presidente della Repubblica Enrico De Nicola e quello del Consiglio Alcide De Gasperi inaugurano, insieme ai ministri dell’Istruzione Guido Gonella e quello degli Esteri Carlo Sforza, e alla presenza del generale Lucius Clay, allora governatore della zona di occupazione americana nell’ex Terzo Reich, la Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania. A essere allestite nelle sale della cinquecentesca residenza romana, sono soprattutto le opere trafugate dalle collezioni dei musei napoletani e ritornate in Italia solo pochi mesi prima, il 13 agosto: tra le più importanti, l’Apollo Citaredo di Pompei, i cerbiatti della Villa dei Papiri di Ercolano, Antea di Parmigianino, La parabola dei ciechi di Bruegel, la Madonna del Velo di Sebastiano del Piombo, la Madonna del Divino Amore di Raffaello, la Sacra Conversazione con donatori di Palma il Vecchio, Lavinia e Danae di Tiziano.
Diverse fotografie di quei giorni mostrano uno dei principali fautori del recupero di questo “tesoro” – ovvero il direttore dell’Ufficio italiano per il recupero Rodolfo Siviero – insieme proprio a quest’ultima tela del maestro veneto: è forse la vicenda stessa della Danae, tra mito e vicende storiche, a renderla emblema di questo salvataggio.
Ai primi di giugno del 1940, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, ai sovrintendenti del Regno venne recapitata una circolare, urgente e riservatissima, che ordinava di attuare i provvedimenti disposti dai Comitati di Protezione Antiaerea per la tutela del patrimonio artistico e culturale. In realtà, le norme di salvaguardia e i registri delle opere da proteggere circolavano già dalla primavera dell’anno precedente, nell’imminenza dello scoppio del conflitto.
Bruno Molajoli, giovane soprintendente alle Gallerie della Campania, aveva stabilito nel luglio 1939 le misure da adottare, secondo un piano suddiviso in tre fasi: attuare un aggiornamento delle liste delle opere, classificate per pregio, e valutare se predisporne il trasferimento o la protezione in sede; in seconda battuta individuare punti di raccolta, lontani da possibili bersagli di bombardamenti e allo stesso tempo adattare i sotterranei dei siti museali; infine predisporre l’imballaggio dei beni mobili e organizzarne il trasporto.
I beni intrasportabili dovevano essere protetti con l’uso di materassi in alga, paglia di vetro, lastre di amianto e strutture in legno ignifugato. I beni mobili, invece, vennero suddivisi in tre gruppi: opere di grande pregio, da trasferire fuori Napoli imballate con cura (cassetta in zinco, doppio involucro di tela imbottita di ovatta, cassa in legno); opere meno importanti, da trasportare stivate in furgoni imbottiti, avvolte in coperte di lana; opere di mediocre importanza o non in grado di reggere il trasporto per intrinseca fragilità, come i vetri e le porcellane del Museo Duca di Martina, da ricoverare nei sotterranei della stessa struttura (Direzione generale delle Arti 1942, 277-282). Queste norme vennero subito applicate: Napoli subì il primo bombardamento il 13 giugno, anche se fu poco più che un atto dimostrativo. La situazione peggiorò in autunno: a partire dal 1° novembre, la città iniziò a subire pesanti attacchi della Royal Air Force britannica. Gli obiettivi erano le postazioni militari, il porto, le infrastrutture ferroviarie e la zona industriale, in particolare le raffinerie e i depositi di petrolio, ma anche i quartieri storici – e di conseguenza il patrimonio artistico e culturale – vennero danneggiati, nel quadro di una strategia di moral bombing (Sebald [1999] 2004). Dal dicembre del 1942 iniziarono anche i raid americani, passando a una strategia di area bombing, a tappeto attorno agli obiettivi. E anche dopo la liberazione, fino ai primi mesi del 1944 la città subì bombardamenti tedeschi: Napoli, centro nevralgico dell’Italia meridionale, è stata la città più bombardata della penisola (Gribaudi 2005, 26). Alla fine della guerra, si stima che abbia avuto 20.000 vittime per i bombardamenti e più di un terzo del suo patrimonio edilizio distrutto.
In questa tragica situazione, apparve necessario il ricovero di altri beni – tra cui quelli arrivati da tutt’Italia per la Mostra d’Oltremare, inaugurata il 9 maggio 1940 e chiusa un mese dopo, rimanendo in balia degli eventi – per i quali venne individuato un nuovo punto di raccolta e tutela fuori dalla città.
Un volume del 1942 a cura della Direzione generale delle Arti, celebrando la capacità del regime di fare fronte ai pericoli della guerra, mostra immagini delle opere stoccate nei punti di raccolta fuori Napoli, senza indicarne la località per evitare di svelarne l’ubicazione: si trattava dell’Abbazia di Cava de’ Tirreni (SA) e di quella di Loreto a Mercogliano (BN), residenza dei monaci benedettini di Montevergine.
Durante tutta la guerra, dal giugno del 1940 al settembre del 1943, la Soprintendenza alle Gallerie della Campania (che ho l'onore di dirigere da nove anni) provvide ininterrottamente a trasferire opere d'arte fuori Napoli, nei depositi istituiti in campagna per sottrarle ai pericoli delle incursioni aeree. Dalla Pinacoteca del Museo Nazionale, dal Museo di S. Martino, dal Museo della Floridiana, dai Palazzi Reali, dall'Accademia di Belle Arti, dall'Istituto d'arte, dal Conservatorio di Musica, dal Municipio di Napoli, dalla Mostra d'Oltremare, da Chiese e da private collezioni, furono allontanati complessivamente 5189 dipinti, 29.404 disegni e stampe, 97 arazzi, 1017 sculture, 10.032 maioliche e porcellane, 72 miniature, 2252 volumi di documenti storici o manoscritti, 11.347 tra monete medaglie e oggetti vari, per un totale di 59.410 pezzi.
Consideriamo un particolare favore della Provvidenza quello che ci consente oggi di dire che esattamente 59.410 oggetti d’arte sono ritornati, salvi, alle loro rispettive sedi (Molajoli 1949, 182-183).
L’ultima nota di questo discorso di Molajoli – tenuto nel 1949 durante la cerimonia per la riapertura dei musei napoletani, restaurati e riordinati dopo la fine del conflitto – indica un esito niente affatto scontato, considerata la scelta fatta di fronte al pericolo della risalita degli Alleati lungo la penisola durante l’estate 1943. I due ricoveri per il patrimonio artistico napoletano, posti a sud e nell’entroterra rispetto alla città, sembravano essere a rischio. Venne così presa la decisione di trasferire parte di quei beni, quelli di maggiore pregio, in un complesso abbaziale più a nord, verso Roma, arroccato su un’altura: Montecassino. Un nome che, con il senno di poi, stupisce per i destini incrociati di opere da salvare e luogo prescelto per il salvataggio: dopo rischiose operazioni e trasferimenti, le opere tornarono, mentre l’antico monastero fondato da san Benedetto venne raso al suolo.
Anche la tempistica colpisce: il trasferimento è organizzato per i primi giorni di settembre, all’oscuro di quello che sarebbe accaduto da lì a poco. I convogli completarono i trasporti il 9 settembre, appena dopo la proclamazione dell’armistizio che determinò un radicale cambiamento del corso della guerra in Italia.
Nelle note redatte nel dopoguerra da Amedeo Maiuri, soprintendente ai Beni archeologici della Campania, occupato – e preoccupato – nella protezione di preziose collezioni, si legge lo sconcerto per essere stati lasciti all’oscuro dell’imminente resa incondizionata: lo spostamento da Napoli delle casse contenenti i dipinti e le collezioni archeologiche di maggiore importanza avviene tra il 2 e il 6 settembre. “S’era a due giorni dall’armistizio e nessuno da Roma avvertì di sospendere quell’inutile e pericoloso trasporto che avrebbe risparmiato tante gravi apprensioni per i bronzi del Museo e per i capolavori della Pinacoteca” (Maiuri 1956, 114-115, cit. in Gentile, Bianchini 2014, 33).
La firma della resa incondizionata era già stata segnata il 3 settembre, ma l’armistizio venne reso pubblico solo la sera dell’8, lasciando tutti di sorpresa: le conseguenze peggiori saranno per l’esercito, lasciato nelle mani dell’ex alleato, e la popolazione civile, abbandonata a sé stessa.
Quest’ultimo sfollamento delle opere di pregio verso l’antico monastero laziale coinvolge anche la Danae di Tiziano, parte di quella collezione Farnese che era stata fondante per il Museo di Capodimonte. Seguendo le vicende familiari, la collezione romana era stata spostata prima a Parma e infine a Napoli nella prima metà del Settecento, quando Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna ed Elisabetta Farnese – ultima erede di quella famiglia di cardinali, papi, condottieri, amanti e mecenati d’arte – fece erigere la reggia di Capodimonte proprio per dare una degna collocazione al patrimonio artistico ereditato dalla madre, cui si unirono le opere della collezione borbonica. Nel 1799 la reggia “museo” subì un pesante saccheggio da parte delle truppe napoleoniche: come d’uso, le opere d’arte erano un gradito bottino e i francesi ne portarono via circa trecento, destinate alla Repubblica napoletana di Gioacchino Murat, o vendute.
Molto probabilmente fu pensando a questa secolare consuetudine bellica che vennero redatte le note dal comitato centrale di Protezione Anti Aerea nel 1939:
Poiché devesi ritenere che sia contraria all'interesse del nemico la distruzione del patrimonio artistico culturale dell’avversario, che in seguito potrebbe diventare di sua proprietà, si esclude che esso patrimonio sia oggetto di lancio mirato di bombe. Inoltre non potendosi convenientemente evitare il danno dei tiri diretti, basterà prendere quei provvedimenti protettivi atti ad evitare o a ridurre gli effetti dei bombardamenti indiretti.
Immobili isolati in aperta campagna, a distanze superiori ai 500 metri da probabili obbiettivi di bombardamento, dovranno essere considerati al sicuro dagli effetti di questo, ed in massima non richiedenti di protezione.
“Riassunto delle norme relative alla protezione anti-aerea del patrimonio artistico culturale dato dal comitato centrale Protezione Anti Aerea (P.A.A.), Italia, 1939”.
Grandi edifici isolati in campagna, come ville o conventi, a cui si aggiungeva lo status di santuari, luoghi sacri: i rifugi individuati dalla soprintendenza napoletana si pensavano lontani dalla guerra e dalle devastazioni, protetti dalla loro storia secolare e dalla secolare consuetudine di guerra. Invece: “l’Abbazia di Cava dei Tirreni, il convento di Mercogliano e l’Abbazia di Montecassino. La prima fu appena sfiorata dalla guerra, lontano ne rimase il secondo, ma l'Abbazia di Montecassino si trovava, fra il Lazio e la Campania, su quella linea di monti alla quale si aggrapparono le truppe naziste per sbarrare agli Alleati la via dell'Italia centrale” (Gonella 1947, 4).
Infatti, se gli altri complessi conventuali furono solo lambiti dal conflitto, l’antica abbazia benedettina, posta in posizione dominante sulla via Casilina, divenne strategica per controllare il collegamento tra Napoli e Roma. Con la creazione della Linea Gustav, i tedeschi si attestarono in posizioni difensive attorno all’abbazia, prese di mira dai bombardamenti angloamericani, che supponevano la presenza del nemico all’interno dell’antica badia: il primo avvenne già il 10 settembre, mettendo in allarme i monaci e sollecitando in alcuni membri delle truppe tedesche stanziate nei dintorni la necessità di intervenire. Montecassino era ormai fronte di guerra: subì pesanti attacchi fino a quello, esiziale, del 15 febbraio 1944.
Come la chiesa, così la sagrestia, la Sala Capitolare, la famosissima Biblioteca, il grande refettorio e numerosi altri ambienti del monastero erano adorni di splendide opere d’arte. Erano quattordici secoli di vicende e di prove, spesso terribili, di glorie e di dolori che rivivevano nella celebre Badia. Oggi essa è un mucchio di macerie, l’orrendo cratere di un vulcano.
Non è prevedibile la spesa occorrente per la ricostruzione della Badia (Lavagnino 1947, 55).
Il confine sottile tra salvataggio e furto
All’indomani dell’8 settembre venne creato anche in Italia il Kunstschutz, il servizio militare tedesco di protezione delle opere, diretto dal colonnello SS Alexander Langdorff e in cui erano stati assoldati storici dell’arte, archeologi, bibliotecari, a volte persone che conoscevano il Paese e vi avevano vissuto (Fuhrmeister 2016; Fuhrmeister 2019). Sempre nel 1943 fu istituito anche il Mfaa - Monuments Fine Arts and Archives Program, l’organismo degli eserciti alleati composto da circa 400 professionisti dell’arte, impegnati nella protezione delle opere dai bombardamenti e dai saccheggi (Edsel [2013] 2014).
Tutti gli attori in campo – occupanti, occupati e liberatori – crearono strutture operative e misero in atto pratiche di tutela, ricovero e recupero delle opere d’arte. Tuttavia, non solo questi programmi per la protezione confliggevano tra loro, ma erano anche forme – fragili, ambigue, quasi sisifee – per lenire le conseguenze delle operazioni belliche attuate da quegli stessi eserciti, in un conflitto di azioni interno agli schieramenti: i tedeschi minavano e bruciavano e gli Alleati bombardavano e distruggevano, mentre il Kunstschutz e i Monuments Men cercavano di mettere al sicuro i beni artistici. Forse, quello per la difesa – più o meno disinteressata – delle opere d’arte, era un altro terreno in cui si combatteva la guerra. Una lotta in cui, inoltre, salvatori e distruttori potevano cambiare ruolo a seconda delle occasioni. Se le opere d’arte, i preziosi fondi librari e archivistici erano stati sfollati in grandi edifici isolati nelle campagne per sfuggire ai bombardamenti alleati sulle città, ora si trovavano in balia della politica tedesca della ‘terra bruciata’, che non doveva lasciare nulla al nemico: né luoghi da occupare, né il supporto della popolazione (Klinkhammer 2010, 3).
Nel caso di Montecassino, la distruzione venne per mano alleata – 229 bombardieri statunitensi lanciarono il loro carico sull’antico monastero – e il salvataggio, per mano tedesca. Un salvataggio tuttavia pieno di ombre e di retroscena.
La vicenda è nota: tra la metà di ottobre e l’inizio di novembre, i tesori di Montecassino – quello abbaziale e quelli rifugiati da Napoli – per operato della divisione tedesca “Hermann Göring”, stanziata nei dintorni a controllo della Linea Gustav, vennero trasferiti a Spoleto e poi portati a Roma, per essere consegnati parte al Vaticano, l’8 dicembre 1943 a Castel Sant’Angelo, e parte allo Stato italiano, il 4 gennaio 1944, con tanto di cerimonia ufficiale in piazza Venezia. Ma due camion non erano arrivati a destinazione, e non ci arriveranno mai: avevano preso la via della Germania.
I fatti sono stati raccontati dalle diverse parti in causa, ognuna per mettere in luce il proprio personale operato.
Da qualsiasi punto di vista si considerasse la cosa, non si sarebbe potuto salvare il Monastero!
Ma forse si sarebbero potuti salvare almeno i Monaci e gli ingenti tesori che esso racchiudeva! Che cosa avrebbe guadagnato il mondo se dopo la distruzione le due parti opposte si fossero reciprocamente scambiate la colpa! Ciò non avrebbe certamente rialzato le rovine dalla polvere, né avrebbe riportato in vita alcun Tiziano incendiato, o la biblioteca millenaria annientata. Uno dei gioielli della corona della cultura occidentale era minacciato, e la coscienza mi imponeva il grave dovere di difenderlo! (Schlegel [1951] 1980, 218).
Nel 1951, in un articolo sulla Österreichische Furche (Schlegel [1951] 1980), l’ex tenente colonnello della divisione “Hermann Göring” Julius Schlegel racconta con fervido pathos – “sentivo dentro di me una voce incalzante che minacciava, chiamava, gridava e che non potevo non sentire: fallo! Salva tutto ciò che si può salvare!” – il proprio operato per portare al sicuro i tesori di Montecassino. Racconta di essersi presentato su iniziativa personale all’abate Gregorio Diamare, il 14 ottobre 1943, riuscendo a convincerlo della necessità di trasferire i beni del monastero. Tuttavia, nel passo citato colpisce il riferimento al maestro veneto, di cui l’antica badia non possedeva opere: le sue tele erano nelle casse dei musei napoletani. Solo fortuitamente, e in un secondo momento, il tenente colonnello austriaco venne a conoscenza della loro presenza nell’abbazia: le voci interiori possono essere profetiche, o confuse dalla bramosia.
Schlegel nel suo testo ricostruisce il salvataggio dei beni fino alla consegna di quelli di proprietà del Vaticano: non menziona né l’episodio di Palazzo Venezia, né la scomparsa di alcune casse dal trasporto, né, tanto meno, la presenza nelle operazioni del capitano Maximilian J. Becker. Ufficiale medico assegnato alla divisione Hermann Göring, in una lettera-memoriale del febbraio 1964, anche lui racconta la propria versione dei fatti – decisamente più puntuale e meno enfatica – proprio per fare luce sulle polemiche sollevate sul quel “salvataggio o furto” in occasione della mostra del 1947 alla Farnesina (Becker [1964] 1980).
Anche Becker scrive di essersi presentato, su iniziativa personale, il 14 ottobre 1943 al portone dell’abbazia per proporre la messa in salvo del suo antico tesoro. L’idea gli era venuta in modo spontaneo, da studioso d’arte e libri antichi, dopo aver effettuato un intervento analogo presso il convento francescano di Teano, per proteggere casse di volumi della Biblioteca nazionale di Napoli dalla strategia di ‘terra bruciata’ tedesca.
Tuttavia, per realizzare il suo piano era stato necessario coinvolgere anche l’ufficiale di vettovagliamento, il tenente colonnello Siegfried Jacobi che acconsentì alla richiesta di usare dei camion, aggiungendo però “Se dobbiamo fare anche questo, deve venire fuori qualcosa per noi […]. Tenete un paio di quadri. […] tagliare dalla cornice e semplicemente arrotolare”, poi rubricato a “scherzo” dallo stesso Jacobi (Becker [1964] 1980, 246-247). Ma, condotto al cospetto dell’abate Diamare, Becker scoprì di essere stato preceduto da un ufficiale della divisione: Julius Schlegel che, a suo dire, era stato incaricato da Jacobi per approntare un piano di evacuazione dell’abbazia, su ordine del generale Conrath. Si creò così una collaborazione tra i due, fondata però sulla reciproca diffidenza.
Anche Becker racconta di essere venuto a sapere solo casualmente del ricovero in abbazia, a inizio settembre, di circa 200 casse – in realtà 187 – consegnate dalle autorità napoletane per metterle in sicurezza. Dopo aver cercato di prendere tempo adducendo la motivazione di non avere i permessi necessari per decidere su quei beni sotto tutela, l’abate Diamare acconsentì al trasferimento, che si completò il 3 novembre. Destinazione dei convogli erano alcuni conventi benedettini a Roma per i beni privati del monastero, e per tutti gli altri un luogo sicuro, deciso dalla divisione tedesca e, per il momento, segreto: villa Marignoli a Colle Ferretto, presso Spoleto, requisita e resa deposito della “Hermann Göring”. Per ringraziare Schlegel, Becker e il generale Conrath, i monaci produssero delle pergamene miniate.
Tuttavia, la segretezza delle operazioni di trasporto dei beni dello Stato italiano non lasciava tranquilli i monaci né, a suo dire, lo stesso Becker, soprattutto dopo che Jacobi gli aveva mostrato copia di una lettera al tenente colonnello Bernd von Brauchitsch, aiutante di Göring, in cui la divisione offriva di fare dono al Reichsmarschall di alcune delle opere prese in consegna e chiedeva l’invio da Berlino di un esperto d’arte che potesse valutarle. Allarmato da queste informazioni, Becker si recò al deposito.
Alle pareti appesi in fila, scorsi grandi preziosi dipinti. Al centro vi erano casse di diversa grandezza, i cui sigilli erano stati infranti ed esse aperte. Materiale da imballaggio giaceva sparso sul pavimento. Evidentemente i quadri erano stati tolti da quelle casse (Becker [1964] 1980, 280).
La notizia, intanto, stava trapelando: il 10 novembre era uscito sul New York Times un articolo dell’inviato a Napoli, intitolato Unique Collection of Art Treasures Taken Away by Germans in Italy; Paintings by All Old Masters and Irreplaceable Antiquities Removed from Ancient Abbey of Montecassino - Grave Fears Felt. Si riportavano le accorate parole del sovrintendente Maiuri, secondo cui era alto il timore che dietro all’annuncio ufficiale tedesco di trasferimento in “un luogo sicuro”, si celasse “potenzialmente una delle più grandi tragedie nella storia dell’arte”. Questo allarme internazionale arrivava dopo i tentativi di mediazione diplomatica delle autorità statali e religiose: il sovrintendente di Roma Emilio Lavagnino si rivolse al Ministero degli Esteri e ad Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano; mons. Giovanni Battista Montini chiese notizie all’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede (Klinkhammer 2010, 7). L’operazione non era passata sotto silenzio, anzi, alla preoccupazione italiana aveva fatto eco una forte tensione all’interno dei comandi tedeschi.
Esistono diverse versioni su chi fu l’autore dell’intervento risolutivo che portò alla riconsegna ufficiale dei beni al Vaticano e allo Stato italiano: Fridolin von Senger und Etterlin, al comando del XIV Corpo d’Armata corazzato e responsabile del settore occidentale del fronte terrestre in Italia, Bernhard von Tieschowitz, rappresentante in Italia del Kunstschutz, addirittura Albert Kesselring, comandante supremo delle forze tedesche in Italia. Molto probabilmente avvenne per una catena di relazioni e ordini, cui la divisione “Hermann Göring” non poté sottrarsi.
L’8 dicembre fu effettuata la prima consegna al Vaticano, alla presenza delle autorità ma senza sufficiente attenzione mediatica per quel gesto con cui si volevano mettere a tacere le voci di saccheggi da parte della divisione tedesca. Per la seconda, il 4 gennaio 1944, fu così organizzata una cerimonia solenne in piazza Venezia, davanti allo schieramento dei camion utilizzati e delle truppe, con tanto di apertura di alcune casse e svelamento di tele in favore di fotografi e cineoperatori.
Tuttavia, due mezzi non erano giunti – e con loro 15 casse: si addussero scuse come problemi stradali, ma in realtà era il “tornaconto personale” della divisione, per mettersi in buona luce agli occhi di Göring, di cui si conoscevano bene le passioni, anzi, le bramosie.
Bisogna considerare che la Panzer-Division “Hermann Göring” era un peculiare raggruppamento dell’esercito tedesco: aggregata alla Luftwaffe, era nata in realtà come corpo di polizia particolarmente ideologizzato e brutale, al servizio di Göring. Inizialmente venne utilizzata per reprimere le attività degli oppositori politici e come personale di sorveglianza dei primi campi di concentramento. A partire dal 1935, con la legge sulla ricostituzione della Wehrmacht, venne incorporata nella Luftwaffe, forza armata presieduta dal maresciallo del Reich, e adibita a mansioni militari. Nel 1942 era stata trasferita a Capua, poi alcuni suoi reparti furono impegnati in Tunisia. Quando si ruppe il fronte del Nord Africa, quello che rimaneva dei reparti della divisione combatté prima in Sicilia, poi si ritirò in Campania, nella difesa della Linea Gustav. Il suo comandante era il Generalmajor Paul Conrath, per anni aiutante di Göring. All’inizio del 1944 fu rinominata Fallschirm-Panzer-Division, ovvero “divisione corazzata paracadutista”: in realtà, i suoi membri non erano paracadutisti, era solo una misura propagandistica per rafforzarne lo status di corpo d’élite, e farne una scelta più appetibile per i giovani volontari (Gentile [2012] 2015, 350-377).
Sue peculiarità, quindi, erano una forte ideologizzazione nazista, un legame strettissimo con Göring, di cui eseguiva ordini diretti, e uno spregiudicato uso della violenza nei confronti della popolazione civile: gran parte degli eccidi avvenuti in Campania e nel Basso Lazio tra il settembre e l’ottobre 1943 vanno ascritti a questa divisione; altri li effettuerà in Emilia e Toscana nella primavera 1944.
Sotto questa luce, la consegna in pompa magna delle opere al Vaticano e a Palazzo Venezia assume sfumature più cupe. Gesto propagandistico per mostrare la correttezza dell’occupante, stride ancora di più pensando alle operazioni condotte in quello stesso periodo da quegli stessi soldati. E ancor più pesa la richiesta, nel dopoguerra, di far porre una lapide a ricordo dell’impresa nell’abbazia di Montecassino, come tentativo di essere ricordati solo per quel salvataggio: salvataggio fortuito, in quanto mascherava un’intenzione di furto.
La bramosia di Göring
L’esperto d’arte inviato da Berlino al deposito presso Spoleto era molto probabilmente un uomo di Walter Andreas Hofer, o lui in persona: mercante d’arte di Monaco, fidato procacciatore di opere per il maresciallo del Reich. Si può solo immaginare la reazione nel trovarsi al cospetto di tante opere di pregio, da poter scegliere a piacimento, o meglio, in modo da incontrare i gusti del proprio protettore.
A differenza di Hitler, Hermann Göring poteva vantare origini aristocratiche, ma fu soprattutto la crescita del suo potere tramite il nazismo a portarlo ad atteggiarsi a principe cinquecentesco: Ich bin nun mal ein Renaissancetyp, “sono soltanto un uomo del Rinascimento”, così si definì anche il 10 maggio 1945 durante l’interrogatorio del Seven Army Interrogation Center a proposito delle opere francesi incamerate nella sua collezione.
Amava circondarsi di opulenza e arte: per questo a partire dal 1933 fece costruire Carinhall, la sua reggia e tenuta di caccia in Brandeburgo, dedicata alla prima moglie Carin, nobildonna svedese morta precocemente. Disegnato dall’architetto Werner March, il complesso si rifaceva alle forme dell’architettura tradizionale nordica, con ampi tetti a falde, travi in legno e pietra grezza, ed era immerso nella foresta di Schorfheide, tra i laghi Großdöllner See e Wuckersee (Knopf, Martens 1999).
Nelle sue stanze, in cui lo stile rustico si miscelava con elementi art decò, Göring riceveva il Führer e gli altri vertici del regime, come anche ambasciatori e capi di Stato, esibendo i suoi trofei: grandi palchi di corna di cervi e statue raffiguranti questi stessi animali, ma anche dipinti e arazzi, sculture lignee e marmi antichi. Come in un castello di caccia rinascimentale, ricostruito in forme moderne.
Inizialmente il Reichsmarschall acquistò alcuni dipinti del Rinascimento italiano e del Cinquecento tedesco presso un’importante galleria romana, cui si aggiunsero altre opere ottenute tramite l’intermediazione di Hofer. Con la guerra, la sua collezione iniziò a espandersi in modo più spregiudicato. Nei Paesi Bassi e in Francia, gli uomini di Göring attuarono confische ai danni di collezionisti e galleristi ebrei, legalmente considerati nemici dello Stato: dipinti di Cranach, Van Dyck, Poussin, Fragonard, Velázsquez, Goya, Tintoretto, Veronese, Canaletto, ma anche opere ufficialmente bandite in quanto ‘arte degenerata’, in particolare degli impressionisti.
Nella Parigi occupata gli uomini dell’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (ERR), commando preposto alle confische, raccoglievano oggetti d’arte sia per il Führermuseum nei progetti di Hitler per la sua città natale Linz (Kubin 1989, Spotts [2002] 2012), sia per la collezione di Göring, per la quale si prevedeva analogamente un destino museale: l’avrebbe ospitata una nuova, monumentale ala di Carinhall, da inaugurare nel 1953, in occasione del sessantesimo compleanno del Reichsmarschall (Knopf, Martens 1999, 123). Intanto, le opere venivano stoccate presso lo Jeu de Paume: tra il 1940 e il 1942 l’ERR vi organizzò delle vere e proprie esposizioni private, in particolare per Göring. Unico privilegiato visitatore, poteva scegliere le opere di suo gusto da portare nella sua residenza di caccia (Petropoulos 1999, 190).
Essendo abituato a queste iniziative, colpisce la reazione di Göring all’arrivo delle opere napoletane sottratte. Il convoglio con le casse provenienti da Montecassino giunse a Berlino nel dicembre 1943: furono portate a Carinhall come dono di un gruppo di ufficiali della divisione “Hermann Göring” per il cinquantunesimo compleanno che il Reichsmarschall avrebbe festeggiato poco dopo, il 12 gennaio.
Le figure a lui più vicine, il consigliere Erich Gritzbach, l’aiutante von Brauchtisch e soprattutto Hofer, conservatore della sua collezione, organizzarono una presentazione ufficiale delle opere, che però Göring annullò, lasciandole da parte. L’ipotesi è che fossero arrivati fino a Carinhall gli echi degli appelli e le denunce per le opere trafugate: questa volta il maresciallo sembrò essere a disagio (Manvell, Fraenkel [1962] 1964, 387). Quello che è certo è che queste opere non vennero registrate in ingresso nella sua collezione – di cui esiste il registro meticolosamente redatto dalle sue fidate segretarie, misteriosamente ritrovato da Rose Valland alla fine della guerra (Catalogue Goering 2015) – ma accantonate per una mostra temporanea. Successivamente Göring chiese consiglio a Hitler, che gli indicò di porle al sicuro nel Kurfürst, il bunker della contraerea a Potsdam.
L’unica opera che viene menzionata esplicitamente nelle ricostruzioni a posteriori di quei giorni – in quanto sembra avere avuto, almeno per qualche tempo, un destino differente – è proprio la Danae di Tiziano:
L’arianesimo e il nazismo avevano dato alla Germania quel soffio di follia che in tutti i tempi appare alla fine degli imperi e delle grandi dinastie. La Danae, dal Karinhall (sic), dopo l’esposizione passò nell’appartamento privato di Goering; come gli uomini antichi, egli restava molte ore sdraiato, e per questo collocò il dipinto al centro del soffitto della sua stanza. Poi, stanco, ne fece una spalliera del letto. La fanciulla, chiusa una volta dal padre nella torre di rame, invece di Giove dovette ora accontentarsi della compagnia di Goering (Siviero 1984, 99-100).
Queste parole appartengono a Rodolfo Siviero, figura complessa, per molti aspetti ambigua: “personaggio bifronte o chiaroscurale, fascista e antifascista, eroe e spia, benefattore e approfittatore, rustico e salottiero” (Bottari 2016; Bottari 2013), ovvero colui a cui si deve – per buona parte – il recupero del patrimonio italiano incamerato, a vario titolo, dal Terzo Reich e dai suoi maggiorenti.
Giornalista e studioso d’arte, fu arruolato come spia del SIM (Servizio Informazioni Militare) e inviato in Germania nella seconda metà degli anni Trenta – più precisamente tra 1937 e il 1938, quando venne espulso dal Reich; qualche tempo dopo il suo ritorno mise in piedi una rete clandestina antifascista in relazione con gli Alleati, attiva in particolare dopo l’8 settembre 1943. Compito di questo manipolo di uomini era cercare di arginare le confische e le sottrazioni naziste dei beni artistici italiani, pubblici e privati, e di fronte al trasferimento di opere verso la Germania, tracciare i convogli e le loro destinazioni, segnalandone il passaggio agli angloamericani per scongiurarne il bombardamento. Il centro operativo dell’organizzazione clandestina – infiltrata su tutto il territorio negli uffici della RSI e degli occupanti – era il villino sul Lungarno Serristori appartenente a Giorgio Castelfranco, ex soprintendente di Firenze, cacciato dopo il 1938 per via della sua origine ebraica e fuggito prima nelle Marche e poi, dopo l’armistizio, oltre la linea del fronte. Dal 1944 diventerà una figura chiave per il recupero delle opere in Germania, in particolare proprio quelle napoletane (Castellani, Cavarocchi, Cecconi 2015).
Danae o Europa?
Nel passo sopra riportato Siviero descrive una scena la cui veridicità è difficile da riscontrare. Fatta saltare da Göring dopo la sua fuga per non lasciarla nelle mani dei russi, di Carinhall sono rimaste solo immagini, da cui però è possibile farsi un’idea degli interni e degli arredi. Con un gusto tipico delle case dei collezionisti di fine Ottocento e primo Novecento, le sale di rappresentanza, gli studioli e i lunghi corridoi finestrati erano fittamente arredati con quadri, arazzi, tappeti, sculture e sarcofagi classici, pareti a boiserie e soffitti a cassettoni. Tra gli ambienti, spiccava la grande Jagdhalle, la sala di caccia per i ricevimenti: un volume a tutta altezza fino al tetto spiovente, con robuste travi e capriate in legno e un immenso camino sulla parete di fondo, avvolto da arazzi e dipinti. Nella piccola galleria di caccia, invece, le voltine del soffitto erano decorate a grottesche, con figurine di cervi e cacciatori.
Sono proprio i cervi a essere l’elemento ricorrente del corredo iconografico: dai palchi dei trofei alle statue commissionate ad artisti coevi o frutto di doni, dal soggetto degli arazzi alle decorazioni, Carinhall era profusa di cervi e cerbiatti. In alcune delle fotografie è possibile vedere anche i due cerbiatti di Ercolano: esposti all’aperto, su piedistalli aggettanti oltre il perimetro in pietra della terrazza protesa verso il lago di Wuckersee. Tra le opere trafugate a Montecassino, sembrano essere loro, e non Danae, ad aver trovato un posto di rilievo nella reggia del Reichsmarschall.
Non è – ad oggi – possibile stabilire con esattezza quale sia stato invece il destino del dipinto di Tiziano: accettando la versione di Siviero, si può ipotizzare che Göring, data la sua passione per il Rinascimento e il suo atteggiamento di emulazione per i grandi principi e cardinali di allora, avesse scelto di porre la Danae per un certo tempo nelle sue camere private, ma non vi è una traccia fotografica o di altro tipo che lo attesti. Nelle sue memorie Speer ricorda come verso la fine della guerra Göring gli avesse mostrato alcune “preziose antichità del museo di Napoli” che erano “tra i tesori accumulati nelle cantine di Karinhall (sic)” (Speer [1969] 1997, 216-217), ma Danae difficilmente poteva essere considerata parte di questo gruppo.
Invece, alcune fotografie mostrano come effettivamente sul soffitto del letto a baldacchino del Reichsmarschall fosse collocato un nudo femminile: si trattava del dipinto (olio su tavola) di Werner Peiner raffigurante Europa und der Stier, Europa e il toro, realizzato nel 1937 e acquisito da Göring per la sua collezione, insieme ad altri dipinti e arazzi dello stesso autore, molto amato anche da Hitler e dai quadri del regime (Knopf, Martens 1999, 60-61; Catalogue Goering 2015, 35; Doll 2009; German Art 2020). Gli amori – ingannevoli, se non violenti – di Zeus ebbero una certa fortuna iconografica durante gli anni del nazismo: Europa, Leda, Danae, come rappresentazioni idealizzate di un femminile che veniva esposto nudo, ma tuttavia prevalentemente “privo di espressione ed erotismo”, come “bellezza senza sensualità” (Spotts [2002] 2012, 191; si veda anche Hinz [1974] 1975, 147-152, 169).
L’Europa di Peiner venne effettivamente collocata prima sopra al letto di Göring e poi in testata: in entrambi i casi, il punto di osservazione migliore non era tanto per chi era coricato, ma per chi accedeva alla stanza. Perché Carinhall era soprattutto un palcoscenico, in cui il Reichsmarschall metteva in scena il suo potere e le sue ambizioni.
Probabilmente, l’immaginario da decadenza imperiale uscito dall’arguta penna di Siviero scaturisce dai miti che il nazismo stesso aveva alimentato, per ideologia e pratiche, attorno a sé: dalle speeriane rovine di pietra per il Reich millenario, alla bramosia per l’arte da parte di uomini potenti, ma brutali. Nel luglio 1944 Time aveva titolato proprio Nudes for Hermann un articolo dedicato al furto delle opere di Montecassino (Klinkhammer 1992, 513; Klinkhammer 2010, 7): i nudi femminili rubati – in realtà, una minoranza tra i soggetti delle opere trafugate – diventano emblema della violenza del nazismo sull’Europa.
Bramosia, ovvero desiderio ardente e smodato: non è un caso che uno dei più noti volumi dedicati alle opere d’arte depredate dai nazisti durante la guerra sia intitolato The Rape of Europa (Nicholas 1995). Quello che in italiano è ratto, ovvero rapimento specificamente di donne, nella traduzione inglese diviene rape: la radice è la stessa, dal latino rapĕre, ovvero afferrare velocemente (rapido), da cui saccheggiare, depredare, rubare, rapire, trascinare con sé – cose e donne. Se nell’italiano il senso prevalente è quello del portare via con la forza, nell’inglese il termine esplicita la violenza carnale. Un significato presente in realtà anche nell’italiano: implicito nell’uso comune, come reato il diritto penale ne ha specificato il carattere di violenza sessuale.
Se nel quadro di Peiner la scena è presentata in modo algido, inespressivo, la brutalità del ratto di Europa viene esplicitata proprio da Tiziano tra il 1560 e il 1562, in una tela per Filippo II di Spagna, facente parte del ciclo delle ‘poesie’, ovvero alcuni amori mitologici per le camere private del sovrano, in cui – secondo l’uso rinascimentale – la materia del mito dà forma alle umane fantasie erotiche, iconicamente riservate all’élite (Ginzburg [1986] 2000, 136-137; sulle ‘poesie’ di Tiziano per Filippo II si veda in questo numero la recensione alla mostra londinese Titian. Love, Desire Death).
La prima Danae di Tiziano era stata realizzata nel 1545 per un vero uomo del Rinascimento, il cardinale Alessandro Farnese, inserendosi in questa tradizione pittorica relativa alla sensualità: “gli amori tra Giove e Danae potevano essere considerati nel Cinquecento il prototipo stesso dell’immagine dipinta per eccitare sessualmente lo spettatore” (Ginzburg [1986] 2000, 137). In più, la Danae Farnese assume una carica erotica ancora maggiore: non solo figura mitologica, ma probabile ritratto dell’amante del cardinale, quella tela generò da subito molto scompiglio, stando a quanto riporta monsignor Giovanni Della Casa. E tanto da essere attribuita, fino a pochi decenni fa, alla committenza “secolare” del fratello del cardinale, Ottavio Farnese.
Pochi anni dopo, una seconda Danae – con varianti iconografiche – venne realizzata come prima opera del ciclo spagnolo che così copre un ampio ventaglio di emozioni: dal desiderio alla vergogna, dalla sorpresa all’angoscia. Ovvero, da Danae a Europa, dall’attesa sensuale – e consensuale – dell’amante serenamente distesa, alla fanciulla atterrita, recalcitrante, che cerca di fuggire.
Ritorno alla Farnesina
Nel gennaio del 1945, all’avvicinarsi dell’Armata Rossa, le opere delle collezioni raccolte da Hitler e Göring, oltre a quelle dei musei tedeschi, vennero mandate in depositi approntati per accoglierle, in particolare all’interno di miniere di sale. Di nuovo in casse, le opere di Capodimonte vennero stoccate ad Altaussee, presso Salisburgo, e qui vennero ritrovate a giugno dai membri del Mfaa.
In quelle miniere era raccolta buona parte del patrimonio culturale e artistico europeo: dipinti, sculture, disegni, stampe, acquarelli, ma anche arredi, arazzi, fondi librari, collezioni numismatiche, armi e armature.
Gli Alleati predisposero il trasferimento di queste decine di migliaia di pezzi in alcuni punti di raccolta specializzati per genere. Il principale era il Central Collecting Point (CCP) di Monaco, all’interno di quello che era stato il Führerbau (Lauterbach 2018). Qui iniziarono le indagini – tramite interrogatori e studio delle carte prodotte dai commandi tedeschi preposti alle spoliazioni – volte alle restituzioni dei beni ai legittimi proprietari. Per l’Italia, fu coinvolto l’Ufficio recuperi di Siviero e in particolare venne mandato a Monaco Giorgio Castelfranco:
E posso dire, benché io abbia messo piede al Central Collecting Point alla fine di questo ottobre, quando già erano state rispedite migliaia e migliaia di opere, di non aver mai visto un deposito di opere d’arte di simile vastità. Anzitutto vi sono le opere d’arte dei molti musei di Monaco e in gran parte dei musei e delle chiese della Baviera, e poi tutte le smisurate e confuse collezioni di Göring, e poi tutto quello che i nazi hanno portato via dalla Francia, dal Belgio, dall’Olanda, e soprattutto le collezioni di ebrei francesi, fra cui l’assieme Rotschild [sic], di una ricchezza imponente, e interi musei di paesi occupati, nemici o satelliti [...] (Castelfranco in Castellani, Cavarocchi, Cecconi 2015, 17-18).
Castelfranco iniziò la sua ricerca interpolando le liste dei ritrovamenti con le informazioni inviate da Molajoli e gli altri sovrintendenti di Napoli. Dopo un lungo lavoro di collazione dei dati, le opere furono ritrovate quasi tutte, benché in alcuni casi danneggiate dai trasporti o dalla permanenza in luoghi insalubri (Castellani, Cavarocchi, Cecconi 2015, 26).
La collezione degli ori di Napoli fu ritrovata sparsa nelle casse manomesse, molti gioielli schiacciati e una parte mancante. La testa dell’Ermes in riposo di Lisippo era frantumata in sessantadue pezzi, raccolti in fondo alla cassa e nella grotta. Uno dei cervi di Ercolano aveva le gambe spezzate […]. La cosa che più ci fece penare fu la bellissima Madonna del Velo di Sebastiano del Piombo. Il volto della Madonna era scomparso sotto un’ossidatura che allora non fu possibile rimuovere. La Danae e la Lavinia di Tiziano erano ricoperte di muffa e la Sacra Conversazione di Palma il Vecchio aveva la tavola imbarcata fortemente, il colore in gran parte caduto, ed era impregnata d’acqua a tal punto che la superficie dipinta non si poteva assolutamente toccare (Siviero 1984, 137).
Le opere furono affidate alla delegazione italiana il 7 agosto, il passaggio di consegne ufficiale avvenne il giorno dopo a Bolzano, alla presenza del ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella.
Nei mesi successivi fu Castelfranco, in veste di funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione, a curare i lavori per l’allestimento della mostra e i testi del piccolo catalogo. Come sede era stata scelta la prestigiosa villa Farnesina, residenza fatta erigere da Agostino Chigi all’inizio del Cinquecento, coinvolgendo i principali artisti dell’epoca: Baldassarre Peruzzi per l’architettura e parte degli affreschi delle sale, cui si affiancarono Raffaello e la sua bottega, Sebastiano Del Piombo e il Sodoma. Nel 1579 venne acquisita proprio dal cardinale Alessandro Farnese ed è a lui che si deve la denominazione attuale. Si può dire che la Danae – insieme alle altre opere della collezione Farnese di Capodimonte – era tornata a casa.
La stampa italiana diede molto risalto alla mostra, cui presenziarono le più alte cariche dello Stato postbellico. L’intento di questa operazione non era tanto esporre i capolavori quanto, da un lato mettere in luce il valore del patrimonio artistico e culturale come elemento fondante dell’identità nazionale – le cui radici, quindi, affondavano ben oltre il Ventennio fascista, che ora andava messo crocianamente tra parentesi – e dall’altro, presentarsi come vittima incolpevole dell’ex alleato, delle sue bramosie e brutalità subite durante l’occupazione.
I musei napoletani riaprirono nel 1949, poi, nel 1957 Capodimonte presentò un nuovo allestimento: la sensuale Danae, rinchiusa nella cassa inchiodata, dopo aver attraversato i marosi del conflitto, concupita da ammiratori brutali, era riuscita così finalmente a tornare accanto al ritratto del cardinale Alessandro Farnese, che la volle dipinta.
Questo testo è stato redatto durante l’applicazione del Dpcm del 3 novembre 2020, quindi senza la possibilità di accedere alle biblioteche e agli archivi. Ringrazio per questo il personale di alcune di queste istituzioni, che mi ha fornito supporto e aiuto: Marcella Culatti, Marcello Fini, Matteo Giro, Davide Ravaioli, Alberto Tobio.
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English abstract
On November 9th, 1947, the exhibition of artworks recovered in Germany was inaugurated at Villa Farnesina in Rome. On display were mainly paintings and sculptures from the collections of Neapolitan museums stolen by the Nazis but returned to Italy a few months earlier, thanks to Rodolfo Siviero and his collaborators.
Hidden in the abbey of Montecassino to escape the bombings of Naples, these artworks were evacuated by German troops after the Italian armistice, just before the destruction of the abbey by the Allies. Most of the pieces were returned in a few months, but some were not: they were a gift for Hermann Göring. The Reichsmarschall was indeed a greedy collector and during the war his collection increased through art confiscations in occupied countries. Among the artworks stolen from Montecassino was Titian's Danaë, painted for Cardinal Alessandro Farnese in 1545 and part of Capodimonte collection. By mythological subject and historical events, this canvas became the emblem of the rescue.
keywords | Danaë; Titian; Montecassino; Naples; art; nazism.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo/ To cite this article: “In questa cassa piena di chiodi”. La Danae di Tiziano da Montecassino a Carinhall, da Altaussee alla Farnesina, a cura di E. Pirazzoli, “La Rivista di Engramma” n. 178, dicembre 2020/gennaio 2021, pp. 248-275 | PDF dell’articolo